Oswald Mathias UNGERS

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Oswald Mathias UNGERS
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ISSN 2035-7982
Oswald Mathias Ungers e l’Italia.
L’inizio di un rapporto: la XV Triennale di Milano del 1973
Renato Capozzi
Federica Visconti
Il testo è una ipotesi di ricostruzione del singolare rapporto tra O.M.Ungers e l’Italia a partire dalla
‘prima apparizione’ del Maestro tedesco nel numero 244 di Casabella nel 1960 - in un saggio e
firmato da Aldo Rossi - fino alla ‘consacrazione’ segnata dalla Mostra sulla sua opera nella Basilica
palladiana di Vicenza e dalla laurea ad honorem a Cesena. Momento chiave di questo rapporto è la
XV Triennale di Milano del 1973 nella quale si consolida, da parte di Ungers come di molti altri
protagonisti della architettura internazionale, l’adesione al ‘progetto unico’ della architettura
razionale.
Ante-fatto e fatto: dalla “Casabella-Continuità” del 1960 alla XV Triennale di Milano (F.V.)
Il nostro ragionamento parte dalla constatazione, probabilmente banale, della esistenza di una
affinità elettiva tra la cultura italiana e quella tedesca. Questa affinità - questa simpatia (συν +
πάσχω, sentire con, insieme ) - è la chiave di lettura del nostro tentativo di ricostruire occasioni,
ragioni e senso del rapporto di Oswald Mathias Ungers con l’Italia: a partire da alcuni ‘significativi’
e reali momenti di incontro e sino a quello che abbiamo considerato il vero stabilirsi di un rapporto
(la XV Triennale di Milano del 1973) per poterne infine valutare esiti successivi e ancora in fieri.
La storia della affinità elettiva tra l’Italia e la Germania è ampiamente documentato nella letteratura
critica e lunghissimo sarebbe l’elenco da fare se solo si volessero, ad esempio, ripercorrere i ‘viaggi
in italia’: quelli raccontati in parole da Johann Wolfgang Goethe , in note da Mendelssohn nella
Sinfonia comunemente conosciuta con il nome di "Italiana", in pietra da Karl Friedrich Schinkel
quando cita, nel padiglione costruito nel parco di Charlottenburg, il casino napoletano al
Chiatamone.
Tuttavia due citazioni possono aiutare a capire il senso dell’aver individuato questa affinità come
chiave di lettura nella ricostruzione del rapporto tra OMU e l’Italia. La prima riguarda l’arrivo in
Italia, nel 1755, di Winckelmann che, dopo aver visitato Roma, si ferma a Napoli e vi studia l’arte
greca, definendola ragione tradotta in marmo e intuendo, in questo, quanto in quella civiltà, fondata
appunto, sulla ragione fosse profondo il nesso tra culto dell’arte e culto delle libertà. La seconda
citazione è quella de la Storia d’Italia di Montanelli e Gervaso dove si legge: L’Italia rappresenta
qualcosa di antitetico alle loro romanticherie: la terra non solo del sole, ma anche delle linee
nitide, delle forme composte e serene. L’Italia deve molto a questi uomini. Gli deve anche
un’immagine di se stessa molto migliore e più lusinghiera delle sue realtà. Si definisce così,
rientrando adesso nello specifico disciplinare, attraverso queste citazioni, un carattere importate di
quella che abbiamo definito affinità elettiva che si connota per il suo essere strettamente legata
all’esercizio della ragione e, nel nesso tra questo la libertà, al concetto di architettura come arte
portatrice di valori civili.
Si diceva della esistenza di diverse importanti occasioni reali di incontro tra Ungers e l’Italia:
alcune si collocano prima di quello che abbiamo individuato come momento centrale di questo
rapporto - il fatto, la quindicesima Triennale di Milano - e ne costituiscono quindi l’ante-fatto; altri,
da collocarsi dopo il 1973, di quella Triennale sono il post-fatto. Il nostro ragionamento proverà a
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ripercorrere questi tre momenti per chiudersi con una notula, per qualche, almeno parziale,
conclusione.
L’ante-fatto si colloca in un arco temporale che va dal 1960 al 1967 e si articola in alcune occasioni
di contiguità, a volte anche ‘a distanza’, tra Ungers, Aldo Rossi e altri ‘compagni di strada’.
Ungers ‘appare’ in Italia per la prima volta nel 1960, sul n. 244 della “Casabella-continuità” di
Ernesto Nathan Rogers, con alcune opere precedute da un saggio a firma di Aldo Rossi dal titolo un
giovane architetto tedesco: Oswald Mathias Ungers.
Nel saggio Rossi cita lo steso Ungers e ne riporta le considerazioni su una cultura europea che […]
non vive di una sola idea universale, è un terreno in cui esistono una vicina all’altra molte
immagini e molte opinioni, è un paese in cui sono egualmente cresciuti illuminismo e misticismo: su
questo terreno tocca anticipare che, da un certo punto in poi, ci sembra che tanto Ungers, come pure
Rossi, abbiano scelto convintamente di riferirsi al primo.
Rossi prosegue affermando che le sue architetture (di Ungers) cercano di legarsi alla realtà di un
luogo e alla sua storia e interessano per la loro serietà e per quanto hanno con noi in comune. Nel
saggio, tra le opere pubblicate, Rossi ne prende in esame due in particolare: la casa per due famiglie
a Colonia e la casa sulla Hanshring, anch’essa a Colonia. La prima la descrive come fatta di volumi
nitidi e puri che ricorda le ricerche del primo razionalismo europeo la seconda la definisce una
architettura urbana risolta con vigore e con uno stile sobrio. Rossi individua in tal senso ancora la
compresenza di distinte, seppur certo non divergenti, linee di ricerca nell’opera di Ungers delle
quali, dice, attende di poter vedere gli sviluppi.
Sempre a proposito di questa relazione esistente tra Ungers e Rossi, sono passati tre anni da quel
saggio quando Ungers pubblica un testo dal titolo La città come opera d’arte (Die Stadt als
Kunstwerk in “Werk”, L, n.7, 1963). Si tratta di un saggio che nasce dalla critica agli ultimi esiti del
razionalismo tedesco, impoveritosi nella ricostruzione postbellica ed esemplarizzato dalla
Märkishes Viertel del 1962 che è stato definito un antecedente teorico de L’architettura della città
che Rossi pubblicherà poi nel 1966. È un momento in cui l’attività di Ungers sembra concentrarsi
soprattutto, prima della partenza per gli Stati Uniti, sulla elaborazione teorica e sull’insegnamento:
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un periodo che, anticipato dal saggio sulla nuova architettura può dirsi compiuto nella
organizzazione a Berlino, nel 1967, del Congresso internazionale sulla Teoria dell’architettura.
L’attenzione di Ungers alla città ha, in quegli anni, riscontro nei progetti per la Casa dello studente
a Enschede - del 1964 - nel progetto per i musei del Prussicher Kulturbesitz al Kulturforum di
Berlino e in quello per la sede della ambasciata tedesca alla Santa Sede - entrambi del 1965 costruiti come assemblaggio parattattico di forme pure semplicemente accostate.
In questi ‘momenti’ è per noi possibile individuare la progressiva definizione di una posizione che
si manifesta con molta chiarezza, quando Ungers, invitato nel 1965 da Koenig a Firenze per la
mostra sull’espressionismo, definisce ‘confusa ed equivoca’ la sezione architettonica; ‘scenografica,
inutilizzabile e folle’ l’architettura espressionista. Le sue considerazioni vengono riportate da Bruno
Zevi che, in “Cronache di Architettura”, ne critica, ovviamente, la posizione definendola ipotecata
dal mito della oggettività. Analoghe critiche gli verranno mosse da Alessandro Mendini, in una
“Casabella” che ha cambiato direttore e, con esso, linea culturale. Come osserva Marco De Michelis
nel saggio contenuto nella monografia Oswald Mathias Ungers. Opera completa 1991-98 (Milano,
1998): […] la ricerca ungersiana sembrava alla “Casabella” neo avanguardista di Mendini “un
fenomeno di involuzione intellettualistica che giunge ai limiti della reazione, sia pur nel contesto di
una legittima resistenza alla “formula vacua di un esteriore razionalismo”.
Gli ‘amici’ di Ungers in Italia sono, ovviamente, altri: Gianni Braghieri, in una recente intervista, ha
ricordato il viaggio in Germania di un Rossi ventottenne, per il ricordato numero di “Casabella”,
con Vittorio Gregotti e l’allora laureando Giorgio Grassi. Ancora, nel 1966, al seminario del TEAM
X a Urbino organizzato da Giancarlo De Carlo, Ungers conosce Uberto Siola che lo inviterà, l’anno
dopo, a Napoli, insieme a James Stirling, per una indimenticata conferenza che lo stesso Ungers
ricorderà come il suo primo incontro con Napoli nell’intervista rilasciata ad Annalisa Trentin e
contenuta in Oswald Mathias Ungers. Una scuola (Milano, 1994, p.52).
Il ‘punto di accumulazione’ di questa densità di incontri - quello che, dopo l’ante-fatto, abbiamo
definito il fatto - è l’invito ad Ungers, da parte di Aldo Rossi, a partecipare alla XV Triennale di
Milano nel 1973. A nostro giudizio questo fatto rappresenta l’inizio di un vero e proprio rapporto,
intendendo per rapporto il momento in cui una relazione diventa ‘appartenenza condivisa ed
esplicita’ ad un modo comune di vedere il mondo e l’architettura: quella che poi Rossi definirà
come internità ad un ‘progetto unico’.
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Dopo le contestazioni a De Carlo nella XIV Triennale del 1970, nel 1973 viene affidata a Rossi la
Sezione Internazionale di Architettura della XV Triennale. È questo il momento in cui, con la
mostra “Architettura-Città”, la linea razionale afferma, a livello internazionale, la sua egemonia. La
Mostra si apre con la ‘sala degli omaggi’ dedicata a Rogers, Bottoni e Schmidt, preludio della
‘stanza sui maestri del razionalismo’ europeo: Maestri scelti, come dirà lo stesso Rossi, perché
portatori di una concezione dialettica del razionalismo libera da impacci accademici, cui si
accompagna una visione dell’architettura e della società inscindibile da un chiaro concetto di
democrazia. Dopo gli omaggi, le ‘città’, la città analoga e il video Ornamento e delitto - anch’esso,
a suo modo, un omaggio, stavolta ad Adolf Loos - tra gli ‘architetti italiani e internazionali’ e le
‘scuole di architettura’.
Nella Mostra si definisce con chiarezza quel ‘progetto unico’ che, ben oltre i linguaggi, vede la città
come opera d’arte collettiva, individua nel rapporto con la storia una ineludibile questione ma, nel
definire la storia materiale per il progetto e quindi ‘terreno delle scelte’ - memoria selettiva del
passato, coscienza del presente, progetto del futuro (Argan) - riesce anche a conciliare il momento
oggettivo e il momento autobiografico del fare architettura.
Queste importanti questioni teoriche trovano, nei lavori esposti alla T15, alcuni momenti di
chiarezza esemplare. È, a suo modo, una città analoga la tavola che Carlo Aymonino monta come
Proposta per Roma Est: qui le architetture degli stessi Aymonino e Dardi si affiancano a quelle di
Adalberto Libera, al Karl Marx Hof, al convento de La Tourette, alla Biblioteca di Roma di
Samonà, al Centro direzionale di Torino di Rossi, Meda e Polesello e ad altre architetture a voler
‘misurare’ il territorio della periferia orientale di Roma in un esercizio che molto ha a che vedere
con la idea di progetto come conoscenza.
All’interno di un processo di rifondazione disciplinare che include la storia e considera il progresso
come chiarificazione e non come rifiuto del passato c’è la questione del rapporto con la storia ma
di una storia che non può che essere, per il progettista, non mera cronologia ma terreno delle scelte:
così in Ornamento e Delitto ci sono Loos più che la Secessione viennese, Hilberseimer più che il
Bauhaus, J.J.Oud più che De Stjil, Terragni piuttosto che il Futurismo.
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E nella Tavola della Città Analoga di Arduino Cantafora c’è, oltre tutto ciò, la possibilità di
conciliare Momento Oggettivo e Momento Soggettivo del fare architettura. Nel n.13 di “Lotus” sarà
lo stesso Rossi, anche se a proposito della successiva tavola della città analoga realizzata con
Reichlin, Reinhart e Consolascio per la Biennale del 1976, a spiegare proprio questo nesso tra città
analoga e momento progressivo della architettura dicendo che Descrizione e conoscenza devono dar
luogo ad uno stadio ulteriore; la capacità di immaginazione che nasce dal concreto. A mio giudizio
questo quadro ha un significato storico-politico importante: un significato progressivo. Ognuno
può ritrovarsi in elementi fissi e razionali, nella propria storia, e accentuare il carattere
particolare di un luogo, di un paesaggio, di un momento senza la capacità di immaginare il futuro
non può esservi soluzione per la città in quanto fatto sociale per eccellenza.
Nel 1973 Oswald Mathias Ungers era presente alla Mostra nella sezione Scuole con alcune tesi di
Laurea, tra le quali quella di Jürgen Sawade, e, nel catalogo Architettura Razionale, ancora con le
due opere citate da Rossi su quella “Casabella-continuità” di alcuni anni prima: architetture fatte di
forme semplici e relazioni urbane. Ma forse ancora più importante è segnalare che l’invito ad
Ungers da parte di Rossi ha il significato di essersi, da parte dei due, reciprocamente riconosciuti,
come parte di quel più volte citato ‘progetto unico’ che ha alla sua base la definizione di un modo di
fare architettura e costruire la città fondato sulla ragione.
Post-fatto e Notula: dalla mostra Rational Architecture del 1974 alla ‘famiglia spirituale’ della
razionalità (R.C.)
Dopo la XV Triennale del 1973 - che abbiamo voluto intendere come il primo significativo
momento sintesi di un vasto movimento ‘razionale’ e che certo ha rappresentato un punto di svolta
della cultura architettonica europea - nel 1974, su iniziativa di Leon Krier con l’Architectural
Association e Art Net, una importante selezione della mostra alla T15 viene portata in giro per il
mondo a partire da una prima tappa londinese ma anche con il contributo rilevante dell’Ambasciata
di Germania.
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Le Lectures sono affidate a Massimo Scolari (Avanguardia e nuova architettura), a Carlo
Aymonino (che presenta un progetto di Rinnovo urbano a Pesaro) e ad Oswald Mathias Ungers
(Progetti come collage di tipi). Si tratta di un passaggio non privo di importanza perché tale Mostra,
oltre a rappresentare una scrematura dei contenuti di quella milanese, segna il rinsaldarsi proprio dei
legami tra il movimento italiano facente capo a Rossi e Gregotti, con la presenza di Giorgio Grassi e
dei napoletani Siola e Pisciotti, con quello inglese capeggiato da James Stirling e quello tedesco
guidato da Oswald M. Ungers, con la presenza di Jürgen Sawade e dei fratelli Krier. Che Aldo
Rossi avesse ormai individuato proprio in Ungers la figura di riferimento per i legami internazionali
con la Scuola tedesca lo confermano da un lato il numero 3 di “Controspazio” del 1975 dedicato a
OMU con un saggio di Carlo Aymonino, ‘ispirato’ dall’articolo di Rossi del 1960 e dall’altro dal
successivo invito rivolto da Rossi a Ungers, nel 1976, a partecipare al Seminario Internazionale di
Santiago de Compostela cui su deve la diffusione, stavolta in ambito iberico, del movimento
rappresentato in Spagna innanzitutto dal gruppo 2C.
Attorno a queste occasioni si consolidano e si precisano i temi di fondo preannunciati a Milano e si
costruisce la “Tendenza” cosiddetta in quanto termine mediano – per dirla con le parole di Edoardo
Persico - tra “Coerenza” e “Stile”: a livello internazionale la ricerca sull’architettura e sulla città
nella sua accezione neorazionalista di questo gruppo sarà al centro del dibattito architettonico
internazionale e, ben oltre le declinazioni regionali, rappresenterà, per la seconda metà del
Novecento, un formidabile tentativo, in buona parte riuscito, un ‘progetto’, anche se forse non
ancora compiuto, di rifondazione disciplinare.
Che anche in questo momento e in questo processo esistano delle relazioni significative tra questo
gruppo italiano e Ungers è evidente nella pubblicazione voluta da Paolo Portoghesi, uno degli
animatori del movimento, nel 1980 all’interno catalogo della Prima Biennale Internazionale di
Architettura di Venezia dal titolo “La presenza del Passato”, del saggio di OMU, Il diritto
dell’architettura ad un linguaggio autonomo già pubblicato in Germania l’anno precedente, nel
1979. Il saggio di Ungers, molto simile nel titolo e nei contenuti a quello del 1969 su
“Controspazio” di Ezio Bonfanti, viene insomma assunto come guida e riferimento, esemplare del
recupero della storia dell’architettura e della città che avrà in quella Biennale il suo apice e la sua
affermazione, anche in termini critici. Nel suo scritto, a partire da una attualizzazione della triade
vitruviana nella terna Forma/Spazio/Costruzione, Ungers riafferma ancora una volta l’autonomia
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disciplinare dell’architettura ed il primato della costituzione formale sugli altri aspetti che, pur
essendo necessari alla sua definizione, debbono consentire all’architettura di rimanere estranea ad
ogni condizionamento funzionalista ed eteronomo.
Il linguaggio formale dell’architettura non è […] una funzione di condizioni epidermiche di
qualsivoglia specie bensì esprime il valore estetico dell’architettura come valore autonomo.
Possiede la sua propria RATIO, e solo in questo senso è da intendersi il concetto di “architettura
razionale”. I mezzi di linguaggio formale sono le norme compositive di volume e spazio. […] Il tipo
ha il sopravvento sulla funzione […] le funzioni si adattano al tipo. La funzione non può essere
l’elemento fondativo mentre lo è l’idea dell’edificio, la concezione vera e propria perché è
l’archetipo architettonico a determinare l’edificio.
Nelle parole di Ungers sembra così risuonare la definizione di Boullée di architettura nella quale è
contenuta la famosa critica a Vitruvio nell’affermazione della necessità, contrariamente appunto a
quanto fa il Pollione, di non confondere l’effetto (la costruzione) con la causa (l’invenzione): da cui
discende la capacità, da parte dell’architetto quando tale, di ‘vedere’ la forma (είδος - eidos) del
manufatto, la sua struttura formale e figurale, prima della sua costruzione e non viceversa.
Il passaggio che ci fa riapprodare a quell’Aldo Rossi estensore de la Introduzione a Étienne-Louis
Boullée, Architettura. Saggio sull'arte (Venezia, 1981) e a quella ‘scelta’ convinta a favore
dell’architettura della Ragione (che ha nell’illuminismo un suo certo riferimento) è a questo punto
diretto e particolarmente evidente nel progetto per l’Hotel Berlin del 1977 che segna il ri-orientarsi
della ricerca ungersiana verso l’esattezza tipologica, la forma stereometrica e l’adeguatezza dei
caratteri. Avvicinamenti e/o anticipazioni di Ungers sul piano della ricerca e sistematizzazione
teorica, da questo momento in poi, trovano importanti conferme anche nei progetti e nelle
realizzazioni che mettono ‘in scena’ - o meglio ‘in composizione’ - le acquisizioni metodologiche,
anche con implicazioni linguistico-espressive. E non è forse un caso che, in questo nuovo avvio
operativo, i pensieri di Ungers, come già era accaduto con Mies, tenderanno all’aforisma lasciando
alle pietre l’evidenza delle premesse.
A tutto ciò consegue che, dopo la presentazione del lavoro di Ungers sul numero 11 di “Lotus“ nel
1976 e la pubblicazione di Architettura come tema nei “Quaderni di Lotus” nel 1982 da intendersi
come una sorta di ricapitolazione e sintesi del pensiero ungersiano, il rapporto con l’Italia è
rappresentato innanzitutto dai numerosi articoli sui progetti di Ungers, ospitati di volta in volta e
fino agli anni novanta sulle pagine delle maggiori riviste italiane - “Casabella” e “Lotus”
innanzitutto ma anche “Domus” e altre - in un numero impressionante di occasioni corrispondenti
alla densa produzione progettuale di Ungers di quegli anni.
Ancora negli anni Novanta nuove occasioni di incontro cominciano a riguardare quegli architetti
tedeschi che con il maestro tedesco si sono formati, a testimonianza dell’esistenza, ormai a pieno
titolo, di una Scuola. Si tratta di alcune puntuali occasioni di collaborazione professionale ma
anche, e forse in misura più significativa, di ‘momenti’ della vita accademica e del dibattito
architettonico in importanti sedi italiane. Tra queste occasione merita di essere ricordata la densa
presenza tedesca ai Seminari internazionali Architettura e Città organizzati a Napoli da Uberto
Siola e dal suo gruppo che vede, dal 1990 al 2002, avvicendarsi nella città partenopea, con lezioni o
progetti redatti per Napoli nell’ambito dei workshop, Hans Kollhoff, Gótz Kern, Max Dudler,
Bettina Plog, Adolf Krischanitz, Markus Grob, Christoph Mäckler, Walter Arno Noebel, Christine
Baumeister, Bernd Albers, Armin Behles, Corinna Vehling, Adolf Krischanitz, Frank Boehm, e lo
stesso Aldo Ross che chiuderà nel 1997 il ciclo di quei Seminari con una famosa lezione dal titolo
Un’educazione palladiana Con il riconoscimento della Scuola arriva anche la definitiva
consacrazione del suo Maestro. Escono la due importanti monografie - curate da Fritz Neumeyer e
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da Marco De Michelis per Electa - e, prevalentemente proprio in area napoletana, vengono prodotte
alcune significative investigazioni critiche. Si tratta del lavoro di Gabriella D’Amato innanzitutto
che, in Architettura del proto razionalismo (Roma-Bari 1987), associando Ungers a quella tendenza
stilistica che Persico prima e De Fusco poi definirono protorazionalismo, ne accumuna il lavoro con
quello di Hoffmann, Loos, Tessenow, Behrens, Hilberseimer, Rossi, Grassi. E neppure si può
trascurare che lo stesso De Fusco elegga Ungers a campione contemporaneo di tale tendenza
dedicando al Progetto per Marburg del 1976 la copertina della sua Storia dell’architettura
contemporanea (Roma-Bari, 1988) letto come una rivisitazione dei principi urbani della tavola
urbinate della Città ideale di Francesco Laurana. Ricordando ancora il saggio di Benedetto
Gravagnuolo (OMU. Quattro progetti, Napoli 1992), e fino al recente studio di Rosario Di Petta
(Astrazione come tema, Melfi 2004), tale attività di approfondimento e diffusione dell’opera e del
pensiero di Ungers ha i suoi ‘momenti eroici’ nella riedizione anastatica del saggio di Rossi sulla
“Casabella” diretta da Francesco Dal Co - guarda caso assieme al progetto di Rossi per un isolato
nella Schützenstrasse a Berlino -, da un lato, e, dall’altro, nella mostra dei suoi lavori ospitata a
Vicenza nella Basilica di Andrea Palladio: entrambi nel 1998. Questo è forse il momento della
massima affermazione e influenza di Ungers in Italia che prelude alla consacrazione attraverso la
laurea ad honorem che la facoltà “Aldo Rossi” dell’Alma Mater di Bologna vorrà conferirgli nel
2004, cui seguirà il già citato testo di Annalisa Trentin (OMU. Una scuola, Milano 2004).
Come è noto Oswald Mathias Ungers scompare nel 2007, riconosciuto ormai come uno dei più
importanti intellettuali, teorici ed architetti del secolo scorso e correttamente accomunato, in un
articolo di commiato dedicatogli da Benedetto Gravagnuolo, agli italiani Rossi, Grassi e Gregotti
nella definizione di […] architetti che hanno saputo credere nell’importanza della morfologia
urbana. Scrive ancora Gravagnuolo che l’obiettivo di fondo di OMU, nella sua ricerca
dell’intellegibilità delle forme anche in senso metaforico, è stato quello di […] ricondurre
l’architettura nella sfera della poetica della ragione e ne ricorda il fondamentale […] apporto nella
riflessione sulla città intesa come grande archivio di memoria collettiva e dunque come manuale
dal quale l’architettura può prendere i principî fondativi della propria ideazione.
Aver avuto la capacità di creare una Scuola - sottolineando il fatto che è possibile parlare di Scuola
solo quando vi è un sapere razionale trasmissibile e nominabile – ci consente così oggi di ragionare
di un patrimonio teorico che non si è disperso ma che anzi è in grado di continuare, amplificare,
magari precisare, un modo di intendere l’architettura e la città come testimoniano i rapporti con due
sedi privilegiate: la facoltà “Aldo Rossi” di Cesena, presieduta prima da Gianni Braghieri ed oggi
da Gino Malacarne, e la Fondazione Internazionale per gli Studi Superiori di Architettura presieduta
da Uberto Siola che da qualche anno, in un rapporto di stretta collaborazione, attraverso mostre di
architettura, conferenze e pubblicazioni, ricercano nuove occasioni di confronto con la Scuola
tedesca.
In conclusione la Notula annunciata in apertura: una sorta di postilla o, se si vuole, di sinottica
ricapitolazione del nostro ragionamento attraverso la messa in luce di quelle che sono le analogie tra
Oswald Mathias Ungers e Rossi, la 'Tendenza' e la cultura architettonica italiana:
_Ungers als Rossi è intellettuale complesso che ha un atteggiamento teorico, rifondativo e
scientifico sulla disciplina;
_Ungers als Rossi è uno dei precursori della riflessione sulla città e le sue forme;
_Ungers als Rossi guarda alla forma come valore autonomo dell’architettura;
_Ungers als Rossi afferma l’autonomia dell’architettura e la sua intrinsea razionalità;
_Ungers als Rossi è alla ricerca dei fondamenti ed i principî del fare architettura;
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_Ungers als Rossi guarda alla Storia, ai Maestri e alla Città come un catalogo di esempi e tipi da
selezionare e trasformare;
_Ungers als Rossi definisce l’architettura un’arte analogica;
_Ungers als Rossi ha fondato una Scuola ed ha allargato e condiviso la sua esperienze
nell’insegnamento
Perché sottolineare le analogie e non le differenze che pure esistono nelle due esperienze?
Perché riteniamo che la conoscenza in architettura proceda soprattutto per somiglianze,
appartenenze, per affinità formali ed intellettuali o, per meglio dire, attraverso un lavoro collettivo
che avviene all’interno del ‘sentirsi parte’ di quelle che Henri Focillon ha definito le famiglie
spirituali, quando in Vita delle forme (Torino, 1990) afferma che […] se dovremo cercare legami e
rapporti tra tutti loro, vedremo che essi, nel corso delle stesse vite, non sono determinati dalle
circostanze, quanto da affinità di spirito in relazione alle FORME. Dicendo che a un certo ordine
di forme corrisponde un certo ordine di spiriti, siamo necessariamente condotti alla nozione di
FAMIGLIE SPIRITUALI, o piuttosto di famiglie formali.
Secondo noi solo l’appartenenza alla famiglia della Ragione, che sola può tenere assieme le nostre
diverse ma analoghe ‘esperienze’ di uomini, può consentirci di prendere una direzione positiva,
rispetto alla difficile condizione che caratterizza il mondo contemporaneo, forse non solo nel campo
dell’architettura.
Ce lo suggeriva già Edmund Husserl, nel 1936 in Die Krisis der europäischen Wissenschaften und
die transzendentale Phänomenologie: Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie,
quando ci ammoniva così
La crisi dell’esistenza europea ha soltanto due possibilità di sbocco:
- il tramonto dell’Europa, l’alienazione del senso razionale della vita che le è proprio, la caduta
nell’ostilità allo spirito e nella barbarie;
- oppure la rinascita dell’Europa nello spirito della filosofia, attraverso un ‘eroismo della ragione’
capace di superare definitivamente il naturalismo.