Francesco Ciusa alla Galleria nazionale d`arte moderna

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Francesco Ciusa alla Galleria nazionale d`arte moderna
Soprintendenza alla Galleria nazionale d’arte moderna e
contemporanea
FRANCESCO CIUSA ALLA GALLERIA NAZIONALE D’ARTE MODERNA DI
ROMA
a cura di Marisa Mura
La madre dell’ucciso
Scultura in bronzo realizzata per fusione dal modello originale in gesso (custodito
presso la Galleria Comunale di Cagliari), acquistata dallo Stato in occasione della
Biennale di Venezia del 1907 e attualmente in esposizione presso la Galleria
Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
E‟ l‟opera che valse allo scultore Franceso Ciusa (Nuoro 1883 – Cagliari 1949) un
successo di pubblico e consenso di critica clamorosi.
Si tratta della raffigurazione di un‟anziana paesana nuorese che indossa gli abiti
tradizionali ed e‟ seduta a terra, in una posizione rituale della veglia funebre, “Sa rja”
(la riga), che prevedeva, nell‟ antico uso locale, la disposizione delle donne
accovacciate intorno al focolare spento (Wagner 1960 – 64).
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La scultura trovò ispirazione in un accadimento reale, di cui l‟artista venne a
conoscenza da bambino e l‟opera ne accolse la forte suggestione che permase nella
sua memoria.
Il modellato ha una visione frontale, simmetrica nella posizione raccolta e chiusa
della figura, con le gambe serrate verso il busto in un‟immagine pietrificata, che
rende, nella grande compostezza, la tragica rappresentazione del dolore nella fase di
elaborazione del lutto.
E‟ un‟opera che guarda alla realtà, al vero, con accenti di un particolare
espressionismo, a cui si unisce, attraverso il riferimento al mito, una valenza
simbolica. Il vero è reso sapientemente attraverso la cura del particolare e una solida
costruzione degli aspetti anatomici che denotano una buona conoscenza della
statuaria rinascimentale, e “Il Rinascimento resterà spesso nell‟opera di Ciusa come
un‟aspirazione di fondo, o meglio un sottofondo aulico” ( Bossaglia, 1991).
Quando realizzò l‟opera a cui, nonostante il prosieguo della sua attività attesti alcuni
veri capolavori, è principalmente dovuta la sua notorietà, l‟ artista aveva terminato
da alcuni anni la sua formazione presso l‟Accademia di Belle Arti di Firenze, dove
aveva avuto fra i suoi insegnanti il pittore macchiaiolo toscano Giovanni Fattori,
ormai anziano, e lo scultore di origine siciliana Domenico Trentacoste. Aveva avuto
inoltre occasione di stringere rapporti di amicizia con Plinio Nomellini e Galileo
Chini e con gli scultori Lorenzo Viani e Libero Andreotti (Branca 1975).
Il mondo di riferimento di questa scultura, ma lo sarà anche per gran parte della sua
produzione successiva, è la Sardegna, dove non trova a livello delle arti figurative, un
entroterra di riferimento, e sarà lui, specificamente per la scultura, a partecipare a
quel “rito di fondazione” delle arti nell‟Isola, che vide impegnati, agli inizi del
Novecento, artisti e intellettuali.
Egli adottò come inesauribile fonte di riferimento la vita rurale della sua gente, fra la
quale era cresciuto e si era formato, e possedeva intelligenza, sensibilità e coraggio
per inoltrarsi nelle profondità dolorose e abissali di quell‟umanità sovrastata da una
cultura arcaica, primitiva, ed emarginata dalla vita contemporanea. Ed e‟ proprio in
questa atemporalità che egli colloca i suoi personaggi investiti del mito, dando forma
e dignità alla condizione esistenziale della sua gente attraverso la trasposizione
plastica, nei modi che trovano riscontri letterari nel mondo umanamente tragico della
Deledda, con cui il Ciusa fu in contatto ed ebbe scambi significativi.
L‟opera che era stata eseguita fra il 1906 e il 1907 venne esposta in un contesto in cui
primeggiava il nudo con le opere di Rodin, Graziosi e del Lotto e in cui la scultura
del Ciusa si collocava in posizione decisamente altra, espressione tragica e, nel
contempo, di dignità e solennità ieratica.
Fu una grande affermazione: Vittorio Pica, nel recensire l‟esposizione del1907 parla
di “un giovane Sardo, Francesco Ciusa, che esordisce nell‟arte in modo davvero
degno di richiamare su di lui l‟attenzione degli intenditori, con una figura in gesso,
grande al vero, di vecchia ed aggrinzita contadina, La madre dell’ucciso, di fin troppo
minuziosa fattura realistica e di non comune efficacia espressiva” (Pica 1907).
In maniera concisa Ugo Ojetti, voce di molto peso della critica italiana, rileva sul
“Corriere della Sera”, come “Francesco Ciusa, un sardo ignoto finora alle grandi
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esposizioni, manda un gesso La madre dell’ucciso, così profondamente osservato,
reso con tanta coscienza, costruito con tanta scienza che mi sembra la più
importante rivelazione della mostra di scultura” (“Corriere della Sera” 2007).
In Sardegna fu grande il clamore e l‟entusiasmo di intellettuali ed amici, e in
particolare lo scrittore e poeta sassarese Salvatore Ruju e il poeta nuorese Sebastiano
Satta plaudirono al successo.
Il riconoscimento ebbe forma istituzionale con l‟ acquisto della fusione in bronzo dal
modello originale, da parte dello Stato, per la Galleria nazionale d‟arte moderna,
all‟epoca allogata al piano superiore del Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale
e diretta da Francesco Jacovacci che proseguiva nella linea ormai consolidata degli
acquisti alle esposizioni nazionali (Pinto 2006).
Mentre godeva del successo decretatogli alla Biennale veneziana gli venne offerto da
un magnate americano di trasferirsi a New York, per dirigervi un centro di
produzione di arte pura e arti applicate; il consiglio del suo amico e sostenitore
Sebastiano Satta, fu una sorta di sfida “Se sei debole parti, se sei forte ritorna”, forte
tanto da affrontare le difficoltà che la vita in Sardegna gli avrebbe riservato. Lasciò la
penisola, dove avrebbe potuto raccogliere i frutti di tanta popolarità e trovare un
terreno culturalmente e economicamente più adatto alla sua attività. Tornò in
Sardegna, accolto come cantore, celebratore della sua terra e figura di collegamento
fra una cultura carica di primitiva bellezza e la contemporanea realtà peninsulare.
Il pensiero e l‟opera del Ciusa si unirono al fermento che in quegli anni dette luogo
alla nascita dell‟arte in Sardegna, che vide la partecipazione di artisti e intellettuali,
consapevoli del precipuo patrimonio culturale dell‟Isola, ma anche delle sue povertà
e degrado e della conseguente urgenza di riscatto, al quale rivolsero il loro impegno.
Dopo un soggiorno a Macomer Ciusa si trasferì a Cagliari dove svolse un‟ intensa
attività che dette luogo alle sue opere migliori.
Le opere successive a La madre dell’ucciso
Il pane, 1907-1908, bronzo, cm 68,8 x 49 x 105, Cagliari, Camera di Commercio
Era ancora carico di fervore ed entusiasmo
derivante dal successo riscosso alla Biennale di
Venezia, quando realizzò, fra il 1907 e il 1908 la
scultura Il pane. L‟opera rappresenta una paesana,
abbigliata con le vesti tradizionali, nella foggia
domestica, intenta alla confezione del pane, seduta
a terra con le gambe distese che sostengono il
ripiano e il busto curvo, proteso in avanti, nel
movimento di plasmare la pasta. Le mani accostate
con i pollici incrociati sono colte e fermate in un
gesto energico e rituale nel contempo. Il capo ha un
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volume solido, come anche il corpo, da nutrice si potrebbe dire. L‟ espressione del
volto è assorta e lontana nella celebrazione del rito.
E‟ una composizione centrale, simmetrica, come la madre dell’ucciso, ma a
differenza di questa non esprime un‟intensità carica di pathos.
Contribuisce a rendere la pacatezza e la solennità espressiva l‟intera superficie liscia,
e in particolare “il volto levigato come quelli dei santi, che si offrono all‟adorazione
dei pellegrini, corrosi da mille baci, ànno un sapore che trascende la sensibilità
umana.” (Berlinguer 1914).
La scultura è stata sovente raffrontata all‟opera di Achille d‟Orsi Proximus Tuus,
attualmente esposta presso la Galleria nazionale d‟arte moderna di Roma, esempio di
quel verismo sociale che si affermò nella seconda metà dell‟Ottocento, corrente nella
quale, da parte della critica “peninsulare” dei lustri passati, era stata collocata anche
La madre dell’ucciso. Attualmente queste due sculture, unitamente all‟opera
complessiva del Ciusa, sono state rivalutate in tutta la loro complessità dalla critica
storico-artistica, che ne ha riconosciuto le più ampie e diverse articolazioni e rilevato
le moderne ascendenze.
Della scultura, il cui gesso originale è andato perduto, si conoscono due esemplari in
bronzo realizzati nel 1927: per il Consiglio Provinciale delle Corporazioni di Cagliari
e per il padiglione dell‟Agricoltura della Fiera di Milano (Altea, Montaldo 2007).
Il nomade, 1908 – 09, gesso, cm 95 x 60 x 46, Cagliari, Galleria Comunale d‟Arte
Assieme all‟opera La filatrice, è la scultura con la quale
Francesco Ciusa tornò ad esporre, dopo il successo ottenuto
con La madre dell’ucciso, alla Biennale di Venezia del
1909.
Rappresenta un venditore ambulante di scarpe incontrato da
bambino “veniva da Orani un uomo con la bisaccia piena di
scarpe nuove e aggiustate….” (Branca 1975) e, ancora una
volta, sul ricordo emotivo, ne rimodella la figura.
Originariamente a grandezza naturale, l‟opera, completa
delle gambe, era rappresentata in movimento, con l‟ampio
mantello mosso dal vento. La simmetria della
rappresentazione si interrompe appena in una leggera
torsione del capo, lievemente sollevato verso l‟alto per
sospingere lo sguardo in un altrove lontano, infinito e indefinito. Un altro elemento di
asimmetria è costituito dalle mani: la destra trattiene un lembo del mantello, l‟altra
vicina ha le dita socchiuse, mollemente, entrambe prive di volontà. Rivelano
incertezza, in sintonia con l‟espressione del volto, intensa e sofferta nella ricerca del
percorso. E viene da mettere in relazione questa elaborazione artistica con un aspetto
della religiosità popolare del Nuorese, dove è molto venerata la Madonna d‟Itria, dal
greco Odegitria, che è Colei che indica la strada. E‟ un culto di origine bizantina e
l‟icona è una facies della Vergine, col bambino in braccio, indice del cammino. A Lei
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sono dedicate chiese e santuari. E‟ un‟aspetto culturale e cultuale molto radicato nel
territorio, che sembra collegarsi a questa figura di nomade- pellegrino che anela alla
salvezza.
La filatrice, 1908- 09, bronzo, cm. 188,8 x 52,5 x 77, Cagliari, Palazzo Civico
Modellata fra il 1908 e il 1909, in un periodo di lavoro
particolarmente felice e fecondo, l‟ opera raffigura una giovane
donna nell‟atto preciso in cui, staccato il bioccolo di lana dalla
rocca lo dispone alla torsione, che verrà eseguita con la rotazione
del fuso e, con gesti reiterati, eseguirà la filatura, operazione alla
quale può riferirsi un significato simbolico.
Tutta la figura è protesa verso l‟alto e lo sguardo è rivolto verso il
fuso ad essa sovrastante, fermato come a trattenere un momento dal
significato trascendente. A differenza de Il Nomade esprime
fermezza ed equilibrio, lo esprime con la figura tutta, slanciata
come un fuso, trait d’union fra terra e cielo.
E‟ anche questa una rappresentazione frontale, simmetrica, che
nella parte inferiore, grazie alla particolare foggia della gonna
raccolta e trattenuta fra le gambe, in modo funzionale alla filatura,
si allarga appena sui fianchi, rientra e si conclude alla vita, dove la
forma risale verso il busto e ulteriormente si dilata, raggiungendo il punto massimo
delle spalle, enfatizzate dagli ampi volumi circolari delle maniche ripiegate, simili a
corolle, dalle quali, esili ed eleganti, si dipartono le braccia che, oltre il viso
convergono nel fuso, unico elemento che segna una lieve asimmetria. Il capo, visto
frontalmente, ne risulta incorniciato, le mani, rilevate nel gesto, sono mani sottili,
affusolate, grandi, dalle lunghe dita.
A riguardo delle mani è interessante quanto scrive V. Visco su “il Quotidiano Sardo”
in un articolo immediatamente successivo alla morte dello scultore. Egli dopo averne
elogiato la straordinaria bellezza e spiritualità coerenti con l‟eleganza della sua
figura, rivela l‟amore prediletto che l‟artista nutriva per le sue mani, così da
utilizzarle come modello per quasi tutte le sue sculture, tra cui La filatrice.
L‟ opera originale fu formata in gesso e la fusione in bronzo fu eseguita dall‟artista
dallo stampo originale, intorno al 1933 ( Altea, Montaldo, 2007).
Il Dormiente, 1909, bronzo, cm.28,4 X 116,4 X 50, Cagliari, Collezione privata
L‟ opera può considerarsi, in questo
periodo piuttosto fertile dell‟attività
del Ciusa, una pausa tematica nella
elaborazione di figure riferite al
mondo tradizionale barbaricino, che
l‟autore investe di ascendenze
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mitiche. Si tratta infatti della rappresentazione del nudo di un bambino che dorme,
nella posizione ripiegata, quasi fetale, con un braccio flesso verso il capo, così da
enfatizzarne il volto dall‟espressione dolce e intensa nella beatitudine del sonno.
Venne presentata alla Mostra della Società delle Belle Arti di Firenze del 1909 dove
le fu assegnato il Premio “Città di Firenze”(Bossaglia 1990).
Il Dormiente trova termini di confronto in un‟altra opera dal titolo Sogno di bambina,
dello scultore Arturo Dazzi - che di certo doveva conoscere la scultura del Ciusa realizzata nel 1928 e che, acquistata dallo Stato per la Galleria nazionale d‟arte
moderna di Roma, si trova oggi nel nuovo ordinamento realizzato a cura della
Soprintendente Sandra Pinto, nella Sala che accoglie “Le grandi correnti nazionali
degli anni Trenta”. Il richiamo è nel soggetto del fanciullo che dorme, una fanciulla
più precisamente, nella posizione ripiegata sul lato destro, con la mano sotto la testa
e, anche in quest‟opera, nell‟espressione deliziata nel sonno. La somiglianza è anche
nei capelli: una chioma florida nel giovinetto, che ne accompagna i lineamenti gentili,
così come nella fanciulla ne incornicia il viso. La sintesi dei volumi plastici, che
accompagnerà e si accentuerà nelle successive opere del Ciusa, è dato comune alle
due sculture, seppur nella differenza del modellato: morbido e flessuoso nel corpo
della bambina del Dazzi - realizzato in marmo rosa del Portogallo - asciutto e lineare,
di tono quasi espressionista in alcuni tratti, nella figura del giovinetto.
Della scultura si conosce solamente questo esemplare, mentre il gesso originale è
andato perduto.
Dolorante anima sarda, 1911, gesso, cm. 132 x 56,7 x 77 Cagliari, Galleria
Comunale d‟Arte.
E‟ questa scultura, come altre modellate dal Ciusa, ispirata
dalla forte suggestione di un ricordo dell‟infanzia, e
rappresenta, nella vivezza drammatica del momento,
l‟espressione di incontenibile reazione al dolore per
l‟uccisione del marito pastore da parte di una popolana
che, mentre trattiene tra le ginocchia il figlioletto
piangente, quasi percorsa da una forza sovrannaturale, leva
le braccia al cielo e, incrociando i polsi, formula il suo
scongiuro facendo le fiche ( Branca 1974).
La figura, giunonica e di belle proporzioni, è rappresentata
in posizione frontale, rigorosamente simmetrica, e il corpo
proteso verso l‟alto culmina nell‟espressione del viso
rivolto al cielo, con la bocca serrata e gli occhi stravolti in
una volontà trascendente:“A tottu su mundu, chi si
sichete” - A tutto il mondo che inaridisca - (Bossaglia
1990), è la maledizione che pronuncia.
La costruzione del modellato è risolta per volumi caratterizzati da particolari, che
asciuttamente accompagnano la rappresentazione del dramma: la chioma del
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bambino, la descrizione della camicia, rigonfia sul petto, le maniche vuote del
zibbone dagli ampi squarti, simmetrici come la bottoniera, che ricade pesante e
ulteriormente rileva le braccia monche, rendendo la figura violentemente tragica.
Le braccia furono tagliate dallo scultore alcuni lustri dopo l‟esecuzione della scultura,
convinto dalla moglie dell‟inopportunità di mostrare in pubblico l‟empio gesto,
rendendo così di fatto maggiormente accentuato il carattere simbolista dell‟opera e la
tragicità del suo messaggio (Bossaglia 1990).
Il patrimonio di saperi tesaurizzato negli anni di formazione presso l‟accademia
fiorentina e la conoscenza e interesse per la statuaria rinascimentale sono riscontrabili
nell‟intero percorso artistico di F.Ciusa e di certo in quest‟opera ma, al pari della
Madre dell’ucciso, per la quale i richiami vanno indietro nel tempo: all‟omonima
statuetta nuragica (Marchi 1950) anche per questa scultura il riferimento va verso la
statuaria precristiana: alle statuette fittili fenicie e alla statuaria classica.
Il Cainita, 1913- 1914, bronzo, cm.172 x 74 x 93, Cagliari, Palazzo Civico
La scultura faceva parte dei personaggi, rappresentati da
Francesco Ciusa, per la realizzazione del “poema
plastico”, ciclo iniziato con La madre dell’ucciso. E‟,
anche il Cainita, figura tragica investita del mito
attraverso quella capacità poetica che ha il Ciusa di
trasfigurare i personaggi della realtà in archetipi, figure
simboliche, ieratiche e solenni, celebranti riti
primordiali. Così il Cainita, che ha appena compiuto la
vendetta, guarda con espressione di un‟ intensità
sconvolgente verso la testa, sineddoche dell‟ucciso. Ha
compiuto un atto di portata incommensurabile, ne è stato
il mezzo. Impersona il vendicatore, figura che in ambito
barbaricino vede costui come esecutore di un tragico
rituale di giustizia codificato (Pigliaru 1975) .
La raffigurazione tutta trasuda un sentimento di lenta e
drammatica riflessione. A differenza delle figure ispirate al mondo tradizionale
considerate fin qui, la figura del Cainita è giocata sull‟asimmetria e colta in un lieve
movimento: il personaggio avanza, con passo cadenzato; è avvolto in un manto che
poggiante sulle spalle ricade, quasi privo di panneggio, levigato, fino a terra, ed
evidenzia fortemente quanto da esso fuoriesce, come la testa del Cainita, che è
volume che si conclude anteriormente con una maschera dal pathos profondamente
interiorizzato, il braccio, che trattiene per i capelli l‟ucciso, un giovinetto dolce e così
tenero da rendere ancor più insopportabile l‟atrocità del delitto.
Si accosta al Cainita, con tragico realismo, la figura del cane che lecca il sangue.
E‟ un‟opera di straordinaria intensità. La scultura originale venne eseguita in gesso.
La fusione in bronzo e‟ stata realizzata di recente dal Comune di Cagliari.
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L’OPERA GRAFICA
Assai meno conosciuta è l‟ opera grafica di Francesco Ciusa, seppure anche in questo
settore le sue elaborazioni mostrino una forte incisività e un carattere assolutamente
personale.
In alcuni disegni degli anni Dieci realizzati “a tratto” si può rilevare il segno che,
evolvendosi in successive articolazioni e particolari ghirigori, costituirà la cifra
caratterizzante della grafica del Ciusa, come si può riscontrare nelle opere degli anni
Venti a cui appartiene La processione dei Misteri.
La processione dei Misteri, 1920, inchiostro di china su carta, 27x19, Galleria
nazionale d’arte moderna di Roma.
L‟opera presenta un effetto simile a quello di un„
incisione, resa attraverso la successione di linee nere sul
fondo bianco della carta, che realizzano forme e
dimensioni col loro diradarsi, rendendo le tonalità chiare
ed anche bianche o compattandosi, per rendere le tonalità
scure, raggiungendo talvolta dei neri assoluti.
Attraverso le gradazioni tonali il disegno si compone sul
foglio con la disposizione di figure poste diagonalmente,
e narra uno scorcio di processione con una successione
di figure femminili, che presenta in primo piano
un‟anziana donna con in braccio un bambino. Alla
differenza di età tra i due soggetti si accompagna la
differenza cromatica: tonalità scure per la figura
femminile, chiara per il bimbo; entrambi i visi sono resi
con un ghirigoro che disegna anche i volti che, posti alle loro spalle, si susseguono
con andamento corale e serrato; ne compaiono i visi all‟altezza degli occhi e le loro
bende nere determinano un netto contrasto con la tonalità più chiara dell‟unico
copricapo bianco.
Il disegno, unitamente ad un altro intitolato Il latte, fu presentato alla XII Biennale
d‟Arte di Venezia (1920) e furono unicamente queste opere, probabilmente a causa
della scarsa disponibilità di mezzi determinata dalla precarietà economica del
dopoguerra, a rappresentare Francesco Ciusa in sì importante occasione. Le opere
grafiche furono comunque apprezzate e questa, che compare sul Catalogo con il titolo
La processione del venerdì santo fu acquistata dallo Stato per la Galleria nazionale d‟
arte moderna di Roma.
La statuaria di piccola dimensione
Di particolare interesse per la sintesi plastica e l‟intensità espressiva sono alcune
sculture dei primi anni Venti che, realizzate originariamente in terracotta, furono
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successivamente replicate in altri materiali e principalmente in stucco a marmo, al
quale il Ciusa dedicò particolare impegno per sperimentarne le possibilità d‟uso.
Sono opere che mostrano, a seguito di un‟attività intensa, il raggiungimento di una
maturità espressiva e l‟aggiornamento intorno alle tendenze della scultura
contemporanea, indirizzatasi in quegli anni verso la riduzione della forma in volumi
complessivi e sullo studio degli effetti luministici sulle superfici plastiche.
Il ritorno, 1923, terracotta formata su base dipinta, cm. 43x18x15
L‟opera è realizzata in terracotta con un volume che racchiude le tre
figure interamente campito da una superficie resa scabra da minute
bozze, che contrasta con la levigatezze delle teste dei soggetti.
Rappresenta l‟abbraccio appassionato, carico di pathos, di un padre che
ritorna e stringe a se la sua donna e il bambino che, così racchiusi in
una forma compatta, rappresentano l‟unità e il valore sacrale della
famiglia nel mondo tradizionale.
Il ritorno, stucco a marmo verde, cm 54x16x14, Sassari, Palazzo della Provincia
La versione in stucco a marmo verde, che richiama il bronzo,
presenta tutte le superfici lisce e assume un effetto di maggiore
scioltezza plastica - rispetto all‟esemplare in terracotta - che mette
in risalto i capi delle tre figure articolati e posti in successione
lungo un‟ideale linea diagonale che si diparte dalla sommità della
testa dell‟uomo.
L‟opera fu esposta a Monza alla I Biennale Internazionale delle
Arti Decorative, nel 1923 e in tale occasione Ciusa ottenne un
Diploma d‟onore per la sua produzione di ceramiche.
Sacco d’orbace, 1923, stucco a marmo, cm 54x15,6x14, Sassari, Palazzo della
Provincia
Pur nella piccola dimensione, la scultura, con la particolare
sintesi formale, segna un momento importante nel percorso
artistico del Ciusa, mostrandone l‟aggiornamento alle
tendenze allora contemporanee e pervenendo ad una soluzione
di grande eleganza ed elevato valore plastico.
La raffigurazione, letta in passato come Maternità, è stata
interpretata più recentemente come Paternità, legata al
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sentimento di dolorosa perdita subita dall‟artista per la morte dell‟ultimogenito nel
periodo in cui lavorava alla realizzazione della scultura (Altea, Montaldo 2007).
Una donna, o forse un uomo, con in braccio un bambino sono avvolti da un manto di
orbace, un sacco, e questo elemento li unisce facendoli divenire un'unica figura,
bicefala.
L‟opera, che attesta l‟abbandono della cura del particolare dei vari elementi, sia fisici
che riguardanti l‟abbigliamento, così presenti nelle sculture precedenti, a cui il
“costume” tradizionale indossato dai personaggi rappresentati aveva fornito non
poche occasioni di descrizione, si caratterizza per un‟ estrema soluzione volumetrica.
E‟ composta da una forma compatta, appena mossa da diagonali che lievemente
accennano a un panneggio e poggia con taglio netto sul basamento.
Sono scomparsi quei piedi che, spesso scalzi, tanto significato avevano assunto nelle
sue sculture, ed anche le mani, che costituivano una cifra propria della poetica del
Ciusa, sono solo intuibili sotto il manto. Ma niente manca, è tutto compreso in una
essenzialità straordinaria di un‟opera che, nonostante le piccole dimensioni, è in
evidente rapporto con la scultura monumentale (Branca 1975).
La campana, 1923, stucco a marmo, cm 45,3x37, Sassari Palazzo della Provincia
Complessivamente racchiusa in una forma a campana,
la raffigurazione, seppure risolta con soluzioni di sintesi
formale, presenta, rispetto alle precedenti, alcuni
dettagli resi con maggiore riferimento naturalistico.
E‟ la rappresentazione di una Paternità, tema
inconsueto nell‟ arte in genere e nell‟arte sarda in
particolare, forse espressione, che si coglie nel bacio
tenerissimo del padre al bambino, del dolore dello
scultore per la perdita del figlioletto ultimogenito.
L‟opera richiama nella posizione del bimbo, sorretto
dalle mani del padre, ma anche da mani femminili, la
Madonna di Padova di Donatello, scultore alla cui opera
l‟artista si interessò negli anni della sua formazione
fiorentina, ma suggerisce anche altro riferimento, per
un particolare significato simbolico attribuito alle mani e per il sentimento di
dolorosa paternità soffusa nell‟opera: richiama quel grande capolavoro che è Il
ritorno del figliol prodigo di Rembrandt.
L‟opera venne esposta a Monza nel 1923, alla I Biennale Internazionale delle Arti
Decorative.
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Nella seconda metà degli anni Venti
Il Bacio, gesso, cm 54 x 58,5 x 37, 1927, Cagliari,Galleria Comunale d‟Arte
In epoca successiva si colloca l‟altorilievo che
raffigura due amanti uniti in un bacio che è afflato di
profonda mestizia, e l‟unione è simbolicamente
rilevata dal manto che avvolge, come una benda, il
capo della donna e raggiunge e circonda la testa della
figura maschile; la forma si dissolve oltre le spalle
unendo ancora plasticamente le due figure.
Il gesso deriva probabilmente dal complesso
monumentale dedicato al generale Gandolfo,
commissionato da un influente personaggio del
fascismo in Sardegna e rimasto incompiuto in seguito
alla sua successiva caduta di prestigio. Realizzato
inizialmente con le figure intere, è stato
successivamente ridotto alla sola parte superiore
(Altea, Montaldo 2007 ).
L‟opera testimonia il percorso di Francesco Ciusa verso un linearismo sempre più
essenziale compenetrato di ascendenze simboliste, e più precisamente bistolfiane,
(Bossaglia I990) ma scevro dalle tendenze estetizzanti proprie del Liberty, da cui lo
tennero lontano la profondità espressiva e l‟aura mitica di cui investe i suoi
personaggi.
Rilevante è il riferimento di quest‟opera con il marmo di Paul Albert Bartholomè
Congiunti nell’aldilà, 1885-99, che è uno studio di particolare del grande Monumento
ai Morti eseguito per il Cimetière du Pere Lachaise di Parigi. Quest‟ opera fu
acquistata dallo Stato all‟Esposizione Internazionale di Roma del 1911 (Di Majo
2005) e attualmente esposta alla GNAM della stessa città.
Al Ciusa, che era presente all‟Esposizione con le opere Bontà e Dolorante anima
sarda, l‟opera deve aver di certo suscitato interesse.
L’Anfora sarda, 1928, bronzo, c196x53,5x77,5, Cagliari, Palazzo
Civico
Quando realizza questa scultura, Francesco Ciusa, che ha già
percorso una parte considerevole e feconda del suo lavoro, è
impegnato in una nuova avventura: ha assunto da un anno ad
Oristano la direzione della Scuola d‟Arte Applicata, che costituisce
una novità per quanto riguarda l‟istruzione artistica in Sardegna.
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La raffigurazione, che ancora una volta ha riferimento in un ricordo dell‟infanzia,
coglie un momento carico di straordinaria vitalità, come egli racconta nella sua
biografia, che, attraverso la memoria emotiva, l‟artista ha saputo rendere con accenti
di un sensuale estetismo: l‟atto preciso in cui una giovane donna, che seduta allattava
il bambino, si alza, afferra la brocca per il manico e beve, e, conseguentemente al
gesto, scopre il corpo e mostra in particolare il sollevarsi del seno (R. Branca 1975).
La figura, che ha accenti veristi, è costruita con movimento a spirale e i volumi
plastici del corpo, turgido e levigato, contrastano con le cadenze geometriche della
gonna d‟uso tradizionale, che bene si presta, con l‟aprirsi e ricomporsi delle pieghe,
ad effetti di gusto Dèco. Ma richiama anche, per l‟elegante plasticità del corpo e il
contrasto determinato dalla superficie scabra e mossa della veste, il Bistolfi, e in
particolare l‟opera A Segantini o La Bellezza liberata dalla terra, con precedente
aulico, per entrambe le opere, nella statuaria michelangiolesca.
La scultura, formata in gesso, venne presentata nel 1928 alla Biennale di Venezia,
dove non ottenne il successo sperato e segnò la definitiva scomparsa dell‟autore dalla
scena nazionale.
La fusione in bronzo è una realizzazione recente.
In esposizione alla GNAM
Attraverso le diverse situazioni che hanno accompagnato fino ad oggi l‟esposizione
de La madre dell’ucciso presso la Galleria nazionale d‟arte moderna di Roma, si
rileva quella illustrata nella guida del Poligrafico dello Stato del 1932, redatta
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dall‟allora Soprintendente Ugo Fleres, che ne indica la collocazione fra il gruppo
marmoreo del Canova Ercole e Lica e le “due staue egregie: quella di Pellegrino
Rossi, scolpita dal Temerani (…….) e la Saffo di Giovanni Durbe‟” a cui oppone “la
più umile statua de La madre dell’ucciso” e, dopo averla indicata come “capolavoro”
sorprendentemente prosegue segnalandola come “quasi unico lavoro di Francesco
Ciusa” e prosegue asserendo che “il sentimento di questa figura è tale, che,
nonostante il lungo silenzio aspettiamo dal Ciusa qualche indimenticabile parola”
(Fleres.1932). Sono parole che stupiscono perché a quella data molti lavori importanti
erano stati eseguiti dal Ciusa, e indicano chiaramente come il lavoro dello scultore,
successivo all‟esecuzione de La madre, fosse poco conosciuto, e come ormai sulla
sua attività, a livello nazionale, fosse grevemente calata l‟attenzione delle istituzioni,
della critica ed anche del pubblico.
Attualmente la scultura, che è stata esposta con continuità presso la Galleria
nazionale, si trova nel “Salone di Giordano Bruno”, così denominato perché al centro
vi è collocato il grande gesso patinato, modello del monumento di Ettore Ferrari,
eretto in Campo dei Fiori nel 1889. “La madre” è collocata in posizione simmetrica
con il ritratto di Giuseppe Garibaldi eseguito da Ercole Rosa. Più internamente è
sistemata l‟opera di Achille d‟Orsi, Proximus tuus, accomunata alla scultura del
Ciusa in una lettura a lungo accreditata, nel tema del verismo sociale.
Anche la Soprintendente Palma Bucarelli, nell‟illustrare l‟esposizione della Galleria
per la guida del Poligrafico dello Stato del 1970, aveva posto il Ciusa fra gli artisti
degli ultimi decenni dell‟Ottocento, nell‟ambito del verismo sociale e, accomunando
la sua opera alla scultura del D‟Orsi, aveva definito le loro opere “solidi brani di una
prosa plastica che potremmo dire verghiana” differenti e lontane da “l‟esaltazione
degli eroi e dei martiri del lavoro nel grande altorilievo I minatori del Gottardo (…..)
del ticinese Vincenzo Vela e i Falciati del siciliano Giovanni Nicolini”.
Queste considerazioni sull‟opera sono lontane dal comprendere la complessità di
carattere de La madre che, unitamente all‟opera del Ciusa tutta, in una rilettura critica
aggiornata, deve trovare la sua giusta collocazione nel contesto artistico del
Novecento.
Referenze fotografiche:
La Madre dell’ucciso – La processione di misteri in esposizione presso la GNAM di Roma fotografie di Silvio Scafoletti.
Il pane – La filatrice – Dolorante anima sarda – il Cainita – La processione dei misteri – Il
ritorno – Sacco d’orbace - La campana – Il bacio – L’anfora sarda, immagini tratte da: G. Altea,
A.M. Montaldo, Francesco Ciusa, Gli anni delle Biennali 1907 – 1928, Nuoro 2007.
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