Nr 61 Dicembre 2009
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Nr 61 Dicembre 2009
ORGANO DELLA PASTORALE SANITARIA DELLA DIOCESI DI ROMA POSTE ITALIANE S.P.A. SPEDIZIONE ABB. POSTALE DL 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) ART. 1 COMMA 2 DCB ROMA N. 61 dicembre 2009 N. 61 dicembre 2009 SOMMARIO Organo della Pastorale Sanitaria della Diocesi di Roma Direzione, Redazione e Amministrazione Vicariato di Roma P.zza S. Giovanni in Laterano, 6/a 00184 Roma Tel. 06/69886227 - Fax 06/69886182 E-mail: [email protected] Sito: www.vicariatusurbis.org/sanita Direttore: Armando Brambilla Direttore Responsabile: Angelo Zema Coordinamento Redazionale: Dr. Sergio Mancinelli Comitato di Redazione: Don Sergio Mangiavacchi, Padre Carmelo Vitrugno, Elide Rosati Maria Adelaide Fioravanti Amministrazione: Dr. Vincenzo Galizia Nel buio due notti di luce 3 PAG Luce di una notte 4 Bello è Dio La festa della serenità 5 Cantico di San Giuseppe E Dio creò il padre 6 Torna anche oggi – Anagogia La vita... che vita! Gesù fa che mi chiami mamma 7 Poesie di Natale – Aprimi fratello! 8 Il segreto del nonno 9 La gioia cristiana 10 Don Gnocchi, pellegrino della carità 11 Una bella domenica 12 Volontariato AVO all’ospedale C.T.O. 13 Insieme, si può 14 Notizie su Alcolisti Anonimi 15 Il Vescovo della Pastorale Sanitaria visto da un medico 17 Romano Guardini e le “tribolazioni umane” 19 Per una rilettura della “Salvifici Doloris” a 25 anni dalla pubblicazione 21 Inserto Quando guarire dal cancro è rinascere nello spirito 24 Editore: Diocesi di Roma Piazza S. Giovanni in Laterano, 6/a 00184 Roma Tel. 06/69886227 - FAX 06/69886182 La parola di Dio che risuona dentro di noi 27 Versamenti sul conto corrente postale n. 31232002 Specificando la causale: “Pastorale Sanitaria 54-5-6” “Norlevo” e farmacisti: 10 domande e risposte 37 Periodico Trimestrale Registrato al Tribunale di Roma Reg. Stampa n. 200 del 12.4.95 Unzione degli infermi Cronaca nera nel deserto, così l’altro ci chiama 29 Il dolore umano e il silenzio dell’abbandono Il diritto e il dovere del farmacista cattolico 38 Dialoghi con Roberto 40 Comunicato della Consulta per la Pastorale Sanitaria L’ospedale dei mendicanti a S. Sisto 42 ABBONAMENTO ANNUO: Socio sostenitore: É 51,00 Comunità o Istituti: É 26,00 Ordinario: É 16,00 Finito di stampare il 27 novembre 2009 per i tipi della PrimeGraf s.r.l. Tel. 062428352 (r.a.) - Fax 062411356 E-mail: [email protected] 31 Sono sottoscrivibili abbonamenti cumulativi. 2 Nel buio due notti di luce N ella notte del solstizio d’inverno viviamo il grande evento della nascita di Gesù, Verbo di Dio. Nella notte della primavera celebriamo la Veglia di Pasqua di risurrezione. Due mistiche notti che ritmano il tempo della vita cristiana. Due notti che sono come due facce della stessa medaglia che porta l’impronta dell’amore di Dio per gli uomini. La notte di Natale ci dona la primizia della nostra salvezza. Gesù, redentore, nasce nella nostra carne, assume la nostra debolezza per innalzarci alla sua divinità; la notte pasquale è il compimento dell’evento natalizio. Due grotte accolgono il figlio di Dio: una per la nascita, nell’umile contesto di una povera famiglia emigrata, con la vicinanza degli ultimi, degli esclusi, dei pastori; e l’altra per accogliere il corpo morto, donato per la vita di tutti gli uomini, l’Agnello pasquale morto ma che risorge e sconfigge la morte di tutti per nascere alla vita eterna del cielo. Sono due notti e due grotte, non buie, ma piene di luci, perchè piene del Verbo, luce del mondo, che illumina anche la notte più oscura. Ciò che nessuno ha mai visto, il Figlio unigenito «luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato e non creato, della stessa sostanza del Padre», è venuto a rivelarci il mistero nascosto nei secoli. Da Lui abbiamo ricevuto grazia su grazia, cioè la pienezza di vita. L’umanità rivelata in quel bambino, nato a Betlemme, è più della luce: è la gloria di Dio, manifestatasi nell’umiltà; è più della vita: è la pienezza di grazia e di verità. Queste due notti, quella natalizia e quella pasquale, costituiscono il cuore della vita cristiana, perché, una annuncia la fine dell’attesa e l’inizio della gioiosa presenza del figlio di Dio sulla terra, che vive come noi la sua esperienza umana e annuncia la venuta del Regno di Dio, guarisce le nostre infermità, si fa compagno di viaggio della nostra vita segnata dalle sofferenze, dalle infedeltà, dai tradimenti, dal peccato. L’altra annuncia la vittoria di Cristo sulla morte e apre alla vita nuova, la vita eterna. Il Verbo di Dio, generato prima dell’aurora del mondo, nel Santo Natale viene a dimorare in una umile casa, povera ma ricca di grazia e di amore. La Santa famiglia di Nazareth, diviene per la chiesa e per tutte le famiglie un modello di vita ed un esempio da imitare. 3 ri che giacevano nelle tenebre. Chi si accosta alla grotta dove è nato il «I pastori si avviarono in fretta e bambino Gesù, luce del mondo, viene trovarono Maria e Giuseppe, e il tutto illuminato e diventa figlio della luce e camminerà nella luce, in Bambino deposto nella mangiaattesa di contemplare un toia» (Lc 2,16). giorno la luce del suo Questi personaggi del volto in paradiso. presepe sono obbedienti Il tema della luce all’annuncio delha un’importanza l’Angelo e senza unica, sia nella indugio vanno ficelebrazione nano a Betlemme talizia che in per vedere la luce quella pasquale, di Dio, che illuculmine di tutto mina ogni uomo. l’anno liturgico. I pastori che Luce di una notte, La solennità di sembrano i meno notte più fulgida del giorno, Natale è come adatti, perché du- notte più splendida del sole, l’annunzio, il ri di testa, essen- notte più candida della neve, preludio di quella do abituati a stare più luminosa delle fiaccole, pasquale. con le bestie, più dilettosa del Paradiso! Dobbiamo lafuori dalla città, Notte sgombra di tenebre! sciarci illuminare si rivelano i più notte che insegui il sonno, dalla grotta di capaci di riconoche insegni a vegliare con gli Angeli! Betlemme per scere Gesù. Ve- Notte terribile ai demoni, poter vedere e dono l’umiltà del notte desiderio di un anno! giudicare la noDio fattosi uomo, Notte nuziale della Chiesa, stra vita con quel lo riconoscono e notte madre dei neo battezzati, bagliore che illudiventano a loro notte in cui il demonio assopito viene mina le situaziovolta evangelisti, disarmato! elevano la pre- O notte in cui l'Erede introduce l’uomo ni, le scelte, gli avvenimenti, anghiera di lode a Erede nell'eternità! che tristi, per Dio, e ritornando guardare con ocal loro consueto Preghiera cristiana del mondo antico chi diversi, con lavoro cambiati gli occhi di Dio, nello stile di vita e danno testimonianza delle meravi- le vicende della storia. glie che Dio ha operato in loro e per Nel buio delle stanze e dei reparti dei luoghi di cura possa entrare la luce del loro. «Il popolo, che camminava nelle te- santo Natale, luce di vita e di speranza, nebre vide una grande luce; su colo- affinchè siano alleviate le lacrime e le ro che abitavano in terra tenebrosa, sofferenze di tanti fratelli e sorelle. Anche noi come Maria, siamo invitati una luce rifulse». «È venuta nel mondo la luce vera a «serbare tutte queste cose nel noquella che illumina ogni uomo» (Is. stro cuore, per meditarle» e per trar9,2) Dio creatore della luce, è Lui stes- ne vantaggio per il nostro vivere quotidiano. so luce, che illumina la vita dei pastoGesù si rivela ai pastori Luce di una notte 4 Auguro a tutti che con la luce del Natale risplenda anche la gioia per il lieto annuncio della salvezza. tuo Verbo fatto uomo, fa che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito». Preghiamo Armando Brambilla «O Signore, Dio onnipotente, che ci avvolgi della nuova luce del Bello è Vescovo Ausiliare di Roma Delegato per la Pastorale Sanitaria Dio Bello è Dio, Verbo presso Dio; bello nel seno della Vergine, dove non perdette la divinità e assunse l'umanità; bello il Verbo nato fanciullo, perché mentre era fanciullo, mentre succhiava il latte, mentre era portato in braccio, i cieli hanno parlato, gli angeli hanno cantato le sue lodi, la stella ha diretto il cammino dei magi, è stato adorato nel presepio, cibo per i mansueti. È bello dunque in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori: bello nei miracoli, bello nei supplizi; bello nell'invitare alla vita, bello nel non curarsi della morte, bello nell'abbandonare la vita e bello nel riprenderla; bello sulla croce, bello nel sepolcro, bello nel cielo. Ascoltate il cantico con intelligenza, e la debolezza della carne non distolga i vostri occhi dallo splendore della sua bellezza. Suprema e vera bellezza è la giustizia; non lo vedrai bello, se lo considererai ingiusto; se ovunque è giusto, ovunque è bello". “Mi avevi detto – osservò il bue – che era la festa della serenità, della pace, del riposo dell’animo”. “Già – rispose l’asinello – una volta era così...”. “Ti ricordi – riprese il bue – quella notte, a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino? Era freddo, anche lì, eppure c’era una pace, una soddisfazione. Come era diverso!”. “È vero. E quelle zampogne lontane, che si sentivano appena appena”. “E sul tetto come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano”. “Uccelli? Testone che non sei altro! Erano angeli”. “E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora. Le stelle di solito hanno vita lunga”. Sant'Agostino Dino Luzzati La Festa della Serenità 5 Cantico di S. Giuseppe In Maria, mia sposa, tua Vergine eletta la carne hai preso dell'umana natura. La radice di Jesse è fiorita al tuo cenno il tuo Spirito Santo ha operato il prodigio. Salvatore d'Israele e dei popoli tutti re, sacerdote e profeta, regnerà in eterno. Benedetto sei tu Signore Dio dei nostri padri che ti sei rivelato ad Abramo, a Mosé, ai Profeti tuoi servi. A me, tuo umile servo che in Te sempre confida hai affidato il Messia e la Madre sua santa. Hai donato ad essi la tua luce e la tua grazia per stabilire la tua santa alleanza. Vigilante custode e padre amoroso fedele e prudente la tua grazia mi renda. Israele tuo popolo ti ha servito nei secoli ha spianato la strada al Messia salvatore. Con umile ossequio e trepida attesa a Te canto, o mio Dio, mia forza e speranza. Ogni giorno qui in terra e poi sempre nel cielo canterò tra i santi la tua misericordia. Ed ora o Signore, Tu hai rivelato al tuo servo la discesa qui in terra del tuo Consacrato. Gloria al Padre. Ti benedico e Ti adoro, onnipotente mio Dio perché i giusti di Israele sono stati esauditi. Sac. G. B. Proja bastanza piccole per poter stringere nel palmo il suo visetto». Dio stava creando i due più grossi piedi che si fossero mai visti, quando l'angelo sbottò. «Non è giusto. Credi davvero che queste dite barcacce riuscirebbero a saltar fuori dal letto la mattina presto quando il bebè piange? O a passare fra un nugolo di bambini che giocano, senza schiacciarne per lo meno due?». Dio sorrise e rispose: «Sta' tranquillo, andranno benissimo. Vedrai: serviranno a tenere in bilico un bambino che vuol giocare a cavalluccio o a scacciare i topi nella casa di campagna oppure a sfoggiare scarpe che non andrebbero bene a nessun altro». Dio Lavorò tutta la notte dando al padre poche parole ma una voce ferma e autorevole: occhi che vedevano tutto, eppure rimanevano calmi e tolleranti. Infine, dopo essere rimasto un po' sovrappensiero, aggiunse un ultimo tocco: LE LACRIME. Poi si volse all’angelo e domandò: «E adesso sei convinto che un padre possa amare quanto una madre?». uando il buon Dio decise di creare il padre cominciò con una struttura piuttosto alta e robusta. Allora un angelo che era lì vicino gli chiese: «Ma che razza di padre è questo? Se i bambini li farai alti come un soldo di cacio, perché hai fatto il padre così grande? Non potrà giocare con le biglie senza mettersi in ginocchio, rimboccare le coperte al suo bambino senza chinarsi e nemmeno baciarlo senza quasi piegarsi in due!». Dio sorrise e rispose: «È vero, ma se lo faccio piccolo come un bambino, i bambini non avranno nessuno su cui alzare lo sguardo». Quando poi fece le mani del padre, Dio le modellò abbastanza grandi e muscolose. L'angelo scosse la testa e disse: «Ma... mani così grandi non possono aprire e chiudere spille da balia, abbottonare e sbottonare bottoncini e nemmeno legare treccine o togliere una scheggia da un dito». Dio sorrise e disse: «Lo so, ma sono abbastanza grandi per contenere tutto quello che c'è nelle tasche di un bambino e ab- Q Erma Bombeck 6 Torna anche oggi Anagogia Volgendo lo sguardo all’Invisibile andando verso l’alto, saremo in sintonia con il divino. Con occhio limpido e sereno leggeremo le vicende della vita e troveremo, nella purezza del cuore, la felicità che Cristo ci ha promessa Sergio So che non ami / i freddi cieli lontani / nei quali t'han chiuso / i nostri ciechi sapienti. So che ami la terra / la nostra povera terra / bagnata da fatica e sudore. So che un giorno percorresti / i nostri impervi fangosi sentieri / segnati dalle nostre sciagure e follie / per essere il Dio-con-noi. Torna anche oggi, ti prego. / Le strade si sono allargate. / Vi troverai assiepati / più ciechi e mendichi di allora, / più malati e coperti di lebbra. Non sanno il tuo nome. / Ma ti stanno aspettando. / Io confuso tra loro / schiacciato dal peso dei mali / t'aspetto e ti chiamo. / Per me e per tutti. / Voglio fare con te la mia strada. / Posso farla soltanto con te. Celestino Vaiani Gesù fa che mi chiami mamma D’Anime prette scese dal cielo per coronarsi di veste mortale come fiori d’amore in su lo stelo, scegliesti me e ancor gioir m’assale; La vita... che vita! Linfa dì vita, stille del mio seno io gli donai giorno dopo giorno, e dì lodar il cor fu sempre pieno anche se il dramma mi correa d’intorno. Vita... germoglio che sboccia Sotto il gelo Di un primo mattino! Grido di vagito Di un tenero bambino... All'alba... del suo primo mattino! Petali di rosa Bagnati dalle lacrime Di una giovane sposa... All'alba... di una vita nuova! Vita che nasce Nel risorgere... di un'anima esultante di gioia per una vita nuova! Il sol che si levava ogni mattina nell’anima struggea ogni speranza, restava, alfine, la pietà divina ma corre il tempo e verità s’avanza. Mai una parola, solo un muto sguardo, ma nel mio cuor d’amor c’è sempre fiamma, trepida attesa... sol per questo ardo che prima dì morir mi chiami: “Mamma!” Stefania Iannone Dante Di Vaja 7 Aprimi Fratello! POESIE DI NATALE Ho bussato alla tua porta ho bussato al tuo cuore per avere un letto per avere un fuoco. Perché mi respingi? ALLA MADONNA Madonnina tutta bianca che sorridi dall'altare a te sale dolcemente la mia piccola preghiera. A Te accanto questa sera voglio mettere un bel fiore, un bel fiore alto e gentile che accompagni il tuo candore. Aprimi, fratello!... Perché mi domandi se vengo dall’Africa se vengo dall’America se vengo dall’Asia se vengo dall’Europa? NOTTE DI NATALE Aprimi, fratello!... Suonate, squillate campane beate del Santo Natale! È tutta splendente di luce divina la stella d'oriente. Cammina, cammina s'appressano a frotte, cantando i pastori. La gelida notte è tutta splendori. Perché mi domandi la lunghezza del mio naso lo spessore delle mie labbra il colore della mia pelle ed il nome delle mie divinità? Aprimi, fratello!... Non sono un negro non sono un rosso non sono un giallo non sono un bianco sono solo un uomo. GESÙ BAMBINO Quando nascesti Tu, Gesu' Bambino non avevi neppure un camicino! Sulla paglia ti mise la Tua mamma e un angelo canto' la ninna nanna. Eri povero sì, ma il Tuo sorriso aveva lo splendor del Paradiso!. Aprimi, fratello!... Aprimi la tua porta aprimi il tuo cuore perché sono un uomo: l’uomo di tutti i tempi l’uomo di tutti i cieli l’uomo che ti assomiglia. Francesco Carotenuto Tel. T.O. Genio Artificieri ISTITUTO ROMANO SAN MICHELE René Philombe poeta del Cameroun 8 IL SEGRETO DEL NONNO e ra un inverno di tanti anni fa, l’estate con i suoi fiori e colori era ormai un ricordo lontano. La terra, fredda e desolata, era triste in attesa dei tre mesi più difficili dell'anno. Ma fortunatamente arrivava a grandi passi il Natale e il nonno, che veniva a trascorrerlo a casa nostra, con i suoi racconti riusciva a trasformare l’inverno nella stagione più felice dell'anno. «Nonno – chiedeva insistentemente mia sorella – tu che sei così vecchio, hai conosciuto Gesù Bambino?». «Sì che l’ho conosciuto! E anche Giuseppe e Maria! Ascoltatemi un po’: mi è accaduto una notte di Natale, quando andavamo alla Messa di mezzanotte... ero ancora bambino e abitavamo a qualche chilometro dal villaggio di “Testa della Balena”. Eravamo sulla slitta trainata dal nostro cavallo, Ercole: andava baldanzoso al trotto, facendo risuonare gioiosamente i suoi campanelli. M a ecco che improvvisamente la neve comincia a cadere sempre più fitta, più insidiosa: arrivava al petto del nostro povero Ercole, che a fatica riusciva ad andare avanti. Non riusciva a vedere neppure la strada...». «Oh! Oh!» – gridò impaurito mio padre al cavallo. Ma troppo tardi: noi eravamo già affossati in una valanga di neve. Allora mio padre, guardando verso mia madre, ci disse: «Preghiamo tutti San Giuseppe!». E lui stesso, ad occhi chiusi, cominciò sommessamente a pregare: «San Giuseppe, è Natale: dacci una mano ... aiutaci ad uscire da questo fosso!». Improvvisamente, come per miracolo, tutto intorno si fece un gran silenzio, il vento cambiò direzione, le nubi si dissolsero e si videro brillare nel profondo blu del cielo le stelle ... mentre dal folto bosco si stava avvicinando a noi un uomo alto e forte, sorridente e sicuro di sé. Si accostò al nostro desolato Ercole e accarezzandolo teneramente gli mormorò qualcosa nell’orecchio. Così il cavallo, incoraggiato, dette un forte colpo di reni e con decisione ci trascinò fuori dal fosso. C i mettemmo a battere tutti felici le mani: eravamo di nuovo sulla strada giusta e quando mio padre si girò indietro per manifestare la sua gratitudine allo sconosciuto, costui era già scomparso... Chi era quell’uomo? San Giuseppe, sì, San Giuseppe in persona! E, poco dopo, quella notte, in chiesa, passando davanti alla grotte del presepio, e lo giuro, non ho sognato... San Giuseppe mi ha fatto l’occhiolino! 9 L a vera vita del cristiano non ha nulla di austero, mesto o malinconico, perché in essa domina l'amore che si manifesta con la gioia di aver posto la propria fiducia in Dio. S. Giovanni Crisostomo ammoniva infatti: «godere in ogni occasione è cosa possibile. Chi ha posto la propria fiducia in Dio possiede il principio della felicità e la fonte di ogni gioia». Al contrario, la tristezza è frutto delle passioni, dell'avarizia, dell'egoismo, dell'orgoglio. Bisogna respingere la tristezza e vincerla con l'ottimismo che può essere concepito solo dalla mente di Dio. «Dio ama chi dona con gioia» (Cor 9,7). La vita per il cristiano ha il significato di una festa, perché prelude a quella del cielo. «Il cristiano è un seminatore di gioia ed è per questo che fa grandi cose. La gioia è una delle più irresistibili forze del mondo: calma, disarma, conquista, trascina. Una anima piena di gioia è di per sè un apostolo: attira a Dio gli uomini manifestando loro quel che produce in essa la presenza di Dio» (R.P. Bernadot). Ma nella dimensione relazionale del cristiano, un altro atteggiamento che assume il significato di un valore è l'umorismo, che esprimendo un nuovo modo di essere e di sentire «converte il pessimismo in audacia, il disprezzo in pietà, l'insofferenza in feconda accettazione». Parlando dell'umorismo, lo abbiamo fatto assurgere all’importanza di valore perché chi lo pratica deve poter disporre «di una certa saggezza umana, frutto di esperienza, e di una notevole capacità di osservazione sugli altri e su se stessi». Sull'umorismo i Santi hanno lasciato testimonianza perché sapevano sorridere. Ne sono fulgidi esempi: S. Teresa d'Avila, S. Francesco di Sales, S. Filippo Neri. Infatti la dove l'umorismo dei Santi citati e dei grandi cotemporanei come papa Giovanni é benevolo, compassionevole e indulgente, perché nasce dalla conoscenza delle umane povertà; l'ironia di un Voltaire, privo di senso di trascendenza, aggredisce e ferisce e a volte distrugge. Lo stesso Ionesco, celebrato drammaturgo, afferma che «il rifugiarsi nell'umorismo consente di sfuggire alla infelicità della sofferenza e della morte». Cristianamente inteso, l'umorismo è la chiave che apre alla serenità che, in quanto partecipe della saggezza, è dono dello Spirito Santo. Anche secondo Kierkegaard cristianesimo e umorismo in un certo senso coincidono, perché avvicinano l'uomo al senso religioso. Infatti Dio ha creato i suoi figli per la gioia, ha fatto ogni cosa perché vivano nella gioia. Con l'incarnazione, secondo quanto leggiamo nel Gaudium et spes (n. 22), Dio si è unito ad ogni uomo, assumendone la stessa natura, ma in contrasto con lo smarrimento dell'uomo, Dio sembra «divertirsi» esprimendo un amore senza limiti, incomprensibile, al di la di ogni misura. In questo contrasto spicca l'umorismo divino che predilige scelte apparentemente sconcertanti: ciò che é «stolto», per confondere i sapienti; ciò che è «debole», per confondere i forti; ciò che è «ignobile» e «disprezzato» e ciò che è «nulla», per ridurre a nulla le cose che sono (I Corinzi, 1,28). Cristianamente inteso l'umorismo non giudica, ma tuttavia scopre le stoltezze di noi mortali «e demitizza se e gli altri» così che il senso dell'humour rappresenta la valvola di sicurezza per le nostre presunzioni di grandezza o per la costatazione delle nostre miserie. Dallo sguardo del Signore, che è amo- LA GIOIA cristiana 10 revole, comprensivo e disposto al perdono, apprenderemo il significato di «un umorismo divino» che accompagna l'opera della salvezza e ci insegna la speranza che è fonte di gioia «poiché ci fa guardare alla vita eterna, gioia suprema per la quale siamo creati; ci educa ad un nuovo modo di essere che trasforma il pessimismo in audacia, il disprezzo in pietà, l'insofferenza dei limiti in feconda accettazione». È così che i nostri occhi sapranno vedere la relatività delle cose e riconquisteremo la giusta prospettiva: «Al colmo della sofferenza guardati ogni tanto con humour, onde sfuggire al veleno che essa distilla...» (Henri-Marie Lubac). Essere triste quando Dio esiste, quando Dio è la gioia, sarebbe mancare d'amore per Dio. La vita cristiana è un cantico di gioia che si comunica e si diffonde come un balsamo, è gioia che esplode e che canta. Lo spirito cristiano è uno spirito di gioia. La vita cristiana imita la vita di Cristo, il sapere che Dio esiste è la gioia perfetta, immutabile ed eterna. Per il cristiano dotato di humour, comprendere e sorridere significa possedere «l'intelligenza del relativo» che «lo sposta sul terreno dell'assoluto; può così collocarsi al suo giusto posto, in rapporto a un altro immensamente più grande di lui, che lo avvolge con benevola Provvidenza». Papa Benedetto XVI ci ha ricordato a Lourdes che la Vergine Maria apparendo a Bernadette le ha sorriso, come a volerle indicare che il sorriso è una «porta d'accesso» al mistero del divino e quindi della redenzione e al mistero della santissima Trinità. Il sorriso sottolinea tre aspetti qualificanti di Dio: verità, belta e bontà. Il sorriso esprime gioia, una gioia che «strappa l'anima dalle miserie della povera vita umana per elevarla alle più alte vette e farla entrare nella vita intima dell'adorabile Trinità» (R.P.Bernadot). Dr. Sergio Mancinelli Don Gnocchi pellegrino della carità Nato il 25 ottobre 1902 a S. Colombano al Lambro - Lodi Morto nel 1956 D’ ell’Anno Sacerdotale, tempo di grazia indetto da Benedetto XVI e consegnato nel giugno scorso, alla Chiesa universale, uno dei primi frutti eccellenti è la canonizzazione di don Carlo Gnocchi. Un prete ambrosiano vissuto nel secolo scorso, che ha trovato sulle nostre strade la via della santità. Non è un eroe straordinario, ma un testimone della carità quotidiana. Per la sua opera e le sue convinzioni è stato detto «padre dei mutilatini» e teorico-teologo del «dolore innocente». Nel 1956 scrive come suo testamento spirituale Pedagogia del dolore innocente che anticipa la riflessione cristiana, profondamente spirituale, dell’enciclica del 1984 Salvifici doloris di Giovanni Paolo II. Nella tragica ritirata di Russia, lungo la valle del Don, dove migliaia di ragazzi italiani persero la vita, don Carlo che per seguire gli studenti universitari, di cui era assistente, si era fatto cappellano militare, fu chiamato a consolare centinaia e 11 centinaia di feriti gravi e moribondi. Le sue parole di solidarietà estrema erano: «Andrò a trovare la tua famiglia, mi prenderò cura dei tuoi bambini». Ci si accorse poi che non erano solo parole di circostanza, ma impegni testamentari, voti di fedeltà che segnarono per sempre il prete milanese reduce della grande disfatta. Andò pellegrino di carità per le città distrutte, in una Italia prostrata e depressa, sfigurata dai bombardamenti e imbarbarita dalla guerra civile. Di casa in casa, di famiglia in famiglia raccolse gli orfani, i mutilatini e poi i poliomelitici e i portatori di handicap. L’unico requisito per entrare nelle sue strutture sanitarie, nella sua famiglia del dolore, la povertà e la sofferenza. Il problema si dilatava con il moltiplicarsi dei suoi viaggi. Per farsi aiutare sviluppò il senso manageriale meneghino, attivò la fantasia e promosse eventi che sulle ali dei mass media resero la sua opera famosa nel mondo. Il raid motociclistico Freccia rossa da Milano raggiunse i popoli scandinavi portando il messaggio e la richiesta di aiuti per i bambini (erano allora 15 mila), vittime innocenti del conflitto; la trasvolata atlantica Milano-Buenos Aires con un velivolo da turismo di 120 cavalli, battezzato dai giornali argentini «El Angel de los ninos», fu un trionfo mondiale. Gli italiani dell’estero, commossi e coinvolti, parteciparono generosi alla causa dei mutilatini. Tra questi, il maestro Arturo Toscanini che organizzò vari concerti di beneficenza, dal Canada agli Usa, dall’Argentina al Brasile. Don Carlo pensava a questi benefattori sul suo letto di morte, quando aveva già disposto di cedere le sue cornee a due bambini ciechi (anticipando la legge che renderà legale il trapianto di organi in Italia) e per questo disse, convinto di aver fatto tutto il bene possibile: «Amis, ve racumandi la mia baracca!». ... Q uando il cuore è colmo dell’amore di Gesù, si vuole comunicare agli altri il dono ricevuto. Così in un bel mattino di domenica, S.E. Mons. Brambilla è tra i nonniospiti della nostra casa di riposo “Villa Primavera”, zona Ottavia – Roma. Già prima della celebrazione Eucaristica, Sua Eccellenza incontra cordialmente tante persone e con il suo entusiasmo accoglie, incoraggia e prepara per l’Eucaristia. La celebrazione è alle 10,30 e la cappella è troppo piccola per accogliere tutti, anche i vicini. Che bello! Monsignor Brambilla ha il dono di aggiungere festa alla festa. Durante l’omelia ci fa penetrare nel cuore la Parola ascoltata e dà nuovo slancio e amore per accogliere Gesù il pane di vita che ci sta donando nella celebrazione Eucaristica. Negli occhi di tutti si notano gioia, commozione e consolazione spirituale. Grazie, Eccellenza! Dopo la celebrazione il Vescovo si reca nella vicina Clinica «Salus Infirmorum» a far visita ad alcune Suore malate. Ritorna poi a Villa Primavera dove si trattiene paternamente con i nonni durante il pranzo, proprio come un padre buono. Un momento di preghiera con la recita dell’Angelus e del Magnificat e poi a tavola con noi Suore e i due Sacerdoti studenti-cappellani di Villa Primavera. Il pasto è ancor più gustoso perché allietato dal nostro caro Monsignor Brambilla. Grazie, Eccellenza! Ci ha fatto proprio un bel dono. Suor Beniamina Suore "Ancelle dell'incarnazione" Villa Primavera Roma 12 Volontariato AVO all'ospedale CTO ono Claudia, responsabile dell’associazione volontari ospedalieri (AVO) del Centro Traumatologico Ospedaliero CTO di Roma e scrivo queste poche righe per dare una testimonianza dell’operato quotidiano del meraviglioso gruppo di cui faccio parte. Il nostro gruppo AVO è infatti presente da 14 anni nelle corsie del CTO ed è cresciuto nel tempo fino a raggiungere il numero di 40 volontari, cosicché oggi possiamo coprire molteplici reparti: da ortopedia a radiologia, dal pronto soccorso all’unità spinale etc. Il nostro impegno è quello di portare un sorriso dove manca, di tenere compagnia a chi è solo, di aiutare a mangiare e a camminare chi da solo non ce la fa: gesti semplici che assumono però un immenso valore se compiuti con l’entusiasmo e l’amore che ci animano. A volte non è facile mantenere il sorriso di fronte al dolore, ma un volontario è tale in quanto sente il desiderio di portare conforto e gioia a chi vive un momento difficile. È per questo che non esiste un «compito» nel nostro gruppo, ma esiste la consapevolezza che dare amore a chi soffre è la più grande fonte di gioia che abbiamo a disposizione. S I volontari sono un valore aggiunto all’assistenza ospedaliera. Così, oltre alla nostra quotidiana presenza in corsia, ci teniamo a festeggiare le occasioni speciali, come abbiamo fatto per i 18 anni di un ragazzo tetraplegico al quale siamo riusciti a non far mancare il calore e la gioia degni di un tale giorno e come facciamo per ogni Natale, Pasqua o Carnevale: perché chi è in ospedale non deve sentirsi fuori dal mondo! E per lo stesso motivo cerchiamo sempre di comunicare con i pazienti, anche quelli chiusi e meno disposti a parlare, alla ricerca di un argomento che li possa far sentire attivi o di un piccolo desiderio da soddisfare, come un fiore o un giornale. L’armonia che regna nel nostro gruppo è anche merito di un ambiente così cordiale ed accogliente come quello che il personale del CTO ci ha sempre riservato e all’interno del quale speriamo di continuare a fare del nostro meglio. Claudia Muccioli 13 I Insieme, si Può «Per non sentirsi soli» che partirà entro l’anno, grazie al contributo della Regione Lazio. Il saluto del Vescovo del Centro della Pastorale Sanitaria, S.E. Armando Brambilla, è stato riportato da Mons. Telesforo, così come il saluto del presidente Canali della Commissione Salute del Consiglio regionale, è stato riportato dal suo portavoce, Dott. Colavolpe. A questi interventi è seguita la lettura dei messaggi del Presidente della Repubblica Italiana, Sen. Giorgio Napolitano, del Presidente della Regione Lazio, Dott. Piero Marrazzo, dell’Assessore comunale, Dott.ssa Sveva Belviso e quindi la parola è passata al Prof. Carlo Caltagirone della Fondazione S. Lucia che ha introdotto il tema della prima sessione dedicata agli interventi del Ministero della Salute in materia di Alzheimer, ai farmaci di nuovo impiego ed all’utilizzo dei farmaci nelle diverse fasi della malattia. Hanno preso la parola la Dott.ssa Teresa Di Fiandra del Ministero della Salute, il Prof. Vincenzo Marigliano del Policlinico Umberto I, Clinica Scienze dell’Invecchiamento ed il Dott. Nicola Vanacore dell’Istituto Superiore di Sanità. Ha concluso la sessione il prof. Francesco Negro che è stato chiamato a rappresentare la possibile cura dei pazienti attraverso la medicina allopatica in combinata con quella omeopatica, nel- l 21 settembre scorso, in occasione della Giornata Mondiale dell’Alzheimer, si è tenuto, presso la Sala Tirreno della Regione Lazio, il Convegno nazionale «Emergenza Alzheimer: verso una migliore assistenza ai malati». Il convegno ha goduto dei patrocini del Senato della Repubblica, della Camera dei Deputati, del Ministero della Salute, della Regione Lazio, del Comune di Roma, Ass.to Servizi Sociali, della Provincia di Roma e del Centro per la Pastorale Sanitaria del Vicariato di Roma. L’incontro di informazione e di approfondimento è stato moderato dal Prof. Giuseppe Titti, che ha dato la parola al presidente dell’Associazione SOS Alzheimer onlus, Dott.ssa Maria Grazia Giordano, la quale ha ringraziato gli intervenuti ed ha descritto le attività dell’associazione a favore dei malati e delle loro famiglie. Supporti informativi di carattere legale, fiscale, consigli su come relazionarsi con il paziente, indicazioni per visite mediche e specialistiche e poi l’iniziativa dello portello «Insieme, si può» con in più il supporto psicologico per i familiari, l’iniziativa del Salotto Alzheimer della Capitale, il luogo di incontro di pazienti, familiari, medici ed operatori OMA, il corso di formazione per O.M.A., Operatore per i malati di Alzheimer e per le demenze ed infine, il progetto di assistenza domiciliare 14 dalla Dott.ssa Francesca Allegrucci dell’ANUCSS. Infine le risposte da dare ai familiari sui tanti interrogativi sulla malattia, sulle strutture presenti sul territorio, sui servizi, attraverso lo Sportello «Insieme, si può» dell’associazione SOS Alzheimer, del quale ha parlato la Dott.ssa Alessandra Italia, psicologa del Centro Diurno Tre Fontane, in Roma. Il Prof. Titti ha concluso il convegno, riassumendone i punti principali e gli importanti temi trattati, salutando e ringraziando i presenti convenuti, pur in una giornata di lutto nazionale per l’Italia. l’ottica di un approccio globale e più completo del paziente stesso. Il Prof. Marigliano ha poi introdotto gli interventi della seconda sessione, dedicata alle co-terapie. La Prof. Anna Damiani dell’Università Roma Tre ha descritto l’esperienza dei suoi corsisti in Arti Terapie presso il Salotto Alzheimer, chiamando a testimoniare l’efficacia del trattamento su pazienti nelle prime fasi della demenza, uno dei tirocinanti, Giordano Novielli. Quindi la parola è passata alla PET THERAPY, l’utilizzo del cane per assistere e stimolare i pazienti con deficit cognitivi. Le esperienze del caso sono state riportate N Notizie su Alcolisti Anonimi Tutto ha origine col libro «La varietà dell'esperienza religiosa» del noto psicologo e filosofo William James e con il dottor Jung che (esiste un carteggio tra Jung e Bill) ha l'intuizione di usare «Spiritus contra spiritum» e, per primo, afferma che solo una forte esperienza spirituale può opporsi all'ossessione mentale della dipendenza alcolica. Questo messaggio giunse così in America fino a un alcolista, un agente di Borsa ormai ridotto sul lastrico, Bill Wilson. Costui cercò di applicare a se stesso questa cura e – come primo passo della sua rinascita spirituale – si impegnò ad aiutare altri alcolisti; il giorno in cui il secondo alcolista, il dott. Bob Smith, smise di bere (era il 10 giugno 1935) era nata Alcolisti Anonimi, la prima grande associazione di autoaiuto, che avrebbe reso famoso il «Programma dei Dodici Passi», oggi attuato in diverse modalità da ben ventotto associazioni che si occupano del recupero da molte forme di disturbi comportamentali cronici quali la dipendenza da cocaina, da droghe, dal sesso, dal gioco, ecc. on è così facile per un alcolista parlare del nostro metodo. È difficile, perché ciascuno di noi ha una sua storia, ha vissuto il proprio ingresso in Alcolisti Anonimi a suo modo, ha smesso di bere per i motivi più disparati, vive una propria esperienza di recupero individuale e di crescita spirituale. Eppure, tutto questo accade alla maggior parte degli alcolisti che, per varie ragioni e seguendo diverse strade, arrivano ad Alcolisti Anonimi; quindi, qualcosa c'è, un qualche cosa che accade a tutti gli alcolisti, che provoca quelle conseguenze che accomunano tutti noi. E questo qualcosa è il nostro metodo. Sembra strano parlare di metodo in un'associazione che rifiuta qualsiasi definizione, qualsiasi regola, qualunque gerarchia, qualunque professionalità nel recupero. Non ci sono tra noi, se non a titolo personale, medici, psicologi, sacerdoti, assistenti sociali, infermieri. Eppure, un metodo c'è. Qualcosa che funziona in Alcolisti Anonimi in tutto il mondo e che molti altri, che pure mettono tutto il loro amore nel cercare di aiutare alcolisti attivi, non hanno. 15 I bri è il rovesciamento della tavola, vedere e amare gli altri, stare con loro, lavorare con loro. Questo è il fondamento del risveglio spirituale che si può ottenere in A. A. e che tiene lontano l'alcolista da tremende ricadute, spesso per tutta la vita. Dunque, quali sono gli elementi fondanti del nostro metodo? L'autoaiuto che si realizza nel gruppo, la responsabilizzazione dell'individuo, la condivisione delle esperienze, l'identificazione negli altri, il rovesciamento dei valori ponendo gli altri al centro del mondo, il vivere dando senza chiedere nulla in cambio, la rinunzia a qualsiasi aspettativa nei confronti degli altri, il vivere qui e ora e non più in un fumoso passato o in un inaffidabile futuro. La Helper Therapy, cambiare ruolo diventando uno che dà aiuto, aiutare per aiutarsi, per avere più autocoscienza e consapevolezza. La spiritualità da vivere giorno per giorno, la rinascita di valori più importanti dei singoli avvenimenti. Questi sono gli elementi fondamentali: del nostro metodo che permette a milioni di persone, in tutto il mondo, di vivere ogni giorno una vita non più da alcolisti ghettizzati ma da uomini consapevoli e perfettamente integrati nel mondo in cui vivono e cui appartengono. Alcolisti Anonimi l Programma di A. A. fu costruito dai primi alcolisti recuperati con l'aiuto di noti psicologi, medici e religiosi, basandosi sull'esperienza che man mano veniva acquisita e prendendo come modello di riferimento la spiritualità di San Francesco e della sua Preghiera Semplice. Tre sono i fattori fondamentali su cui si basa il recupero che si attua in Alcolisti Anonimi: un risveglio spirituale che si cerca attraverso il Programma, il «cambiare ruolo» nel gioco dell'alcolizzato (cfr. Berne), lasciando quello della vittima per assumere le vesti del salvatore portando il messaggio agli altri alcolisti, la forza del Gruppo di autoaiuto in cui l'identificazione negli altri, la condivisione delle esperienze, l'amore reciproco danno quella forza che nessuno di noi possiede individualmente. Quando Bill portò il suo messaggio di speranza a Bob aveva bene a mente due cose: la propria necessità di condividere la propria esperienza con un altro (Helper Therapy) e la necessità di un recupero, una esperienza spirituale. Quello che Jung non aveva detto e che Bill avrebbe solo scoperto con l'esperienza il terzo elemento fondamentale del «metodo A. A.»: l'autoterapia di gruppo. Nasceva allora l'autoaiuto, questa esperienza unica che così tanta diffusione ha avuto nel mondo in questi ultimi cinquant'anni. Quello che A. A. propone ai suoi memGRUPPO A. A. c/o Chiesa SS. Patorni TRIONFALE - c/o Parrocchia S. Giuseppe VALLE VILLA GORDIANI - c/o Sdd. SG. L.A.S.T. BATTISTINI - c/o Parr. S. Giuseppe all’Aurelio S. Silvia al Portuenese - c/o Parr. S. Silvia LINGUA INGLESE c/o Chiesa SS. Patroni c/o Chiesa Anglicana c/o Chiesa S. Andrea LINGUA POLACCA Area Lazio Comitato per l'Informazione Pubblica INDIRIZZO Circ.ne Gianicolense, 12 - 00152 Roma Via Giovanni Bovio, 44 - 00195 Roma Via del Teatro Valle, 27 - 00186 Roma Via della Venezia Giulia, 77 - 00177 Roma Via G. Marello, 5 (angolo V. Boccea) - 00166 Roma P.zza Augusto Lorenzini - 00149 Roma Circ.ne Gianicolense, 12 - 00152 Roma Via Napoli, 56 - 00184 Roma Via XX Settembre, 7 - 00187 Roma Via delle Botteghe Oscure, 16 - 00185 Roma 16 TELEFONO 3343963906 3343957068 3343963938 3343952581 3343957823 IL VESCOVO DELLA PASTORALE SANITARIA VISTO DA UN MEDICO L della solidarietà verso i fratelli meno dotati, che allontana dal proprio tessuto sociale le categorie incolpevolmente improduttive assimilandole a modelli di turbativa e di disagio per le coscienze intorpidite dal benessere, che respinge insomma tutti coloro i quali per motivi diversi, non sono più in grado di esercitare la loro competitività nel mondo del lavoro e pertanto assumono il significato di un peso sociale a consegna che Gesù lasciò agli Apostoli fu di evangelizzare. Da allora per sequela ininterrotta, i Vescovi, successori degli Apostoli, predicano la verità, portando a tutti gli uomini di buona volontà il Verbo, anche cercando di ripetere e compiere, nel ricordo storico del transito terreno di Gesù, i suoi gesti e le sue azioni. Come Gesù Buon Pastore, il Vescovo impone le mani sui sofferenti per liberarli, sollevare i cuori afflitti, mitigare il dolore (partecipazione emotiva), curare la psiche sollevando l’anima (conforto empatico e capacità terapeutica nel risvegliare una fede posta in ombra dalla sofferenza), essere solidali con chi versa in stato di difficoltà sia fisica che spirituale è, ed è sempre stato, il carisma primario richiesto dalla Chiesa, come loro disposizione e preoccupazione, ai suoi Pastori. Il Vescovo con la sua sollecitudine ispirata dalla solidarietà cristiana, raggiunge nella sua mission, quotidianamente cercando di colmarlo, il vuoto nel sociale, perché sempre particolarmente e paternamente attento alle problematiche socio-sanitarie che sono espressione delle fasce più deboli e meno protette. È compito pastorale, ma anche predisposizione evangelica del Vescovo e non solo della Pastorale Sanitaria, visitare gli anziani soli e indigenti, i tossico dipendenti, gli affetti da AIDS, i senzatetto, i migrantes e i nuovi poveri e tutte quelle categorie che appartengono a quella parte dell’umanità non accolta, negletta, indesiderata e respinta. In un mondo che tende a dimenticare i valori cristiani dell’amore verso il prossimo, e quindi La sofferenza apre il cuore al cuore. insopportabile, il Vescovo, simbolo significativo e superlativo della accoglienza di Cristo, é colui che prende su di se i dolori dei fratelli e con empatia incoraggia qualsiasi iniziativa capace di portare sollievo e tentare di risolvere i tanti problemi, a volte drammatici, che assillano tanta parte della umanità, anche considerato l’allungamento della vita media. Il Vescovo, promuove e incentiva l’avanzamento morale, materiale e sociale di quei fratelli che vivono momenti di particolare difficoltà conseguente alle loro condizioni psico-fisiche e socio-economiche, con opportuni e generosi interventi, così da 17 restituire loro serenità e integrazione partecipativa sociale. Il Vescovo è colui che da; voce a chi non la ha, allo scopo di veder ricosciuti diritti conculcati e soddisfatte aspettative legittime. Questi pensieri ora espressi ci portano ad una considerazione conclusiva: il Vescovo, quale pastore, è per sua stessa natura e vocazione volto alla visione dello Spirito e alla meditazione evangelica dell’amore verso il prossimo e quindi della solidarietà e della carità. Certo egli non può formulare opinioni che riconoscano significati e realtà tecnico-amministrative, ne improvvisarsi manager; ad altri, così specifica incombenza e professionalità, perché si realizzino oneste, sane e efficienti Istituzioni ed iniziative che, ispirandosi ai principi e agli ideali della assistenza sociale e della sussidiarietà per offrire ausilio a chi tanto ne necessita. Se per le evenienze anzidette, il Vescovo non è, ed è giusto che non sia abilitato; certo lo è per offrire tutta la sua partecipazione e la sua assistenza spirituale con convinta adesione e sincero animo per spronare al bene operare. Il Vescovo, che è testimone del Cristo risorto, è stato scelto dal Signore attraverso il Successore di Pietro il Papa. Il suo è un ministero, cioè un servizio che si rivolge a Cristo e alla Chiesa e ancora all’intera umanità, in particolare il Vescovo delegato per la Pa- Ogni letto di Ospedale è un luogo d’incontro. storale Sanitaria, che è diretto alla speciale cura delle membra sofferenti, cioè dei malati e a coloro che ad essi si dedicano. Nello svolgersi della celebrazione liturgica il rito prevede la «consacrazione» con la quale il Vescovo entra nella sequela ininterrotta dei successori degli Apostoli, fondamento su cui è costruita la Chiesa di Roma. Poi il consacrando riceverà «il libro del Vangelo» che gli sarà imposto aperto sul capo e lo farà annunciatore della Parola; al suo dito sarà infilato «l’anello episcopale» che nella pienezza del sacerdozio lo farà sposo della Chiesa, quindi la consegna del «pastorale», che assume il significato di guida e di governo del popolo che gli è stato affidatole ultima l’imposizione della «mitra» simbolo di chiamata alla santità. Ogni Vescovo allorché consacrato, può ripetere le parole che abbiamo appreso dal Vangelo di Giovanni: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,15). Ma proprio per questa opzione e in forza di questa consacrazione, il presule diventa ancor più debitore verso Dio e verso tutti gli uomini, in particolare il Vescovo della Pastorale della Salute che per il suo specifico impegno pastorale ha il compito di umanizzare e cristificare di carità i luoghi del dolore. Ora mi sia concessa la libertà di esprimere una visuale strettamente profes- La carezza del Vescovo è la carezza di Cristo. 18 sionale. Al di la dell’intervento del divino mediato dalla preghiera evocativa del Vescovo, che pur è nella costatazione nei fatti (Lourdes); a noi medici è ben noto il concetto psicosomatico della «regressione riorganizzatrice», che consentirebbe l’attivazione di un processo di guarigione per alcune patologie. Secondo P. Marty «certe manifestazioni religiose (in particolare la pratica individuale e collettiva della preghiera) favoriscono regressioni di questo tipo e quindi una migliore mentalizzazione delle eccitazioni pulsionali, con evidenti effetti terapeutici». È certo che anche su base sperimentale (USA Medical Center-Università di Pittsburg) l’incidenza della fede sui processi di guarigione è forte, tant’è che «ciascun individuo anche se agnostico o indifferente ad impostazioni eticoreligiose, è stimolato da riferimenti di tipo trascendente che ricordino una presenza superiore cui fare riferimento». Letto in chiave psicodinamica, chi più di un Vescovo, con la sua sacralità gestuale densa di richiami al soprannaturale può attivare una tale fenomenologica? La scienza, in cui crediamo, per noi medici, che siamo tutti figli putativi di Ippocrate, assume significato e valore di grande speranza per le possibilità che ci riserva la ricerca presente e futura. Ma noi medici, che siamo anche credenti nel nostro Dio personale e suoi figli nello Spirito, resta fermo l’insegnamento evangelico del Cristo medico che chiede ai sofferenti che accorrono e lo invocano, di credere. Con i suoi interventi taumaturgici, Egli ci dice che «Dio ha visitato il Suo popolo» (Lc. 7,I6) . Dott. Sergio Mancinelli Romano Guardini e le “tribolazioni umane” A d appena due anni di distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale così si esprimeva, in una conferenza Romano Guardini, scomparso nel 1968. Il testo, pubblicato due anni dopo essere stato pronunciato, è stato riproposto in lingua italiana con il titolo «Il diritto alla vita prima della nascita» nel volume Scritti politici (Brescia, Morcelliana, 2005). La vita nascente e vita sofferente o al termine, ci dice Guardini, come occasioni per ribadire ciò che rende l’uomo inviolabile e richiamare direttamente la responsabilità del medico. «Un uomo è inviolabile – scrive il teologo – non già perché vive e ha quindi diritto alla vita. Un simile diritto l’avrebbe anche l’animale, poiché anch’esso vive (...) ma la vita dell’uomo non può essere violata perché l’uomo è persona». E poco oltre continua affermando che «la persona non è un che di natura psicologica, bensì esistenziale. Non dipende fondamentalmente da età o condizioni psico-fisiche o doti naturali, bensì dall’anima spirituale che è in ogni uomo». Di fronte a ciò il medico è chiamato secondo Guardini a farsi difensore in ogni caso della dignità intrinseca di ogni essere umano dal concepimento fino alla morte e, quasi come l’educatore che «rappresenta il senso della gioventù di fronte alle pretese autoritarie della società», il medico «rappresenta il diritto dell’uomo malato di fronte alla brutalità dei sani (...) e il diritto dell’uomo in divenire di fronte all’egoi- 19 già allora spesso versava l’agire medico. «Il singolo diviene irrilevante, il trattamento si fa schematico, le prescrizioni divengono burocratiche (...) e poi la tendenza a considerare ogni sistema come autoreferenziale e a dimenticare che esso esiste in funzione dei malati, solo per loro». È difficile non vedere in quell’«oggi» di più di mezzo secolo fa molti risvolti della nostra attuale situazione, nella quale ancora «il malato vuol sentire che la malattia è concepita come un processo di vita e che la guarigione è un atto che aiuta a vivere e non la riparazione di un guasto in una macchina», e nella quale si riaffaccia sempre la tentazione di mettere a punto raffinati strumenti per misurare la «qualità della vita» che rischiano di oscurarne il valore intrinseco insuperabile. Quello del medico, si potrebbe concludere con Guardini, si profila come un «compito non soltanto scientifico ma anche etico», che deve manifestare la disponibilità ad assumere nella propria responsabilità la vita della persona dagli albori al tramonto. La posta in gioco è alta ed esige lo sviluppo di alcuni tratti essenziali di quella che l’autore definisce «la personalità tipica del medico: la serietà della coscienza di responsabilità con cui vuol servire il malato, l’acutezza vigile dell’attenzione, la trasparenza della dedizione personale, la forza di concentrazione. E insieme a questi anche l’impegno dell’autoformazione». «Un medico – afferma Guardini – non può vivere a suo piacere». Solo così si può imparare a conservare «nelle tribolazioni la visione della vita nella sua totalità, il sentimento di ciò che è essenziale e il senso delle distinzioni assolute» venerando «incontro alle tribolazioni umane». smo degli adulti». «Qui occorre – continua – quell’incorruttibilità, che riposa su una chiara visione dell’essenza dell’uomo», lontana da ogni utilitarismo e da ogni pretesa di possesso sugli altri che, «specialmente quando si effettua sotto l’egida della legge, prepara lo Stato totalitario». A questo proposito ancora più incisive risultano le parole di Guardini se lette nella cornice storica nella quale furono pronunciate: solo pochi anni prima in Germania si era visto il lato pratico dello «spaventoso concetto di una vita priva di valore vitale: prime vittime furono i malati mentali e gli idioti, sarebbero seguiti gli incurabili – e, infatti, molti di essi vennero uccisi – e i vecchi e gli inabili al lavoro avrebbero chiuso la serie». Paradossalmente la società pare oscillare sempre sul baratro della tentazione di sbarazzarsi dei più deboli, degli «inutili», non accorgendosi che così rischia di eliminare se stessa: «Senza il contrappeso del carattere di persona proprio di ogni uomo e della sua intangibilità – afferma Guardini – le strutture del potere sono destinate alla rovina di per se stesse; se rettamente intesi, gli ammalati, i minorati, gli sprovveduti sono i difensori dei sani e li custodiscono dall’hybris e dalla crudeltà, possibilità sempre presenti nella condizione di chi è sano e forte». Di fronte alla denuncia della profonda crisi nella quale «la figura e l’attività del medico sembrano oggi trovarsi» – crisi della quale, con straordinaria preveggenza, Guardini vede un sintomo nel «fatto che da diverso tempo la figura e la vita del medico sono diventati un soggetto del romanzo e della cinematografia» – l’autore individua nella «concezione fondamentale dell’uomo in senso meccanicistico» una delle cause principali dello smarrimento in cui F.C. 20 Per una rilettura della “Salvifici Doloris” a 25 anni dalla pubblicazione DECISIVA DIO E IL MALE: DUE «DIVERSI» MISTERI ESPERIENZA UMANA Sia la protesta come l’esigenza di risposta davanti al dramma-tragedia della sofferenza umana manifestano – secondo la Salvifici doloris – la «profondità che è propria dell’uomo» (nn. 2.3.29). Per queste la parabola del Buon Samaritano, che essa ci propone come icona emblematica, «esprime una verità profondamente cristiana, ma insieme quanto mai universalmente umana» (n. 29). «Buon Samaritano è ogni uomo che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, qualunque esso sia» (n. 28). In questo senso risultano significative alcune indicazioni, emergenti fin dall’epoca neolitica, sull’uomo che diventa più uomo nella misura che scopre e accoglie il suo prossimo sofferente (cf X.Le Pichon, Alle radici dell’uomo. Dalla morte all’amore, Padova 2002). Il nostro primo atteggiamento di homo patiens è quello di resistere e lottare contro il male e la sofferenza. Tuttavia dobbiamo prendere atto che, anche se possiamo limitare questa dura realtà, non siamo in grado di eliminarla (cf Spe salvi, n. 37). Sorge quindi dalla profondità dell’essere umano l’interrogativo religioso: la domanda sulla sua salvezza piena e definitiva, sulla liberazione radicale dal male fisico e morale attraverso la comunione con Dio che ci dona se stesso, la «vita eterna» (nn.14.15; cf Spe Salvi, nn.10; 12). Davanti all’uomo ci sono due misteri, due realtà che non possiamo comprendere fino in fondo. C’è il mistero – ovvero la incomprensibilità – del male e della sua esperienza, che è la sofferenza. La sua caratteristica è l’eccesso, la smisuratezza di una forza negativa che, con la sua violenza, grava sulla limitatezza di tutte le creature anche innocenti (nn.10-13; cf Deus caritas est, n. 38). C’è il Mistero di Dio: il suo Essere incomprensibile, in quanto pienezza costitutiva inesauribile di positività, infinita sovrabbondanza «trinitaria» di Amore, che «trabocca» gratuitamente e liberamente nella creazione. La Salvifici doloris riconosce esplicitamente che la universale esperienza del male e della sofferenza «rimane sempre un mistero» per ogni uomo, credente o no, poichè «siamo consapevoli dell’insufficienza e inadeguatezza delle nostre spiegazioni» (n. 13;2). Questa incomprensibilità si dissolverà solo alla fine, nella piena luce dell’incontro «faccia a faccia» con Dio (1 Cor 13,12): nel riposo del «Sabato» definitivo (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 314). Ma fino ad allora nel nostro cammino terreno, in «stato di via», essa non viene abolita ma solo illuminata dalla fede nel Mistero di Dio, rivelato in Cristo e comunicato nel dono dello Spirito. La kenosis (Fil 2,7) di Dio, il suo effondersi e donarsi a noi in Cristo e nello Spirito, ci rivela che l’Assoluto divino è Pienezza trinitaria 21 La Croce illumina la sofferenza. aiuto a chi soffre (n. 30); anche di coloro che «pur senza la fede in Cristo» testimoniano la verità, la giustizia, l’amore. In sintesi, Egli vive e cresce in tutti coloro in cui si va attuando la parabola umana e cristiana del Buon Samaritano e si vanno compiendo le «sconvolgenti» parole di Gesù nel giudizio finale (n. 30). LA SOFFERENZA NON VIENE DA DIO. EGLI «COM-PATISCE» Il Mistero (positivo) di Dio, rivelato in Cristo come Amore, ci vieta nel modo più assoluto di interpretare il mistero (negativo) della sofferenza come castigo o prova inflitte da Dio. «Non è vero che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa o abbia carattere di punizione» (n.11). C’è infatti la sofferenza innocente, come insegna senza ombra di dubbio il libro di Giobbe (nn.10-12). E, anche «se alla base delle umane sofferenze vi è un multiforme coinvolgimento nel peccato» (n.15; cf n.26), va decisamente superato il pregiudizio (teologicamente «sadico») che la sofferenza umana e cosmica sia castigo o prova che viene da Dio. Il rispetto per il mistero del male e delle, sofferenza, che colpisce tutte le creature – anche oltre misura – ci impedisce di «razionalizzare» tale mistero con la pretesa di spiegarlo in modo adeguato (cf n.13). Non ci sembra giusto fare ricorso ad una indebita utilizzazione di alcuni testi biblici o ecclesiali, riguardanti – per esempio – il peccato originale e il demonio, ai quali peraltro la Salvifici doloris fa riferimento con esemplare sobrietà interpretativa (nn. l5. 26). Sono testi in cui le «immagini» vanno interpretate «parlando (amichevolmente) al cuore di Gerusalemme» (cf Is 40,2), senza oscurare il primato assoluto di Dio «più grande del di «umile» Amore che suscita condivisione e comunione. È questo un tema teologico-esistenziale su cui troviamo oggi un’ampia e profonda convergenza ecumenica (cf. Piero Coda, Il Logos e il Nulla. Trinità religioni mistica, Roma 2003). GUARDANDO VERSO IL CRISTO Al centro della Salvifici doloris c’è il messaggio sul «valore salvifico», ovvero sul «senso cristiano», della sofferenza. C’è la «sofferenza vinta dall’amore» in Gesù Cristo (nn.14-18). Uniti a Cristo ci sono tutti gli uomini in quanto «partecipi delle sofferenze di Cristo» (nn. l9-24). Gesù Cristo è il «massimo» della protesta umana davanti alla sofferenza ed insieme il «massimo» della concreta risposta di Dio (n.18). Nella sua morte e risurrezione si esprime fino all’estremo la «forza» attiva dell’amore, dono dello Spirito di Amore che salva attraverso la «debolezza» (n. 23). La nostra sofferenza, vinta e trasformata dal di dentro mediante l’amore, ci fa partecipare al mistero pasquale di Cristo, «completando» in noi la crescita del suo Corpo (nn. 25-30). Cristo è presente sia nel «bisogno» di colui che soffre e riceve aiuto, come nell’«amore» di chi dona 22 Cattolica, introducendo il discorso sulla Provvidenza di Dio e il male (nn. 302.1045-1047). Alla base di tutta la problematica del male, fisico e morale, c’è la condizione di non compiutezza, di «non maturità» ontologica e storica della creazione, che è ancora in «stato di via», ovvero in stato di «genesi». Come affermava S. Ireneo – il fondatore della teologia cristiana (tra, il II e III secolo) – la esistenza di Adamo e di ogni uomo è essenzialmente un cammino di maturazione. Noi diremmo: un cammino di «gestazione» che coinvolge misteriosamente la creatura e il Creatore, il quale ci genera, ci partorisce come suoi figli nel Figlio effondendo lo Spirito. Noi siamo soggetti alla sofferenza perchè siamo ancora infantes – come dice S. Ireneo – cioè siamo «immaturi», non pienamente generati. Per questo Dio manifesta la sua perfezione di Amore «facendosi infante con l’uomo a causa dell’infanzia dell’uomo» (coinfantiatum est homini ...propter hominis infantiam) (Adversus Haereses 1V, 38, 2). A nostro avviso, per cogliere fino in fondo il senso cristiano della sofferenza è importante aprirci a questa visione di Dio, della creazione e della Incarnazione. Dinnanzi alla nostra fragilità creaturale e alle sue implicazioni tragiche Dio non rimane indifferente, insensibile: trascendente e immutabile in modo apatico. Egli si fa realmente compassibilis. Viene a vincere il male non evitandolo e facendolo evitare a noi con la sua onnipotenza (come noi la immaginiamo): ma condivide solo liberamente per amore e suscitando in noi fraterna condivisione salvifica. Poiché la vera onnipotenza di Dio è la vittoriosa onnipotente debolezza di un umile Amore infinito. nostro cuore», rivelato in Gesù Cristo (cf 1 Gv 3,20; Rn 8,31-35). Il principio-chiave di ogni autentica ermeneutica cristiana – stabilito alla luce delle indicazioni del Vaticano I (cf Dei Filius IV, DS 3016) e del Vaticano II (cf Unitatis redintegratio, 11) – va collocato nel mistero di Cristo, che troviamo al centro della Salvifici doloris. Mistero cristologico che ha la sua radice ultima nello stesso mistero trinitario. Il fine ultimo della Incarnazione salvifica del Verbo di Dio è infatti la nostra partecipazione creativo-salvifica all’Amore trinitario che «trabocca in noi» (cf nn. 5,5). Il Verbo non è venuto a placare l’ira e la giustizia di Dio che ci infliggono castighi o prove. «Egli si è fatto uomo per poter compatire con l’uomo, in modo molto reale, in carne e sangue» (Spe salvi, n. 39, citando San Bernardo). La «compassione» di Cristo Buon Samaritano, di cui parla la Salvifici doloris, è in radice lo stesso Spirito trinitario di condivisione e comunione, che anima nel profondo la vita intima di Dio, e che ci viene donato trasformando la nostra sofferenza con la forza dell’amore: «completando» e facendo crescere il Corpo di Cristo (nn. l. 24.27; Col 1,24). LA SOFFERENZA: LE «DOGLIE DEL PARTO» Per cogliere il valore salvifico della sofferenza nel suo senso positivo e costruttivo va posta in primo piano la visione della vita cristiana come cammino di maturazione verso la piena nascita a figli di Dio. Al culmine della Salvifici doloris potremmo mettere il celebre testo di Paolo, al quale essa allude al suo inizio (n. 2): «Tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto...» (Rn 8, 18-27). In questa direzione infatti ci invita a guardare il Catechismo della Chiesa Don Carmelo Nigro 23 U Quando guarire dal cancro è rinascere nello spirito n mondo quello della sofferenza, variegato a tinte forti, dove gli ammalati di cancro divengono, loro malgrado, i protagonisti, perché anche se supportati, accolti e compresi, devono aiutarsi a guarire. Il calvario della malattia è caratterizzato da sofferenze fisiche e psichiche; una vera e propria via crucis tra viaggi della speranza, ospedali e cure mediche. Ascoltare l’ammalato, che ha combattuto e sconfitto il cancro, significa porsi all’ascolto di un dolore elaborato, di una storia di vita tenace e coraggiosa, vissuta con la forza di lottare per vivere e di farlo con uno sguardo positivo. Il malato legge il suo dolore; gli permette di attraversare il ponte della nostra umana diffidenza; è questo che lo rende più ricco nella sua umanità e più forte. Ci si chiede come sia possibile reagire in modo positivo a un’esperienza così difficile, ma che può anche rappresentare un momento di crescita umana e spirituale per tutti coloro che ne sono toccati. «Dopo una normale visita di controllo e una biopsia la diagnosi è stata poco felice: cancro al seno. Ho dovuto fermarmi. In un istante tutto si è capovolto. Quel male di cui spesso si parla, e da cui mai avrei pensato di essere colpita, era invece diventato il fulcro della mia esistenza». Dice Gemma, iniziando a parlare del- la sua esperienza di sofferenza e recupero dopo questo evento doloroso e traumatizzante nella vita di una donna. A seguito del quale Gemma, decise di ricoverarsi presso il reparto di Oncologia del Policlinico Agostino Gemelli di Roma, per sottoporsi ad un lungo, ma risolutivo iter terapeutico. La condizione di Gemma, dal momento del ricovero, comportava inevitabilmente la perdita di ogni certezza sul suo futuro; e le imponeva una seria riflessione sulle sue risorse interiori cui avrebbe dovuto attingere, per fronteggiare questa emergenza. Quella violenta scossa emotiva la faceva precipitare vertiginosamente negli abissi del proprio io, dove ricercare faticosamente la propria vera essenza. Dove il senso del limite e dell’ineluttabile portano ad un rapporto di assoluta autenticità con la vita, aprendo uno spazio di riflessione sul senso del vivere, del soffrire e del morire; riconducibile ad un disegno divino dalla logica incomprensibile all’uomo. «Per superare il dramma è stato fondamentale il supporto della mia famiglia. Mi sono sempre confidata con mio marito, in lui ho trovato tanto amore, sostegno morale, fisico e psicologico. Abbiamo condiviso ogni paura, ogni ansia, in modo che io fossi consapevole di quello che stavo vivendo. A volte comunicavamo guardandoci negli occhi, leggen24 ce; non si sentiva sola nella sua sofferenza. Quella croce portata dal Cristo e patita da Lui a cui Gemma, sofferente, si univa. La luce della sua fede rischiarava quei momenti bui; elevava il suo spirito dando senso alla sofferenza; senza eliminarle il dolore. La fede le faceva accettare il suo dolore; consapevole che nella malattia Dio incontra l’uomo; si china su di lui e si prende cura di lui. Ignara del suo destino; Gemma pregando quotidianamente, dialogava intimamente con il Signore. Fiduciosa nell’amore del Signore, si affidava completamente a Lui; creando un legame inscindibile fonte di amore e di pace; che rende l’uomo «riserva d’amore». Un soffio di eternità insieme ad uno stato di grazia, che la spingeva ad andare oltre: questo era l’amore di Cristo trasfuso in Gemma attraverso la preghiera. Che cosa ha significato per lei superare i pregiudizi nei confronti della malattia? Accettare la malattia, accettare gli effetti delle cure, accettare la mia condizione come un aspetto della vita. Non come passiva rassegnazione, ma al contrario come accettazione cosciente e intelligente. È la prima mossa per il dominio di se stessi e delle proprie paure. Come ha influito nel decorso clinico il contesto umano e professionale del reparto di Oncologia? Oltre ai farmaci e alle terapie, quanto mai provvidenziali, ciò che ha particolarmente contribuito al buon esito delle cure, è stata la professionalità e l’umanità dell’équipe del reparto di Oncologia; dove i medici e gli infermieri si prendono cura degli ammalati in un modo speciale. Quando gli ammalati si sottopongo- do l’espressione dei nostri volti. I silenzi, le manifestazioni d’affetto valevano e valgono più della relazione verbale; abbiamo così rafforzato ancora di più quel legame che ci univa», prosegue Gemma. Aldilà del necessario supporto affettivo familiare che incute sicurezza e serenità, sono comunque la personalità e le risorse psicologiche e spirituali del malato che, messe a dura prova, giocano un ruolo cruciale nel superamento di questa prima difficile fase. Il malato da protagonista, deve cominciare sin da quel momento ad adottare una «strategia di cambiamento»; coltivando dentro se stesso la consapevolezza di dover far crescere la volontà di vivere; prendere in mano il proprio destino e osare con uno spirito nuovo. Con quale spirito bisognerebbe affrontare la malattia? Con uno spirito, fiducioso e combattivo. Come un percorso verso la guarigione. Come ha fatto a vincere l’angoscia la solitudine e il dolore? Ho pregato ogni giorno, fissando lo sguardo del Cristo sulla croce. Nella mente di Gemma si era consolidata l’idea, che la sua, era una prova. Confortata dal Cristo che si è fatto cro- La fede rischiara i momenti bui della sofferenza. 25 no alle terapie; sono abbastanza se- Che cosa si sentirebbe di dire agli amreni e si sentono davvero curati. malati di cancro? Il valore della centralità del malato, se- Bisogna cercare di vivere, combattecondo una visione antropologica cri- re e sperare, senza arrendersi. La ristiana, pone attenzione al malato in cerca ha fatto grandi passi avanti. quanto persona; nella sua unità psico-fi- Dal cancro si può guarire. Più del sica; nella sua sofferenza nel corpo e 50% degli ammalati si salva. Non binell’anima: creando le condizioni psi- sogna mollare perché anche un giorcologiche perché si instauri un’alleanza no in più, è un giorno di vita e va visterapeutica tra medico e paziente, fina- suto con la massima dignità. lizzata al recupero completo del pazien- Oggi Gemma è guarita. Ha un sorriso te stesso. luminoso e una vitalità contagiosa. Ha Qual’è stato il momento più complesso ripreso la sua attività professionale di del suo iter terapeutico? Insegnante. Appare intraprendente e Il ciclo di Chemioterapia. Mio marito orientata al futuro. Guardandola, nasce e le mie due figlie accusavano un cedi- spontanea la domanda: mento psicologiCome ha cambiaco dovuto anche to la sua vita queal forte coinvolsta esperienza? gimento affettivo È stata un’occaed emotivo. Ho sione per scopridovuto trovare le re quella mediciparole giuste per na ancor più efrenderli partecificace chiamata pi senza però alAmore, che non larmarli; ho parè semplicemente lato loro cercanun sentimento, do di controllare ma è qualcosa di le mie emozioni; La malattia un’occasione per scoprire l’amore. più profondo: non è stato seml’amore di Dio è plice. Ho cercato di infondere loro fi- più grande e più forte della morte. ducia. Ho dovuto trovare la forza di Ho conquistato un nuovo equilibrio. convincere mio marito e le mie.figlie, Ho steso una nuova gerarchia di vaprima di me stessa. Solo l’amore che lori; ho imparato a godere di ogni atprovavo mi ha dato tanta forza. Ho timo bello che mi offre la vita. Da alaffrontato la chemioterapia con forza lora i momenti belli sono molti di più e determinazione; anche se i risvolti di quanto siano stati prima. Il rapfisici e psicologici non sono mancati. porto con i miei affetti è più maturo, Le parole di Gemma rivelavano il suo più consapevole e più felice. intimo desiderio di volersi e di doversi La testimonianza umana e spirituale di riappropriare pienamente del suo ruolo Gemma oltre ad offrire un valido di moglie e di madre. Quell’amore e spunto di riflessione sul senso dell’esquella forza vitale che aveva dentro, sere nella sofferenza, apre uno spiracostituivano l’appiglio invisibile a cui glio di speranza: «Il miracolo della aggrapparsi, che la induceva a voler ri- vita in Cristo». Una vita trasformata e costruire una vita apparentemente in- rinnovata. terrotta. Angela G. Colicchio 26 E riore. Cerchiamo di guardare dentro le persone e i fatti. I comportamenti ci fanno risalire agli atteggiamenti interiori, ai sentimenti profondi del cuore. Scene di un cammino: La scena che stiamo guardando va vissuta come un particolare momento, una tappa con le sue luci e ombre di un duplice cammino. Quello del cuore umano verso Dio, anche inconsapevolmente: con una infinita sete di amore e la esperienza della propria fragilità. E quello del cuore di Dio verso l’uomo: di Dio che, per primo ci ama, ci cerca e si vuole incontrare con noi. Il centro del duplice cammino: Il duplice cammino ha come punto di incontro e centro la persona e il «lieto messaggio» («evangelo») di Gesù Cristo. In lui Dio Amore «più grande del cco alcuni cenni alquanto schematici su un modo di interpretare, meditare e vivere la Parola di Dio, che non sia disumanizzato da una eccessiva attenzione all’aspetto erudito dei testi biblici. È un metodo che può aiutare a scoprire meglio la contemporaneità interiore, spirituale, esistenziale della Parola di Dio intesa come «parabola» «simbolo» della nostra vita. È una via meditativa e interpretativa in certo modo accessibile a tutti, ma non superficiale. Peraltro può essere approfondita anche a livello teologico, seguendo le indicazioni del documento «L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa» della Pontificia Commissione Biblica del 1993 (al n.3: «approcci attraverso le scienze umane»). Approfondimento ampia- La Parola di Dio che risuona dentro di noi Alla luce dell’iniziativa diocesana della Lectio Divina nostro cuore» (1 Gv 3, 20) si è rivelato facendosi «carne», morendo e risorgendo per farci dono dello Spirito di Amore. La umanità di Cristo è in tutto come la nostra, eccetto il peccato. Dentro il nostro cuore: Per cogliere il significato della pagina o «scena» biblica per la nostra vita e per quella di ogni uomo guardiamo con attenzione in profondità dentro di noi immedesimiamoci nella scena. Guardiamo ai sentimenti che sperimentiamo nel cammino verso il traguardo ultimo dei nostri desideri, superando le nostre paure. Sono sentimenti simili a quelli di ogni uomo, anche se espressi in forme assai diverse. E ci accorgiamo che sono simili a quelli che esprimono, a loro modo, le persone delle scena biblica. «Tenendo fisso lo sguardo su Gesù»: (Eb 12,2): Mentre guardiamo dentro di noi, rivolgiamo lo sguardo verso Gesù mente presente, pur in modo talvolta discutibile, nel teologo Eugen Drewermann (Psicologia del profondo e esegesi, vv.1-2, Queriniana, Brescia 1996). Alcune indicazioni orientative In preghiera: Accostiamoci alla Parola di Dio, diventando veri e trasparenti, nel raccoglimento silenzioso davanti a Dio. Dio che ha parlato nel passato desidera parlare con noi oggi: dall’interno del nostro cuore, condividendo con noi la nostra storia. Una «scena» da guardare: Guardiamo con attenzione la pagina biblica che abbiamo davanti, che stiamo leggendo e meditando. I fatti e i discorsi sono come rappresentati in una scena, in un quadro di vita vissuta. Ci sono persone come noi: che vivono, parlano, agiscono mossi da vari sentimenti. Non fermiamoci all’aspetto superficiale ed este27 13,12). Al centro di tutta la storia della salvezza c’è la radicale, definitiva rivelazione di Dio come Amore in Cristo «Parola di Dio fatta carne» (Gv 1,14). Ed è alla luce di questo centro «rivelato» – e del «nostro» desiderio di amore infinito – che vanno rischiarate le immagini delle parole bibliche: rivedendo e interpretando ciò che esse attribuiscono a Dio. Niente deve oscurare e soprattutto contraddire il primato assoluto di Dio-Amore in Gesù Cristo (cf Rm 8, 31-39). Quando meditiamo la Parola di Dio noi incontriamo i limiti, i condizionamenti che umanamente la caratterizzano, «le cose imperfette e temporanee» contenute nei libri biblici (cf Dei Verbum 15: sull’Antico Testamento). Ma è proprio la nostra meditazione, sotto la guida dello Spirito, che ci fa crescere nella comprensione della inesauribile ricchezza di Cristo, Parola incarnata di Dio che illumina ogni altra parola della Scrittura. Risonanza interiore e verità «sinfonica»: La nostra personale «risonanza» interiore dinnanzi alla Parola di Dio è come una «nota» o «tonalità» originale e insostituibile, che viene completata e arricchita dalla risonanza interiore degli altri fratelli. L’accordo delle diverse note e tonalità è la Verità «sinfonica» (direbbe von Balthasar) della comunione ecclesiale e della universale storia della salvezza. E la sinfonia della universale «ricapitolazione» in Cristo, realizzata dallo Spirito di Amore, che «procede» dal Padre, dal Figlio e dai figli «nel Figlio». Don Carmelo Nigro Cristo. In lui ci viene rivelato pienamente chi è Dio e chi siamo noi. «Dio è Amore» (1 Gv 4, 8-16): noi «desiderio» di lui. E il nostro cuore è inquieto finché non riposa nel Padre che ci dona lo Spirito che, unendoci a Cristo, ci rende suoi figli e fratelli tra noi. Specchio e «parabola» della nostra vita: Meditando la scena biblica che abbiamo davanti, ci rendiamo conto che essa è come specchio, immagine, parabola, simbolo della nostra vita e di quella di ogni uomo. La Parabola di Dio ci illumina per capire la nostra vita, la storia della nostra anima. La nostra storia vista dal di dentro, a sua volta, ci introduce alla comprensione della Parola di Dio. Una storia che continua: L’incontro tra Dio e l’uomo, avvenuto nel passato e rappresentato – in un particolare momento nella scena biblica –, continua oggi nella nostra storia. È spiritualmente contemporaneo a noi. Il cuore dell’uomo, di ogni tempo e luogo, è il «dove» più vero del nostro incontro con Dio che avviene nella storia, in quella di ogni giorno. I fatti esteriori di questa storia quotidiana possono essere diversi da quelli descritti nel racconto biblico: senza aspetti straordinari e miracolistici. L’incontro con Dio non li cambia direttamente dall’esterno, ma può trasformarli dall’interno, realizzando giorno dopo giorno il «miracolo» della carità, probabilmente senza clamore come il «crescere in sapienza, età e grazia» di Gesù nei 30 anni di Nazaret (Lc 12, 40.52). È, in fondo, la carità supercarisma celebrato da Paolo in 1 Cor 13. Il limite della Parola di Dio: Nelle parole della Bibbia noi non vediamo Dio «faccia a faccia» ma «in modo confuso come in uno specchio» (1 Cor Cappellano Ospedale S. Lucia 28 l’attesa del miracolo, però, l’esperienza della sofferenza attraverso il sacramento diventa esperienza di comunione con il Signore, nella sofferenza che egli ha affrontato per la nostra salvezza. Il dolore dell’uomo suscita anche nel credente interrogativi che restano senza risposta. Ma nella comunione con Cristo il dolore non resta privo di senso: è l’abbandono di sé nell’amore di Dio che lo rende vivibile. Di questa grazia il sacramento dell’Unzione è il segno e lo strumento. Quali sono gli effetti del Sacramento dell’Unzione degli infermi? Esso conferisce un grazia particolare, che unisce più intimamente il malato alla passione di Cristo, per il suo bene e per quello di tutta la Chiesa, donandogli conforto, pace, coraggio, e anche il perdono dei peccati, se il malato non ha potuto confessarsi. Questo sacramento consente talvolta, se Dio lo vuole, anche il recupero della salute fisica. In ogni caso, questa Unzione prepara il malato al passaggio nella casa del Padre. Il sacramento dell’Unzione dei malati non deve essere celebrato solo in vista della morte: il suo contenuto è anche la grazia di vivere la malattia sotto il segno della speranza, quella speranza in Dio che va oltre la morte. Anche della speranza di guarire, quindi, perché Dio fa anche miracoli e Gesù ci ha sempre esortato a domandare qualsiasi cosa al Padre, con filiale confidenza. Al di là del- Che cos’è il viatico? È l’Eucaristia ricevuta da coloro che stanno per lasciare la vita terrena e si preparano al passaggio alla vita eterna. Ricevuta al momento del passaggio da questo mondo al Padre, la Comunione al corpo e al sangue di Cristo morto e risorto è seme di vita eterna e potenza di risurrezione. Cronaca nera nel deserto, così l'altro ci chiama te le tue forze» e «Amerai il prossimo come te stesso». Il dialogo ha, però, una svolta nell'ulteriore replica dello scriba: «Chi è mai il mio prossimo?». Gesù ricorre a una parabola (Luca 10, 25-37) che alla fine ha un interrogativo rilanciato allo scriba: «Chi ha agito come prossimo?». Il ribaltamento è evidente: invece di interessarsi «oggettivamente» alla definizione del prossimo, Gesù invita a comportarsi «soggettivamente» da prossimo nei confronti di chi è nella necessità. Un viandante sta percorrendo quella strada che si snoda tra i monti del deserto di Giuda. All'improvviso, si ha un assalto di briganti che D avanti a Gesù si presenta un dottore della legge che gli pone un quesito: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gli impegni dell'ebreo osservante erano stati codificati dalla tradizione rabbinica in 613 precetti estratti dalla Bibbia, 365 negativi (quanti sono i giorni dell'anno) e 248 positivi, tanti quante erano le ossa del corpo umano secondo l'antica fisiologia. Gesù risponde citando due passi biblici, entrambi legati all'«amare»: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tut- 29 le spese successive con due denari. Il suo è un amore personale, sottolineato nell'originale dalla ripetizione del pronome greco autós: «passò vicino a lui, gli fasciò le ferite, lo caricò sul suo giumento, lo condusse alla locanda e si prese cura di lui... Prenditi cura di lui!». Il sacerdote e il levita incarnano la rigida sacralità che separa dal prossimo; il samaritano rappresenta la vera santità che si unisce al dolore per salvarlo. L'impatto che doveva avere la parabola sull'uditorio di Gesù è ben reso da un esegeta moderno: «Immagina tu, bianco razzista e magari affiliato al Ku Klux Klan, tu che fai chiasso se in un locale entra un negro e non perdi l'occasione per manifestare il tuo disprezzo e la tua avversione, immagina di trovarti coinvolto in un incidente stradale su una via poco frequentata e di star lì a morire dissanguato, mentre qualche rara auto con un bianco alla guida passa e non si ferma. Immagina che ad un certo punto si trovi a passare un medico di colore e si fermi per soccorrerti...». Certo è che nella parabola appare in tutto il suo splendore il messaggio cristiano dell'amore. Lo scrittore Luigi Santucci nel suo racconto Samaritano apocrifo ha ricordato la presenza del personaggio evangelico sui vestiboli dei lazzaretti e dei luoghi pii, mentre il musicista Benjamin Britten ne ha riproposto la figura nell'intensa Cantata misericordium op. 69, composta nel 1963 per il centenario della Croce Rossa. Ma il Buon Samaritano va oltre ogni filantropia, celebrando un amore assoluto e religioso, intrecciato con quello di Dio e per Dio. Nell'apocrifo Vangelo di Tommaso Gesù ripete: «Ama il tuo fratello come l'anima tua. Proteggilo come la pupilla dei tuoi occhi. Amalo come Dio ti ama e vuole essere amato». Mons. Gianfranco Ravasi «lo spogliano, lo coprono di percosse e se ne fuggono lasciandolo mezzo morto». Ancora nel 1931 il Vescovo anglicano di Gerusalemme era stato ucciso da un gruppo di predoni proprio mentre stava recandosi su questa strada da Gerusalemme a Gerico e non è da escludere che Gesù abbia preso spunto da un fatto contemporaneo di cronaca nera. Un corpo insanguinato, il silenzio del deserto, l'attesa di un passaggio. Ecco, finalmente, da lontano un sacerdote... Ma subito la delusione: «Passò oltre dall'altra parte» della strada. Ecco un altro passaggio, un levita. Di nuovo la delusione: anch'egli «Passò oltre dall'altra parte». Ecco, però, un terzo viandante, un «eretico» samaritano appartenente a una comunità che nella Bibbia è chiamata «lo stupido popolo che abita in Sichem», anzi, «neppure un popolo» (Siracide 50,25-26). Eppure è solo lui che si accosta e si piega sull'ebreo ferito, suo nemico religioso e politico, per aiutarlo. Gesù non si perde nei particolari per i primi due, cercando spiegazioni per il loro atto di omissione, motivato forse da ragioni rituali (il sangue e la morte rendevano impuri chi vi entrasse in contatto) È curioso notare che nel Talmud si affronta il caso inverso di un ebreo che trova per strada un samaritano e un pagano feriti: naturalmente non è tenuto a prestare soccorso (Abodah Zara' 26). Gesù si ferma, invece, sulla figura-modello del samaritano; egli si fa ed è prossimo del sofferente senza interrogarsi su chi è questo prossimo da aiutare. «Si fa vicino», le sue viscere si commuovono, il suo amore è operoso: fascia le ferite, vi versa vino e olio secondo i metodi del pronto soccorso antico, carica la vittima sulla sua cavalcatura, la depone solo quando giunge al caravanserraglio che funge anche da albergo, per due volte si ripete il verbo «prende cura», contribuisce anche al30 Il discorso del patriarca di Venezia per la festa del Santissimo Redentore IL Dolore Umano E IL SILENZIO DELL’ABBANDONO F ar memoria, dopo più di quattro secoli, dei benefici ricevuti dai nostri padri, liberati dalla peste che aveva colpito la nostra città verso la fine dell’estate del 1576, è più che mai ragionevole. Ha lo spessore del bisogno di liberazione particolarmente sentito, quest’anno, dal nostro popolo. In questi ultimi mesi, infatti, siamo stati ripetutamente e duramente colpiti da eventi che ci hanno costretto a guardare in faccia la realtà del dolore e della sofferenza. La loro presa feroce ha provocato profondi strappi nella spessa coltre di distrazione e di evasione con cui sovente attutiamo l’urto della realtà: dalla vicenda di Eluana Englaro, al violento terremoto negli Abruzzi, alla recente sciagura di Viareggio. Per non parlare delle conseguenze, a livello planetario, della crisi economica, del tremendo carico di sofferenze e di morte causato da guerre, terrorismo e repressione, dalle contraddizioni legate ai processi migratori, dalle calamità spesso connesse col degrado ecologico... Ma nessuno di questi mali morde la carne come quelli in cui ci imbattiamo direttamente, quando il dolore e la sofferenza ci sorprendono nella malattia e nella morte dei nostri cari e ancor più di noi stessi. Personalmente sono stato provocato a mettere a tema del Discorso del Redentore il dolore e la sofferenza durante la Visita Pastorale, incontrando nelle loro case alcuni ammalati gravi o gravissimi. La questione si è fatta per me più urgente, direi indilazionabile, a partire dai volti, dagli sguardi e dalle pa31 role, poche ma radicali, che mi sono state rivolte da loro e dai loro cari. (...) Vogliamo qui limitarci a riflettere un poco sull’immenso travaglio di dolore e di sofferenza che l’umanità nel suo insieme, ma sempre nella carne dei singoli, deve sopportare. Se – come diceva Agostino – ogni uomo quanto tale è «una grande domanda» («magna quaestio»), al cuore della domanda-uomo sta l’interrogativo su sofferenza e sul dolore. Gli scaffali della farmacia umana Con questa colorita espressione Balthasar descrive i principali tentativi umani di affrontare l’angoscioso interrogativo del dolore e della sofferenza. Nella sua analisi prende anzitutto in esame due categorie apparentemente opposte, ma in realtà accomunate dallo stesso atteggiamento rinunciatario: il «disfattismo» e la «ribellione». Vorrei dire una parola su queste posizioni, chiarendo subito che intendo limitarmi a coglierne la radice antropologica senza esprimere giudizi sulle singole persone. Il «disfattismo» è obiettivamente alla base della tentazione del suicidio, sia esso attuato in prima persona o «assistito», come si dice a proposito di talune pratiche di eutanasia. Si tratta di una vera e propria «resa davanti ad un eccesso di sofferenza, pensando così di liberarsene» (Balthasar). Il cuore dell’uomo percepisce immediatamente l’estrema fragilità di tale posizione. Anche nel caso, talora richiamato, del suicidio di dalo), perché svelano il permanere di una marcata impotenza di fronte alla violenza di certi mali. Rispuntano insicurezza, paura e angoscia. (...) certi stoici, esso resta, come diceva Wittgenstein, «il peccato per eccellenza». Nel suicidio, quando è compiuto in libertà e con premeditazione non si offre la vita. La si sottrae a se stessi. Inoltre una simile soluzione è viziata da un esasperato individualismo che non mette in conto la sofferenza arrecata ad altri. La seconda posizione, la «ribellione», è autocontraddittoria. Per finire non identifica nessuna persona contro cui ribellarsi. Anche se di volta in volta può chiamare in causa Dio, l’umanità o il male radicale, in realtà si riduce ad una rivolta per la rivolta, estrema quanto velleitaria sfida contro il dolore, nell’illusione di farlo tacere. Altra è la posizione di chi non si ferma sul soggetto che soffre, ma si impegna per una riduzione progressiva del dolore nell’orizzonte di un più generale progetto di miglioramento del mondo: un nuovo umanesimo in grado di riconciliare l’uomo con la natura (Marx), il passaggio dal nulla all’essere (Bloch), dalla bestialità alla vera umanità (Teilhard de Chardin). Un caso particolare è quello di Nietzsche per il quale il dolore esalta la «natura bellicosa dell’uomo» preparando il superuomo. Ma la battaglia contro il male, così concepita, quanta sofferenza del singolo richiede? Oggi però prende sempre più peso un atteggiamento molto pragmatico che intende aggredire frontalmente il dolore e la sofferenza nel tentativo di eliminarli. Nasce dal potere scientifico e tecnologico che, soprattutto nel campo della medicina, sembra rendere l’uomo padrone della salute e della vita nella convinzione che, in un futuro neppure tanto lontano, il dolore e la sofferenza potranno essere sconfitti. In questa prospettiva tragedie come quelle dell’Aquila e di Viareggio diventano una pietra di inciampo (scan- La sofferenza radicale di Gesù (...) La Sacra Scrittura illumina aspetti importanti per la comprensione del dolore del mondo (Capitoli 2 e 3 del Libro della Genesi) senza però preoccuparsi di fornire una teoria risolutiva al riguardo. Si limita per lo più a descrivere in vario modo l’esperienza che il credente vive come una prova ultimamente permessa dalla bontà di Dio per la purificazione della propria fede. «Ringraziamo il Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava le greggi di Làbano suo zio materno». Così il Libro di Giuditta (8, 25-27). Anche il Nuovo Testamento, in modo più essenziale, sostiene che Dio fa passare dal crogiolo del dolore e della sofferenza coloro che gli stanno vicini. Così nella Prima Lettera di Pietro (I, 7), in quella agli Ebrei (12, 6) e nell’Apocalisse (13, 19). Ma all’uomo che sperimenta il male radicale (Kant), il male ingiustificabile (Nabert), il male innocente (don Gnocchi) la tesi della permissione del male da parte di Dio può bastare? Gesù Cristo non ha elaborato alcuna teoria per spiegare l’esistenza del dolore e della sofferenza nel mondo. Egli ha imparato «l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto» (Lettera agli Ebrei 5, 8-9) ha attuato un’opera di redenzione in forza della quale ogni sofferenza riceve luce. Per questo «la risposta cristiana al Mistero della sofferenza non è una spiegazione, ma una 32 presenza» (Cicely Saunders). Nell’opus Dei di Gesù Cristo, il Figlio fattosi uomo per noi, Colui che poteva non morire, morendo ha inchiodato tutto il male assumendolo direttamente su di sé. Non ha sperimentato solamente atroci sofferenze di ordine fisico, ma consegnandosi liberamente alla morte di croce ha fatto un’esperienza irrepetibile di dolore morale: l’abbandono da parte del Padre. Il grido del Salmo 22 – «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco 15, 34) – è quello del Figlio, cui il Padre era ben noto. Legato al Padre nel vincolo dello Spirito, Gesù accettò tuttavia di sperimentare nella sua persona il dolore radicale della separazione, apparentemente definitiva, dal Suo Amore. San Paolo scrivendo ai Corinzi usa parole estreme: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore» (Seconda lettera ai Corinzi 5, 21). Che significa questo? Può voler dire soltanto che Gesù fece l’esperienza del dolore e della sofferenza più radicale: la perdita dell’Amore. Il peccato infatti separa, annulla ogni relazione. Si intravvede l’abisso del misterioso dialogo tra la domanda angosciata del Figlio abbandonato sulla croce e la risposta del Padre, fatta di silenzio. Lo Spirito Santo però, presente sul Golgota, garantisce il simultaneo «allontanarsi silente come il silente riavvicinarsi» dei Due (Balthasar). Ora «nel silenzio del Padre di fronte alla domanda del Figlio si trova il luogo proprio della sofferenza». Di ogni umana sofferenza. Gesù ha vissuto questa esperienza liberamente – sponte, dice sant’Anselmo –. La Sua missione, in obbedienza alla volontà del Padre, non fu solo la scelta della solidarietà di Dio con l’umanità sofferente, ma anche una scelta compiuta al nostro posto. Non solo con noi, ma per noi (sostituzione vicaria). Le sofferenze, la morte e la risurrezione di Gesù hanno la forza di espiare tutti i peccati del mondo. Siamo di fronte al mistero insondabile del dolore umano del Figlio di Dio, al dolore abbracciato dalla libertà umana della Persona divina del Verbo. Niente era più contrario all’innocenza di Gesù quanto l’espiare (purificare, come si evince dalla sua radice etimologica ex-pius) per i peccati che non aveva commesso, ma proprio perché è il «Puro» in assoluto, bevendo il calice della sofferenza come antidoto della morte, vince la morte e il peccato in nostro favore. Ci aiuta a comprenderlo qualche dato di esperienza: per l’uomo è impossibile compiere imprese encomiabili di qualsiasi tipo senza una dose elevata di sofferenza; nella vita di ogni uomo non esiste genuina fecondità senza dolore; soprattutto, l’uomo che compie ingiustizia viene restaurato nella sua dignità tramite l’espiazione che lo riconduce nella verità. (Da qui scaturiscono importanti conseguenze per il sistema penitenziario. La pena infligge una sofferenza il cui scopo non può essere la vendetta, ma il medicinale recupero nella verità del condannato). Il Redentore, morendo sulla croce al nostro posto, svela tutta la fecondità del dolore. La fecondità dell’umana sofferenza (...) «Perché mi hai abbandonato?»: una domanda filiale che ha come risposta il silenzio paterno. Non una domanda senza risposta, perché anche il silenzio è una risposta. Non è forse l’esperienza preponderante che ciascuno di noi fa di fronte alla sofferenza altrui? Il restare zitti, il non sapere cosa dire. 33 (...) Il Redentore non ha cercato di cancellare il dolore attraverso una teoria più brillante delle altre, ma ha compiuto un’opera di totale immedesimazione nella sofferenza, illuminandone il significato profondo: la collaborazione alla Sua redenzione del mondo. Per quanto parlare di espiazione delle colpe del mondo possa infastidire la nostra sensibilità post-moderna, non possiamo negare questa realtà. Don Gnocchi, che sarà fra poco proclamato Beato, condividendo lungo tutta la sua vita il dolore e, soprattutto il dolore innocente – quello che più ci tenta di ribellione contro Dio, in un celebre scritto, racconta come i suoi mutilatini, una volta resi partecipi di questa prospettiva, trovassero energia quasi sovrumana di sopportazione del dolore. In tal modo il dolore da condanna diventa merito, da limite espressione di gloria sovrabbondante, da morte risurrezione. La sofferenza di Cristo è, quindi, inclusiva, cioè consente l’accesso alle altre sofferenze, che possono, in unione con la sua, espiare in modo vicario. San Paolo osa scrivere ai cristiani di Colossi: «Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Lettera ai Colossesi I, 24). Qualche settimana fa un padre, parlando del figlio dodicenne appena morto in un incidente stradale, poteva dire: «Non è vero che Dio dà e toglie; Dio dona sempre». Qui siamo scesi in profondità, ben oltre la tesi della pura permissione del male. Questa consapevolezza non rinuncia all’indefesso impegno teso a combattere la sofferenza umana, ma – come mostrano le plurisecolari opere di carità cristiana – sprigiona una creatività non utopica. Per una cura integrale Vorrei ora lasciarmi condurre dalla logica dell’incarnazione propria della della fede cristiana a considerare il nostro comportamento di fronte ad alcuni casi di sofferenza estrema. Spesso, davanti a queste situazioni-limite, ci smarriamo e sembriamo incapaci di un atteggiamento costruttivo. Non mi riferisco innanzitutto ad una fragilità personale nel portarle, quanto piuttosto a una mancanza di chiarezza nel valutarle. Sto parlando dei malati in stato vegetativo e di quelli terminali. Sollevano questioni scottanti che sono, tra l’altro, proprio in questi giorni, oggetto di dibattito parlamentare. Mi riferisco al disegno di legge sul fine-vita e a quello sulle cure palliative. Vista nel quadro delle considerazioni svolte, l’esperienza dell’uomo provato dalla malattia e dalla disabilità, con l’inevitabile carico di dolore e di sofferenza, getta luce anche sull’azione terapeutica della medicina. Questa è autentica solo se l’intervento lenitivo della sofferenza è proposto all’interno di una visione integrale dell’uomo. Infatti, nella salute e, specialmente, nella malattia («L’uomo nella prosperità non comprende, è come un animale che perisce» ci rammenta con crudezza il Salmo 48), benessere e dolore non sono separabili, come si è visto, da una domanda di significato. La scienza medica è chiamata a tentare con tutte le sue forze di far regredire il più possibile i confini della malattia e della morte, senza mai dimenticare che anche le situazioni di sofferenza estrema, e perfino il morire, possiedono un significato obiettivo nell’economia della vita umana. Non pare falsificabile la convinzione, maturata da molti esperti, che quello che 34 Secondo gli esperti un «caso» assai diverso è quello dei cosiddetti «malati terminali», ad esempio quelli affetti da sclerosi laterale amiotrofica (SLA). E proprio questo l’ambito in cui si aprono gli interrogativi sui presunti accanimenti terapeutici e sulle pratiche di eutanasia. Visitando taluni di questi ammalati, mi è sorta una domanda: non siamo piuttosto noi sani a chiedere la «morte degna», mentre i malati chiedono una vita degna anche con la malattia, una vita degna fino all’ultimo istante, fatta di quello che caratterizza l’uomo: la capacità di amare e di essere amati? Essi hanno il problema del non abbandono, di qualcuno che li accompagni nel percorso di cura in tutte le sue fasi e in tutti i suoi aspetti. Raramente ho intuito la decisiva parte che hanno le relazioni amorose nella cura di un paziente terminale come quando ho visto tre figli — di 8, l0 e 11 anni — accudire un padre quarantottenne malato di SLA in grado di comunicare solo con le palpebre. Un esempio prezioso e concreto di cosa significhi prendersi cura di questi malati ci viene offerto dalle cure palliative. La moderna definizione di tali cure, data dalla «European Association for Palliative Care», recita: «Le cure palliative sono la cura attiva e globale prestata al paziente quando la malattia non risponde più alle terapie aventi come scopo la guarigione. Il controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria... Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine». «Inguaribile», infatti, non è sinonimo di «incurabile». comunemente si chiama «stato vegetativo» non sia una malattia, ma la più grave delle disabilità. La vita di chi si trova in questa condizione non dipende dai sempre più sofisticati strumenti della medicina tecnologica né da una particolare terapia medica, ma da quello da cui noi stessi dipendiamo per vivere: l’acqua, il cibo, la mobilizzazione, l’igiene, la relazione e un ambiente disposto a sostenere le nostre fragilità. Lo stato vegetativo, quindi, non ha bisogno di straordinarie apparecchiature di supporto delle funzioni vitali, ma solo di vicariare le esigenze che il malato non è in grado di assolvere da solo: igiene, movimenti, deglutizione (quindi alimentazione e idratazione). Forse questa è la più misteriosa delle situazioni, di grande difficoltà diagnostica, e interroga molto profondamente sulla dignità della persona umana e sul mistero del suo essere. Le tecniche della neuroradiologia funzionale mostrano, a detta dei suoi cultori, che la coscienza di colui che si trova in simile stato non è affatto spenta. Inoltre gli esperti che hanno coniato il termine «stato vegetativo» a proposito della sua presunta irreversibilità affermano che questa categoria «non ha valore di certezza, ma è di tipo probabilistico». La cura della persona in questo stato è, allora, una presa in carico semplice, a basso contenuto tecnologico, anche se a elevato impegno umano e assistenziale. Pur consapevole delle forti improbabilità di ripresa, sa accompagnare sempre il paziente, senza mai cadere negli opposti eccessi di un accanimento o di un abbandono. La letteratura attesta che una simile cura integrale, in taluni casi, consente di ottenere risultati sorprendenti e assolutamente inattesi come il recupero stabile della coscienza e la capacità di alimentarsi per via orale fino al rientro al domicilio. 35 Questa definizione appare improntata al più grande realismo. Di essa devono tener particolare conto i curanti, dal momento che non pochi studi hanno mostrato che la domanda di eutanasia o suicidio assistito in pazienti in fase terminale dipende in modo significativo dall’atteggiamento degli operatori sanitari e dei familiari nei confronti della vita, della malattia e soprattutto dell’ammalato. lore lieti» (cfr Seconda lettera ai Corinzi 6, io) e di poter così lenire le sofferenze dei nostri fratelli uomini. Per questo ci vuole rispetto della vita, pazienza nell’accompagnamento, ma – soprattutto – educazione al gratuito, all’amore come dono totale di sé. Questa è la testimonianza che da secoli i cristiani e gli uomini di buona volontà offrono al mondo. Ieri come oggi, migliaia di persone sono vicine ai malati, ai moribondi, agli angosciati che hanno perso tutto, ai troppi provati dalla miseria e dalla fame. L’oceano di carità che anche nelle nostre terre il popolo cristiano, con umiltà ed efficacia, offre a chi è nel dolore è il riverbero di quell’eloquente silenzio che il Redentore non smette di offrirci come credibile risposta al nostro grido di desolazione. Ma, soprattutto, sono l’offerta di sé e la preghiera semplice (Santo Rosario) di quanti sono vittime del dolore di qualunque genere ad indicarci la grande verità che la vita è fatta per essere donata e non trattenuta. (...) In quest’ottica l’accettazione dei mali fisici e il pentimento per il male compiuto sono alla nostra portata. Perfino la nostra stessa morte può essere, come supplicava Rilke, personale, se fin dal tempo della prosperità e del benessere la si guarda come autentico dono di sé. Lo sapevano bene i nostri vecchi, usi a recitare la preghiera dell’«Apparecchio alla buona morte». Il mistero del dolore e della sofferenza sta inesorabile davanti a ciascuno di noi, ma il suo valore è già fin d’ora custodito nel nucleo incandescente dell’amore trinitario. Per affrontarli ci è stata donata, quindi, una strada luminosa. A condizione che la libertà di ognuno di noi li assuma quotidianamente nell’orizzonte dell’autentico amore di Dio, degli altri e di se stesso. Cardinale Angelo Scola Leggi giuste Tra i fattori che influenzano in modo sostanziale le scelte della persona sia perché impongono divieti e riconoscono diritti, sia perché contribuiscono a formare una mentalità va annoverato il contesto normativo di un Paese. Per questo il legislatore deve riporre la massima cura nel fare leggi oggettivamente giuste. A proposito della Dichiarazione anticipata di trattamento (DIT), sento la responsabilità di invitare il legislatore a garantire quei principi irrinunciabili più volte richiamati dalla Conferenza episcopale italiana. Nello stesso tempo il pronunciamento legislativo sulle cure palliative deve essere al più presto attuato e dotato di tutti i mezzi finanziari perché siano capillarmente praticabili nel nostro Paese. Risorse economiche adeguate vanno investite anche nella normale terapia del dolore. Nel dolore lieti Dolore e sofferenza, nel loro carattere misterioso consegnato alla libertà di ciascuno di noi, ci hanno portato al cuore dell’amore trinitario che si è coinvolto con questa condizione-limite dell’uomo. In Cristo Gesù siamo resi capaci della paradossale ma umanissima esperienza vissuta da san Paolo: «Nel do36 “Norlevo” e farmacisti: dieci domande e risposte La questione della “pillola del giorno dopo” (Norlevo) e della obiezione di coscienza dei farmacisti impone di rispondere con chiarezza a dieci domande. 1) Il farmacista appartiene o no al “personale sanitario”? Sì. Lo dice l’art. 99 del R.D. 27.7.1934 e l’art. 9 della L. 194/1978 garantisce l’obiezione di coscienza a tutto il “personale sanitario”. 2) La ragione del riconoscimento dell’obiezione di coscienza è o no il rispetto della coscienza di chi non vuol contribuire alla uccisione di un essere umano? Sì, ovviamente. 3) La “pillola del giorno dopo” può o no determinare la morte dell’embrione? Sì, lo dicono il foglietto illustrativo del “Norlevo”, e una parte ragguardevole della scienza. 4) Nel caso di dubbio sull’effetto uccisivo di una determinata azione umana si deve rispettare o no il principio della precauzione? Sì, ovviamente. 5) Che l’assunzione della “pillola del giorno dopo” possa determinare un precocissimo aborto è o no affermazione ragionevole? Sì, vedi la risposta al n. 3. 6) Nel caso di dubbio di fatto (ci sarà stato o no il concepimento?) o teorico (la pillola può impedire l’annidamento o soltanto la fecondazione?) la coscienza di chi non intende contribuire alla distruzione dell’embrione deve o no essere tutelata? Sì, ovviamente. 7) I1 riconoscimento legale della obiezione di coscienza sospende o no gli obblighi giuridici derivanti dalle norme generali, in particolare il dovere del farmacista di rifornire tutti i prodotti iscritti nella farmacopea ufficiale? Sì, altrimenti non ci sarebbe bisogno dell’eccezione costituita dalla obiezione di coscienza. 8) Poiché lo spirito dell’art. 9 della legge 194 è, ovviamente, quello di garantire la libertà di coscienza del personale sanitario liberandolo dall’obbligo di concorrere alla distruzione del concepito, è o no doverosa una interpretazione analoga riguardo alla “pillola del giorno dopo”? Sì, Gli strumenti di giurisprudenza quando si inseguono i metodi di interpretazione si ripete in latino ubi eadem legis ratio, ibi eadem legis disposito. 9) È o no ingiustamente contrastante con il principio di eguaglianza il fatto che la “clausola di coscienza” applicata ai medici non sia applicata ai farmacisti? Sì. Perché il medico obiettore può rifiutare di rilasciare il documento che autorizza una Interruzione di gravidanza e al farmacista dovrebbe essere proibito di rilasciare la pillola che è qualcosa di più di un “documento”? 10) Il riconoscimento della obiezione di coscienza è o no un principio cardine della nostra Costituzione? Sì, basta leggere la sentenza costituzionale 476/1991 e l’art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo. 37 Intervento del segretario generale della CEI il Vescovo Mons. Mariano Crociata Il diritto e il dovere del farmacista cattolico vidanza, cioè ai due casi tipici che per la loro radicalità permettono di mettere in evidenza i referenti essenziali dell’obiezione stessa: «Sono casi emblematici perché, pur nella loro diversità, appaiono entrambi legati direttamente al fondamentale principio del non uccidere. In questo quadro si colloca anche la questione del diritto-dovere dei farmacisti all’obiezione di coscienza, che viene oggi in discussione sia di fronte a taluni farmaci abortivi (come la Ru486, per i farmacisti ospedalieri) o potenzialmente abortivi – quale in concreto la cosiddetta pillola del giorno dopo – sia di fronte a taluni sviluppi (o meglio involuzioni) che si profilano in materia di fine vita, considerato che in alcuni Paesi europei, come a esempio in Belgio, risulta già in vendita nelle farmacie un kit eutanasico». In Italia – aggiunge monsignor Crociata – il problema «è avvertito soprattutto riguardo alla vendita della cosiddetta pillola del giorno dopo. Infatti, sebbene l’autorizzazione ministeriale all’immissione in commercio della specialità medicinale Norlevo abbia qualificato tale prodotto come “contraccettivo d’emergenza”, in base alle evidenze scientifiche disponibili non si può escludere la concreta possibilità di un’azione post-fertilizzativa del farmaco stesso nelle ipotesi in cui, essendosi già verificata la fecondazione dell’ovulo e quindi la formazione dell’embrione, viene impedito all’embrione stesso di iniziare l’impianto nella parete uterina, con evidente effetto abortivo». In tal senso – aggiunge – «si è pronun- «L’obiezione di coscienza è anche un diritto che deve essere riconosciuto ai farmacisti permettendo loro di non collaborare direttamente o indirettamente alla fornitura di prodotti che hanno per scopo scelte chiaramente immorali come l’aborto e l’eutanasia». È quanto ha affermato il segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), il Vescovo Mariano Crociata, intervenendo al convegno nazionale dell’Unione Cattolica Farmacisti Italiana, dal titolo «L’obiezione di coscienza del farmacista tra diritto e dovere». La questione dell’obiezione di coscienza – ricorda monsignor Crociata – nasce dal conflitto interiore dell’uomo «posto di fronte all’alternativa, a volte lacerante, fra il comando della legge, che imporrebbe una determinata azione, e l’imperativo della propria coscienza – rispondente a motivazioni religiose, ma anche etiche o ideologiche – secondo cui quella azione risulta inaccettabile. Il riconoscimento della possibilità di appellarsi alla “clausola di coscienza” è diretto appunto a superare tale conflitto interiore tra coscienza individuale e obbligo legale». L’obiettore, cercando di evitare gli «esiti insanabili e gravissimi» che derivano da una legge ingiusta di cui sia destinatario – spiega monsignor Crociata citando il giurista Francesco D’Agostino – «dicendo di no alla legge intende dire di sì al diritto». Tradizionalmente – ha continuato nel suo intervento il segretario generale della CEI la possibilità dell’obiezione di coscienza è stata riconosciuta con riguardo al servizio di leva obbligatorio e agli interventi diretti all’interruzione volontaria di gra38 nuti della fede sono messi in questione da casi limite emotivamente coinvolgenti, da forti interessi economici o da una cultura edonista e nichilista è oggi particolarmente faticoso. Bisogna perciò, come singoli farmacisti e come associazione, attingere al patrimonio morale e agli insegnamenti della Chiesa e coordinarsi con l’azione pastorale che essa esercita a tutela della vita e a servizio dei malati. D’altra parte – aggiunge monsignor Crociata rivolgendosi ai farmacisti – la riflessione ecclesiale che la Chiesa che è in Italia sta portando avanti sul tema dell’educazione rappresenta anche la via per un rilancio culturale della vostra professione, che spesso rischia di essere percepita e regolamentata come una pura attività commerciale, svuotata della sua dignità esposta a logiche economiche di tipo unicamente mercantile. Invece, educare le coscienze con la propria professione di farmacista è oggi una priorità per il bene comune e l’interesse di tutti e una missione alta e certamente impegnativa». Per il farmacista cattolico – aggiunge monsignor Crociata – aderire all’insegnamento della Chiesa sul rispetto della vita e della dignità della persona umana, che è di natura etica e morale, «rappresenta anzitutto un dovere, sicuramente difficile da adempiere in concreto ma al quale non può rinunciare. I cristiani infatti sono chiamati a non prestare la loro collaborazione a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la Legge di Dio». Tale cooperazione si verifica quando come si legge nell’enciclica Evangelium vitae (n.74) «l’azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta a un atto contro la vita umana innocente o come con- ciato il Comitato nazionale di bioetica nella Nota sulla contraccezione d’emergenza, approvata il 28 maggio 2004, nella quale, dopo aver rilevato la diversità di opinioni emerse nel dibattito scientifico circa l’efficacia della “pillola del giorno dopo”, ha “ritenuta unanimemente da accogliersi la possibilità per il medico di rifiutare la prescrizione o la somministrazione” del levonorgestrel (LNG, principio attivo del farmaco). Se una tale opzione è correlata ai possibili effetti postfertilizzazione del farmaco, osserva il Comitato, “il medico ha comunque il diritto di appellarsi alla clausola di coscienza, dato il riconosciuto rango costituzionale dello scopo di tutela del concepito che motiva l’astensione”». Del resto – aggiunge ancora monsignor Crociata – appare abbastanza chiaro «che l’intenzione di chi chiede o propone l’uso di questa pillola o è finalizzata direttamente all’interruzione di una eventuale gravidanza, proprio come nel caso dell’aborto, o perlomeno non esclude e accetta questo possibile risultato, che verrebbe a realizzarsi al di fuori delle rigorose prescrizioni e procedure stabilite dalla legge 194/78». Proprio i farmacisti – spiega dunque il segretario generale della CEI – sono chiamati a dare in questo ambito una chiara testimonianza: «Il farmacista cattolico è chiamato a cogliere questa opportunità per esercitare un autentico apostolato e un’opera di misericordia spirituale attraverso il suo lavoro. Per far questo è importante coltivare la vita di fede con la preghiera, i sacramenti e la testimonianza di onestà e di carità. Altresì è necessaria al farmacista, come a tutti gli operatori sanitari, quella speciale attenzione nella formazione della coscienza morale che si richiede per essere accanto a chi soffre. Dare testimonianza evangelica laddove i conte39 Dialogare con la morte in un mese estivo all’interno di un hospice oncologico è, innanzitutto, un’esperienza di fede e di amore. Di fede perché le promesse di una vita eterna divengono realtà nella carne del malato a cui la scienza nega la speranza, a cui la medicina alza le mani, a cui il mondo usa compassione. Mai la teologia cristiana si incontra con la verità come quando siede presso un capezzale di un uomo mentalmente lucido, consapevole della propria fine, e spiritualmente pronto ad incontrarsi con Dio. Roberto, mio fratello, è entrato a Villa Speranza una tarda mattinata dei primi di luglio della scorsa estate per uscirne un mese dopo, pronto per la Resurrezione. La sua grande paura al momento dell’ingresso è stata mitigata, con efficacia, da Don Carlo, vero interprete di Gesù che si fa toccare dai malati per essere accanto a loro e come loro. divisione dell’intenzione immorale dell’agente principale». In questa prospettiva – conclude monsignor Crociata – «l’obiezione di coscienza è anche un diritto che deve essere riconosciuto ai farmacisti, permettendo loro di non collaborare direttamente o indirettamente alla “fornitura di prodotti che hanno per scopo scelte chiaramente immorali, come per esempio l’aborto e l’eutanasia” e di superare le difficoltà di un contesto culturale che tende, talvolta, a non favorire l’accettazione dell’esercizio di questo diritto, in quanto elemento “destabilizzante” del quietismo delle coscienze», come affermato dalla Pontificia Accademia per la Vita (15 marzo 2007). Il diritto-dovere all’obiezione di coscienza non riguarda dunque solo i farmacisti cattolici ma tutti i farmacisti, perché, come afferma ancora la Evangelium vitae (n. 101), «la questione della vita e della sua difesa e promozione non è una prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla fede riceve luce e forza straordinarie, essa appartiene a ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è attenta e pensosa per le sorti dell’umanità». Il segretario generale della CEI ha infine rivolto un incitamento: «Desidero quindi esortare voi tutti a essere testimoni coraggiosi nell’esercizio della professione del valore inalienabile della vita umana, soprattutto quando è più debole e indifesa. Seguire la propria coscienza non è sempre una via facile e può comportare sacrifici e aggravi. Tuttavia, rimane necessario “proclamare chiaramente che la via dell’autentica espansione della persona umana passa per questa costante fedeltà alla coscienza mantenuta nella rettitudine e nella verità”», come affermato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nella Dichiarazione sull’aborto procurato del 1974. La stanza di un colore azzurro cielo, l’aria condizionata, le mille cure del personale hanno reso la permanenza di un uomo, ancora giovane d’età e duramente provato dal dolore, serena e coraggiosa, indomita nella lotta per la vita e costante nella fede religiosa. 40 “Puoi mettere alle pareti della stanza ciò che vuoi” e Roberto ha fatto collocare alcune poesie da lui scritte in tempi non sospetti. Una, in modo particolare, scritta nel 2001 è stata muta testimone del suo passaggio da questa terra: la poesia dedicata alla Madonna delle Tre Fontane. “Madre celeste piena di luce, in questa grotta sei sempre presente, richiamo divino che a te conduce, coro e preghiere di tanta gente”. La malattia, spesso, ha più bisogno di affetto e di carezze che non di farmaci ed iniezioni. Soprattutto nei periodi che precedono la fine della vita umana la vicinanza al malato, i sorrisi, le parole di speranza e di incoraggiamento sono essenziali per chi non chiede altro. “Tu che rischiari il buio maligno, tu che accarezzi l’anima in pena, accogli noi figli in questo scrigno, con un abbraccio di pietà serena”. Assistenza, umanità e amore, tre ingredienti necessari. Foto: Angela Era frequente vedere il malato dare incoraggiamento ai visitatori, tanto era il distacco tra il mondo e le sue logiche e l’universo religioso con le sue logiche. “Tu che nel mondo accendi il tuo viso, placa nell’uomo qualsiasi guerra, fa che ogni lacrima diventi un sorriso, dona la pace su questa terra”. La morte viene a cogliere l’uomo dopo un percorso di preparazione durante il quale non serve spendere molte parole più o meno utili, dove i silenzi e gli sguardi amorevoli sono la via maestra per il cammino. Personale sanitario e non sanitario, volontari, sacerdoti e religiosi svolgono un’alta ed insostituibile funzione in queste strutture per malati terminali che noi ci ostiniamo a chiamare hospice, ma che, invece, sono oasi di pace e di serenità per chi ne ha più bisogno. Roberto ha scelto di morire domenica 9 agosto durante la Messa che avevo deciso di seguire nella cappella di Villa Speranza. Don Carlo aveva appena finito di leggere il Vangelo. “In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna... Io sono il pane della vita io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. La corsa accanto a lui, le parole tranquillizzanti anche dopo che aveva esalato l’ultimo respiro, la chiusura delle sue palpebre, le preghiere e la benedizione. “Tu che sorridi all’umano dolore, testimone eterna della Crocifissione, splenda per noi il tuo grande amore, Vergine della Rivelazione”. Come un ulivo verdeggiante la vita continua dopo la morte. La fede ci dà il grande dono della serenità e della gioia, perché Gesù è risorto ed è accanto a noi. Le molte visite che Roberto ha ricevuto nei suoi ultimi trenta giorni denotavano solo i tratti umani della disperazione, dell’incredulità, dell’incomprensione della malattia e del dolore. 41 Comunicato della Consulta per la Pastorale Sanitaria La Consulta per la Pastorale Sanitaria della Diocesi di Roma, nella seduta del 27 ottobre 2009 ha deciso all’unanimità di esprimere il seguente pressante appello alle Autorità Nazionali e Regionali preposte all’Assistenza Sanitaria, nonché alle singole Direzioni Generali e Sanitarie delle Aziende Ospedaliere. Preso atto che Si va progressivamente aggravando la condizione di precarietà in cui versa l’assistenza per i continui tagli delle risorse con impoverimento dei fondi regionali disponibili e conseguente massiccia riduzione dei posti letto ospedalieri, i tempi sempre più protratti degli accertamenti diagnostici, delle visite specialistiche e la progressiva riduzione dei tempi di ricovero, con gravi danni per l’efficienza, l’efficacia e la qualità delle prestazioni erogate con conseguente pericolosità per le condizioni psicofisiche del cittadino utente; Invita tutte le Autorità a disporre tutti quei provvedimenti necessari per risolvere tale deprecabile situazione, assumendosene in prosieguo di carenza ogni responsabilità di fronte all’opinione pubblica e ai singoli cittadini fruitori del Servizio Sanitario Nazionale. Tutti noi, che come cristiani sentiamo necessaria la difesa dei più deboli, auspichiamo il potenziamento dell’assistenza domiciliare, considerato che con i tagli alle strutture sanitarie i malati cronici a casa sono in aumento e in tale situazione sono in uno stato di forte debolezza. Avvertiamo inoltre prepotente l’idea dell’apertura al sociale auspicando la redistribuzione delle risorse senza prescindere dal diritto di ogni persona all’equità delle cure che devono essere assicurate a tutti nella comunità. Al di là e al di sopra di ogni esigenza economico-amministrativa e produttiva, va sempre operata una scelta a favore dell’uomo, e di ogni uomo: le strutture devono essere per l’uomo e non l’uomo per le strutture. Confidiamo che tale appello sia accolto da tutti come un contributo a risolvere al più presto le carenze strutturali e quelle quotidiane che i cittadini vivono ogni giorno sulla loro pelle. La Consulta per la Pastorale Sanitaria della Diocesi di Roma Antichi ospedali romani minori L’OSPEDALE DEI MENDICANTI A S. SISTO ve n’erano – i confini fra l’una e l’altra specialità. Fu Gregorio XIII (papa dal 1572 al 1585) a volere un ricovero per i mendicanti, allora numerosissimi nell’Urbe, ed a scegliere proprio il convento di San Sisto per ospitarli. Il Fanucci, nel suo «Trattato di tutte le opere pie dell’Alma Città di Roma» (1601), racconta di una impressionante processione di oltre ottocentocinquan- Un ospedale molto particolare, nel panorama della sanità romana fra Sei e Settecento, fu quello di S. Sisto dei Mendicanti, sito presso la chiesa di S. Sisto Vecchio, di fronte alle Terme di Caracalla. Come molte altre istituzioni consimili di cui abbiamo già parlato in precedenza, era nello stesso tempo ospedale e ospizio, costituendo così un unicum dove era difficile stabilire – se mai 42 sumere un’iniziativa tesa alla tutela dei propri interessi e così «tutti uniti insieme stabilirono di fondare una compagnia, a similitudine dell’altre di Roma, di tutti li zoppi e ciechi della città che vanno mendicando e altri poveri dell’uno e dell’altro sesso». La compagnia, che si riuniva in una cappella della chiesa di S. Sisto Vecchio, ottenne l’erezione canonica in Confraternita il 27 settembre 1621 ponendosi sotto la protezione di S. Elisabetta, madre del Battista, con la denominazione di «Confraternita di S. Elisabetta e sua visitazione dei poveri ciechi e storpi». Il sostentamento economico dell’istituzione fu assicurato dal governo che vi destinò l’introito della gabella sulla legna e della tassa di bollo sulle carte da gioco. Per un certo periodo, nel Seicento, l’ospedale ricevette anche parte delle gabelle su carbone, neve (!), olio, frutta, pietra e pozzolana. Coloro che non erano impediti dalle malattie o dalla disabilità andavano a questuare in giro per la città, ma molti erano pure quelli che non erano in grado di provvedersi da sé e che quindi pesavano interamente sul sodalizio. Per tal motivo, ogni associato della Confraternita doveva versare un «grosso» al mese alle casse sociali appunto per sostentare i più infelici fra i derelitti. Ma il numero di questi crebbe talmente che il “grosso” mensile non bastò più a coprire le spese e quindi ci si dovette ingegnare per reperire le risorse. Come? Nel modo più ovvio, cioè…..mendicando. Nel suo «Vocabolario romanesco» (1933) Filippo Chiappini riporta al riguardo un passo dall’opera del card. Morichini sugli “Istituti di carità”: «Eravi l’uso che le domeniche il “ca- ta poveri tra maschi e femmine che, quasi trionfalmente, «salendo e calando il Campidoglio giunsero al desiato porto [sic] di S. Sisto, ove furono ricevuti in gran carità e pietà». In effetti, come si leggeva negli statuti della confraternita di cui si dirà più avanti, coloro che venivano accolti e ricoverati nell’ospizio-ospedale erano «ciechi, assidrati [sic], zoppi, storpiati, vecchi e vecchie cadenti, incurvati dagl’anni, monchi di piedi o di braccia, sfigurati, sordi o malconci o dalle disgrazie o dalla natura, che sono impotenti a guadagnarsi il vivere….». Il fenomeno della mendicità era tanto diffuso che spesso le autorità di polizia emanavano provvedimenti tesi a contenere il numero di questuanti o, quanto Achille Pinelli - San Sisto Vecchio (1834) meno, a disciplinare le attività di questua. Ma ancor più pressante era il problema sanitario, atteso che – in tempi di pestilenza o epidemie – i poveri accattoni venivano confinati in quarantena al fine di evitare che il loro girovagare fosse causa d’una più veloce diffusione del contagio. Poiché vari e pur lodevoli interventi del governo non risultavano troppo efficaci, furono gli stessi mendicanti ad as43 1715, infine, una nuova dispersione fra l’ospizio del S. Michele a Ripa Grande ed altri ospedali minori. La Confraternita, privata della sua missione istituzionale, non sopravvisse di molto e ben presto si estinse. Eppure il sodalizio era stato fra i più doviziosi di Roma. Si pensi che nel 1624 papa Urbano VIII dispose una «Visita apostolica» (una sorta di ispezione amministrativa) per il controllo dello stato finanziario di tutti gli enti ecclesiastici di Roma. Dalla verifica emerse che la Confraternita di S. Elisabetta – con i suoi 14.000 scudi di entrata – risultava al sesto posto assoluto, subito dopo i 18.000 scudi dell’Arcispedale di S. Giovanni e precedendo di poco, addirittura, i 13.000 scudi della basilica di S. Maria Maggiore. Da tale rilevanza economica e dal presupposto che l’istituzione era certo senza fine di lucro, si ricava con facilità – al di là del folclore ispirato dalla compagnia itinerante di questuanti e suonatori – che l’attenzione posta nell’assistenza ai più poveri fra i mendicanti e i derelitti era davvero enorme, tanto da impegnare risorse superiori perfino a quelle ricavabili da una basilica patriarcale. Non è poi da dimenticare, pur volendo esimerci da qualunque commento di tipo moralistico, che gran parte delle entrate era data dal bollo sulle carte da gioco: forse il modo più lodevole per impiegare i proventi di un’attività ludica ed effimera. Potrebbe essere un’idea ancor oggi valida, visti i trionfi del famoso Superenalotto. Forse era minore come proporzioni fisiche, ma dal punto di vista della carità e dell’assistenza ivi profuse l’ospedale dei mendicanti era sicuramente fra i più eminenti di Roma, e ancora una volta per merito di una Confraternita. merlengo” di questa compagnia, il quale era uno storpio, e il “signore” e il “guardiano”, che erano ciechi, uscissero per la città […] accompagnati da due violini, da una viola e da un poeta. Recando un bacile d’argento con dieci scudi per invitare l’altrui generosità e con una scatola d’argento piena di tabacco per offrirne ai benefattori, visitavano le osterie, i caffè e altri luoghi frequentati, improvvisando e cantando canzoni sacre. Il denaro così raccolto era portato con solennità al loro oratorio, e prelevati cinque paoli pel poeta, tre pei sonatori e tre per gli “ufficiali” questuanti, il rimanente era riserbato per la festa titolare». Va però aggiunto, per completezza d’informazione, che altre fonti affermano che l’incasso netto andasse specificamente a favore dei mendicanti più indigenti e che il bacile per le offerte fosse in realtà una cassetta con feritoia chiusa a chiave, prudenzialmente, prima della partenza da S. Sisto. Secondo la testimonianza dello stesso Chiappini, da questa colorita usanza nacque un’espressione ironica, usata dal popolo romano per secoli, per definire la casuale adunanza di persone notabili per difetti fisici o presunti tali: appunto, la «compagnia de santa Lisabbetta». L’ospedale di S. Sisto, appena pochi anni dopo la fondazione, era però divenuto del tutto inadeguato, sia per il numero ormai soverchiante dei ricoverati e sia per la posizione in quella che allora era una zona malarica e semipaludosa. Gli ospiti vennero così trasferiti in parte all’ospedale S. Giovanni e in parte in altre strutture. Sotto Sisto V (1585-1590) venne allestita una nuova struttura in prossimità di ponte Sisto, la quale mantenne la vecchia denominazione di «S. Sisto dei mendicanti» ed era sempre amministrata dalla Confraternita. Nel Domenico Rotella 44