Segnali di vita

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Segnali di vita
PAOLA BENNATI
Segnali di vita
“Segnali di vita nei cortili
e nelle case all’imbrunire
le luci fanno ricordare
le meccaniche celesti”.
(Franco Battiato)
Quando a maggio, sollecitata da Sandro Panizza a dare un titolo e stilare un
breve abstract del mio intervento al Convegno, dissi che pensavo di scrivere
qualcosa sul linguaggio, sul “parlarsi” in analisi, e appresi con divertito stupore
che anche Silvio Zucconi, di cui avrei dovuto essere la discussant, aveva deciso
di scrivere sul medesimo argomento, pensai che le vie misteriose per cui le
persone si mettono in contatto e si parlano avevano funzionato ancora una
volta e io e Zucconi, pur senza esserci detti niente, avevamo parlato la stessa
lingua e ci eravamo incontrati in quella zona di libertà e di gioco che è formata
da due preconsci in attività.
Parlare la stessa lingua e qual è la stessa lingua fra due persone, qual è la
stessa lingua del paziente, quale può essere il linguaggio dell’analisi ora che, a
detta di molti, i pazienti sono cambiati: “Non sono più quelli di una volta, non
ci sono più le isteriche, sono aumentati i borderline”. Queste espressioni
stanno a indicare la sensazione di spaesamento che l’incontro e soprattutto il
mancato incontro con il paziente diverso da te, diverso da come te lo aspettavi,
“diverso da prima”, può comunicare.
Se può essere vero in una certa misura che i pazienti siano cambiati è anche
vero che gli psicoanalisti dovrebbero essere attrezzati a rapportarsi con la molteplicità e dunque mi viene da pensare che sia l’assetto psichico dell’analista a
sentirli così quando non riesce a tenere il passo, a sintonizzarsi con l’altro da
sé espresso dal paziente.
Con il verbo sintonizzarsi intendo sottolineare proprio la qualità preconscia, più vicina alle emozioni, meno razionale, del mettersi in relazione, del
parlarsi.
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Mitchell (2000) nel suo libro Il modello relazionale, che contiene un’appassionata analisi del pensiero di Loewald, nel primo capitolo intitolato “Linguaggio
e realtà”, affronta precisamente il tema del linguaggio della psicoanalisi e del
dibattito psicoanalitico avvenuto sul fatto di introdurre nuove parole al posto
della vecchia terminologia freudiana, considerata anacronistica in quanto non
tenente conto dei nuovi concetti, e ancora legata alla teoria delle pulsioni, e afferma che Loewald, forse influenzato da Heidegger che svalutava il vivere contemporaneo e propugnava un ritorno agli antichi termini greci originali dove,
diceva, “l’essere risiede pienamente”, riteneva che la psicoanalisi non avesse bisogno di un nuovo linguaggio ma piuttosto di una minore dose di accademismo inibito da parte degli psicoanalisti nel formulare le interpretazioni e
nel descrivere il mondo del paziente; un linguaggio più vicino a quella densità
originaria da lui teorizzata, dove la parola è connessa al corpo e all’affetto e il
processo primario e secondario funzionano per così dire all’unisono, in un
continuum, cioè la parola spiega, descrive e a un tempo risuona, è densa di significato emozionale e non c’e stata scissione fra i due “reami”, conscio e preconscio.
Mitchell, a prova di questo tipo di linguaggio, cita un famoso passo tratto da
“Teoria motivazionale e teoria pulsionale” (1971) in cui Loewald dà prova
della forza evocativa della parola e della sua potenza comunicativa quando se
ne fa un uso poetico, cioè un uso dove la parola crea un’interazione in cui
coesistono esperienze sia cognitive sia sensoriali e afferma, con un linguaggio
appunto denso e appassionato, l’importanza centrale delle pulsioni nella vita
degli esseri umani.
“Le pulsioni sono ciò che fa andare avanti il mondo degli uomini, ciò che lo fa
girare... sono le pulsioni che dominano nei grandi amori e nelle passioni degli
uomini… le pulsioni rendono gli uomini pazzi e malati. Li spingono alla perversione e al crimine, li rendono ipocriti e bugiardi, o fanatici per la verità e
virtuosi… li trasformano in creature pure o bigotte e piene di pregiudizi…
fanno degli uomini degli esseri angosciati e inquieti… e il comportamento razionale, le buone maniere, le azioni, i pensieri, i sentimenti nobili… non sono
che posture, formalità ed esteriorità, autonegazioni, razionalizzazioni, distorsioni e fughe, la sottile maschera di superficie che copre e abbellisce la vera vita
e il reale potere delle pulsioni e del corpo...”.
Il passaggio è di una potenza comunicativa sconvolgente, non si limita a descrivere o trasmettere significati, ma evoca stati della mente, crea nessi fra
esperienze diverse fra corpo e mente in cui corpo e mente vanno insieme.
Ho sempre pensato, e non sono la sola a farlo, che una definizione della salute mentale e dello stato di felicità e benessere che la accompagna potesse essere sintetizzata nell’idea di corpo e mente che vanno insieme, in cui l’esperienza fisica corrisponde a quella psichica. Non per nulla quando si provano
emozioni significative il corpo accompagna lo stato mentale, espressioni come:
battere forte il cuore, accapponare la pelle, rabbrividire, diventare rossi o impallidire, stanno a indicare una situazione in cui il corpo vuole recuperare il
suo spazio comunicativo, è come se parlasse, come se volesse riprendere sulla
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mente, sul linguaggio verbale quella tonalità esperienziale che nelle parole,
quando prevalgono le parole, sembra essere messa in ombra.
Questo linguaggio, descritto da Loewald, carico di emozioni e sensazioni,
pieno, non svuotato o “essiccato”, credo possa essere il linguaggio dell’analisi,
così come della vita peraltro, un linguaggio dove i nessi fra processo primario
e secondario esistono, dove preconscio e pensiero razionale, fantasia e realtà si
completano.
Quando Zucconi ci parla del suo paziente Giuseppe ci dice che “le sue parole non hanno densità affettiva e il suono della sua voce non lascia eco” e la
sua colonna vertebrale giace irrigidita e morta. Giuseppe sembra abbastanza
morto, come tanti altri pazienti quando approdano alla cura, frammentato,
ma in quella seduta accade qualcosa, Giuseppe e Zucconi si parlano, come
dice quest’ultimo, sott’acqua e giocano insieme con il discorso sui gatti, si
scambiano segnali: sono segnali di vita. Giuseppe indica che dove tutto sembra
morto c’è qualcosa che vuole vivere e il linguaggio diventa denso di emozioni,
di piacere, di scoperta attraverso il medium dell’interesse specifico per i gatti
che crea uno spazio di relazione, dove non solo il paziente si sente vivo ma
anche l’analista si sente vivo, supera la zona morta della noia e del vuoto comunicativo sempre in agguato in analisi.
Io credo che tutto si giochi sul preconscio e sulla capacità dell’analista di
mettersi in contatto in via preconscia, sott’acqua appunto, con quella piccola
parte sana del paziente, quella piccola scintilla di vita, senza seppellirla con castelli interpretativi; ma il momento topico, “la svolta ancora più plateale”,
come la definisce Zucconi, è quando alla richiesta del paziente se avesse mai
avuto gatti, cioè quando all’invito esplicito del paziente di entrare direttamente nel gioco, lui non solo accetta ma non vede l’ora di giocare e parla di
“mosse circolari”, di mani sotto la pancia del gatto: quale panacea per la
schiena stecchita del paziente!
Leggendo questa scena non ho potuto non farmi venire in mente una pagina di un libro molto amato da me quando ero piccola (e anche adesso che
sono grande): Mary Poppins. Quando Mary, la prima sera, arrivata in casa
Banks, dopo aver sfoderato tutto il suo armamentario, cava dalla sua prodigiosa borsa la bottiglia della medicina e la dà ai bambini riluttanti, dalla stessa
bottiglia escono per Giovanna un cucchiaino di un liquido di un verde argenteo – liquore di mele il mio preferito! grida Giovanna – per Michele un
cucchiaino di gelato di fragole e latte tiepido per i due gemelli Barbara e Giovannino. A ognuno Mary Poppins ha saputo dare ciò che andava bene per lui,
con ognuno ha stabilito un contatto personale. Così l’analista, se esce dagli
schemi prestabiliti della teoria, non per sempre ma almeno per un po’, se non
si aspetta di trovare o non trovare l’isterica o il paziente come una volta, e soprattutto se non ha paura di farsi incontrare, non tanto di mostrarsi o disvelarsi (sono d’accordo con Zucconi sull’implicita ammissione di deficit di struttura dell’analista nell’enfasi sull’autodisvelamento portata avanti dagli intersoggettivisti) ma di essere semplicemente quello che è, di essere, come dice
Lopez, persona e quindi parlare la propria lingua, non far fatica ad andare
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verso, a “entrare nella storia” come dice Zucconi e dunque a trovare la sintonia
con la lingua dell’altro, ecco che si forma un’area di gioco, io aggiungo di libertà e di vita, dove i due preconsci si incontrano e si parlano.
Questa è l’essenza della psicoanalisi, dice sempre Zucconi, “creare collegamenti tra ciò che succede sopra e ciò che succede sotto il livello della coscienza” e il ponte, il tramite, è dato dall’abilità e dalla naturalezza con cui l’analista passa dal conscio al preconscio e viceversa.
Nel pensiero di Loewald sul linguaggio formato da processo primario e secondario, che si svolgono insieme senza soluzione di continuità, sento molte
analogie con il concetto di persona di Lopez dove vengono mantenuti insieme, in sospensione, gli opposti, dove non c’è frattura conscio preconscio,
dove realtà e fantasia non sono scisse ma coesistono e si mescolano.
Quando Mitchell, parlando di Loewald, dice che per Loewald “solo una vita
incantata è degna di essere vissuta”, non posso che riconoscermi in pieno in
queste parole. In questa prospettiva di mantenimento dei “due reami”, il
modo di concepire il linguaggio di Loewald mi pare, per quel che mi riguarda,
più condivisibile che non quello di Stern (1985), che divide il linguaggio come
esperienza di relazione in una fase preverbale emotivamente, ricca e piena, vicina alla quella densità originaria di cui parla Loewald, e una fase verbale dove
l’intensità sensuale dell’esperienza sembra venire perduta e la separazione dei
due reami drammaticamente sancita.
Per Stern l’avvento del linguaggio segna un passaggio cruciale, Mitchell lo
definisce “tragico”, per l’individuo perché anche se a prima vista il linguaggio
non può che portare vantaggi all’espansione dell’esperienza personale, in
quanto ne consente la partecipazione e la condivisione, costituisce in realtà
“un’arma a doppio taglio” in quanto “inserisce un cuneo fra due forme simultanee di esperienza, quella vissuta e quella verbalmente rappresentata”(1985)
a cui viene attribuito il valore di realtà e che viene a costituire quindi una rappresentazione impoverita e impallidita dell’esperienza.
Il linguaggio dunque, secondo Stern, “produce una scissione nell’esperienza del sé e sposta l’esperienza della relazione dal livello immediato personale tipico degli altri campi al livello impersonale, astratto intrinseco al linguaggio stesso”. Questo rispecchia esattamente il pensiero di Niels Bohr, riportato nel lavoro di Zucconi, sull’impossibilità di rendere l’aspetto soggettivo di
quello che viene osservato.
Il pensiero di Stern in merito allo sviluppo del linguaggio come esperienza
di relazione sembra muoversi in senso del tutto contrario a quello di Loewald
e di Lopez, all’insegna dell’aut-aut anziché dell’et-et, della scissione anziché
dell’integrazione.
Questa scissione fra i due reami è presente nei miti e nei testi sacri di tutte
le religioni, dove si fa una netta separazione fra uno stato di grazia “prima”,
dove la vita si svolgeva in sintonia con il creato e non c’era il problema della
confusione delle lingue ma l’uomo parlava il linguaggio della natura di cui
si sentiva parte integrante e non scissa, e una perdita di tale stato “dopo”,
dove l’uomo ha smarrito il contatto con la natura che è divenuta ostile e in-
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comprensibile e si sforza inutilmente di recuperare quella pienezza espressiva e quell’accordo con l’universo (vedasi per esempio la capacità di parlare
il linguaggio degli animali attribuito ad alcuni santi cristiani o presente nella
mistica Sufi), questa capacità però è considerata un dono quasi sempre caduco, destinato a perdersi se reso pubblico, cioè messo a contatto con la
realtà.
Voglio citare nuovamente due passi tratti da Mary Poppins, la cui autrice Pamela Travers, peraltro, è stata molto vicina alle teorie di Gurdjieff profondamente permeate del pensiero Sufi. Nel primo, i due gemelli Barbara e Giovannino, che non sanno ancora parlare ma sanno comprendere perfettamente la
lingua del sole, del vento e degli animali, fanno amicizia con uno stornello con
cui discorrono, dopo qualche mese però, quando incominciano a parlare, non
capiscono più le parole dello stornello: hanno dimenticato. Nel secondo, ancora più suggestivo, la neonata Annabella fa una specie di racconto delle origini allo stornello affascinato: “Io sono terra e aria e fuoco e acqua, vengo dal
Buio dove tutte le cose hanno il loro principio… vengo dal mare e dai suoi
flutti, vengo dal cielo e dalle stelle, vengo dal sole e dalla sua luce e vengo dalle
foreste della terra… nel mio cammino udivo le stelle cantare e mi sentivo avvolta di trepide ali… fu un lungo viaggio…”, ”un lungo viaggio davvero – replica lo stornello – ma presto dimenticato”, “No, non lo dimenticherò” dice
Annabella fiduciosa ma, dopo solo una settimana, al ritorno dello stornello,
già non c’e più traccia in lei del mistero delle sue origini. ”Ha dimenticato”
dice lo stornello con dolore.
Quest’oblio, quest’amnesia che sembra coincidere con la barriera della rimozione è quella che rende la vita triste e vuota, quella che porta i pazienti a
rivolgersi all’analisi con la speranza di trovare o ritrovare il contatto con le proprie emozioni, di recuperare quella pienezza perduta che dovrebbe essere vivificata, resuscitata dalle parole dell’analista, dalla sua capacità di essere vivo e
mettere vita in quello che dice e nella storia del paziente, riconnettere le esperienze, ripristinare i nessi e riportarli alla consapevolezza.
Questo è il grande e affascinante paradosso dell’analisi che ha come fine ultimo di fare acquisire al paziente zone sempre più vaste di consapevolezza laddove i processi secondari di pensiero sono prevalenti, ma questo non può avvenire se non c’è stata l’immersione nel preconscio proprio e dell’analista,
dove avviene la presa di contatto con se stessi grazie alle parole dell’altro.
Quale può essere, dunque, il cambiamento, la modernità del linguaggio
dell’analisi? Certamente un abbandono, come già dissi all’inizio, dell’accademismo inibito e difensivo nel formulare interpretazioni e nel parlare; mi sento
di condividere quanto dice Zucconi quando afferma che le associazioni libere
che vengono richieste ai pazienti possono nascere solo da interpretazioni libere, libere da quell’eccesso di sforzo razionale e oggettivante che le rende
forse concettualmente corrette ma globalmente non vere, false in quanto lontane dal sé di chi le pronuncia e di chi le ascolta formulate con parole che descrivono ma non comunicano, non contengono la persona dell’analista e
quindi non possono toccare la soggettivita del paziente.
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Bibliografia
Loewald H. (1977), “Processo primario, processo secondario e linguaggio”. In: Riflessioni psicoanalitiche. Dunod, Milano 1999.
Loewald H. (1971), “Teoria motivazionale e teoria pulsionale”. In: Riflessioni psicoanalitiche. Dunod, Milano 1999.
Mitchell S. (2000), Il modello relazionale dall’attaccamento all’intersoggettività. Cortina, Milano 2002.
Stern D.N. (1985), Il mondo interpersonale del bambino. Boringhieri, Torino 1987.
Travers P.L. (1936), Mary Poppins. Bompiani 1937.
Travers P.L. (1936), Mary Poppins ritorna. Bompiani 1937.
Paola Bennati
Largo Re Umberto, 106
10128 Torino
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