L`ascolto del minore e la legge 8 febbraio 2006, n. 54
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L`ascolto del minore e la legge 8 febbraio 2006, n. 54
Fondazione Guglielmo Gulotta di Psicologia Forense e della Comunicazione L’ascolto del minore e la legge 8 febbraio 2006, n. 54: dalla norma all’incontro Autore: Dott.ssa Loredana Palaziol Psicologa – Psicoanalista SPI Tutor: dott.ssa Giulia Capra Docente: dott.ssa Anna Balabio 2010 0 INDICE ABSTRACT…………………………………………….......pag.1 INTRODUZIONE…………………………………………..pag. 2 L’ASCOLTO DEL MINORE NELLA NORMATIVA INTERNAZIONALE………………………………………pag. 4 L’ASCOLTO DEL MINORE NELLA NORMATIVA NAZIONALE……………………………………………….pag. 6 SENTIRE ESAMINARE ASCOLTARE…………………...pag. 10 L’ASCOLTO IN PSICOLOGIA…………………………....pag. 12 L’ASCOLTO DEL MINORE E LA LEGGE 54/2006: ASPETTI CRITICI………………………………………….pag. 17 L’ASCOLTO DEL MINORE E LA LEGGE 54/2006: APPLICAZIONE……………………………………………pag. 24 CONCLUSIONI…………………………………………….pag. 29 BIBLIOGRAFIA……………………………………………pag. 32 APPENDICE: INTERVISTE 1 ABSTRACT La legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) ha introdotto nell’ordinamento italiano il principio dell’obbligatorietà dell’ascolto dei minori nei procedimenti di separazione dei coniugi (art. 155 sexies c.c.). Il legislatore nazionale non ha indicato criteri applicativi uniformi per un istituto che si colloca in un terreno di confine fra psicologia e diritto. Il presente lavoro affronta il tema dell’ascolto del minore dal punto di vista psicologico e individua e sviluppa alcuni punti critici nell’applicazione della norma introdotta dalla legge. In appendice vengono riportate le interviste al Presidente della VII Sezione civile del Tribunale di Torino (Sezione Famiglia) e ad Avvocati del Foro di Torino e di Pinerolo che illustrano la situazione locale per quanto concerne l’attuazione del nuovo istituto. 2 INTRODUZIONE "Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato "Storie vissute della natura ", vidi un magnifico disegno. Rappresentava un serpente boa nell'atto di inghiottire un animale (..) C'era scritto: "I boa ingoiano la loro preda tutta intera, senza masticarla, dopo di che non riescono più a muoversi e dormono durante i sei mesi che la digestione richiede." Meditai a lungo sulle avventure della giungla. E a mia volta riuscii a tracciare il mio primo disegno. II mio disegno numero uno. Era così: Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: "Spaventare ? Perché mai uno dovrebbe essere spaventato da un cappello ? ". II mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante. Affinché vedessero chiaramente che cosa era, disegnai l'interno del boa. Bisogna sempre spiegargliele le cosa ai grandi! II mio disegno numero due si presentava così: 3 Questa volta mi risposero di lasciare da parte il boa, sia d i fuori che di dentro. Fu così che a sei anni io rinunciai a quello che avrebbe potuto essere la gloriosa carriera di pittore. II fallimento del mio disegno numero uno e del mio disegno numero due mi aveva disarmato. I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta." Fin qui, il racconto di Saint Exupéry ( 1943). Ppotremmo proseguire domandandoci che cosa sarebbe successo se invece di limitarsi a vedere il disegno del piccolo Antoine, i “grandi” avessero provato a guardarlo; se anzichè mortificarlo, facendolo sentire un po' sciocco, avessero accolto il suo invito a guardare insieme la paura che egli aveva cercato di raffigurare; se avessero saputo guardare dentro e oltre il cappello e sì fossero accorti che non era un cappello (e nemmeno un boa) ciò di cui voleva parlare loro Antoine. Non sappiamo che cosa sarebbe successo, ma sappiamo, invece, che cosa é successo: un'occasione di incontro tra il bambino e i "grandi" é andata perduta. Il possibile dialogo tra un bambino egli adulti si é trasformato in una delusione, in una incomprensione frustrante che ha generato il pensiero che cercare di farsi capire dai "grandi", sia una impresa destinata a fallire e quindi da abbandonare. Ma il brano citato, attraverso la vividezza della narrazione, ci suggerisce anche un'altra cosa: che i bambini ci provano e ci riprovano a comunicare con gli adulti; essi cercano continuamente e con tutti i mezzi a loro disposizione una relazione con l'adulto che sia in grado di rispondere ai loro bisogni, che sappia ascoltarli. Lo fanno col loro linguaggio, un linguaggio che l'adulto ha posseduto, ma non sempre é capace di ritrovare. E' tuttavia un linguaggio che dovrebbe essere inteso e parlato da tutti gli adulti che per ragioni diverse si relazionano con i bambini, ma in particolar modo da coloro che questa relazione la vivono nello svolgimento della loro professione. Essi hanno nei confronti dei bambini un grado maggiore di responsabilità: la responsabilità di cercare di trasformare ogni incontro in un "buon incontro". Queste considerazioni ci introducono al tema che affronteremo nel presente lavoro. 4 CAP. I L’ASCOLTO DEL MINORE E LA NORMATIVA INTERNAZIONALE Sul tema dell’ascolto del minore all’interno dei procedimenti giudiziari che lo riguardano si dibatte da circa un ventennio e sono numerosi i contributi sull’argomento da parte della giurisprudenza e della dottrina. Importanti convenzioni internazionali hanno richiamato gli Stati al rispetto dei diritti del bambino, che da oggetto di tutela è sempre più considerato portatore di diritti e, da una certa età in poi, capace di esprimere opinioni che devono essere prese in considerazione (Bandini, Alfano e Ciliberti,2008). La normativa internazionale sull’ascolto costituisce un importante quadro di riferimento, poiché vi sono enunciati principi generali frutto di dibattito e di confronto fra Nazioni diverse e perciò largamente condivisi. Tale riferimento consente di interpretare in modo coerente la normativa nazionale, laddove questa si presenti carente o contraddittoria. La Convenzione dei diritti del fanciullo dell’ONU (New York, 20 novembre 1988), ratificata con la Legge n. 176/1991, attribuisce ad ogni minore “capace di discernimento”, all’art. 12, il diritto “di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa”; prevede cioè che sia riconosciuto al fanciullo capace di formarsi una propria opinione, il diritto di esprimerla, tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. A tal fine, in ogni procedura che lo riguarda, egli ha diritto “ad essere ascoltato, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale”. La Carta Europea dei diritti fondamentali (c.d. “Carta di Nizza”, 7 dicembre 2000) all’art. 24 stabilisce che i bambini possono esprimere liberamente sulle questioni che li riguardano la propria opinione, che viene presa in considerazione in funzione della loro età e della loro maturità. La Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori (Strasburgo, 1996), ratificata e resa esecutiva, per alcuni procedimenti, con la Legge n. 77/2003, mira a rendere effettiva la tutela dei diritti del minore ad essere informato, rappresentato, ascoltato. In particolare gli artt. 3, 4 e 5 riconoscono al minore capace di discernimento, nei procedimenti che lo riguardano, il diritto di ricevere ogni informazione pertinente; di essere consultato e di esprimere la sua opinione; di essere informato di eventuali conseguenze di qualsiasi decisione. Il minore può richiedere, direttamente o tramite altre persone o organi, la designazione di un rappresentante speciale nelle procedure che lo concernono dinnanzi ad 5 una autorità giudiziaria. L’art. 6 prevede inoltre che l’autorità giudiziaria debba tenere in debita considerazione le opinioni da lui espresse. La Convenzione dell’ Aja (28 ottobre 1980), relativa alla sottrazione internazionale dei minori, va nella stessa direzione: in essa è prevista, infatti, l’audizione del minore, che può opporsi al suo rientro. Di questa opinione il giudice deve tenere debito conto e deve darne atto in motivazione pur non essendo ovviamente vincolato ad essa. In particolare, qualora il minore fosse riconosciuto “maturo”, e quindi in grado di esprimere un’opinione libera e non condizionata, il giudice dovrà congruamente motivare una decisione contraria. La Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della sua dignità riguardo all’applicazione della biologia e della medicina (Oviedo, 4 aprile 1997, ratificata con la Legge n. 145 del 28.03.2001) prevede all’art. 6 che l’opinione del minore debba essere presa in considerazione in modo via via più determinante in ragione dell’età e del grado di maturità. Il Regolamento europeo n. 2201/2003 del Consiglio d’Europa (c.d. Bruxelles 11-bis) relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità genitoriale, prevede l’audizione del minore come uno dei requisiti per il riconoscimento e l’esecutività negli altri paesi europei di decisioni riguardanti il diritto di visita e il ritorno del minore in caso di sua sottrazione (artt. 23, 41, 42). Non é necessario che sia sentito in giudizio, ma il suo parere deve essere accolto da un’autorità competente secondo il diritto interno. Il minore deve quindi essere ascoltato, salvo che ciò appaia inopportuno in ragione della sua età o del grado di maturità. 6 CAP. II L’ASCOLTO DEL MINORE E LA NORMATIVA NAZIONALE Se, come abbiamo visto, sul piano internazionale il tema dell’ascolto del minore è stato oggetto di particolare attenzione negli ultimi decenni, sul versante interno per lungo tempo non vi sono state analoghe spinte innovative. In sede di giudizio penale diverse disposizioni disciplinano le modalità di ascolto del minore. Esse riguardano l’ ascolto assistito del minore imputato nel processo penale minorile (art. 12 DPR n. 448 del 22 settembre 1988), l’ascolto del minore testimone nel processo penale ordinario o minorile (art. 498, 4° comma, c.p.p.) e l’ascolto del minore parte lesa dei reati sessuali (art. 609 decies, 2° e 3° comma c.p.). In particolare, per quanto concerne l’esame del minore in casi di abuso sessuale e di abuso sessuale collettivo, gli esperti fanno riferimento rispettivamente alla Carta di Noto (1996,aggiornata a luglio 2002) e al Protocollo di Venezia (2007) . La Carta di Noto contiene delle linee guida che “devono considerarsi quali suggerimenti diretti a garantire l’attendibilità dei risultati degli accertamenti tecnici e la genuinità delle dichiarazioni, assicurando nel contempo al minore la protezione psicologica, nel rispetto dei principi costituzionali del giusto processo e degli strumenti del diritto internazionale”. Le linee guida valgono per le figure professionali (ove specificato) e “per qualunque soggetto che nell’ambito del procedimento instauri un rapporto con il minore” Il Protocollo di Venezia (1) nel far propri i principi della Carta di Noto delinea e specifica, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, le linee guida alle quali gli esperti dovrebbero attenersi nell’affrontare casi di abuso sessuale collettivo sui minori. Tale Protocollo contiene inoltre, in allegato, una dettagliata guida metodologica per l’assessement dei minori coinvolti in presunti abusi sessuali collettivi, che rappresenta l’indicazione da seguire per una “buona prassi”. L’ascolto del minore é previsto da diverse disposizioni del codice civile e da leggi speciali (v. L 149/2001 sull’adozione), ma dalla lettura delle norme, come scrive Cesaro(2006), “emerge un quadro alquanto disomogeneo e frammentato, senza un chiaro criterio discriminante: talvolta si prevede l’obbligatorietà dell’ascolto e talvolta la sua mera facoltatività; altre volte ancora si attribuisce carattere vincolante all’opinione del minore, richiedendo il suo consenso per il perfezionamento di dati atti, mentre in altre si lascia alla 7 libertà e discrezionalità del giudice la decisione circa il peso da attribuire alle dichiarazioni del minore stesso”. L’ascolto dei figli minorenni da parte del giudice non era contemplato nella norma del codice civile sulla separazione dei coniugi. Fu introdotto dalla legge n. 898/1970 (modificata dalla L. n. 74/1987) sul divorzio, che prevedeva che il giudice, li sentisse, ove lo ritenesse “strettamente necessario, anche in considerazione della loro età” (art. 4, comma 8°, Legge sul divorzio, modificata dalla Legge 6 marzo 1987, n. 74). Nei procedimenti sulla potestà dei genitori l’ascolto del minore non é esplicitamente previsto neppure dalle disposizioni processuali introdotte nel 2001 ed entrate in vigore nel luglio 2007, che prevedono la difesa anche per il minore (art. 37 L. 149/2001, che integra l’art. 336 c.c.). Nei procedimenti di adottabilità e di adozione la L. 184/1983, modificata dalla L. 149/2001, prevede che il minore debba essere sentito quando abbia compiuto 12 anni, o anche meno se si ritiene abbia “capacità di discernimento” (v. art. 4, art. 7, comma 2°, art. 10, comma 5°, art. 22, comma 6°) Nella legge sull’adozione il minore non viene ascoltato, ma semplicemente sentito. La legge n. 194/1978 sull’interruzione della gravidanza, all’art. 12 prevede particolari modalità di ascolto della minore nelle procedure di autorizzazione a decidere senza l’intervento dei genitori. La necessità che venga interpellato il minore nei procedimenti che lo riguardano viene prevista anche da diverse norme del codice civile, in modo “un po’ confuso ed apparentemente casuale” (M.G. Domanico ,2008) Ad esempio: art. 145 c.c. (intervento del giudice del tribunale ordinario in caso di disaccordo su questioni familiari di particolare rilevanza, quali la fissazione della residenza o altri “affari essenziali”) ; art. 316 c.c. (intervento del tribunale per i minorenni in materia di potestà dei genitori); art 348 c.c. (relativo alla scelta del tutore) ;art, 371 c.c. (provvedimenti circa l’educazione e l’istruzione); art. 250 c.c. (disciplina dell’azione di riconoscimento);art. 284 c.c. (disciplina l’azione di legittimazione). La nuova legge 8 febbraio 2006, n. 54 (“Disposizioni in materia di separazione dei coniugi e affidamento condiviso”), costituisce un importante novità in tema di ascolto dei minori. 8 Essa sostituisce il vecchio art. 155 c.c.. Il nuovo testo, rubricato “provvedimenti riguardo ai figli”, contiene l’affermazione del principio della “bigenitorialità”, inteso quale diritto soggettivo del minore a crescere con la presenza di entrambi i genitori. Una innovazione assai rilevante, inoltre, é contenuta nell’art. 155 sexies della stessa legge e rubricato: “Poteri del giudice e ascolto del minore”. Esso dispone, nel primo comma : “Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’art. 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici ed anche di età inferiore se capace di discernimento” L’art. 4 della stessa legge estende tutte le disposizioni anche ai procedimenti di scioglimento, cessazione degli effetti civili e nullità del matrimonio, nonché a quelli relativi ai figli di genitori non coniugati. Per quanto riguarda i procedimenti di separazione sono state quindi recepite dal nostro legislatore, con la L. n. 54/2006, le indicazioni delle Convenzioni internazionali sulla necessità che si proceda all’ascolto dei minori prima che vengano assunte delle decisioni che li riguardano. Infatti, fino all’entrata in vigore della legge, all’interno delle norme relative al giudizio di separazione non vi era nessuna disposizione che prevedesse l’ascolto del minore, mentre la norma dell’ascolto previsto dalla legge per il divorzio, già citata, ha sempre avuto scarsa applicazione. I cambiamenti, per la carica innovativa della nuova disciplina, sono assai rilevanti, in particolare nei seguenti aspetti: - si sono unificati i criteri concernenti l’età minima per l’ascolto, individuandola con precisione come momento iniziale del diritto del minore ad essere ascoltato; - si è esteso il diritto all’ascolto anche all’età inferiore alla minima, quando il minore abbia capacità di discernimento; - si é esteso l’ascolto a tutti i procedimenti relativi a casi di frattura della coppia genitoriale, eliminando così una ingiustificata differenza - si è sottratto l’ascolto del minore dall’ambito dei mezzi di prova (Fadiga,2006). Inoltre, la nuova disciplina introduce nell’ordinamento italiano l’obbligatorietà dell’ascolto del minore nei procedimenti indicati . Al riguardo, tuttavia , non vi é unanimità di interpretazione. Tra coloro i quali si esprimono per l’esistenza di un obbligo di audizione citiamo, oltre a Fadiga, Tommaseo(2006),Della valle(2006), De Marzo (2006). 9 Di parere contrario Algostino (2010, intervista), Dosi (2006), Martinelli e Mazza Galanti (2008). Secondo questi ultimi, nelle separazioni consensuali, divorzi a istanza congiunta e nei provvedimenti di revisione che si concludono con un recepimento di un accordo tra le parti, il giudice non si troverebbe nella necessità di disporre l’ascolto del minore, ascolto che viene disposto con una interpretazione “ragionevole” (Dosi,cit.; Dionisio,intervista). In questa direzione si esprime anche il “Protocollo sull’interpretazione e applicazione legge 8 febbraio 2006, n.54 in tema di ascolto del minore” (2006) dell’Osservatorio per la giustizia civile di Milano. Inoltre, in base alle Convenzioni internazionali citate e alla successiva Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo (1996), l’esercizio di questo diritto deve essere facilitato da altri due diritti, strumentali al primo: quello di ricevere tutte le informazioni pertinenti e quello di essere informato sulle possibili conseguenze delle opinioni da lui espresse, oltre che delle possibili conseguenze di ogni decisione. “Inquadrato in questa prospettiva, l’ascolto del minore (o meglio l’ascolto delle opinioni del minore) acquista una pregnanza sino ad ora ignota al nostro diritto processuale e sostanziale”. (Fadiga, cit.) NOTA (1) A conclusione dell’incontro di esperti tenutosi a San Servolo (Venezia) nei giorni 21-23 settembre 2007 organizzato dalla Fondazione Guglielmo Gulotta, dall’Università degli Studi di Padova e dall’Università degli Studi di Torino, si é proceduto, con l’apporto interdisciplinare di avvocati, psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili, criminologi e responsabili di Servizi, alla stesura del Protocollo di Venezia in tema di diagnosi forense di abusi sessuali collettivi. 10 CAP. III SENTIRE ESAMINARE ASCOLTARE Prima di considerare l’istituto dell’ascolto giudiziario ed i suoi nodi problematici, è necessario fare qualche considerazione di carattere semantico e precisare così “di che cosa si sta parlando, per evitare equivoci”(Domanico,cit.) Nelle varie norme che si riferiscono alla partecipazione attiva nei processi giudiziari del minore capace di discernimento, il legislatore ha utilizzato termini diversi, che rinviano a significati non sovrapponibili. Il minore può essere sentito, esaminato, ascoltato da parte del giudice, direttamente ,indirettamente o tramite un ausiliario (ex art. 68 c.p.c.) I diversi significati semantici dei verbi utilizzati possono determinare la costruzione di differenti modelli di partecipazione del minore ai procedimenti che lo riguardano e nello stesso tempo anche diverse attribuzioni di significato ai contenuti espressi, oltre a un diverso loro utilizzo nel processo. Nel procedimento penale, l’imputato minorenne viene esaminato, cioé viene interrogato allo scopo di chiarire i fatti ed il suo grado di responsabilità. Il minore testimone e/o vittima di reato, in particolare in materia sessuale, viene sentito, in quanto testimone appunto, con modalità atte ad evitare il più possibile l’impatto traumatico che potrebbe avere l’ingresso in un’aula giudiziaria e l’incontro con l’imputato. Si tratta dell’ “audizione protetta”, un esame che si svolge alla presenza delle parti processuali, ma in modo non invadente. Si utilizzano infatti stanze apposite, con specchi unidirezionali e sistemi di videoregistrazione, che consentono alle parti di partecipare all’incontro in modo “indiretto”. Questo tipo di ascolto è volto ad ottenere dal minore una testimonianza relativa ai fatti che lo riguardano direttamente o che lui stesso ha osservato. “La testimonianza vede come protagonista chi interroga (giudice, avvocato, p.m., polizia) e ha come suo contenuto dei fatti. In essa rileva ciò che interessa a chi interroga e non ciò che il testimone vuole o desidera dire”. ( Pazé,2003) Nei procedimenti civili il minore può essere sentito o ascoltato. Il verbo sentire “implica che siano raccolte informazioni, da parte di chi compie l’attività, utili per il procedimento e utilizzabili in esso. L’attività con cui si sente il minore 11 costituisce pertanto un atto istruttorio con tutte le implicazioni in termini di rispetto del contraddittorio e di modalità di verbalizzazione” ( Domanico, cit.). In altri termini, sentire il minore secondo tale accezione sarebbe considerato mezzo di prova (Sergio ,1999). Sull’attendibilità dellla testimonianza dei bambini o ragazzi è fiorita una vasta letteratura. Non altrettanto approfondito é stato il tema dell’ascolto, ovvero l’interazione, nel contesto giudiziario, col minore, non finalizzata alla sua testimonianza (ovvero non come mezzo di prova), ma alla creazione di un dialogo che consenta la sua partecipazione alle decisioni che lo riguardano secondo quanto richiesto dalle Convenzioni internazionali (Dell’Antonio, 2001). Per la lingua italiana ascoltare e sentire sono verbi di significato diverso. Il sentire non richiede un atto di volontà: é un fenomeno di fisica acustica. L’ ascoltare richiede qualcosa di diverso. Comporta accettare di entrare in relazione con l’Altro, recepire e comprendere ciò che vuole esprimere e comunicarci: con le parole, con un’espressione del viso, del corpo, e perchè no, col silenzio. Ascoltare significa disponibilità ad accogliere l’Altro e a modificare le nostre opinioni, lasciandoci “fecondare” da nuovi contenuti e significati. L’ascolto, nel tema che stiamo trattando, ha come soggetto attivo il minore ed é strumento per raccogliere il suo pensiero, la sua opinione e i suoi desideri, all’interno di una vicenda processuale che lo tocca da vicino. “Nell’ascolto non siamo alla ricerca della verità, perché il nostro interesse è rivolto alla persona del minore prima che ai fatti”. (Lombardi ,Tafà, 1998) In termini giuridici quindi, l’ascolto non é strumento di autodifesa, ma “dà forma al diritto del minore di partecipare alla sua tutela” ( Dell’Antonio, cit.), analogamente all’audizione prevista “in sede di giurisdizione volontaria (come d’altra parte anche in sede amministrativa)” (Gulotta,1980), che mira alla valutazione delle esigenze del minore. 12 CAP.IV L’ASCOLTO IN PSICOLOGIA Affronteremo l’atto di ascolto, dal punto di vista psicologico, esaminando due aspetti che lo caratterizzano: quello della comunicazione e quello dell’osservazione, concetti, questi, che contribuiscono a definire il processo di conoscenza all’interno della relazione interpersonale. Possiamo dare una sintetica definizione di comunicazione: “La comunicazione è la trasmissione di idee, emozioni, atteggiamenti e atti da una persona all’altra” (Campbell,1979). Il filosofo americano Ch. Morris, ha suddiviso la scienza generale dei segni (semiotica) in: sintattica, semantica e pragmatica. Il punto di vista pragmatico, in particolare, prende in considerazione come la comunicazione influenzi la condotta degli interlocutori. La comunicazione, così intesa, non è un fenomeno unidirezionale, ma un processo di interazione in cui entrambi i partecipanti si influenzano reciprocamente. In tal senso la comunicazione diviene sinonimo di relazione. La Scuola di Palo Alto, in California, negli anni ’60 del secolo scorso ha studiato gli aspetti pragmatici della comunicazione, costruendo un modello interpretativo di relazione interpersonale (e di psicopatologia), particolarmente attento agli aspetti non verbali della comunicazione umana (Watzlawick e coll.,1971). I dati della pragmatica, infatti, non sono solo le parole del discorso (CV), ma anche i fatti non verbali (CNV) che ad esse si accompagnano, ovvero tutti quegli aspetti che connotano il discorso, oltre l’aspetto semantico: “i segnali gestuali, mimici e posturali, ma anche gli aspetti spaziali (prossemici) delle interazioni” (Poli,1980). Quello della CNV è un concetto fondamentale nello studio della comunicazione fra le persone, perché consente di ampliare il campo di osservazione all’interno della relazione. Gli studiosi della “pragmatica della comunicazione umana” (Watzlawick, cit.) hanno individuato alcune proprietà fondamentali della comunicazione. Due di esse sono di particolare rilievo nel discorso che stiamo affrontando: 1) “il comportamento non ha un suo opposto”. Ciò significa che non esiste un “non comportamento” e, di conseguenza, in una relazione interpersonale non é possibile 13 “non comunicare”: l’attività e la passività, la parola e il silenzio, hanno tutti infatti valore di messaggio. 2) “La comunicazione non soltanto trasmette informazioni, ma al tempo stesso impone un comportamento”. Si parla cioé dell’aspetto di report (notizia) e dell’aspetto di command (comando) di ogni comunicazione: mentre la notizia trasmette il contenuto del messaggio, il comando si riferisce alla relazione tra i comunicanti. (1) Esso fornisce un’informazione sulla relazione, ovvero una “comunicazione sulla comunicazione” o “metacomunicazione”, a sua volta suddivisibile in due aspetti, fra loro collegati: il primo relativo a come il messaggio deve essere assunto (es.:“sto scherzando!” “é un ordine !”; ecc.); il secondo a quale tipo di relazione intercorre tra gli interlocutori, in quel momento (“ecco come ti vedo”; “ecco come mi vedi”; “ecco come vedo che tu mi vedi;ecc.; ma anche: “che cosa mi aspetto da te”; ”che cosa tu ti aspetti da me”; ”che cosa immagino tu ti aspetti da me”; “che cosa tu immagini io mi aspetti da te”, ecc.) La metacomunicazione può tradursi, nel discorso, in un’espressione verbale, consapevole ed esplicita, ma più spesso è veicolata nell’interazione in modo non verbale e inconsapevole. E’ questa, infatti, l’area in cui trova maggior espressione la CNV: una comunicazione che si avvale del linguaggio analogico in cui il significante “allude” al significato, contrariamente a ciò che avviene nel linguaggio numerico o digitale, che è quello che utilizza l’alfabeto e la sintassi, convenzionalmente accettati ed univoci. La CNV è pertanto una comunicazione equivoca, ambigua, che necessita di altri tipi di informazione per essere dotata di significato: ad esempio, ma non solo, un riferimento al contesto in cui essa si produce, ovvero alle caratteristiche spazio-temporali in cui ha luogo lo scambio comunicativo, e all’insieme delle circostanze, storiche e psicologiche, che concorrono a rendere significativa l’interazione, alle caratteristiche degli interlocutori e ai loro ruoli. La CNV è la modalità di comunicazione in cui trovano espressione gli aspetti della personalità meno soggetti al controllo della razionalità: gli aspetti emotivo – affettivi. L’attenzione agli aspetti non verbali della comunicazione ci fornisce quindi un prezioso indicatore del fatto che “qualche cosa” accade nell’interazione con l’Altro, al di là delle parole. 14 Tuttavia, il significato di ciò che accade e la motivazione per cui accade non sono dati estrapolabili dall’osservazione del comportamento. Infatti, per accostarci al significato che l’esperienza assume per il soggetto, all’interno della relazione, dobbiamo ricorrere “alla modalità conoscitiva propria del comprendere” attraverso ”l’approccio psicodinamico e fenomenologico” (Fornari,2008). Dobbiamo, in altri termini, guardare dentro a quella “scatola nera”, la mente, che il modello teorico della pragmatica della comunicazione volutamente esclude dal campo d’indagine, considerando il concetto di mente “un costrutto ipotetico assolutamente inutile ai fini della ricerca e dell’interpretazione della condotta umana” (Gulotta, 2000) Pertanto, capovolgendo l’affermazione di Watzlawick, noi riteniamo di non poterci limitare ad osservare i rapporti di “ingresso – uscita” dalla “scatola nera” o tra le “scatole nere” (v. sistema familiare), ovvero la comunicazione e il comportamento nei suoi aspetti manifesti, se il nostro obiettivo è quello di dotare di significato l’esperienza della persona, significato che Watzlawick stesso definisce “una nozione indispensabile per l’esperienza soggettiva della comunicazione con gli altri”, pur attribuendo ad essa uno scarso valore euristico in quanto “oggettivamente indecidibile” (Watzlawick, cit.). A proposito di conoscenza dei fenomeni viventi, scrive Hutten (1975): “Noi dobbiamo ammettere che i processi viventi, in confronto con gli oggetti inanimati, hanno più parametri o attributi. Essi posseggono almeno una dimensione in più: automovimento, crescita, sviluppo. A meno di impiegare una terminologia sufficientemente ricca, non possiamo descrivere adeguatamente un fenomeno vivente. La difficoltà è che il comportamento osservabile (....) assomiglierà ad un moto meccanico, ma la direzione o la tendenza, l’obiettivo, lo scopo o ragione, non sono invece necessariamente visibili e devono essere scoperti interrogando la persona o attraverso qualche tipo di introspezione” . Ancora Hutten: “Se insistiamo che l’evidenza deve essere del tipo dei dati sensoriali (...), allora abbiamo reso a priori impossibile provare mai qualsiasi teoria non meccanicistica”, e ciò in base alla concezione secondo cui “la struttura della spiegazione e il metodo di conferma devono essere gli stessi in ogni scienza”, ma “una spiegazione in termini di motivo è molto differente da una spiegazione causale (...); un motivo non é una causa (...), non é un accadimento esistente nello spazio-tempo (...) ma una disposizione dell’essere umano ad agire in un certo modo” e in quanto tale, una disposizione può essere elaborata in molti modi differenti. Pertanto, mentre nella descrizione causale dei fenomeni fisici noi consideriamo solamente eventi ed oggetti esterni, nella descrizione del comportamento umano dobbiamo fare 15 riferimento a processi interni: pensieri e sentimenti, consci ed inconsci, che costituiscono il mondo interno della persona. La rivoluzione scientifica del XX secolo ha determinato una trasformazione epistemologica introducendo, nel campo dell’osservazione, le realtà del limite della conoscenza scientifica. In fisica, col “principio di indeterminatezza” di Heisenberg, l’osservatore é entrato con forza nel processo conoscitivo, alterando il campo ed influenzando con la sua presenza le caratteristiche dell’oggetto di studio. L’interazione tra l’osservatore e il fenomeno è ovviamente di grado molto diverso, a seconda che si tratti di osservazione di fenomeni fisici o, viceversa, di osservazione di esseri viventi, ma diviene di primaria importanza quando l’oggetto di indagine è un altro essere umano. Qui il principale strumento di indagine è il ricercatore stesso: “la sua interazione col soggetto fornisce la certezza su cui si fonderà la spiegazione” (Hutten,cit.). .Al tema dell’osservazione come strumento di conoscenza della persona e della relazione interpersonale la ricerca psicoanalitica dà il suo contributo ponendo al centro dell’atto osservativo la relazione soggetto-oggetto. “L’uomo è costituito prettamente di relazioni; la relazione è pertanto la via migliore per conoscerlo e l’unica area di indagine veramente osservabile” .( Borgogno, 1978) Come scrive Aron (2004): “la mente stessa è un costrutto relazionale e può essere studiata solo nel contesto relazionale con altre menti”. Secondo il modello psicoanalitico, pertanto, l’osservatore si costituisce come il principale strumento di conoscenza e l’osservazione, così intesa, non é un atto impersonale e asettico, nè tanto meno passivo; non può fondarsi solo sul guardare, ma deve contemplare al suo interno l’essere e il sentire. Nel campo dell’osservazione umana non tutto, infatti, ha una controparte sensoriale: non si osservano direttamente l’amore o la tenerezza, l’odio o il rancore o l’invidia, e neppure il bisogno o il desiderio. Non sempre essi manifestano un correlato fisiologico o somatico esterno, anche se spesso, come abbiamo visto, trovano una via espressiva nella comunicazione non verbale. Il soggetto alla base della ricerca psicologica chiede di essere conosciuto emotivamente e sarà proprio l’esperienza soggettiva, personale, dell’Altro in relazione con lui che consentirà di raggiungere questa conoscenza, attraverso il contatto empatico. Empatia, dal greco empatheia, “sentire dentro”, é un termine inizialmente usato dai teorici dell’estetica per indicare la capacità di percepire l’esperienza soggettiva altrui. 16 Essa é, per la psicoanalisi, una forma di conoscenza che concerne la comprensione dell’esperienza altrui e della propria (capacità di autoosservazione), la consapevolezza dei pensieri e dei sentimenti di un’altra persona, la capacità di vedere il mondo come questa lo vede. Essa ha come presupposto l’autoconsapevolezza: quanto più siamo in contatto e in grado di riconoscere e gestire le nostre emozioni, tanto più saremo in grado di leggere quelle degli altri. Nell’empatia svolge un ruolo centrale l’ ”identificazione”, che è “la forma più originaria del legame affettivo con un oggetto” (Freud, 1932) ed è la prima modalità di conoscenza. Scrive Stern (1977) : “Immaginare sul piano cognitivo come potrebbe essere l’esperienza di un’ altra persona non è empatia, ma solo un atto elaborato di assunzione di ruolo, ove non ci sia infusa perlomeno una scintilla di risonanza emotiva”. La rappresentazione che in tal modo abbiamo delle persone e del mondo sarà sempre colorata dalle nostre personali emozioni ed è per questo che nel processo di conoscenza dell’altro che abbiamo delineato gioca un ruolo fondamentale la capacità di autoosservazione, di introspezione. In altri termini diviene fondamentale la nostra consapevolezza, in quanto osservatori, di essere dentro alla relazione e ancor più, di essere nella relazione, una variabile che influenza in maniera significativa la relazione stessa. Ciò in una definizione e ridefinizione continua della propria e dell’altrui posizione nella relazione, come messo in luce dalla teoria della Pragmatica della Comunicazione, ed in una co-costruzione del campo relazionale, dei costrutti e dei significati che in questo campo vengono espressi, come sviluppato nel pensiero psicoanalitico, a partire dal lavoro di S. Ferenczi, dalla riflessione degli “Indipendenti” della Scuola Inglese (Rayner, 1995) e, negli Stati Uniti, dagli esponenti della Psicoanalisi relazionale e dagli Intersoggetivisti (Aron,cit.) NOTA (1) Il termine command è suscettibile di una errata interpretazione nella traduzione italiana. Non si tratta infatti di trasmettere un ordine, ma di esercitare una pressione inconsapevole sull’Altro, perché confermi le nostre aspettative e le nostre richieste all’interno della relazione. 17 CAP. V L’ASCOLTO DEL MINORE E LA LEGGE 54/2006 : ASPETTI CRITICI La legge 54/2006 collega l’audizione del minore a due elementi: l’ età anagrafica (12 anni) e la capacità di discernimento , in questo modo confermando l’impostazione delle Convenzioni internazionali (New York, L’Aia, Strasburgo) e della legge sull’adozione. La capacità di discernimento viene introdotta per valutare l’opportunità di ascoltare il minore infradodicenne, laddove il minore ultradodicenne viene ritenuto convenzionalmente in possesso di tale capacità. Si é posto quindi il problema di chiarire quale contenuto debba essere attribuito a questo concetto, che non trova una definizione chiara né in ambito giuridico, né in ambito psicologico, e che richiede su entrambi i fronti un notevole sforzo interpretativo. Dal punto di vista giuridico il legislatore ha mutuato il concetto di discernimento dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, che a sua volta lo ha mutuato dal testo francese (“ enfant ... capable de discernement”) della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, e lo ha introdotto nel nuovo procedimento di adottabilità (Fadiga, cit.). Ma il testo inglese, che é quello ufficiale, non utilizza il termine “discernement”, bensì il concetto di “level of understanding necessary for children to be considered as being capable of forming and expressing their own views” (Rapporto esplicativo della Convenzione, punto 36). Si riferisce, cioé, al minore in grado di formarsi un’opinione e di esprimerla, in ragione della capacità di comprensione (understanding) raggiunta.. “La legislazione italiana non contiene una precisa definizione di sufficiente capacità di discernimento e molto spesso viene lasciato all’autorità giudiziaria il compito di individuarla caso per caso. Nè finora sono stati individuati criteri validi e condivisi per discriminare i minori che posseggono capacità di discernimento da quelli che non la posseggono. Si può concludere che la capacità di discernimento, in quanto categoria giuridica, deve ancora essere elaborata dalla giustizia civile italiana” (Cesaro, 2006) (1) Sul versante della psicologia le cose non vanno meglio: la “cacità di discernimento”non é una nozione scientificamente utilizzata in nessun modello psicologico dello sviluppo. Dal punto di vista psicologico, riguardo a questo concetto, ci sembra di poter affermare quello che Fornari (2008) sostiene a proposito del concetto di “maturità o immaturità” del minore: “Allo stato mancano sicuri criteri sui quali il tecnico si possa obiettivamente fondare per formulare un siffatto giudizio, che rimane sempre e solo affidato alla capacità, 18 all’abilità, alla preparazione, alla sensibilità e alla serietà dell’osservatore. Questi deve” calare” il suo giudizio clinico e la sua valutazione forense in un contesto culturale, relazionale e sociale”. E’ pertanto un concetto che utilizza un vocabolo della lingua italiana, che a sua volta deve essere dotato di significato specialistico, condiviso, per poter trovare applicazione. Il punto di partenza é dunque il significato del termine in lingua italiana. Il vocabolario Treccani definisce la parola “discernimento”come “giudizio, criterio, la facoltà del discernere”; e il verbo “discernere” come “vedere chiaro, distinguere con la vista, afferrare con la mente, facendo distinzione fra una cosa e l’altra; giudicare”. Quindi, la capacità di discernimento dal punto di vista semantico sarebbe la capacità di comprendere (“afferrare con la mente”), di distinguere una cosa da un’altra, di giudicare (nel senso di ritenere, essere di opinione); e secondo il legislatore di questa capacità sarebbero dotati i minori ultradodicenni. Sulla peculiarità psicologica del minore ultradodicenne, tale da qualificarlo come idoneo all’ascolto giudiziario, ci vengono in aiuto gli studi sullo sviluppo del pensiero. “Fra i nove e i dodici – tredici anni “ - cioé tra la fine della fanciullezza e l’inizio dell’adolescenza – “si verifica nello sviluppo delle strutture mentali, e, di conseguenza, nello sviluppo cognitivo un progresso assai importante anche se non improvviso(...) Nei processi di pensiero di cui il bambino, e poi il ragazzo, divengono capaci acquista un ruolo di sempre maggior rilievo la rappresentazione di realtà o situazioni «possibili» “ (Petter, 1972). Ci riferiamo al processo di pensiero che Piaget ha indicato come pensiero “ipotetico – deduttivo”. Intorno ai 12 anni, quindi, si può ragionevolmente ritenere che il fanciullo abbia mediamente acquisito la capacità di utilizzare le categorie logico – formali del pensiero, che consentono di pensare anche in termini astratti. Parallelamente allo sviluppo del pensiero, si assiste allo sviluppo del linguaggio, col superamento del confine tra linguaggio egocentrico e linguaggio socializzato (Piaget, 1970). Quindi, in linea teorica, da questa età in avanti è ragionevole supporre di poter realizzare col minore un incontro basato sul dialogo, che non presenta particolari difficoltà o problemi interpretativi, dal punto di vista del linguaggio verbale: le parole e i concetti espressi dal minore e dall’adulto saranno verosimilmente caratterizzati da una valenza semantica condivisa e univoca e il minore sarà in grado di esprimere il suo pensiero.Tornando alla nozione di “capacità di discernimento” cui fa riferimento il legislatore, e ponendola in relazione ai minori ultradodicenni, ci sembra allora di poter concludere che, dal 19 punto di vista psicologico, essa attiene principalmente all’ area dello “sviluppo cognitivo”, nei suoi aspetti di sviluppo del pensiero e del linguaggio. Le considerazioni svolte nel capitolo precedente ci hanno avvicinato alla complessità dell’atto di ascolto e più in generale della relazione interpersonale di cui esso é parte. L’ascolto previsto dalla legge 54/2006 si situa in un’area che potremmo definire transizionale, al confine tra giurisprudenza e psicologia. Esso si distingue nettamente dalla testimonianza, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, e si caratterizza, invece, come un mezzo per conoscere il minore affinchè il giudice possa meglio valutare l’adeguatezza delle decisioni ai suoi bisogni affettivo – relazionali. L’ascolto così inteso rinvia ad un atto “evocativo di tematiche psicologiche, più lontano dalle tematiche processuali” (Martinelli – Mazza Galanti, 2008), e presuppone “la capacità dell’adulto di entrare in sintonia con lui e stabilire una comunicazione che gli permetta di superare resistenze e distorsioni (...) E’ una comunicazione che richiede anche una autoconsapevolezza dei propri meccanismi di difesa di fronte all’affiorare del disagio dell’interlocutore”, ed é certamente “cosa non facile in una relazione in cui uno dei due componenti è un giudice, che per il suo ruolo non è tenuto ad entrare in empatia coi problemi del suo interlocutore” (Dell’Antonio, 2001). Si tratta quindi di un ascolto che, ponendosi l’obiettivo di capire, e non solo di sapere, che cosa pensa e prova il minore, non può prescindere dall’entrare in relazione con esso, avvalendosi delle modalità di comunicazione più adatte, secondo l’età del minore stesso. Affinché l’incontro non si esaurisca in una burocratica sequenza di domande e risposte, sarà necessario allora dare spazio all’espressione libera del minore sui temi oggetto dell’audizione, tenendo conto dei diversi livelli di comunicazione presenti nel discorso e delle valenze emotivo-affettive presenti. Ci riferiamo al fatto che le affermazioni, le opinioni, i pensieri espressi dal minore “non possono e non debbono essere accettati senza che se ne comprenda a fondo le motivazioni e il significato” (De Carlo Giannini, 2004) Occorre allora essere consapevoli del fatto che “i personaggi” che popolano lo scenario del mondo interno del bambino e del ragazzo e che entrano nella sua narrazione, non hanno caratteristiche totalmente sovrapponibili alle persone reali del contesto familiare e, a volte, se ne discostano di molto. Ciò in virtù del fatto che essi sono il risultato di una elaborazione, una trasformazione più o meno significativa, che le persone “reali” subiscono, in ragione della storia personale di quel bambino, di quel ragazzo, delle sue 20 relazioni affettive passate, delle sue fantasie, dei suoi vissuti, della sua personale elaborazione dell’esperienza presente, di rottura degli equilibri familiari, oltre che della sua età e quindi della specifica fase di sviluppo psico-affettivo che sta attraversando. Per descrivere la peculiarità di queste componenti del mondo interno del bambino, Winnicott ha creato il termine di “oggetti soggettivi” (Winnicot, 1962). Chi si pone all’ascolto del minore, quindi, in un contesto di per sé doloroso e lacerante, come quello caratterizzato dalla rottura della coppia genitoriale, deve essere consapevole che gli argomenti portati dal minore, le sue opinioni, il suo punto di vista sugli avvenimenti che riguardano la coppia genitoriale, lui stesso e la famiglia in senso esteso, possono rappresentare le sue esigenze di crescita, ma possono anche essere espressione di bisogni primari regressivi, che sarebbe dannoso assecondare. Più spesso, si dovrà tener conto del fatto che entrambe queste esigenze saranno presenti nel discorso.In questo senso occorre certamente una adeguata conoscenza delle caratteristiche di ciascuna fase dello sviluppo psicologico del minore e dei meccanismi di difesa che potrebbero venir messi in atto, nella personale elaborazione affettivo-cognitiva della vicenda familiare e nella audizione stessa. Ovviamente, è altresì necessaria una accurata conoscenza della situazione reale di cui il minore é uno dei protagonisti nella vicenda processuale. E’ opinione diffusa, in ambito giudiziario, che “al di sopra dei 12 anni non dovrebbero esserci difficoltà ad un ascolto diretto (del giudice) , mentre nella frazione di età compresa tra i 5 e gli 11 anni l’intermediazione di uno psicologo dell’età evolutiva può rendere assai più appropriato l’ascolto indiretto (...) Infatti è vero che, a mano a mano che si retrocede verso l’infanzia, l’entrare in comunicazione con un bambino richiede conoscenze e tecniche specifiche” (Martinelli – Mazza Galanti, cit.). Questo pensiero contiene certamente una parte di verità, ma non è, a nostro avviso, totalmente condivisibile. E’ vero, infatti, che per realizzare una comunicazione efficace con un minore nella prima e nella seconda infanzia occorrono specifiche conoscenze nel campo dell’età evolutiva, oltre che conoscenze relative a particolari “tecniche” che consentono e facilitano l’incontro col bambino, ma questo non autorizza a considerare l’ascolto del minore ultradodicenne un ascolto cui si possa procedere senza competenze di tipo psicologico. Diremo meglio: che il ragazzo sia in grado di avere una sua opinione sulla vicenda che lo coinvolge e di esprimerla correttamente; che egli sia in grado di comprendere ciò che il 21 giudice gli illustra riguardo alla vicenda processuale dei suoi genitori, non ci dà alcuna garanzia rispetto al suo livello di organizzazione emotivo-affettiva, che ha invece una sua specificità. Ci riferiamo al minore adolescente, un minore che attraversa “fisiologicamente” una fase evolutiva, che dura alcuni anni, e che lo vede impegnato in una definizione e ridefinizione di sè e delle proprie relazioni interne ed esterne, operazione che spesso sfocia in un elevato grado di conflittualità con l’ambiente circostante, in un’altalena emotiva assai impegnativa per il ragazzo oltre che per le persone che con lui si rapportano. E’ certamente vero che per relazionarsi con un adolescente non occorre possedere particolari “tecniche” comunicative, come invece è indicato nel caso si ascoltino dei bambini, ma occorrono ugualmente una competenza ed una “attrezzatura interna” che solo un professionista specificamente preparato può avere, se, come già detto, l’obiettivo dell’audizione non è sapere (che cosa pensa, che cosa prova), ma capire (che cosa significa ciò che pensa e qual é, per lui, il senso dell’esperienza che ci racconta), ovvero, se non si vuole correre il rischio di vedere “un cappello” in luogo di un “boa che ha mangiato un elefante”(Saint Exupéry, cit.). Ciò é tanto più vero in quanto l’ambito nel quale il minore è chiamato a pronunciarsi nell’audizione ex art. 155 sexies c.c., ovvero la vicenda processuale della separazione o del divorzio dei suoi genitori, va a toccare precisamente quelle aree del suo mondo interno e delle relazioni oggettuali che proprio in questa fase evolutiva cercano una nuova e non facile ridefinizione. La separazione dei genitori in concomitanza con l’adolescenza è stata definita da Nagera una “interferenza di sviluppo”. Il risultato di questa “interferenza” dipenderà da molti fattori, ma certamente non sarà priva di significato. L’adolescente é chiamato a confrontarsi con una serie di trasformazioni rapide che riguardano innanzi tutto il suo corpo e il suo funzionamento. Alle modificazioni corporee si accompagnano grandi movimenti intrapsichici che possono essere paragonati ad un lavoro di elaborazione del lutto( Haim 1970; A. Freud, 1958). Si tratta dell’esperienza di separazione dalle figure genitoriali , del cambiamento delle modalità di relazione con esse, dei progetti e dei piaceri elaborati in comune (Marcelli, .Braconnier, 1996). Nell’affrontare questo “lavoro” l’adolescente utilizza una serie di modalità difensive, alcune delle quali tipiche della fase evolutiva, quali l’intellettualizzazione e l’intransigenza, la messa in atto, la scissione e i meccanismi ad essa correlati quali l’identificazione proiettiva, l’idealizzazione primitiva, la proiezione di tipo paranoide. In particolare, ci sembra interessante per l’argomento che stiamo trattando sottolineare l’importanza del meccanismo difensivo della scissione e della identificazione proiettiva. 22 Si tratta di meccanismi arcaici, che in adolescenza fanno la loro ricomparsa in modo transitorio, ma pregnante. La presenza di meccanismi scissionali è rintracciabile nei bruschi passaggi da un estremo all’altro, da uno stato emotivo all’altro, da un ideale all’altro, da un’opinione all’altra. Allo stesso modo si percepisce la presenza di questa difesa, nel comportamento dell’adolescente, caratterizzato da forti contraddizioni, di cui non sembra essere consapevole. Rispetto all’identificazione proiettiva ( Hogden, 1991) l’aspetto più interessante, ma anche più inquietante in un’ottica relazionale, è che si tratta di un meccanismo difensivo che consente al soggetto di liberarsi di parti di sè non tollerate facendo contemporaneamente vivere al proprio interlocutore quelle esperienze psichiche per lui non contenibili. Siamo in presenza, quindi, di un doppio meccanismo che descrive l’interazione di due elementi: l’intrapsichico e l’interpersonale. Nell’identificazione proiettiva il soggetto non si limita a vedere l’oggetto in maniera “distorta”, in quanto l’oggetto stesso, in virtù della pressione esercitata su di lui da questo meccanismo di difesa, percepisce se stesso sulla base delle fantasie inconsce dell’altro. E’ questo il modo in cui una persona “fa uso” di un’altra persona per sperimentare e contenere un aspetto di se stessa, non contenibile, non elaborabile, per ragioni diverse. E’ questo uno dei meccanismi più importanti che troviamo alla base dei processi di manipolazione all’interno della relazione interpersonale, in quanto é un meccanismo che influenza chi ne è fatto oggetto nei pensieri, nei sentimenti, nei comportamenti.(2) E’ uno dei meccanismi utilizzati frequentemente in adolescenza, meccanismo la cui portata non può essere sottovalutata nella comprensione della dinamica relazionale che si instaura col minore, ancor più quando sollecitato ad affrontare temi ad elevato tasso di emotività. Scrive Bommassar (2003):”Il minore é un oggetto che tocca aspetti personali profondi in chi gli sta di fronte (...) Comunemente si osservano due tipi di oscillazione: a volte ci si identifica col ragazzo, a volte col genitore. Possiamo essere portati ad identificarci coi vissuti di abbandono del bambino, col suo bisogno di accoglienza, ma possiamo altre volte identificarci con la fatica del genitore ad accogliere questi bisogni. Con l’adolescente questi meccanismi sono ancora più intensi. Chi ha esperienza di lavoro con essi sa che quasi mai si riesce a mantenere un atteggiamento neutrale, ma si é spinti a prendere posizione con o contro di loro” A decidere quale polarità seguiremo, o se saremo in grado di mantenere una giusta distanza, sarà la nostra storia personale, il nostro essere stati adolescenti, il nostro essere genitori, ed infine, non meno importante, la nostra competenza professionale. 23 NOTE (1) La capacità di discernimento del minore è un termine che ha fatto la sua comparsa in campo penale e che era presente nel codice Zanardelli. E’ stata invece rifiutata dal codice Rocco, che vi ha preferito la nozione di “capacità di intendere e di volere”. Siamo pertanto di fronte a un concetto nato in campo penalistico e del tutto nuovo in campo civilistico (Fadiga,2006) (2) Il meccanismo di difesa dell’identificazione proiettiva ha a nostro avviso molti punti di contatto col concetto di “comando” della comunicazione, che abbiamo affrontato nel IV capitolo, ma non è questa la sede per approfondire l’argomento. Ci limitiamo a sottolineare come entrambi i concetti si riferiscano al reciproco influenzamento inconsapevole dei soggetti impegnati nella relazione. 24 CAP.VI L’ASCOLTO DEL MINORE E LA LEGGE 54/2006: APPLICAZIONE Il principio dell’ ascolto del minore é stato certamente più applicato e tutelato nel penale (Cesaro, 2004), ambito dal quale provengono numerosi contributi da parte di magistrati, avvocati e operatori del settore, impegnati in campo minorile. Le nuove norme sull’ascolto del minore nel processo civile, introdotte con la legge 54/2006, pongono delicati problemi processuali, che impongono notevole sforzo interpretativo agli operatori del diritto e a coloro che operano, con diverse professionalità, nella gestione della giustizia minorile e dei procedimenti “familiari” (Cesaro, 2006). Ad essi è lasciato il delicato compito di indicare dei criteri guida che favoriscano la partecipazione del minore al processo, nel pieno rispetto dei suoi diritti e della sua personalità. Nel tentativo di definire delle linee guida cui fare riferimento per l’ascolto del minore, sono stati elaborati diversi Protocolli interpretativi, alcuni più strutturati, altri, tratti dall’esperienza sul campo, sono stati illustrati in varie sedi congressuali. Il Protocollo sull’interpretazione e applicazione della legge 8 febbraio 2006, n.54, in tema di ascolto del minore, dell’Osservatorio per la Giustizia Civile di Milano contiene indicazioni non vincolanti di carattere pragmatico, volte ad individuare e valorizzare norme di comportamento e prassi organizzativa finalizzate a garantire che l’audizione del minore avvenga con modalità adeguate e rispettose della sua personalità. Il gruppo di studio milanese, nella consapevolezza di trovarsi ad affrontare un tema “al confine tra psicologia e diritto” (Cesaro, cit.), si é avvalso dell’ausilio di esperti in scienze psicologiche e pedagogiche, producendo un testo “avanzato” (Martinelli, 2010), nel quale emerge a nostro avviso la particolare attenzione riservata alle tematiche psicologiche, in questo senso differenziandosi da altri testi, quale, ad esempio, il Protocollo di Roma (2007). Il Protocollo milanese richiama il principio di minima offensività e sollecita una limitazione dell’ascolto ai soli procedimenti contenziosi, prevedendo l’ascolto nei procedimenti consensuali solo qualora particolari circostanze lo rendano opportuno (art. 1). L’ascolto potrà inoltre non essere imposto nei casi in cui il giudice lo ritenga motivatamente non rispondente all’interesse del minore. 25 Vengono stabilite modalità riguardanti i tempi e il luogo dell’ascolto giudiziario (art. 2), garantendo al minore riservatezza e tranquillità. L’ascolto, ex art. 155 sexies c.c. viene chiaramente distinto dall’ascolto del minore in sede di CTU (art. 8), mentre, per ciò che riguarda il tipo di ascolto (diretto o indiretto), il Protocollo prevede la modalità di audizione c.d. assistita che vede impegnato il magistrato togato “unitamente” al giudice onorario, ove previsto, oppure “con la nomina di un ausiliario ex art. 68 c.p.c. esperto in scienze psicologiche o pedagogiche “ (art. 3), in relazione all’età del minore. Ugualmente, il ricorso all’esperto é previsto ove si tratti di valutare la “capacità di discernimento” (art. 1). In merito ai tempi dell’ ascolto, si indica la necessità di disporlo “al fine di prevenire eventuali inasprimenti del conflitto”: sembra quindi di poter intendere l’indicazione all’ascolto nella fase presidenziale. Riguardo alla presenza degli avvocati e delle parti, l’art. 5 indica chiaramente la non opportunità della loro presenza, garantendo ad essi la possibilità di far sentire la propria voce sottoponendo al giudice “temi e argomenti sui quali ritengono opportuno sentire il minore” Infine, per quanto attiene al diritto all’informazione del minore, il Protocollo (art. 5) si richiama all’art. 3 della Convenzione di Strasburgo, mentre, riguardo alla verbalizzazione, viene indicata “una forma sommaria” di verbale che il minore avrà il diritto di leggere e di sottoscrivere. L’ascolto del minore, come delineato nel Protocollo milanese, é pertanto un ascolto molto attento alle esigenze psicologiche del minore. A partire quindi dalla particolare sensibilità psicologica del Protocollo milanese ci é sembrato di poter cogliere l’esistenza di uno spazio ulteriore di riflessione e di approfondimento, nel tentativo di identificare le migliori condizioni per realizzare questa grande opportunità offerta dal legislatore. In questa direzione intendiamo proporre le osservazioni che seguono. Esse intendono approfondire il tema del setting dell’audizione, con particolare riferimento all’aspetto dell’informazione del minore per ciò che concerne la riservatezza o meno dei contenuti del colloquio, le modalità della verbalizzazione e della “restituzione” alle parti (principio del contraddittorio) . Il setting, nel senso qui inteso, è costituito dall’insieme delle regole che guidano l’audizione del minore e che costituiscono il necessario presupposto su cui si fonda la possibilità di 26 realizzare un incontro autentico: ”Il setting è come il buio al cinematografo, come il silenzio nella sala da concerto” (Flegenheimer, 1986). La necessità di fornire una adeguata informazione al minore discende direttamente dall’art. 3 della Convenzione di Strasburgo (1996) e riguarda il suo diritto “ad essere informato sul processo, dei motivi del suo coinvolgimento nello stesso, nonché dei possibili esiti del procedimento, precisando che tali esiti non necessariamente saranno conformi a quanto sarà da lui espresso o richiesto” (Protocollo di Milano, 2006). Si tratta tuttavia di informazioni che non attengono in senso stretto all’audizione e che quindi dovrebbero – a nostro avviso – essere completate, includendo un preciso ragguaglio sulle caratteristiche e le regole di quell’incontro, informazione da darsi al minore all’inizio della seduta e non “alla fine” (Pazè, 2004), proprio per contestualizzare la situazione in modo trasparente. Ciò nella convinzione che solo una informazione chiara può consentire un incontro privo di ambiguità all’insegna dei principi di “lealtà e fiducia”(Scolaro, intervista), conditio sine qua non per consentire al minore di esprimersi liberamente, superando la naturale iniziale diffidenza. A nostro avviso, quindi, è indispensabile chiarire al minore se e che cosa di ciò che dirà al giudice (o ad altra figura delegata) potrà essere considerato confidenziale oppure no e, quindi, che cosa dell’audizione verrà reso pubblico; se sarà possibile concordare insieme che cosa riferire all’esterno e, al contrario, se sarà possibile omettere di verbalizzare contenuti che il minore volesse considerare riservati. E ancora: é necessario, di conseguenza, che il minore sia informato sulle modalità della verbalizzazione del colloquio, che sarebbe opportuno avvenisse a fine seduta (e non durante l’ascolto), in un momento appositamente riservato, in cui l’adulto e il minore potrebbero costruire insieme una sintesi dell’incontro. Questo atto potrebbe così assumere, per il minore, anche la valenza di una “restituzione” che non potrebbe che arricchire di significato l’esperienza (nei termini di una breve ricostruzione dell’audizione) e che, a nostro avviso, non dovrebbe mancare, essendo un momento di assoluto rilievo dal punto di vista psicologico. All’argomento della “restituzione”, intesa nel doppio significato di “restituzione” al minore e “restituzione” agli avvocati e alle parti, non sono state dedicate molte riflessioni, mentre é un argomento che meriterebbe una maggiore considerazione ed approfondimento. La “restituzione” dell’audizione del minore agli avvocati e ai genitori dovrebbe essere un momento della vicenda processuale da valorizzare. Esso potrebbe costituire un’occasione per sensibilizzare i genitori rispetto alle esigenze dei figli, nella dolorosa vicenda che si trovano ad attraversare, orientando così verso di loro l’attenzione, con un auspicabile effetto 27 di diminuzione della conflittualità ed un recupero delle rispettive potenzialità genitoriali. Naturalmente, anche di questa fase processuale, il minore dovrebbe essere adeguatamente informato . Dal punto di vista pratico, potrebbe essere disposta una “udienza di restituzione”, “finalizzata a far meglio intendere la posizione e i bisogni del figlio” (Ceccarelli, 209) ai genitori. In questo senso l’esperienza del Tribunale di Genova (Callero, Spada, 2003) ci sembra possa ben rappresentare una prassi operativa virtuosa e di grande sensibilità nei confronti dei minori e delle loro famiglie, oltre che una prassi avanzata sul piano culturale. Il Tribunale di Genova, nella sezione Famiglia, presieduta dal giudice Paolo Martinelli, ha stabilito una collaborazione con figure ausiliarie, psicologhe (ex art. 68 c.p.c.), per dare attuazione al diritto del minore all’ascolto, secondo quanto prescritto dall’art. 12 della Convenzione di New York; tale collaborazione è iniziata, infatti, alcuni anni prima dell’entrata in vigore della legge 54/2006. Si tratta di un ascolto indiretto dei minori, compresi gli adolescenti, disposto in fase presidenziale e distinto dalla CTU: non vi è infatti quesito del giudice; non è rivolto alle problematiche della coppia genitoriale, né alla patologia eventuale dei singoli soggetti; non è un esame psicologico della personalità del minore, né un’indagine su come egli si ponga in relazione con i suoi genitori. Si tratta, invece, di uno o più incontri che hanno lo scopo di conoscere il suo pensiero rispetto alla situazione che sta vivendo in quel momento. Al termine degli incontri vi è una “udienza di restituzione” alla presenza del giudice, delle parti e dei legali, in cui l’ausiliare porta “la voce” del minore, da lui “interpretata” nel rispetto del suo diritto alla riservatezza. “Il coadiutore riferisce oralmente circa i contenuti dell’ascolto e, ad integrazione del verbale predisposto dal giudice in udienza, forma dopo l’udienza un resoconto delle proprie considerazioni, completato con le risposte ad eventuali domande intervenute nell’udienza medesima, che viene depositato e va ad integrare il verbale (che ad esso fa rinvio)” (Martinelli, Mazza Galanti, 2008). Nella prassi descritta, quindi, assume particolare rilievo l’ “udienza di restituzione” come atto di sintesi di un percorso (quello dell’ascolto) che, collocato in una prima fase di apertura del procedimento, “quando il giudice sta ancora valutando quali siano i nuclei reali di conflitto di una coppia di genitori” ha una funzione “ricostruttiva, di esplorazione del concreto interesse del minore e di trasformazione del conflitto in accordi (almeno parziali) sulla responsabilità genitoriale” (Martinelli, 2010). 28 In questo senso condividiamo il pensiero espresso da Martinelli in ordine alla funzione di ascolto e ai suoi reali destinatari. Intendendo il procedimento di separazione come una tappa di un percorso di modificazione dei rapporti personali, diviene obiettivo prioritario quello di distogliere i coniugi dalla tentazione di trasformare il procedimento in un “giudizio universale sul passato”, per mobilitare, al contrario, tutte le loro migliori qualità in quanto genitori. Ecco allora che i veri destinatari dei messaggi che gli operatori di giustizia raccolgono da parte dei figli non possono essere che i genitori stessi, poiché é a loro che spetta accompagnare la crescita dei figli anche in presenza dell’evento separazione. In questa accezione, l’istituto dell’ascolto non può che collocarsi “tra gli strumenti di sostegno della genitorialità” Mazza Galanti, 2008). (Martinelli, 29 CONCLUSIONI Sono due gli strumenti previsti dalle norme internazionali che si sono recentemente affacciati nel nostro ordinamento: la mediazione familiare e l’ascolto del minore. Di quest’ultimo ci siamo occupati nel presente lavoro, con particolare riferimento alla legge 8 febbraio 2006, n. 54. La nuova disciplina che contiene una “grande carica innovativa” (Fadiga, 2006) é stata accolta con molto interesse all’interno dell’ambiente giudiziario, stimolando dibattiti e riflessioni, soprattutto intorno ai delicati problemi processuali che la nuova norma lascia scoperti. E’ tuttavia opinione comune, tra gli addetti ai lavori, che questo istituto processuale fatichi molto ad entrare nella prassi dei tribunali (ordinari, ma anche per i minorenni) (Martinelli, 2010 – Fadiga, 2006) Al riguardo, la realtà torinese, come emerge dalle interviste in appendice, conferma questa osservazione: l’ascolto dei minori nei procedimenti di separazione dei coniugi si aggira intorno al 2–3 % dei casi nel Tribunale Civile (Algostino, cit). Il Tribunale di Pinerolo se ne discosta significativamente (10/20%), ma si tratta pur sempre di una percentuale non molto alta (Pignatelli, intervista). Come afferma Martinelli (2010), il legislatore nazionale si é limitato a raccogliere il suggerimento che veniva dalle Convenzioni internazionali “senza troppo faticare” e senza pensare ad un vero e proprio innesto dell’istituto nella realtà dei vari processi. Infatti, ha lasciato totalmente scoperte le aree relative alle finalità, natura e modalità di realizzazione dell’ascolto, in tal modo rischiando di renderlo un istituto “svuotato di significato” (Dionisio, cit.). Inoltre, l’ascolto del minore, scisso da un dibattito culturale più ampio sulla giurisdizione minorile, rischia di essere un istituto incompreso e generalmente rifiutato nella prassi. Storicamente, sono principalmente tre le ragioni che hanno limitato l’attuazione dell’ascolto giudiziario del minore (Dell’Antonio, 2001; Cesaro, 2004) : - il timore di sottoporlo ad una esperienza potenzialmente traumatizzante in ragione del contesto ambientale in cui si svolgerebbe l’audizione (l’ufficio del magistrato, in tribunale, non essendovi solitamente luoghi idonei ad accogliere i minori); in ragione del ruolo del giudice, la cui funzione giudicante difficilmente può essere ignorata; in ragione, infine, del tema dell’audizione che attiene ad una vicenda familiare dolorosa che vede coinvolto il minore; 30 - il rischio di responsabilizzare il minore nella lite familiare esponendolo ad un “conflitto di lealtà” nei confronti dei genitori, ma anche, aggiungiamo, alla seduzione di un ruolo caricato di “onnipotenza”, laddove dovesse percepirsi come responsabile di scelte che altri dovrebbero fare per lui ; - la mancanza di competenze specifiche da parte del giudice, nei confronti di un istituto che, come abbiamo visto, presuppone la capacità di stabilire una comunicazione efficace superando resistenze e distorsioni ed entrando in sintonia col minore. Queste dunque le ragioni che storicamente hanno pesato ed ancora pesano sulla scarsa applicazione dell’ascolto giudiziario del minore , che viene largamente delegato ai Servizi Sociali . I motivi di resistenza all’ascolto sopra menzionati, tuttavia, non ci sembrano sufficienti a rendere ragione della difficoltà a far entrare nella prassi dei tribunali questo istituto processuale. Infatti una collaborazione più stretta con figure professionali esperte potrebbe ovviare ai rischi paventati. In tal senso, il ricorso ad un ausiliare – psicologo ex art. 68 c.p.c., da utilizzare nella fase presidenziale, potrebbe certamente costituire la garanzia di un ascolto competente, magari nella forma della c.d. “audizione assistita” (Russo, 2008), alla presenza cioè del minore, del magistrato e dello psicologo, al quale verrebbe anche affidato il delicato compito (generalmente ignorato) di preparare il minore all’incontro, fornendogli adeguate informazioni sulla finalità e sulle modalità dell’ascolto stesso. Un ascolto così organizzato difficilmente potrebbe assumere per il minore una valenza traumatica. Quindi, la possibilità di ricorrere a figure professionali, a garanzia di quella competenza psicologica che molti magistrati non si riconoscono, dovrebbe consentire una soluzione non troppo difficile del problema. E’ possibile allora che vi siano altri aspetti che ostacolano l’applicazione della norma prevista dall’art.155-sexies del codice civile. Al riguardo sono interessanti i suggerimenti che provengono dalle interviste allegate in appendice. Dal pensiero dei professionisti interpellati ci sembra di poter cogliere due argomenti particolarmente significativi. Un primo argomento vede la nuova norma come troppo avanzata rispetto al sentire sociale e vede al suo interno “una valenza pedagogica più che precettiva” (Scolaro, cit.), sottolineando anche come la totale assenza di indicazioni rispetto alle modalità attuative porti, di fatto, a ridurla ad una mera enunciazione di principio. 31 Il secondo argomento attiene alla finalità dell’ascolto del minore, uno degli aspetti che il legislatore non ha chiarito, ma che è stato unanimemente interpretato dagli esperti di giustizia minorile e procedimenti “familiari” come volto a portare al giudice elementi di conoscenza sui bisogni emotivo-affettivi del minore, al fine di consentirgli di adottare i provvedimenti che meglio rispondono alle sue esigenze psicologiche di crescita. Siamo come si vede, lontani dalla semplice raccolta di un’ ”opinione” (NewYork, cit.). Ed è proprio in questa distanza (che è lo spazio che intercorre tra la registrazione di un’opinione e la sua traduzione in espressione di un bisogno psicologico) che si situerebbe l’ostacolo all’attuazione dell’ascolto diretto da parte del giudice: si tratta della difficoltà (impossibilità?) di raccogliere, da parte del giudice, nel corso di una audizione, le “informazioni giuste” (Toso, intervista), ovvero quelle informazioni che gli consentano di decifrare i bisogni del minore, “le ragioni psicologiche” che sottostanno alle sue affermazioni e “manifestazioni di volontà” (Pignatelli, cit.) e che non avrebbe alcun senso limitarsi a registrare. Vediamo come in questo pensiero siano due gli elementi critici: il primo, la competenza del giudice; il secondo, la dimensione temporale dell’incontro. Sul primo si è già detto. Rispetto al secondo, l’interrogativo che solleva riguarda la effettiva utilità di un unico incontro in ragione della “portata” dell’obbiettivo. In tal senso ricordiamo come l’esperienza citata del Tribunale di Genova riservi all’ascolto del minore un certo numero di sedute, delineando così un percorso di ascolto. Queste, sinteticamente, le difficoltà che abbiamo potuto rilevare nell’applicazione di una norma, che tuttavia, secondo la maggioranza degli interpreti citati, contiene un grande potenziale innovativo. Una norma che impone ancora grandi sforzi di riflessione e confronto interprofessionale (tra avvocati, magistrati, psicologi e operatori delle scienze sociali), per giungere ad un pensiero condiviso che consenta di costruire una prassi condivisa. Una “buona prassi” che permetta di ampliare gli spazi di incontro e ascolto del minore, sempre più inteso come persona portatrice di un pensiero (e non di una responsabilità decisionale) in ogni “procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne” (New York, cit.); un minore titolare di diritti e quindi interlocutore dinanzi all’autorità giudiziaria. ______ 32 BIBLIOGRAFIA AA.VV. Carta di Noto aggiornata. Linee guida per l’esame del minore in caso di abuso sessuale, 2002, in minoriefamiglia.it AA.VV. Protocollo di Venezia. Linee guida in caso di abuso collettivo su minori, 2007, in www.minoriefamiglia.it AA.VV. Protocollo sull’interpretazione e applicazione legge 8 febbraio 2006, n.54, in tema di ascolto del minore , Osservatorio per la Giustizia Civile di Milano , 2006, in www.minoriefamiglia.it AA.VV. 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Astrolabio, 1971 WINNICOTT D.W., Ego Integration in child developement (1962), in The Maturational Processes and the Facilitating Environment, Hogart Press, 1965 APPENDICE I Le interviste che seguono sono state rilasciate : dal Giudice Dott. Pier Giorgio ALGOSTINO, Presidente della VII Sezione civile (Sezione Famiglia) del Tribunale di Torino; dagli Avvocati del Foro di Torino: Giovanni DIONISIO, Antonina SCOLARO, Paola TOSO e dall’Avvocato Francesca PIGNATELLI, del Foro di Pinerolo. Le interviste sono state realizzate secondo la traccia allegata nella pagina seguente . II La legge 8 febbraio 2006, n.54 dispone l’ascolto del figlio minore nei procedimenti di separazione fra i coniugi. Le domande che seguono hanno lo scopo di verificare se e in che modo tale norma é stata recepita ed applicata nella prassi giudiziaria . - In che misura viene praticato l’ascolto del minore ? - Come viene intesa l’obbligatorietà dell’ascolto ? - L’audizione é un “mezzo di prova” o é volta alla raccolta di elementi di valutazione dei bisogni del minore ? - Quale tipo di ascolto viene praticato (diretto o indiretto) ? - In quale fase processuale (presidenziale o istruttoria) viene solitamente disposta l’audizione ? - Quali sono le modalità di verbalizzazione e quale il contenuto ? - Il minore viene preparato al colloquio ? Se sì: da chi ? - Il minore viene informato dell’uso che verrà fatto delle sue dichiarazioni ? Se sì: quando e da chi ? - Nel caso in cui gli avvocati e le parti non presenzino al colloquio, come viene rispettato il principio del contraddittorio ? - Nell’attuazione dell’ascolto del minore si fa riferimento a modalità condivise dalla comunità professionale, ad esempio attraverso l’utilizzo di linee guida o Protocolli appositamente elaborati ? - Nell’ipotesi in cui l’ascolto del minore trovasse scarsa attuazione nella prassi giudiziaria, quali potrebbero esserne le ragioni ? III INTERVISTA AL DOTT. PIER GIORGIO ALGOSTINO – PRESIDENTE DELLA SETTIMA SEZIONE CIVILE DEL TRIBUNALE DI TORINO – 16.04.2010 L’ascolto del minore ai sensi dell’art. 155 sexies della L. 54/2006 è poco utilizzato nella prassi. L’interpretazione letterale della norma. “il giudice dispone....” significa “il giudice fa...”; quindi è un obbligo, ma é un obbligo abbastanza disatteso, con una motivazione implicita: se non é strettamente necessario, l’ascolto del minore può essere non positivo. Quindi, o l’ascolto è finalizzato alla sua tutela, o non serve. Lo scopo del legislatore non é stato, io credo, quello di avere un mezzo di prova in più, ma un provvedimento che soddisfi il più possibile le esigenze del minore. Allora è importante che venga ascoltato, se necessario. Se si tratta, ad esempio, di una separazione consensuale in cui vi è il pieno accordo tra i coniugi sull’affidamento, la gestione, ecc., oppure se si tratta di una giudiziale in cui le richieste riguardo all’affidamento convergono, é il caso che vada a disturbare il bambino, ponendolo di fronte a questa presenza adulta, in un contesto come quello del tribunale ? Io penso di no. Quindi, quando é necessario, l’ascolto si realizza, ma raramente avviene da parte del giudice. Qui da noi le cose vanno di solito in questo modo: prima dell’udienza presidenziale, quando viene iscritto il ricorso, i nostri fascicoli passano tutti al vaglio del Servizio sociale che ha un ufficio presso il tribunale e fa da trait-d’-union fra noi e i Servizi territoriali (del comune o della provincia: le cosiddette sedi distaccate) Con questo primo vaglio del fascicolo, se il tenore del ricorso lo suggerisce o se la situazione é già conosciuta al Servizio (controllano il nome del minore e verificano) si chiede una relazione. Il Servizio relaziona sentendo il minore, i genitori, gli insegnanti, e facendo la visita domiciliare. Questo secondo me é un ascolto più protetto rispetto al contesto giudiziario. I Servizi sociali lavorano bene, come pure l’NPI. Il minore in età di audizione dai dodici anni in su, adolescente, viene sentito in NPI, da uno psicologo, con tutte le cautele e quindi abbiamo uno spettro della situazione del minore per poter decidere sull’affidamento. Quando siamo in una situazione conflittuale in cui il minore é coinvolto, é vittima, l’ascolto avviene tramite una delega e siamo nell’ipotesi di CTU psicologica. IV Ove tutto questo non sia avvenuto, capita che il minore lo sentiamo noi giudici. I giudici istruttori abbastanza poco, perché se é necessario approfondire, ricorrono alla CTU. Il numero delle audizioni é di circa tre al mese su centoventi ricorsi. Quindi un due per cento circa. Proprio poche. L’audizione, che non é acquisizione di “mezzi di prova”, avviene senza la presenza delle parti: vi é il minore, il giudice e il cancelliere che verbalizza ed é anche una garanzia per le parti. Al termine dell’audizione il minore esce e si dice agli avvocati quello che è successo, quindi il contraddittorio viene rispettato in un momento differito. Idem dicasi per l’audizione fatta dai Servizi, nel senso che le relazioni delle assistenti sociali arrivano, sono nel fascicolo, gli avocati le leggono prima dell’udienza e quindi possono fare le loro osservazioni su quello che ha detto il minore, pur non partecipando all’atto. Dove potrebbero partecipare é in sede di CTU, ma lì é diverso: normalmente partecipano attraverso i CTP. Sulla preparazione del minore prima del colloquio non le so dire. Quando arriva da me io gli dico qualcosa del tipo: “ Sai perché sei qua ? I tuoi genitori si stanno separando, ti chiederò qualche cosa per sapere come la pensi....” Il cancelliere verbalizza sotto mia dettatura. Quando il minore mi dà elementi per capire come la pensa (ad esempio, sull’assegnazione della casa coniugale) ma mi dice di non voler essere quello che determina la decisione, io gli garantisco che non metterò a verbale quel contenuto, per non responsabilizzarlo. Quindi, in questo caso c’è la garanzia di una forma di riservatezza, ma una spiegazione precisa all’inizio dell’incontro sul fatto che ciò che dirà verrà riferito, del tutto o in parte, agli avvocati, un vero e proprio avvertimento sulla verbalizzazione, una lettura insieme del verbale non mi é mai capitato di farlo, forse perché non ne ho avuta l’occasione. Comunque, nei casi più complessi il giudice preferisce la delega a personale più qualificato. Io ritengo che il giudice non abbia gli strumenti per fare queste cose. Nel nostro curriculum la psicologia non esiste, e l’esperienza ce la facciamo sul campo. Io penso anche che il giudice non deve mettersi in un determinato atteggiamento di “complicità”, di “solidarietà” col minore, perché ha un altro ruolo. V Come giudice cerco di farlo al meglio, ma l’ascolto del minore può avere dei rischi per il giudice, per la sua impreparazione e per il ruolo che svolge. A Torino non abbiamo nessun Protocollo, perché ne facciamo molto pochi, come ho detto, poiché l’ottica é quella della minore interferenza nella vita dl minore. Non viene praticato neppure l’ascolto attraverso l’ausiliario ex art. 68 c.p.c.. Io sono qui dall’ottobre 2007, ed ho trovato la situazione che le ho descritto. La cosa più simile che noi facciamo é la delega alla NPI, dove il minore viene sentito dallo psicologo e a noi arriva una relazione che ci dà già qualche indicazione su di lui e sulla sua relazione con i genitori. ____ VI INTERVISTA ALL’AVV. GIOVANNI DIONISIO – 01.04.2010 Alla luce dell’esperienza dello Studio Legale, l’ascolto previsto dalla L. 54/2006 è scarsamente applicato, sia nei contenziosi di separazione personale fra coniugi, sia nei contenziosi fra i genitori non coniugati davanti al Tribunale per i minori. I timori di alcuni e i dubbi di altri si sono concretizzati in una scarsissima applicazione dell’ascolto diretto da parte del giudice. Anche presso il Tribunale per i minori è raro che ci sia un ascolto diretto da parte del giudice onorario. L’ascolto diventa meno raro nei casi in cui il minore supera i 12 anni e ciò perché per gli infradodicenni vi è il problema della “capacità di discernimento” e si ritiene in tal caso preferibile delegare il monitoraggio ai Servizi territoriali competenti o ad un CTU. Pertanto, l’ascolto diretto è scarsamente praticato e viene superato dall’ascolto attraverso procedure diverse: il ricorso a professionisti incaricati dal giudice (CTU) o la richiesta di relazioni ai Servizi territoriali competenti, che vanno a dare una prima fotografia della realtà familiare che poi, spesso, viene approfondita tramite la CTU. E’ più facile che il giudice passi attraverso consulenti, anche perché tale strumento consente un esame a 360 gradi della situazione familiare, in tempi moderatamente rapidi. Nel caso di minori preadolescenti o adolescenti a volte il giudice vuole sapere direttamente qual é la loro opinione, la loro volontà, il loro sentire nei confronti dei genitori, prima di assumere una decisione, ma percentualmente il numero di audizioni é molto modesto. E’ quindi una norma poco applicata e sostanzialmente “svuotata” di significato. A mio parere, se la CTU é lo strumento che consente un monitoraggio dell’intero nucleo, delle dinamiche tra i genitori, tra il minore e i familiari; ascoltare direttamente il minore, soprattutto in fase pre o adolescenziale, potrebbe essere utile a completare il lavoro, dando così la possibilità al giudice di avere un quadro esaustivo della situazione, e poter pertanto assumere provvedimenti ancor più pensati. Un problema che mi sono posto riguarda il rischio di caricare di responsabilità il minore, che nell’audizione può avere l’impressione di poter essere l’”ago della bilancia” degli equilibri familiari, con conseguenze dannose, anche solo potenziali, non irrilevanti. VI Secondo me questo pericolo, insieme alla necessità di acquisire tramite i citati strumenti informazioni più complete sulle dinamiche familiari, é la ragione principale per cui la norma sull’ascolto del minore è scarsamente applicata dai giudici. Operativamente, quando il giudice dispone un ascolto diretto, il minore viene ascoltato da solo, nell’ufficio del giudice. Genitori e avvocati non presenziano ed entrano per la prosecuzione dell’udienza solo a colloquio concluso, senza la presenza del minore. Le dichiarazioni del minore vengono o sintetizzate o omesse, riferendo oralmente il giudice alle parti. Se è comprensibile la valutazione di opportunità di non lasciare traccia scritta di eventuali dichiarazioni “forti” del minore, soprattutto in casi in cui la conflittualità tra i genitori è accesa, mi chiedo se tale modalità non sia, anche solo in astratto, lesiva del diritto delle parti di svolgere difese sul tema. E’ raro che l’ascolto avvenga in udienza presidenziale. Non raramente, nei casi più delicati, il presidente dispone CTU psicologica, rimettendone la valutazione al giudice istruttore. In sintesi: l’ascolto previsto dalla L.54/2006 è una norma inapplicata. Tuttavia, rispetto all’obbligatirietà dell’ascolto, a mio parere, la violazione della norma risponde paradossalmente all’interesse del minore, in quanto è di certo preferibile, vista la materia trattata, una valutazione discrezionale del giudice, sentite le posizioni delle parti, più che una rigida ma poco efficace applicazione della norma stessa. VII INTERVISTA ALL’AVV. ANTONINA SCOLARO – PRESIDENTE AIAF PIEMONTE E VALLE D’AOSTA – RESPONSABILE COMMISSIONE FORMAZIONE AIAF 12.04.2010 Sulla obbligatorietà dell’audizione prevista dall’art. 155 sexies introdotto dall’art. 1 della legge 54/2006 non vi é accordo. Molte volte viene formulata la richiesta di ascoltare i minori, ma non viene presa in considerazione. Chi é più attento alla obbligatorietà é la Procura minorile. Tecnicamente dovrebbe essere a pena di nullità il mancato ascolto, in quanto lo prevedono le Convenzioni internazionali, e l’Italia le ha ratificate. L’audizione non é un “mezzo di prova”, ma ha la funzione di acquisire di “elementi di valutazione”: é uno strumento che dovrebbe arricchire il giudice di elementi conoscitivi per poter adottare il migliore provvedimento nell’interesse del minore, tanto che al minore non dovrebbero essere formulate domande dirette del tipo: “Dimmi con chi vuoi stare, dimmi che cosa vuoi fare,ecc. “. La Convenzione di New York é molto chiara: parla di opinione del minore, e questo non rientra nei “mezzi di prova”. Il contraddittorio si attua in un momento successivo all’ascolto, quando si prende atto del verbale che il giudice ha sintetizzato con le dichiarazioni del minore. Quindi, normalmente noi avvocati non presenziamo all’audizione. I giudici difficilmente ascoltano direttamente. E’ più frequente se si tratta di un’età che dia la possibilità di acquisire informazioni utili (oltre ai 10 – 11 anni). Più spesso vi é la delega ai Servizi. L’ascolto in udienza presidenziale mi è capitato due volte, da quando é entrata in vigore la legge 54/2006. Sono più frequenti le audizioni col giudice istruttore (tribunale ordinario, per le coppie unite in matrimonio). Al tribunale minorile il minore viene “ascoltato” dai giudici onorari; ma prevalentemente, sia presso il Tribunale per i Minorenni che presso il Tribunale Ordinario l’ascolto avviene tramite la CTU, ma é un’altra cosa. VIII Quindi l’ascolto é veramente poco praticato. Normalmente, i giudici onorari sono delegati all’ascolto del minore, perché già presenti nelle componenti istituzionali del Tribunale per i Minorenni e in grado di fornire assistenza al bambino che deve essere sentito. Il Tribunale Ordinario, che non ha figure istituzionali, utilizza in modo improprio i Servizi sociali (dovremmo aprire un capitolo a parte, ma andremmo troppo fuori tema). L’ascolto, quando avviene da parte del giudice, si svolge nella sua stanza, a volte c’è il cancelliere che verbalizza, e il verbale é una sintesi. Gli avvocati stanno fuori. La preparazione del minore all’incontro è, secondo me, un grosso problema che riguarda anche la possibilità di influenzarlo (ad esempio, il fatto di essere accompagnato all’audizione dal papà o dalla mamma non é indifferente, credo). Sarebbe forse utile disporre qualche incontro col minore con un professionista, formato specificamente, che su incarico del tribunale (tratto da un Albo che potrebbe essere istituito) sia deputato ad avere uno o più incontri col minore per aiutarlo ad esprimere esattamente ciò che lui vuole, riconoscendo i condizionamenti che possono derivare da un genitore o dall’altro. L’aspetto dell’informazione al minore su ciò che avviene nell’audizione e su che cosa delle sue dichiarazioni viene comunicato ai genitori è un problema che mi sono posta tante volte, partendo da una riflessione molto banale: la fiducia e la lealtà. Allora: perché i giudici molte volte rifiutano questo ascolto? Si rifiuta ciò che non si sa fare, ciò che imbarazza.... Se fossi io il giudice – mi sono domandata – in che posizione mi sentirei ? Non conoscendo il minore, non avendo con lui l’intimità che ha un genitore, come potrei avvicinarmi ? Mi sono detta che lo si può avvicinare su questi due principi fondamentali, che dovrebbero improntare qualsiasi relazione umana: la lealtà e il potersi fidare. Quindi, il minore si può fidare se dall’altra parte c’è una persona leale che gli dice: “Sappi che i tuoi genitori saranno informati su ciò che mi dirai.” Mi chiedo però quanti giudici facciano questo e siano capaci di fare questo. Riguardo ai Protocolli, il tribunale di Torino non sa che cosa siano. IX In sintesi: l’ascolto viene praticato poco, non perché non se ne comprenda l’utilità e l’opportunità. E’ che non c’è sufficiente formazione da parte di chi dovrebbe praticarlo e chiarezza sulle modalità, su un Protocollo comportamentale che guidi passo per passo. Norme di così alta levatura culturale, di adesione ai principi internazionali devono poi essere arricchite da modalità attuative, in difetto delle quali è come se non fossero state scritte. Quella dell’ascolto é una di quelle norme che hanno una funzione pedagogico – educativa, più che precettiva. Come la norma sull’affidamento congiunto, che era già previsto dalla legge sul divorzio, ma veniva applicata nell’uno per mille dei casi, perchè si trattava di una norma troppo avanzata rispetto al sentire sociale. Così l’ascolto: dovrebbe essere un automatismo (vista la capacità di discernimento), invece non é così. ________ X INTERVISTA ALL’AVV. FRANCA TOSO - 11.05.2010 L’obbligatorietà dell’ascolto del minore, nella mia esperienza, viene inteso come valutazione da parte del giudice dell’opportunità di procedere all’ascolto stesso. D‘altro canto, se l’ascolto viene disposto nell’interesse del minore, è necessario valutare quando ciò risponde realmente al suo interesse. Ad esempio, se c’è l’accordo fra i genitori, in assenza di altri parametri ( sofferenza del minore, condizioni genitoriali particolari, ecc…) che lascino margine di dubbio sulla bontà della soluzione adottata dai genitori, sentire il minore sarebbe, secondo me, contrario al suo interesse. L’ascolto del minore davanti al giudice prima e dopo la legge 54 è percentualmente basso. Io non ho esperienza di audizione del minore davanti al presidente: quando viene disposto, l’ascolto avviene davanti al giudice istruttore. Si tratta, nella mia esperienza, di minori di una certa fascia di età: dai 14 anni in su, o addirittura vicini alla maggiore età (16 – 17 anni). Se per ”ascolto del minore”, invece, si intende il fatto che, nel corso di separazioni giudiziali, il giudice provvede con strumenti istruttori adeguati a fare pervenire nel fascicolo la voce del minore, questo avviene in un numero elevato di casi. Il tramite sono i Servizi Sociali, la NPI, oppure lo strumento principe, la CTU. Quindi, molte volte, la voce del minore giunge nel fascicolo, ma la forma dell’audizione diretta è la meno usata. La ragione, secondo me, è che é veramente difficile ricavare le informazioni “giuste”, ovvero informazioni che servano veramente al giudice. L’audizione, che non é un “mezzo di prova”, é volta a raccogliere i bisogni del minore, ma questo é un concetto molto delicato: come può una persona (il giudice) che ha una formazione giuridica, valutare i bisogni del minore dalle sole dichiarazioni rese dal minore in udienza ? Semplicemente, non ha gli strumenti e avrebbe comunque bisogno di un supporto tecnico per valutare le affermazioni del minore. XI Nella prassi, quando si verifica l’ascolto diretto del giudice, io ho sempre accettato di non presenziare all’incontro, allontanandomi dalla stanza per eliminare il condizionamento più palese, quello determinato dalla presenza fisica delle parti ( che sono i genitori del minore)o degli avvocati. Quando il minore esce, gli avvocati e le parti entrano e il giudice illustra brevemente ciò che ha chiesto al minore e le sue risposte. Si tratta di una sintesi del colloquio. E’ un modo per rispettare il contraddittorio, anche se é chiaro che il contraddittorio effettivo non lo si fa con la lettura degli atti. La preparazione del minore al colloquio non é organizzata: io dico al mio cliente di spiegare, con buon senso, al minore che cosa andrà a fare in tribunale. Le informazioni sul colloquio vengono date al minore dal giudice, durante il colloquio stesso. Nella prassi esistono delle modalità condivise dalla comunità professionale, ma non sono codificate. Si tratta di “buone prassi” elaborate negli anni con la collaborazione di professionalità diverse. Quindi: l’ascolto “diretto” del giudice é scarsamente praticato. La ragione principale, a mio avviso, sta nel fatto che non vi é molta chiarezza sulle finalità di questo tipo di ascolto. Ovvero: che cosa se ne può fare il giudice delle dichiarazioni di un ragazzino, posto che non sono prova, ma sono una fonte di informazione ? La mia opinione é che al giudice servono informazioni che provengono da una fonte qualificata Allora: potrebbe essere utile la presenza di un ausiliare psicologo nell’audizione ? A mio avviso, non risolverebbe il problema perché decifrare i bisogni del minore richiede un intervento più complesso, che non può esaurirsi nel tempo di un’udienza. Inoltre, la eventuale presenza di uno psicologo che decripta le dichiarazioni del minore come si concilia col rispetto del contraddittorio ? L’unico modo in cui viene rispettato il contraddittorio effettivo è con al CTU, in cui le parti sono presenti con i CTP, che hanno un ruolo molto importante, a mio avviso, poiché la consulenza, se ben condotta, può aiutare la persona a vedere ciò che da sola non vede, a XII comprendere che i bisogni del figlio possono non coincidere con quelli da lei individuati, a comprendere che ciò che intende come bisogno del figlio è, invece, un suo bisogno. Queste sono cose molto delicate, che vanno condotte in uno spazio temporale apprezzabile. Una consulenza ben fatta, infine, può anche essere utile (penso a coppie con bambini piccoli) al giudice che interviene in un tempo successivo e che può trarre dalla consulenza elementi importanti di comprensione e di valutazione. _____ XIII INTERVISTA ALL’AVV. FRANCESCA PIGNATELLI – 14.05.2010 L’ascolto del minore, presso il Tribunale di Pinerolo, sia per quanto attiene alla mia esperienza, sia per le informazioni raccolte dal Giudice Dottoressa Melania Cafiero, viene praticato abbastanza frequentemente, approssimativamente nel 10-20% dei casi di separazione giudiziale con figli minori in età dai 10/ 12 ai 15/16 anni. Per i ragazzi più piccoli vi è il problema della “capacità di discernimento” richiesto dalla norma di cui all’art. 155 sexies c.c. e prevalgono le ragioni di cautela; su quelli più grandi di 16 anni normalmente l’intervento del Tribunale in relazione al regime di visita è di portata più limitata, e l’audizione risulta sovente superflua. L’ ascolto viene praticato prevalentemente quando richiesto dalle parti ed il Giudice lo ritiene opportuno per valutare le modalità di affidamento e di permanenza del minore con i genitori. Talvolta viene disposto d’ufficio dal Giudice quando dalle risultanze processuali emergano elementi di grave contraddittorietà in merito alle presunte volontà del minore. Generalmente in prima istanza vengono incaricati i Servizi Sociali o il CTU affinché riferiscano della volontà del minore e relazionino in merito alla migliore regolamentazione dei rapporti tra i genitori ed il minore e l’ascolto diretto da parte del Giudice viene disposto solo successivamente, qualora le risultanze in merito alla volontà del minore non siano chiare o siano contraddittorie. L’audizione del minore è esclusivamente volta alla raccolta di elementi di valutazione dei bisogni del minore e viene disposta prevalentemente in sede istruttoria. Il Giudice incontra il minore nella sua stanza, da solo (senza genitori e avvocati), si siede accanto a lui, e lo informa in modo colloquiale del le circostanze che hanno reso opportuna la sua audizione. Gli fa presente che quello che verrà detto, se rilevante ai fini del giudizio, potrà essere utilizzato nella motivazione della sentenza, verrà verbalizzato e portato a conoscenza dei genitori e dei loro avvocati. Non vi è pertanto spazio per dichiarazioni “riservate”. XIV Poiché la verbalizzazione avviene in modo sintetico, alla fine del colloquio, può accadere che il Giudice ometta le affermazioni e le valutazioni rese dal minore che non abbiano particolare rilievo per il giudizio. Il minore non viene preparato al colloquio in senso tecnico. E’ probabile che i genitori, consapevoli del fatto che il minore verrà sentito dal Giudice, in qualche modo lo informino. Il contenuto del colloquio viene portato a conoscenza dei difensori e delle parti, mediante lettura del verbale dopo il rientro in aula. Non vengono utilizzati protocolli o linee guida per l’audizione del minore in questo ambito, tuttavia vi è un frequente scambio di esperienze e di opinioni tra colleghi avvocati e tra magistrati che si occupano di queste procedure. L’ascolto del minore trova in genere scarsa attuazione nella prassi giudiziaria in quanto tutti gli operatori cercano di evitare, quanto più possibile, il coinvolgimento del minore nel conflitto giudiziale tra i genitori. E’ opinione diffusa che l’audizione del minore generi quasi inevitabilmente l’esercizio di pressioni, anche inconsapevoli, da parte dei genitori. La dichiarazione diventa quindi spesso di scarsa utilità perché non libera, condizionata da aspettative e timori di “ritorsioni”, priva di spontaneità . Risulta dunque più importante indagare le ragioni psicologiche dei desideri e dei bisogni del minore, che non limitarsi a registrare, mediante l’audizione diretta dal parte del giudice, manifestazioni di volontà che spesso possono essere meglio espresse all’assistente sociale o allo psicologo incaricato dal Tribunale, e più approfonditamente essere riportate agli atti nelle relazioni rese al giudice istruttore.