- caritas diocesana messina

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PREFAZIONE
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All’inizio dell’anno pastorale abbiamo ricevuto dal nostro Vescovo, Mons. Calogero
La Piana, la lettera “In qualunque casa…” alleanze educative, che pone al centro
dell’azione pastorale della Chiesa locale la famiglia, agenzia educativa primaria, con le sue
risorse e le sue problematiche.
La Caritas Diocesana facendo propri gli orientamenti del Pastore si è data lo slogan:
“CON LE FAMIGLIE EDUCHIAMOCI ALLA FEDE NELLA CARITA” Per un patto
educativo tra comunità cristiana e territorio”. Ad esso ci siamo ispirati per svolgere
l’attività di animazione nei vari vicariati della diocesi, perché la famiglia diventi sempre
più soggetto attivo nella comunità cristiana.
Sperando di fare cosa gradita e utile vi proponiamo tre schede che potranno essere
di aiuto alla comunità cristiana ed in particolare agli operatori pastorali della carità per
riflettere su tre valori: la condivisione, la giustizia e la laboriosità. Ogni scheda, strutturata
in cinque parti, si articola mediante la proposta di un brano biblico (prima parte) e del
commento relativo (seconda parte), per poi fornire alcuni spunti di riflessione (terza
parte), presentare qualche proposta pastorale (quarta parte), per concludere con la storia
di un testimone che ha incarnato nella propria vita il valore proposto.
Auguro che questo piccolo sussidio possa contribuire alla crescita spirituale delle
famiglie e della comunità cristiana.
Don Gaetano Tripodo
(Direttore Caritas)
SCHEDA 1 1
GIUSTIZIA
“Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.” Gesù
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1.
Icona biblica. LA VIGNA DI NABOT: 1Re 21,1-29
1 In seguito avvenne il seguente episodio. Nabot di Izreèl possedeva una vigna vicino
al palazzo di Acab re di Samaria. 2 Acab disse a Nabot: "Cedimi la tua vigna; siccome è
vicina alla mia casa, ne farei un orto. In cambio ti darò una vigna migliore oppure, se
preferisci, te la pagherò in denaro al prezzo che vale". 3 Nabot rispose ad Acab: "Mi
guardi il Signore dal cederti l'eredità dei miei padri". 4 Acab se ne andò a casa
amareggiato e sdegnato per le parole dettegli da Nabot di Izreèl, che aveva affermato:
"Non ti cederò l'eredità dei miei padri". Si coricò sul letto, si girò verso la parete e non
volle mangiare.
5 Entrò da lui la moglie Gezabele e gli domandò: "Perché mai il tuo spirito è tanto
amareggiato e perché non vuoi mangiare?". 6 Le rispose: "Perché ho detto a Nabot di
Izreèl: Cedimi la tua vigna per denaro o, se preferisci, te la cambierò con un'altra vigna
ed egli mi ha risposto: Non cederò la mia vigna!".
7 Allora sua moglie Gezabele gli disse: "Tu ora eserciti il regno su Israele? Alzati,
mangia e il tuo cuore gioisca. Te la darò io la vigna di Nabot di Izreèl!". 8 Essa scrisse
lettere con il nome di Acab, le sigillò con il suo sigillo, quindi le spedì agli anziani e ai
capi, che abitavano nella città di Nabot. 9 Nelle lettere scrisse: "Bandite un digiuno e fate
sedere Nabot in prima fila tra il popolo. 10 Di fronte a lui fate sedere due uomini
iniqui, i quali l'accusino: Hai maledetto Dio e il re! Quindi conducetelo fuori e
lapidatelo ed egli muoia".
11 Gli uomini della città di Nabot, gli anziani e i capi che abitavano nella sua città,
fecero come aveva ordinato loro Gezabele, ossia come era scritto nelle lettere che aveva
loro spedite. 12 Bandirono il digiuno e fecero sedere Nabot in prima fila tra il popolo.
13 Vennero due uomini iniqui, che si sedettero di fronte a lui. Costoro accusarono
Nabot davanti al popolo affermando: "Nabot ha maledetto Dio e il re". Lo condussero
fuori della città e lo uccisero lapidandolo. 14 Quindi mandarono a dire a Gezabele:
"Nabot è stato lapidato ed è morto". 15 Appena sentì che Nabot era stato lapidato e che
era morto, disse ad Acab: "Su, impadronisciti della vigna di Nabot di Izreèl, il quale ha
rifiutato di vendertela, perché Nabot non vive più, è morto". 16 Quando sentì che
Nabot era morto, Acab si mosse per scendere nella vigna di Nabot di Izreèl a prenderla
in possesso.
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Ogni scheda presenterà un valore morale e sarà strutturata in cinque parti: I. presentazione di un’icona
biblica; II. commento del brano; III. spunti di riflessione; IV. proposte pastorali; V. presentazione di un
testimone che ha incarnato nella propria vita il valore proposto.
17 Allora il Signore disse a Elia il Tisbita: 18 "Su, recati da Acab, re di Israele, che abita
in Samaria; ecco è nella vigna di Nabot, ove è sceso a prenderla in possesso. 19 Gli
riferirai: Così dice il Signore: Hai assassinato e ora usurpi! Per questo dice il Signore:
Nel punto ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue". 20
Acab disse a Elia: "Mi hai dunque colto in fallo, o mio nemico!". Quegli soggiunse: "Sì,
perché ti sei venduto per fare ciò che è male agli occhi del Signore. 21 Ecco ti farò
piombare addosso una sciagura; ti spazzerò via. Sterminerò, nella casa di Acab, ogni
maschio, schiavo o libero in Israele. 22 Renderò la tua casa come la casa di Geroboamo,
figlio di Nebàt, e come la casa di Baasa, figlio di Achia, perché tu mi hai irritato e hai
fatto peccare Israele.
23 Riguardo poi a Gezabele il Signore dice: I cani divoreranno Gezabele nel campo di
Izreèl. 24 Quanti della famiglia di Acab moriranno in città li divoreranno i cani; quanti
moriranno in campagna li divoreranno gli uccelli dell'aria". 25 In realtà nessuno si è mai
venduto a fare il male agli occhi del Signore come Acab, istigato dalla propria moglie
Gezabele. 26 Commise molti abomini, seguendo gli idoli, come avevano fatto gli
Amorrèi, che il Signore aveva distrutto davanti ai figli d'Israele. 27 Quando sentì tali
parole, Acab si strappò le vesti, indossò un sacco sulla carne e digiunò; si coricava con
il sacco e camminava a testa bassa. 28 Il Signore disse a Elia, il Tisbita: 29 "Hai visto
come Acab si è umiliato davanti a me? Poiché si è umiliato davanti a me, non farò
piombare la sciagura durante la sua vita, ma la farò scendere sulla sua casa durante la
vita del figlio".
2.
Commento
L’avidità del possesso
Nel cuore dell’uomo regna il desiderio di possedere e la tentazione di accumulare. Tale
desiderio pervade l’animo del re Acab che a tutti costi vuole entrare in possesso di un
bene che non gli appartiene. Egli è il re, detiene il potere, esercita la sua sovranità sulla
sua nazione e sui suoi sudditi, ma rimane sdegnato dinanzi al rifiuto di Nabot che non
intende cedergli la vigna poiché essa è eredità dei suoi padri.
Possedere mediante l’ingiustizia
Il turbamento e la rabbia di Acab trovano terreno fertile nella mente di Gezabele, moglie
di Acab, che organizza un piano preciso per entrare in possesso della vigna, servendosi
di due uomini ingiusti. L’intraprendenza malvagia e omicida della moglie Gezabele gli
consentirà di impossessarsi della vigna di Nabot. Questo piano nefasto matura
all’interno di una famiglia, una coppia, che si lascia prendere dalla bramosia del
possesso, noncurante dei principi fondamentali nella vita degli uomini, di cui come
regnanti dovrebbero esserne i difensori.
La denuncia del profeta
Ma la parola del profeta Elia denuncerà il misfatto compiuto da Acab e Gezabele: hanno
ucciso Nabot e si sono impossessati della vigna, compiendo ciò che è ingiusto agli occhi
del Signore.
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La comunità cristiana è chiamata a osservare e a conoscere quanto avviene nel mondo
in rapporto alla giustizia, senza trincerarsi in posizioni o atteggiamenti spiritualistici,
pur non avendo la responsabilità in prima persona di lottare contro le ingiustizie di
ogni genere. Non si può rimanere in silenzio o seguire la via del compromesso, o della
connivenza, ma avere il coraggio di parlare e annunciare la bellezza di costruire, già su
questa terra un regno di giustizia e di pace.
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3.
Spunti di riflessione
La riflessione pastorale che dal Concilio Vaticano II ha preso particolare impulso,
mette in evidenza lo stretto intreccio tra la carità e la giustizia. Resta emblematica
l’affermazione del decreto sull’apostolato dei laici: “siano anzitutto adempiuti gli
obblighi di giustizia, perché non avvenga che si offra come dono di carità ciò che è già
dovuto a titolo di giustizia” (Apostolicam actuositatem n.8). Nell’enciclica Deus caritas
est Benedetto XVI ha autorevolmente ripreso il tema spiegando che “la costruzione di
un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che
gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente
affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico
immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario la
Chiesa ha il dovere di offrire il suo contributo specifico affinché le esigenze della
giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili. (n. 28)
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La giustizia anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni società elabora un proprio sistema di
giustizia. La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all'altro;
ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all'altro ciò che è “suo”, ciò che
gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso « donare » all'altro del
mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama
con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea
alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è «
inseparabile dalla carità », intrinseca ad essa. La giustizia è la prima via della carità o,
com'ebbe a dire Paolo VI, « la misura minima » di essa, parte integrante di quell'amore «
coi fatti e nella verità » (1 Gv 3,18), a cui esorta l'apostolo Giovanni. Da una parte, la
carità esige la giustizia: il riconoscimento e il rispetto dei legittimi diritti degli individui
e dei popoli. Essa s'adopera per la costruzione della “città dell'uomo” secondo diritto e
giustizia. Dall'altra, la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del
perdono. La “città dell'uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma
ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La
carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l'amore di Dio, essa dà valore
teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo. (“Caritas in veritate, n. 6)
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“Nel problema della legalità sono in gioco non solo la vita delle persone e la loro
pacifica convivenza, ma la stessa concezione dell’uomo. In questo senso Giovanni Paolo
II afferma: “Un’autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base
di una retta concezione umana”. Il cristiano non può accontentarsi di enunciare l’ideale
e di affermare i principi generali.
Deve entrare nella storia e affrontarla nella sua complessità, promuovendo tutte le
realizzazioni possibili dei valori evangelici e umani della libertà e della giustizia. In
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questo la Chiesa e i cristiani si fanno “compagni di strada” con quanti cercano di
realizzare il bene possibile.
In particolare il cristiano laico è chiamato, sotto la propria responsabilità, non solo a
inserire le sue esigenze etiche nella storia, ma anche a far fiorire la città dell’uomo
attraverso la sua professionalità, la sua testimonianza e l’impegno alla partecipazione,
come pure attraverso una legislazione adeguata e una conseguente fedeltà ad essa.
(“Educare alla legalità”. Nota pastorale CEI, 1991)
4.
Proposte pastorali
1. Creare momenti di riflessione sul valore della giustizia, quale premessa per
esercitare la carità. Non si può vivere la dimensione della carità senza l’esercizio e la
difesa della giustizia: rispetto delle regole del vivere civile; vivere nella legalità;
assolvere ai propri doveri fiscali; etc.
2. Favorire con catechesi, esperienze ed iniziative, itinerari che coinvolgano le famiglie
per poter sviluppare processi e dinamiche educative alla giustizia.
3. Impegno nella vita politica del territorio in cui si vive per costruire equilibri di
giustizia e senso civico.
4. Bilanci di giustizia e bilanci con i poveri. Sul versante più eminentemente educativo
e formativo, la proposta ha di mira la crescita nella consapevolezza
dell'interdipendenza tra i nostri stili di vita e le conseguenze negative che ricadono sui
più poveri, nel sud del mondo come vicino a casa nostra. La proposta molto opportuna
nei gruppi famiglia o nei gruppi di formazione consiste nel prevedere all'interno del
bilancio familiare una voce esplicita per interventi progettuali e mirati a favore dei più
poveri, ma anche criteri di scelta dei beni di consumo adeguati alla coerenza. Nel caso si
trovasse adesione a questo primo livello si potrebbe passare ai veri e propri bilanci di
giustizia, molto più complessi nella realizzazione.
5.
Testimone: Rosario Livatino: martire della giustizia (Giovanni Paolo II)
Rosario Livatino è nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, dal papà Vincenzo, laureato in
legge e pensionato dell'esattoria comunale, e dalla mamma Rosalia Corbo. Rosario
conseguì la laurea in Giurisprudenza all'Università di Palermo il 9 luglio 1975 a 22 anni
col massimo dei voti e la lode. Il conseguimento della laurea, alla prima sessione utile,
era solo la momentanea conclusione di una brillantissima carriera scolastica iniziata alla
scuola elementare De Amicis, proseguita alla scuola media Verga e conclusa al Liceo
Classico Ugo Foscolo di Canicattì sempre con voti e giudizi ottimi, compreso un
lusinghiero "dieci" in matematica.
Il 21 aprile '90 conseguì con la lode il diploma universitario di perfezionamento in
Diritto regionale.
Giovanissimo entra nel mondo del lavoro vincendo il concorso per vicedirettore in
prova presso la sede dell'Ufficio del Registro di Agrigento dove restò dal 1° dicembre
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1977 al 17 luglio 1978. Nel frattempo però partecipa con successo al concorso in
magistratura e superatolo lavora a Caltanissetta quale uditore giudiziario passando poi
al Tribunale di Agrigento, dove per un decennio, dal 29 settembre '79 al 20 agosto '89,
come Sostituto Procuratore della Repubblica, si occupò delle più delicate indagini
antimafia, di criminalità comune ma anche (nell'85) di quella che poi negli anni '90
sarebbe scoppiata come la "Tangentopoli siciliana". Fu proprio Rosario Livatino,
assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato. Dal 21 agosto
'89 al 21 settembre '90 Rosario Livatino prestò servizio presso il Tribunale di Agrigento
quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione. Dell'attività
professionale di Rosario Livatino sono pieni gli archivi del periodo non solo del
Tribunale di Agrigento ma anche degli altri uffici gerarchicamente superiori.
Molto rari gli interventi pubblici così come le immagini. Gli unici interventi pubblici,
fuori dalle aule giudiziarie, che costituiscono una sorta di testamento sono rappresentati
da "Il ruolo del Giudice in una società che cambia" del 7 aprile 1984 e "Fede e diritto" del
30 aprile 1986 (i documenti integrali sono consultabili nel libro “Il piccolo giudice. Fede
e Giustizia in Rosario Livatino” di Ida Abate per Editrice Ave mentre l'Associazione sta
valutando l'utilità di ristamparli e diffonderli soprattutto tra i Magistrati). Rosario non
volle mai far parte di club o associazioni di qualsiasi genere.
Rosario Livatino fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre '90 sul
viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre - senza scorta e con la
sua Ford Fiesta amaranto - si recava in Tribunale. Per la sua morte sono stati
individuati, grazie al supertestimone Pietro Ivano Nava, i componenti del commando
omicida e i mandanti che sono stati tutti condannati, in tre diversi processi nei vari
gradi di giudizio, all'ergastolo con pene ridotte per i "collaboranti". Rimane ancora
oscuro il “vero” contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice
ininfluenzabile e corretto. Rosario Livatino è purtroppo solo la terza vittima innocente e
illustre di Canicattì. Prima di lui, il 25 settembre 1988, stessa sorte toccò al presidente
della Prima Sezione della Corte d'Assise d'Appello di Palermo Antonino Saetta e al
figlio Stefano trucidati in un agguato mafioso sempre sulla SS 640 AG-CL sul viadotto
Giulfo mentre improvvisamente, senza scorta e con la sua auto, faceva rientro a
Palermo dove abitava e lavorava. Per questo duplice omicidio dopo quasi dieci anni
sono stati individuati e condannati con un unico processo i presunti mandanti ed
esecutori superstiti.
Per approfondire la conoscenza di Rosario Livatino:
Testi
- Maria Di Lorenzo "Rosario Livatino. Martire della giustizia", Edizioni Paoline, Roma
2000;
- Ida Abate, Il piccolo giudice. Fede e Giustizia in Rosario Livatino, Editrice AVE,
Roma 2005.
Phonostoria
“Qualcosa si è spezzato” su testi di Rosario Livatino; prodotto da Centro Europeo
Risorse Umane e Multimedia San Paolo in collaborazione con Caritas Italiana, Ufficio
Nazionale per i Problemi sociali ed il Lavoro, e Centro sportivo italiano.
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Film documentario
“Luce verticale. Rosario Livatino. Il martirio” del regista Salvatore Presti; vincitore
nell’ottobre 2007 del premio nella sezione "Ritratti" alla decima edizione del "Religion
Today Film Festival".
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SCHEDA 2
CONDIVISIONE
“Se vuoi salire fino al cielo devi scendere fino a chi soffre e dare la mano al povero.”
Anonimo
1.
Icona biblica. Elia e la vedova di Zarepta di Sidone: 1Re 17,7-24
1 Elia, il Tisbita, uno degli abitanti di Gàlaad, disse ad Acab: "Per la vita del Signore,
Dio di Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada né
pioggia, se non quando lo dirò io". 2 A lui fu rivolta questa parola del Signore: 3
"Vattene di qui, dirigiti verso oriente; nasconditi presso il torrente Cherit, che è a
oriente del Giordano. 4 Ivi berrai al torrente e i corvi per mio comando ti
porteranno il tuo cibo". 5 Egli eseguì l'ordine del Signore; andò a stabilirsi sul
torrente Cherit, che è a oriente del Giordano.
6 I corvi gli portavano pane al mattino e carne alla sera; egli beveva al torrente. 7
Dopo alcuni giorni il torrente si seccò, perché non pioveva sulla regione. 8 Il Signore
parlò a lui e disse: 9 "Alzati, và in Zarepta di Sidòne e ivi stabilisciti. Ecco io ho
dato ordine a una vedova di là per il tuo cibo". 10 Egli si alzò e andò a Zarepta.
Entrato nella porta della città, ecco una vedova raccoglieva la legna. La chiamò e le
disse: "Prendimi un pò d'acqua in un vaso perché io possa bere". 11 Mentre quella
andava a prenderla, le gridò: "Prendimi anche un pezzo di pane". 12 Quella rispose:
"Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina
nella giara e un po’ di olio nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò
a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo". 13 Elia le disse:
"Non temere; su, fa’ come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me
portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, 14 poiché dice il Signore: La
farina della giara non si esaurirà e l'orcio dell'olio non si svuoterà finché il Signore
non farà piovere sulla terra". 15 Quella andò e fece come aveva detto Elia.
Mangiarono essa, lui e il figlio di lei per diversi giorni. 16 La farina della giara non
venne meno e l'orcio dell'olio non diminuì, secondo la parola che il Signore
aveva pronunziata per mezzo di Elia. 17 In seguito il figlio della padrona di casa si
ammalò. La sua malattia era molto grave, tanto che rimase senza respiro. 18 Essa
allora disse a Elia: "Che c'è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per
rinnovare il ricordo della mia iniquità e per uccidermi il figlio?". 19 Elia le disse:
"Dammi tuo figlio". Glielo prese dal seno, lo portò al piano di sopra, dove abitava, e
lo stese sul letto. 20 Quindi invocò il Signore: "Signore mio Dio, forse farai del male
a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?".
21 Si distese tre volte sul bambino e invocò il Signore: "Signore Dio mio, l'anima del
fanciullo torni nel suo corpo". 22 Il Signore ascoltò il grido di Elia; l'anima del
bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere. 23 Elia prese il bambino, lo
portò al piano terreno e lo consegnò alla madre. Elia disse: "Guarda! Tuo figlio
vive". 24 La donna disse a Elia: "Ora so che tu sei uomo di Dio e che la vera parola
del Signore è sulla tua bocca".
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2.
Commento
In tempi di siccità!
Il contesto nel quale si svolge l’incontro tra Elia e la vedova di Zarepta è quello di
una grande carestia, ma Dio nel tempo della siccità non fa mancare al suo profeta
Elia il cibo per il suo nutrimento. Gli ordina di andare a stabilirsi a Zarepta di
Sidone dove troverà una donna che si prenderà cura di lui. Costei è una povera
vedova con poche risorse di cibo, ma condivide quel po’ che gli è rimasto con il
profeta fidandosi della sua parola. Per tutto il tempo in cui il profeta rimarrà a
Zarepta non soffrirà né la sete nè la fame. Il ‘poco’della vedova, condiviso con il
profeta, consentirà ad Elia di poter continuare a svolgere il suo ministero, e diviene
occasione per vivere una forte esperienza di condivisione.
La vedova si presenta con abiti da lutto, che raccoglie legna e alle parole del profeta
che la invita a prendergli dell’acqua per dissetarlo, ella si presenta accogliente, ma
sta vivendo insieme al figlio una situazione difficoltosa: «Per la vita del Signore tuo
Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio
nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio
figlio: la mangeremo e poi moriremo» (v. 12).
Il profeta la conforta. La vedova è una donna pagana che mostrandosi nella sua
semplicità e spontaneità nella più ardua disperazione, trova motivo di fiducia nella
parola del profeta, nella Parola del Signore tanto da mettere in atto quanto dice il
profeta.
L’obbedienza di questa donna ha permesso di anteporre la ragione a quanto le
veniva detto, tutto ha permesso l’incontro con Dio, tanto che alla fine, la vedova
farà la sua professione di fede: «Ora so che tu sei un uomo di Dio e che la vera
parola del Signore è sulla tua bocca» (1Re 17,24).
Questa donna diventa modello di ascolto, obbedienza e condivisione, ed Elia
sperimenta a casa di questa vedova l’accoglienza e la solidarietà. La vedova per
ciascuno di noi è esempio di condivisione dei valori che non si esauriscono mai,
nonostante la siccità dominante all’esterno.
Anche Gesù presenta questo esempio di vita (cfr. Mc 12,41-44; cfr. anche Lc 4,25-26),
ad andare alla sua scuola: ella è come Gesù… dona tutto se stessa (cfr. Lc 10,33-37).
E “chi avrà dato anche un solo bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli,
perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa» (Mt
10,41-42).
In qualche modo, anche la vedova di Sareptha offre la sua vita partendo dall’ascolto
della parola del profeta nella condivisione della propria esistenza. L’espressione
«non temere…» (v. 13) è la stessa parola di Dio che passa nella vita di tante persone
che troviamo nella Bibbia, ma anche al di fuori di essa, perché è la carezza di
Dio che tocca il cuore e chiama alla vita e alla donazione di sé.
La vedova è colei che si fida di Dio senza riservare niente per sé e senza aspettarsi
da lui alcun miracolo, perché capace di giocare la propria vita su Dio, con un
atteggiamento di fiducia, di apertura e di disponibilità completa alle sue vie e alla
sua provvidenza. Ella è come la vedova del Vangelo che «nella sua povertà, vi ha
messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12,43-44) per
divenire icona di una fede vissuta.
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3.
Spunti di riflessione
Hanno scritto i nostri Vescovi: “accogliere il povero, il malato, lo straniero,
il carcerato è fargli spazio nel proprio tempo, nella propria casa, nelle proprie
amicizie, nella propria città e nelle proprie leggi. La carità è molto più impegnativa di
una beneficenza occasionale: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si
accontenta di un gesto.” (Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 39)
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Vivere la carità nella Chiesa non vuol dire semplicemente fare l’elemosina,
anche se essa è raccomandata da Gesù nel discorso della montagna, ma esprimere
nei fatti l’amore.
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La gente dovrebbe essere aiutata a riflettere: se impresa e mercato sono la
sorgente dei valori, da qui non può scaturire solidarietà. Sono fabbrica di
emarginazione, basti vedere la legge Fini-Bossi. Ascoltiamo, invece, le osservazioni
del cardinal Martini: si riduce il tempo per la famiglia, nel lavoro c’è troppa fatica e
troppa incertezza». Il terrorismo? «La fabbrica non è forse e principalmente negli
arsenali di Saddam o in Bin Laden, ma piuttosto nella miseria in cui vivono due
terzi degli abitanti della terra. Bisogna andare alla radice: l’ha detto il Papa, qualche
volta Kofi Annan, timidamente l’ex ministro Renato Ruggiero. La Chiesa non ha
richiamato bene l’indicazione del Papa. Eppure, il presidente della Banca Mondiale
ha affermato che la migliore assicurazione contro il terrorismo è l’aiuto ai Paesi
poveri! Dobbiamo dirlo», ha esortato Nervo, «dirlo almeno alla gente che viene in
chiesa. L’Abbe Pierre disse che a distruggere il mondo non sarà né il terrorismo né
il “blocco comunista”, ma la rabbia dei poveri».
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E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana...» (articolo 3).
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Quale spazio occupano i problemi dei poveri nell’ordine del giorno del
Consiglio pastorale? I poveri compaiono fra le priorità del bilancio parrocchiale?
Come accogliamo i poveri in chiesa, nella canonica e nelle opere parrocchiali?
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Rivolto anche ai sacerdoti: a chi si dà priorità nella destinazione del nostro
tempo e delle nostre attività? Quale spazio hanno i poveri nelle nostre preghiere?
Quale spazio viene dedicato alla promozione della Caritas nelle comunità
parrocchiali, non come “gruppo caritativo” ma come luogo di stimolo per tutta la
comunità e per la pastorale?
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Quali iniziative di formazione dei cristiani all’impegno sociale e civile?
Occorre tornare al modello Gesù per chiederci più concretamente e
puntualmente ancora: come Gesù ha vissuto la scelta della condivisione per amore,
nei confronti degli uomini?
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Egli ci ha lasciato il comando dell’amore: “Amatevi l’un l’altro come io vi ho
amati”. Il comandamento dell’amore che condivide, cioè della carità cristiana, è
quello che ci invita non ad amare genericamente, ma ad amare come Gesù ha
amato. Fuori da questa prospettiva ci saranno degli atteggiamenti buoni,
apprezzabili, ma non ancora la condivisione propriamente cristiana. Per capire
questa bisogna guardare a come Gesù ha vissuto tutto questo.
a) Gesù ci ha amati per primo. Lo dice Giovanni nella sua prima lettera: “Egli ci ha
amati per primo”. La scelta della condivisione non è la risposta ad un nostro
appello o ad una nostra provocazione, ma è mero frutto di una sua libera iniziativa
preveniente. La prossimità non è per Gesù la registrazione notarile di una
condizione, ma è la creazione di un rapporto. La questione veramente cristiana non
è chi è il prossimo ma è farsi prossimo! É la gratuità la caratteristica della
condivisione cristiana, che rompe in radice ogni possibile logica di reciprocità
contrattualistica: ti do se tu mi dai, ti do perché mi dai. Gesù si è mosso al di fuori di
questa prospettiva e ha preso liberamente e in maniera preveniente l’iniziativa. Egli
è venuto nella carne.
b) Gesù ci ha amati ed ha condiviso la nostra vita non perché noi fossimo amabili e
perché la condivisione della nostra esistenza fosse per Lui gratificante, ma ci ha
amati ed ha condiviso la nostra vita soltanto perché Lui è amore ed è amore che si
comunica. La ragione del suo venire nella carne umana non solo non è stato un
appello, una provocazione ed una pretesa nostra, ma neppure una condizione
nostra che attraesse in qualche modo la sua scelta. Anzi noi, come ricorda l’apostolo
Paolo, eravamo peccatori e proprio quando eravamo peccatori egli è venuto, cioè
quando tutto in noi diceva rifiuto di Dio, volontà di escluderlo dall’orizzonte della
nostra vita, tentativo di resistere alla sua signoria, vista come dominio dispotico
invece che come amore paterno. Proprio in quella condizione egli è venuto e si è
fatto uno di noi. è il senso profondo della scena del battesimo di Gesù al Giordano.
Egli scende al Giordano e si mette in fila con i peccatori andando a ricevere il
battesimo di penitenza. E questo lo ha fatto perché Lui è amore non perché noi
siamo amabili. Ed anche qui viene battuto in breccia tutto un modo istintivo molto
comprensivo, umanissimo che è radicato profondamente in noi ed anche nei nostri
fedeli e che porta ad operare le tipiche distinzioni che avvertiamo sulla bocca di
tanti: gli handicappati non hanno colpa, è giusto provvedere a loro; ma i drogati,
quelli dell’Aids, oppure gli immigrati, se la sono voluta. E’ il tentativo di andare a
distinguere col criterio dell’amabilità, non dell’amore. E’ micidiale questo gioco
profondamente istintivo che avvertiamo in noi. Noi ci muoviamo volentieri verso
chi è in condizioni bisognose e disperate, ma è comunque in qualche modo amabile;
rifiutiamo d’istinto chi magari è in condizione anche più disperata, ma non è
amabile ai nostri occhi. Tutto questo è superato radicalmente dall’atteggiamento di
Gesù.
c) Come Gesù ci ha amati: ha deciso di condividere nella logica del “tutti”,
spingendo il”tutti” fino all’amore ai nemici, fino a condividere a tal punto da
mettersi in mano ai nemici, per dire a loro fino a qual punto l’amore di Dio li
12
cercava senza escludere nessuno. Gesù forse ha avuto anche Lui le sue preferenze
(la sua scelta preferenziale per i poveri) e nel Vangelo si possono rintracciare
documentazioni precise di questo, però è difficile nel Vangelo rintracciare
documentazione di volontà escludenti di Gesù. Anche i pubblicani furono oggetto
della sua volontà di condivisione salvifica al punto di andare a cena con loro ed
anche ai ricchi Gesù rivolse un’attenzione amorosa fino a metterli in crisi. Non ha
escluso nessuno Gesù, anche se certamente ha avuto un’attenzione
straordinariamente concreta a chi più evidentemente viveva nel bisogno e nell’
emarginazione. Perché il suo orizzonte è il “tutti” fino ai nemici: l’orizzonte più
incredibile è il perdono dei nemici. E nel momento supremo quello della morte in
croce questa fu l’ultima volontà dichiarata di Gesù. “Padre, perdona loro perché
non sanno quello che fanno”.
d) Dice l’apostolo Giovanni: ci amò fino alla fine. Cioè la sua volontà di
condivisione amorosa della nostra condizione, in vista della salvezza, non fu di
natura episodica, transitoria, eventuale, condizionata, riservata, con clausole di
recesso ma fu “fino alla fine”; un “fino alla fine” intenzionale, non soltanto l’esito
nei fatti di una situazione, ma il perseguimento intenzionale di uno stare con noi
ormai per sempre, qualunque fosse la sorte che l’umanità gli avrebbe riservato per il
suo voler essere veramente il “Dio con noi”. Non si tirò indietro fino all’istante
supremo, anzi nell’istante supremo si consegnò in maniera suprema e consumò
perfettamente la sua oblazione; “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”. Ed
anche qui intuite la forza provocante che ha il modello Gesù. Siamo ormai figli di
una cultura che rifiuta il “per sempre” e celebra il rifiuto: la possibilità di
riprendersi è ritenuta la suprema espressione della libertà umana, e la ragione delle
crisi vocazionali e matrimoniali è da cercarsi qui, perché la cultura dominante
celebra la possibilità di riprendersi, mentre la cultura cristiana celebra la possibilità
di perdersi, di darsi fino alla fine, anche se questo vuol dire morire sulla croce, ma è
questa la condivisione di Gesù Cristo. Ogni altra forma di condivisione che almeno
ipoteticamente ed intenzionalmente metta in conto questa provvisorietà non è
autentica, anche dal punto di vista canonico: se ci fosse la positiva volontà di
escludere la perpetuità nel matrimonio, quel matrimonio sarebbe nullo.
e) Ha condiviso la nostra condizione per amore fino al segno supremo, fino
all’ultimo istante. Ma l’espressione di Giovanni “eis tò télos” può significare anche
sino al segno supremo cioè sino a dare la vita. Condividere da cristiani non è
soltanto mettere insieme nella vita; condividere è anche consumare la vita “per” o
nel segno cruento come fu per Gesù, oppure accettando quella dimensione di
consumazione progressiva che è necessaria in ogni atteggiamento autentico di
condivisione mossa dall’amore. La condivisione è anche scarnificante; ha i suoi
momenti belli, ha le sue celebrazioni gioiose, ma anche i suoi lunghi tempi di fatica,
di reciproca consumazione, di limite, di accettazione, del far dipendere gusti,
programmi, tempi, non più dalla mia libertà ma dall’aver deciso di stare con e di
essere per. Tutto questo è duro. Gesù l’ha fatto fino a dare la vita.
13
4.
Proposte pastorali
Un discorso serio di educazione alla condivisione non può prescindere
dall'attenzione appunto alla carità nella famiglia come nodo centrale di una reale
educazione alla prossimità. La pastorale ordinaria deve confrontarsi con le difficoltà
che molte, troppe famiglie vivono nel rate race contemporaneo. Non c'è tempo per
quella carità spicciola e concreta, per quei gesti di carità che si svolgono all'interno
della vita familiare. I genitori sono fuori per una grande parte del tempo, i figli
vivono dinamiche differenziate. Eppure la carità, come tutta l'esperienza di fede,
parte e si alimenta all'interno della famiglia stessa. Sarà importante far
comprendere che questo gradino è quello di base per ogni nucleo familiare, che non
si può pensare alla carità come qualcosa di esclusivamente esterno alla vita del
nucleo familiare. In alcuni casi la nostra pastorale è incorsa nell'errore di estroflettere
eccessivamente la famiglia o alcuni dei suoi membri da se stessa indicando nel solo
livello esterno la modalità possibile per vivere la carità. L'esperienza dice che non è
così. Le singole forme di relazione intrafamiliari sono già in se stesse espressione o
occasione di carità. La famiglia vive nella carità di suo. Si tratta di far maturare
questa convinzione e di farla crescere in forme sempre più alte e significative.
-
Approfondire alcune metodologie concrete per rendere più “solidali” le
famiglie del gruppo. Sono molte le proposte di approfondimento che richiedono
tempo per poter venire metabolizzate e portare frutto. Spesso nella formazione
generale della comunità non si riesce ad approfondirle tutte. Il gruppo famiglia
potrebbe essere il luogo dove vengono meglio comprese, contestualizzate a livello
delle famiglie partecipanti e vissute in comunione dal gruppo stesso. Ci si riferisce,
ad esempio, a forme di bilanci solidali, alle più svariate forme di sostegno a distanza,
alle iniziative di assunzione di particolari stili di vita improntati alla condivisione.
Se risulta talora meno agevole aprire queste proposte alla comunità intera, il
renderle fruibili al gruppo famiglia potrebbe favorire la loro realizzazione.
-
Anniversari di condivisione. Ogni famiglia celebra i vari anniversari
(compleanni, anni di matrimonio, …) come momento di stimolo. Soprattutto alcuni
anniversari portano con se un forte significato simbolico. La proposta vuole fare di
questi avvenimenti (e, magari, dell'anno che li accompagna) una occasione per
aprire la propria gioia e riconoscenza anche verso persone che hanno più difficoltà.
Le formule possono essere molteplici e similari a quelle indicate per l'educazione
dei giovani in procinto di sposarsi. Punto nodale è l'idea di far partecipare alla festa
anche altre persone perché il cuore allarghi gli orizzonti. Non necessariamente si
dovranno invitare al pranzo di anniversario i senza dimora della città. Ciò che
interessa è la disposizione del cuore alla comunicazione della propria gioia.
-
Babysitteraggio per mamme sole o in situazioni difficili. Si tratta di
permettere alle mamme specie se sole di poter mantenere il lavoro che da loro
sostentamento anche quando hanno un bambino ancora piccolo. Un gruppo di
famiglie, ad esempio, si può rendere disponibile per tenere il bambino durante
l'orario di lavoro della mamma.
-
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Banca del tempo. È una esperienza molto più onerosa nella organizzazione e
richiede che in parrocchia ci sia un gruppo organizzatore di tutto rispetto. Si tratta
di raccogliere disponibilità di tempo e incanalarle, alla necessità, verso famiglie e
persone che ne hanno bisogno. È un'attività eminentemente comunitaria che
coinvolge ben al di la delle singole famiglie.
-
Banca delle cose. Sulla falsariga della “banca del tempo” questa attività
permette alle famiglie di mettere a disposizione di persone degli oggetti di uso
comune che possono essere utilizzati da più soggetti, a secondo del bisogno. Ad
esempio l'automobile che la mia famiglia usa solo al sabato, può essere messa a
disposizione (salvo opportuni controlli) durante la settimana. Oppure altri oggetti
della vita quotidiana. Si possono mettere a disposizione anche dei servizi specifici
che la persona, o il nucleo familiare, è in grado di offrire: consulenze, interventi di
manodopera, prestazioni professionali, etc.
-
Domenica della carità. L'iniziativa si rivolge soprattutto alle famiglie o agli
adulti single molto impegnati nel mondo del lavoro. Si tratta di suggerire
l'identificazione di una domenica al mese o “una tantum”, in cui la persona accetta
di lasciare da parte la preoccupazione del lavoro e dedicarsi alla globalità della
propria esperienza di fede. In tale domenica la persona potrà dedicare il mattino
alla riflessione, alla preghiera e alla comunione nell'Eucaristia. Il pomeriggio, poi,
sarà dedicato ad una piccola e circoscritta esperienza di attenzione agli altri magari
tramite un centro di accoglienza o aiuto (meglio se sarà sempre lo stesso). Insomma
una sorta di ritiro spirituale che nutre la fede, la speranza e la carità. L'esperienza è
anche interessante per le giovani coppie in formazione, per i nonni “a tempo
pieno”, per coloro che sono chiamati a particolari responsabilità nel mondo
economico.
-
Adozione
È una proposta altamente impegnativa, come si può facilmente comprendere. Non è
certo possibile farla in modo estensivo, ma va mirata in maniera molto precisa.
Forse il contributo che la comunità parrocchiale può dare è quello del sostegno alle
famiglie affidatarie, sostenendole in qualche modo. Ad esempio attraverso prestiti
di onore per quelle coppie che non riuscirebbero a sobbarcarsi tutte le spese.
-
Affidamento familiare
Anche questa proposta è di altissimo profilo e, quindi, non generalizzabile.
L'impegno di una comunità cristiana potrebbe essere quello di promuovere l'affido
familiare di minori a rischio come forma di primario aiuto alle famiglie in
maggiore difficoltà e come strumento per far sperimentare ai bambini l'amore,
l'accoglienza, l'ascolto.
L'affidamento potrebbe anche trovare strade innovative verso adulti o anziani,
almeno in modo transitorio.
-
Aiuto alle famiglie con disabili, anziani, ammalati
Sono in aumento le famiglie che si trovano per un periodo di tempo determinato o
indeterminato a prendersi cura in modo continuativo di persone disabili, ammalati,
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anziani. Tale impegno di cura spesso diventa di difficile gestione, anche a livello
psicologico. A volte servono semplicemente alcuni momenti liberi nella giornata o
nella settimana. Le famiglie e gli adulti potrebbero quindi venire interessati, previo
coordinamento da parte della comunità, a sostenere questo nucleo con una
disponibilità ben circoscritta al tempo, oppure alle competenze, ai tipi di servizio.
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Preghiera
Nella nostra povertà, Signore, gridiamo a te all’estremo delle nostre forze. Tu ci hai
guariti, ci hai sollevati dal fango molle della nostra condizione. L’abbondanza di
prima si è cambiata in carestia; la città santa e il suo tempio sono diventati
Zareptha, città pagana. Siamo rimasti soli; soli con i nostri “figli unici”, senza altro
che non sia siccità e fame. Al colmo della solitudine, tu vieni e ci chiedi ancora una
volta il “tutto ciò che abbiamo per vivere”.
Tu bussi nuovamente alla porta del nostro cuore e ci ricordi che solo “Dio è il
Signore”. Ci chiedi “l’acqua della tribolazione e il pane dell’afflizione” e non
possiamo darti altro che “un pugno di farina e un po’ d’olio”.
Sentiamo, Signore, sulla nostra pelle l’incapacità di dare; non è più come prima
quando vivevamo nella ricchezza, ora quel poco che ci resta “lo mangeremo e poi
moriremo”.
Riempi o Signore la fragile giara della nostra vita, perché ne possiamo mangiare a
sazietà e non venir meno alla tua Parola.
5.
Testimone: S. Vincenzo de’ Paoli, povero con i poveri
Cenni biografici
Nato da un'umile famiglia contadina a Pouy, un borgo contadino presso Dax. Suo
padre Jean de Paul è un piccolo agricoltore, sua madre Bertrande de Moras, invece,
apparteneva a una famiglia di piccola nobiltà locale.
Vincenzo è indotto molto presto a fornire assistenza ai genitori che lottano per la
sopravvivenza di tutta la famiglia numerosa. Tuttavia, deve lasciare la sua casa per
Dax, dove suo padre lo iscrive al Ecole des Cordeliers, gestito dai francescani. Il padre
sperava di prepararsi per ottenere alcuni "buoni profitti" attraverso il quale
potevano integrare il reddito familiare.
Vincenzo vi rimase tre anni e con successo frequentando i corsi di grammatica e
latino. È stato per i suoi compagni un esempio di abnegazione, tanto che dopo un
breve periodo di tempo, il signor Comet, un amico di famiglia, gli chiese di
diventare tutore del figlio. Da lì a poco, manifestò la vocazione apostolica e il
desiderio di diventare sacerdote.
Grazie ad un ricco avvocato della zona riuscì a studiare teologia a Tolosa e fu
ordinato sacerdote il 23 settembre 1600 dapprima come secolare poi nella
Compagnia del Santissimo Sacramento. A 16 anni ricevette la tonsura. Ciò
significava entrare nel clero ed indossare la tonaca. Nel 1605, mentre viaggiava su
una nave da Marsiglia a Narbona, fu catturato dai pirati turchi e venduto come
schiavo a Tunisi: fu liberato due anni dopo dal padrone che, nel frattempo, si era
convertito al Cristianesimo.
Entrò poi nella corte francese come cappellano ed elemosiniere di Margherita di
Valois; fu successivamente curato a Clichy, dove mise da parte le preoccupazioni
materiali e di carriera e si dedicò intensamente all'insegnamento del catechismo e
soprattutto all'aiuto degli infermi e dei poveri; fondamentale per la sua maturazione
spirituale fu l'incontro con il grande Francesco di Sales.
Officia diversi mesi nella parrocchia di Châtillon-sur-Chalaronne in Dombes a Arssur-Formans dove lo farà due secoli dopo, Giovanni Maria Vianney, cd. “Curato
d'Ars”. Diventa quindi il sacerdote di Saint-Sauveur Saint-Médard, dove ha
ricostruito la chiesa della comunità dal 1622 al 1630. Nel 1623 ha fondato la
Compagnia delle Dame della Carità, che hanno poi preso il nome di "Figlie della
Carità di San Vincenzo de 'Paoli." Questo ordine ha avuto sede a Clichy dall'inizio
del fino al 1970.
Nel 1613 fu assunto come precettore al servizio dei marchesi di Gondi; il marchese
era governatore generale delle galere. Grazie al sostegno economico dei suoi
mecenati, Vincenzo de' Paoli riuscì a moltiplicare le iniziative caritatevoli a
favore dei diseredati e dei bambini abbandonati. Su richiesta della marchesa, che
intendeva migliorare le condizioni spirituali dei contadini dei suoi possedimenti,
nel 1625 formò un gruppo di chierici specializzati nell'apostolato rurale: il primo
nucleo della Congregazione della Missione, i quali membri vennero poi detti Lazzaristi
qui, dove si ordinarono molti membri, crea un seminario della Missione. Il primo
Lazzarista sarà inviato nel Madagascar a partire dal 1648.
Il 29 novembre 1633, ha fondato la Città dei Poveri, dove ha avuto origine la
congregazione delle Figlie della Carità sotto la responsabilità di Luisa di Marillac
insieme a Marguerite Naseau. Le Figlie, note anche come "Suore di San Vincenzo de
'Paoli," si dedicarono al servizio dei malati e al servizio materiale e spirituale dei
poveri. Questa istituzione è attualmente responsabile per l'Ospedale degli Innocenti
in Parigi.
Le sue opere di carità e assistenza divennero tanto celebri che Luigi XIII di Francia
lo scelse come suo consigliere: si allontanò dalla corte per divergenze con il
cardinale Mazzarino e continuò a dedicarsi all'assistenza ai poveri anche durante la
lotta della Fronda. Nel 1635, fornì sostegno alle persone di Ducato di Lorena e
Ducato di Bar, nonostante le devastazioni degli eserciti nemici. Luigi XIII volle
essere assistito da lui nei suoi ultimi momenti di vita fino al 14 maggio 1643.
È stato nominato per il "Consiglio di Coscienza" (Consiglio per gli Affari
Ecclesiastici) da parte della reggente Anna d'Austria, per la quale era anche il
confessore. Fondò anche un ospizio per gli anziani, che divenne il Salpêtrière nel
1657. Morto il 27 settembre 1660, fu sepolto nella chiesa di San Lazzaro, che faceva
parte della casa di Saint Lazare poi di Saint-Denis, 28 settembre 1660, in una cripta
scavata nel bel mezzo del coro della cappella.
La sua opera ispirò Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore della Piccola Casa
della Divina Provvidenza.
17
SCHEDA 3
LABORIOSITA’
Il lavoro allontana tre grandi mali: la noia, il vizio ed il bisogno. Voltaire
1.
Icona biblica. Paolo: fabbricatore di tende: At 18,1-5
Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo chiamato
Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in
seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da
loro e poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì nella loro casa e lavorava. Erano
infatti di mestiere fabbricatori di tende. Ogni sabato poi discuteva nella sinagoga e
cercava di persuadere Giudei e Greci. Quando giunsero dalla Macedonia Sila e Timoteo,
Paolo si dedicò tutto alla predicazione, affermando davanti ai Giudei che Gesù era il
Cristo.
2.
Commento
Ad Atene la predicazione di Paolo non era stata accolta, a tal punto che quando aveva
parlato di resurrezione, aspetto fondamentale dell’annuncio cristiano, gli era stato
detto: “Su questo argomento ti ascolteremo un’altra volta.” Paolo lascerà Atene e andrà
a Corinto, città molto importante dal punto di vista commerciale e culturale per la sua
posizione geografica, passaggio tra l’Egeo e l’Adriatico.
Proprio a Corinto, Paolo incontrerà Aquila e Priscilla, due giudeo-cristiani, una coppia,
che aveva dovuto lasciare Roma, perché l’imperatore Claudio aveva espulso i giudei.
Aquila e Priscilla, accoglieranno Paolo nella loro casa e condivideranno la fatica del
lavoro poiché erano fabbricanti di tende come Paolo.
Paolo aveva imparato l’arte di fabbricare tende a Tarso di Cilicia sua città natìa, nota per
i tessuti di pel di capra. Anche il Ponto era famoso per queste manifatture; e si capisce
che Aquila abbia avuto qui l'opportunità d'imparare questa abilità. I tessuti di pel di
capra si usavano per le vele dei bastimenti e per le tende dei militari o d'altro uso. Che
Paolo avesse imparato un'arte, non deve destare meraviglia. Ogni giudeo, da piccino,
era tenuto ad imparare a far qualcosa di manuale. Un proverbio rabbinico diceva: "Chi
non insegna al suo figliuolo un mestiere, gl'insegna a fare il ladro". Così dunque
comincia Paolo l'opera sua in Corinto; guadagnandosi il necessario col lavoro delle
proprie mani, come aveva già fatto a Tessalonica, e mettendosi al coperto da ogni
possibile accusa di predicare e d'insegnare a scopo di lucro (1Cor 9,15-19; 2Cor 11,7-13).
18
3.
Spunti di riflessione
- Per vivere l’uomo ha bisogno di lavorare. Senza lavoro la vita dell’uomo cade nella
noia, nel non-senso di una penosa inutilità. Attraverso il lavoro, invece, egli non solo
esercita il compito affidatogli da Dio nell’opera della creazione, ma soprattutto vive un
rapporto di collaborazione con Lui, mette al servizio degli altri le capacità che possiede,
diviene artefice di nuova civiltà , esercita un nobile dominio sulle cose e sul mondo, ha
la possibilità di realizzare e di esprimere se stesso.
- Il lavoro, pur offrendo queste stupende possibilità può diventare un fattore di
rischio. Questo avviene quando l’attività umana anziché obbedire alla volontà di Dio,
cioè al suo disegno di amore, si lascia dominare dalla logica del mondo facendo
prevalere la cupidigia dell’avere sulla generosità del dono, la tirannia del potere sulla
disponibilità al servizio, la bramosia del piacere sulla accettazione del sacrificio.
Urgente diventa l’invito ad una trasformazione interiore che passi attraverso il
rinnovamento della mente, perché anche il lavoro diventi culto gradito a Dio, giovi al
vero bene dell’uomo e offra una reale collaborazione all’opera della creazione. Il rischio
che il lavoro divenga un idolo vale anche per la famiglia. Ciò accade quando l’attività
lavorativa detiene il primato assoluto rispetto alle relazioni familiari, quando entrambi i
coniugi vengono abbagliati dal profitto economico e ripongono la loro felicità nel solo
benessere materiale. Il rischio dei lavoratori, in ogni epoca, è di dimenticarsi di Dio,
lasciandosi completamente assorbire dalle occupazioni mondane, nella convinzione che
in esse si trovi l’appagamento di ogni desiderio. Il giusto equilibrio lavorativo, capace
di evitare queste derive, richiede il discernimento familiare circa le scelte domestiche e
professionali.
- Nell’attuale epoca del «tutto e subito», l’educazione a lavorare «sudando» risulta
provvidenziale. La fatica lavorativa trova, però, senso e sollievo quando viene
assunta non per il proprio egoistico arricchimento, bensì per condividere le risorse di
vita, dentro e fuori la famiglia, specialmente con i più poveri, nella logica della
destinazione universale dei beni.
- Talora i genitori eccedono nell’evitare ogni fatica ai figli. Essi non devono
dimenticare che la famiglia è la prima scuola di lavoro, dove s’impara ad essere
responsabili per sé e per gli altri dell’ambiente comune di vita. La vita familiare, con le
sue incombenze domestiche, insegna ad apprezzare la fatica e a irrobustire la volontà in
vista del benessere comune e del bene reciproco.
- Il lavoro è una risorsa per la famiglia nel duplice senso di costituire una fonte di
sostentamento e di sviluppo della famiglia e al tempo stesso luogo in cui si esercita la
solidarietà tra le famiglie e tra le generazioni. L’insegnamento della Chiesa suggerisce
di tenere in correlazione il lavoro con la famiglia.
Laborem Exercens propone la correlazione del lavoro con la famiglia e ci ricorda che «la
famiglia è, al tempo stesso, una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna
scuola di lavoro per ogni uomo».
- Lavoro e famiglia. Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare, la
quale è un diritto naturale ed una vocazione dell’uomo. Questi due cerchi di valori –
19
uno congiunto al lavoro, l’altro conseguente al carattere familiare della vita umana –
devono unirsi tra sé correttamente, e correttamente permearsi. Il lavoro è, in un certo
modo, la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia, poiché questa
esige i mezzi di sussistenza, che in via normale l’uomo acquista mediante il lavoro.
Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il processo di educazione nella famiglia,
proprio per la ragione che ognuno «diventa uomo», fra l’altro, mediante il lavoro, e quel
diventare uomo esprime appunto lo scopo principale di tutto il processo educativo.
Evidentemente qui entrano in gioco, in un certo senso, due aspetti del lavoro: quello che
consente la vita ed il mantenimento della famiglia, e quello mediante il quale si
realizzano gli scopi della famiglia stessa, soprattutto l’educazione. Ciononostante,
questi due aspetti del lavoro sono uniti tra di loro e si completano in vari punti.
Nell’insieme si deve ricordare ed affermare che la famiglia costituisce uno dei più
importanti termini di riferimento, secondo i quali deve essere formato l’ordine socioetico del lavoro umano. La dottrina della Chiesa ha sempre dedicato una speciale
attenzione a questo problema, e nel presente documento occorrerà che ritorniamo
ancora su di esso. Infatti, la famiglia è, al tempo stesso, una comunità resa possibile
dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per ogni uomo. [Laborem Exercens, 10]
- Lavoro: un bene per la persona e la sua dignità
Il lavoro è un bene dell’uomo. Se questo bene comporta il segno di un «bonum
arduum», secondo la terminologia di San Tommaso, ciò non toglie che, come tale, esso
sia un bene dell’uomo. Ed è non solo un bene «utile» o «da fruire», ma un bene
«degno», cioè corrispondente alla dignità dell’uomo, un bene che esprime questa
dignità e la accresce.
Volendo meglio precisare il significato etico del lavoro, si deve avere davanti agli occhi
prima di tutto questa verità. […] Senza questa considerazione non si può comprendere
il significato della virtù della laboriosità, più particolarmente non si può comprendere
perché la laboriosità dovrebbe essere una virtù: infatti, la virtù, come attitudine morale,
è ciò per cui l’uomo diventa buono in quanto uomo.
Questo fatto non cambia per nulla la nostra giusta preoccupazione, affinché nel lavoro,
mediante il quale la materia viene nobilitata, l’uomo stesso non subisca una
diminuzione della propria dignità.
- Domande per il dialogo di coppia o in gruppo
1. Sappiamo sostenerci nelle nostre rispettive fatiche professionali?
2. I nostri figli comprendono la fatica del lavoro e il valore dei soldi
guadagnati con l’impegno e la fatica?
3. Ringraziamo il Signore per il lavoro che ci consente di mantenere la
nostra famiglia? Realizziamo azioni caritative con il ricavato del nostro lavoro?
4. Sappiamo condividere i lavori domestici e la cura dei figli?
- Come recuperare oggi la solidarietà nel mondo del lavoro? Quale aiuto può fornire
la comunità cristiana?
20
4. Proposte pastorali
- Vivere esperienze di volontariato e di servizio in strutture di accoglienza a
servizio dei poveri
- Partecipare a campi di lavoro
5. Testimoni: Madre Teresa di Calcutta, donna laboriosa, infaticabile ed
instancabile (1910-1997)
“ Sono albanese di sangue, indiana di cittadinanza. Per quel che attiene alla mia fede, sono
una suora cattolica. Secondo la mia vocazione, appartengo al mondo. Ma per quanto riguarda
il mio cuore, appartengo interamente al Cuore di Gesù”.Di conformazione minuta, ma di
fede salda quanto la roccia, a Madre Teresa di Calcutta fu affidata la missione di
proclamare l’amore assetato di Gesù per l’umanità, specialmente per i più poveri tra i
poveri. “Dio ama ancora il mondo e manda me e te affinché siamo il suo amore e la sua
compassione verso i poveri”. Era un’anima piena della luce di Cristo, infiammata di
amore per Lui e con un solo, ardente desiderio: “saziare la Sua sete di amore e per le
anime”.
Questa luminosa messaggera dell’amore di Dio nacque il 26 agosto 1910 a Skopje,
città situata al punto d’incrocio della storia dei Balcani. La più piccola dei cinque figli
di Nikola e Drane Bojaxhiu, fu battezzata Gonxha Agnes, ricevette la Prima
Comunione all’età di cinque anni e mezzo e fu cresimata nel novembre 1916. Dal
giorno della Prima Comunione l’amore per le anime entrò nel suo cuore.
L’improvvisa morte del padre, avvenuta quando Agnes aveva circa otto anni, lasciò
la famiglia in difficoltà finanziarie. Drane allevò i figli con fermezza e amore,
influenzando notevolmente il carattere e la vocazione della figlia. La formazione
religiosa di Gonxha fu rafforzata ulteriormente dalla vivace parrocchia gesuita del
Sacro Cuore, in cui era attivamente impegnata.
All’età di diciotto anni, mossa dal desiderio di diventare missionaria, Gonxha lasciò
la sua casa nel settembre 1928, per entrare nell’Istituto della Beata Vergine Maria,
conosciuto come “le Suore di Loreto”, in Irlanda. Lì ricevette il nome di suor Mary
Teresa, come Santa Teresa di Lisieux. In dicembre partì per l’India, arrivando a
Calcutta il 6 gennaio 1929. Dopo la Professione dei voti temporanei nel maggio 1931,
Suor Teresa venne mandata presso la comunità di Loreto a Entally e insegnò nella
scuola per ragazze, St. Mary. Il 24 maggio 1937 suor Teresa fece la Professione dei
voti perpetui, divenendo, come lei stessa disse: “la sposa di Gesù” per “tutta l’eternità”.
Da quel giorno fu sempre chiamata Madre Teresa. Continuò a insegnare a St. Mary e
nel 1944 divenne la direttrice della scuola. Persona di profonda preghiera e amore
intenso per le consorelle e per le sue allieve, Madre Teresa trascorse i venti anni della
sua vita a “Loreto” con grande felicità. Conosciuta per la sua carità, per la generosità
e il coraggio, per la propensione al duro lavoro e per l’attitudine naturale
all’organizzazione, visse la sua consacrazione a Gesù, tra le consorelle, con fedeltà e
gioia.
Il 10 settembre 1946, durante il viaggio in treno da Calcutta a Darjeeling per il ritiro
annuale, Madre Teresa ricevette l’“ispirazione”, la sua “chiamata nella chiamata”. Quel
giorno, in che modo non lo raccontò mai, la sete di Gesù per amore e per le anime si
21
impossessò del suo cuore, e il desiderio ardente di saziare la Sua sete divenne il
cardine della sua esistenza. Nel corso delle settimane e dei mesi successivi, per
mezzo di locuzioni e visioni interiori, Gesù le rivelò il desiderio del suo Cuore per
“vittime d’amore” che avrebbero “irradiato il suo amore sulle anime.” ”Vieni, sii la mia
luce”, la pregò. “Non posso andare da solo” Le rivelò la sua sofferenza nel vedere
l’incuria verso i poveri, il suo dolore per non essere conosciuto da loro e il suo
ardente desiderio per il loro amore. Gesù chiese a Madre Teresa di fondare una
comunità religiosa, le Missionarie della Carità, dedite al servizio dei più poveri tra i
poveri. Circa due anni di discernimento e verifiche trascorsero prima che Madre
Teresa ottenesse il permesso di cominciare la sua nuova missione. Il 17 agosto 1948,
indossò per la prima volta il sari bianco bordato d’azzurro e oltrepassò il cancello del
suo amato convento di “Loreto” per entrare nel mondo dei poveri.
Dopo un breve corso con le Suore Mediche Missionarie a Patna, Madre Teresa rientrò
a Calcutta e trovò un alloggio temporaneo presso le Piccole Sorelle dei Poveri. Il 21
dicembre andò per la prima volta nei sobborghi: visitò famiglie, lavò le ferite di
alcuni bambini, si prese cura di un uomo anziano che giaceva ammalato sulla strada
e di una donna che stava morendo di fame e di tubercolosi. Iniziava ogni giornata
con Gesù nell’Eucaristia e usciva con la corona del Rosario tra le mani, per cercare e
servire Lui in coloro che sono “non voluti, non amati, non curati”. Alcuni mesi più tardi
si unirono a lei, l’una dopo l’altra, alcune sue ex allieve.
Il 7 ottobre 1950 la nuova Congregazione delle Missionarie della Carità veniva
riconosciuta ufficialmente nell’Arcidiocesi di Calcutta. Agli inizi del 1960 Madre
Teresa iniziò a inviare le sue sorelle in altre parti dell’India. Il Diritto Pontificio
concesso alla Congregazione dal Papa Paolo VI nel febbraio 1965 la incoraggiò ad
aprire una casa di missione in Venezuela. Ad essa seguirono subito altre fondazioni a
Roma e in Tanzania e, successivamente, in tutti i continenti. A cominciare dal 1980
fino al 1990, Madre Teresa aprì case di missione in quasi tutti i paesi comunisti,
inclusa l’ex Unione Sovietica, l’Albania e Cuba.
Per rispondere meglio alle necessità dei poveri, sia fisiche, sia spirituali, Madre
Teresa fondò nel 1963 i Fratelli Missionari della Carità; nel 1976 il ramo contemplativo
delle sorelle, nel 1979 i Fratelli contemplativi, e nel 1984 i Padri Missionari della Carità.
Tuttavia la sua ispirazione non si limitò soltanto alle vocazioni religiose. Formò i
Collaboratori di Madre Teresa e i Collaboratori Ammalati e Sofferenti, persone di diverse
confessioni di fede e nazionalità con cui condivise il suo spirito di preghiera,
semplicità, sacrificio e il suo apostolato di umili opere d’amore. Questo spirito
successivamente portò alla fondazione dei Missionari della Carità Laici. In risposta alla
richiesta di molti sacerdoti, nel 1991 Madre Teresa dette vita anche al Movimento
Corpus Christi per Sacerdoti come una “piccola via per la santità” per coloro che
desideravano condividere il suo carisma e spirito.
In questi anni di rapida espansione della sua missione, il mondo cominciò a rivolgere
l’attenzione verso Madre Teresa e l’opera che aveva avviato. Numerose onorificenze,
a cominciare dal Premio indiano Padmashri nel 1962 e dal rilevante Premio Nobel
per la Pace nel 1979, dettero onore alla sua opera, mentre i media cominciarono a
seguire le sue attività con interesse sempre più crescente. Tutto ricevette, sia i
riconoscimenti sia le attenzioni, “per la gloria di Dio e in nome dei poveri”.
L’intera vita e l’opera di Madre Teresa offrirono testimonianza della gioia di amare,
della grandezza e della dignità di ogni essere umano, del valore delle piccole cose
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fatte fedelmente e con amore, e dell’incomparabile valore dell’amicizia con Dio. Ma
vi fu un altro aspetto eroico di questa grande donna di cui si venne a conoscenza solo
dopo la sua morte. Nascosta agli occhi di tutti, nascosta persino a coloro che le
stettero più vicino, la sua vita interiore fu contrassegnata dall’esperienza di una
profonda, dolorosa e permanente sensazione di essere separata da Dio, addirittura
rifiutata da Lui, assieme a un crescente desiderio di Lui. Chiamò la sua prova
interiore: “l’oscurità”. La “dolorosa notte” della sua anima, che ebbe inizio intorno al
periodo in cui aveva cominciato il suo apostolato con i poveri e perdurò tutta la vita,
condusse Madre Teresa a un’unione ancora più profonda con Dio. Attraverso
l’oscurità partecipò misticamente alla sete di Gesù, al suo desiderio, doloroso e
ardente, di amore, e condivise la desolazione interiore dei poveri.
Durante gli ultimi anni della sua vita, nonostante i crescenti seri problemi di salute,
Madre Teresa continuò a guidare la sua Congregazione e a rispondere alle necessità
dei poveri e della Chiesa. Nel 1997 le suore di Madre Teresa erano circa 4.000,
presenti nelle 610 case di missione sparse in 123 paesi del mondo. Nel marzo 1997
benedisse la neo-eletta nuova Superiora Generale delle Missionarie della Carità e fece
ancora un viaggio all’estero. Dopo avere incontrato il Papa Giovanni Paolo II per
l’ultima volta, rientrò a Calcutta e trascorse le ultime settimane di vita ricevendo
visitatori e istruendo le consorelle. Il 5 settembre 1997 la vita terrena di Madre Teresa
giunse al termine. Le fu dato l’onore dei funerali di Stato da parte del Governo
indiano e il suo corpo fu seppellito nella Casa Madre delle Missionarie della Carità.
La sua tomba divenne ben presto luogo di pellegrinaggi e di preghiera per gente di
ogni credo, poveri e ricchi, senza distinzione alcuna. Madre Teresa ci lascia un
testamento di fede incrollabile, speranza invincibile e straordinaria carità. La sua
risposta alla richiesta di Gesù: “Vieni, sii la mia luce”, la rese Missionaria della
Carità, “Madre per i poveri”, simbolo di compassione per il mondo e testimone
vivente dell’amore assetato di Dio.
Meno di due anni dopo la sua morte, a causa della diffusa fama di santità e delle
grazie ottenute per sua intercessione, il Papa Giovanni Paolo II permise l’apertura
della Causa di Canonizzazione. Il 20 dicembre 2002 approvò i decreti sulle sue virtù
eroiche e sui miracoli.
OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II PER LA BEATIFICAZIONE DI
MADRE TERESA DI CALCUTTA (Giornata Missionaria Mondiale - Domenica 19 ottobre
2003)
1. “Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti” (Mc 10,44). Queste parole di Gesù
ai discepoli, risuonate poc’anzi in questa Piazza, indicano quale sia il cammino che
conduce alla “grandezza” evangelica. E' la strada che Cristo stesso ha percorso fino
alla Croce; un itinerario di amore e di servizio, che capovolge ogni logica umana.
Essere il servo di tutti!
Da questa logica si è lasciata guidare Madre Teresa di Calcutta, Fondatrice dei
Missionari e delle Missionarie della Carità, che oggi ho la gioia di iscrivere nell’Albo
dei Beati. Sono personalmente grato a questa donna coraggiosa, che ho sempre
sentito accanto a me. Icona del Buon Samaritano, essa si recava ovunque per servire
Cristo nei più poveri fra i poveri. Nemmeno i conflitti e le guerre riuscivano a
fermarla.
Ogni tanto veniva a parlarmi delle sue esperienze a servizio dei valori evangelici.
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Ricordo, ad esempio, i suoi interventi a favore della vita e contro l’aborto, anche in
occasione del conferimento del Premio Nobel per la pace (Oslo, 10 dicembre 1979).
Soleva dire: “Se sentite che qualche donna non vuole tenere il suo bambino e
desidera abortire, cercate di convincerla a portarmi quel bimbo. Io lo amerò, vedendo
in lui il segno dell’amore di Dio”.
2. Non è forse significativo che la sua beatificazione avvenga proprio nel giorno in
cui la Chiesa celebra la Giornata Missionaria Mondiale? Con la testimonianza della sua
vita Madre Teresa ricorda a tutti che la missione evangelizzatrice della Chiesa passa
attraverso la carità, alimentata nella preghiera e nell’ascolto della parola di Dio.
Emblematica di questo stile missionario è l’immagine che ritrae la nuova Beata
mentre stringe, con una mano, quella di un bambino e, con l'altra, fa scorrere la
corona del Rosario.
Contemplazione e azione, evangelizzazione e promozione umana: Madre Teresa
proclama il Vangelo con la sua vita tutta donata ai poveri, ma, al tempo stesso, avvolta
dalla preghiera.
3. "Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore" (Mc 10, 43). È con particolare
emozione che oggi ricordiamo Madre Teresa, grande serva dei poveri, della Chiesa e
del Mondo intero. La sua vita è una testimonianza della dignità e del privilegio del
servizio umile. Ella aveva scelto di non essere solo la più piccola, ma la serva dei più
piccoli. Come madre autentica per i poveri, si è chinata verso coloro che soffrivano
diverse forme di povertà. La sua grandezza risiede nella sua abilità di dare senza
calcolare i costi, di dare "fino a quando fa male". La sua vita è stata un vivere radicale
e una proclamazione audace del Vangelo.
Il grido di Gesù sulla croce, "Ho sete" (Gv 19, 28), che esprime la profondità del
desiderio di Dio dell'uomo, è penetrato nell'anima di Madre Teresa e ha trovato
terreno fertile nel suo cuore. Placare la sete di amore e di anime di Gesù in unione con
Maria, Madre di Gesù, era divenuto il solo scopo dell'esistenza di Madre Teresa, e la
forza interiore che le faceva superare sé stessa e "andare di fretta" da una parte
all'altra del mondo al fine di adoperarsi per la salvezza e la santificazione dei più
poveri tra i poveri.
4. "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete
fatto a me" (Mt 25, 40). Questo passo del Vangelo, così fondamentale per
comprendere il servizio di Madre Teresa ai poveri, era alla base della sua
convinzione, piena di fede, che nel toccare i corpi deperiti dei poveri toccava il corpo di
Cristo. Era a Gesù stesso, nascosto sotto le vesti angoscianti dei più poveri tra i
poveri, che era diretto il suo servizio. Madre Teresa pone in rilievo il significato più
profondo del servizio: un atto d'amore fatto agli affamati, agli assetati, agli stranieri,
a chi è nudo, malato, prigioniero (cfr Mt 25, 34-36), viene fatto a Gesù stesso.
Riconoscendolo, lo serviva con totale devozione, esprimendo la delicatezza del suo
amore sponsale. Così, nel dono totale di sé a Dio e al prossimo, Madre Teresa ha
trovato il suo più alto appagamento e ha vissuto le qualità più nobili della sua
femminilità. Desiderava essere un "segno dell'amore di Dio, della presenza di Dio,
della compassione di Dio" e, in tal modo, ricordare a tutti il valore e la dignità di ogni
figlio di Dio, "creato per amare ed essere amato". Era così che Madre Teresa "portava
le anime a Dio e Dio alle anime", placando la sete di Cristo, soprattutto delle persone
più bisognose, la cui visione di Dio era stata offuscata dalla sofferenza e dal dolore".]
5. “Il Figlio dell’uomo è venuto per dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).
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Madre Teresa ha condiviso la passione del Crocifisso, in modo speciale durante
lunghi anni di “buio interiore”. E’ stata, quella, una prova a tratti lancinante, accolta
come un singolare “dono e privilegio”.
Nelle ore più buie ella s’aggrappava con più tenacia alla preghiera davanti al
Santissimo Sacramento. Questo duro travaglio spirituale l’ha portata ad identificarsi
sempre più con coloro che ogni giorno serviva, sperimentandone la pena e talora persino
il rigetto. Amava ripetere che la più grande povertà è quella di essere indesiderati, di non
avere nessuno che si prenda cura di te.
6. “Donaci, Signore, la tua grazia, in Te speriamo!”. Quante volte, come il Salmista,
anche Madre Teresa nei momenti di desolazione interiore ha ripetuto al suo Signore:
“In Te, in Te spero, mio Dio!”.
Rendiamo lode a questa piccola donna innamorata di Dio, umile messaggera del
Vangelo e infaticabile benefattrice dell’umanità. Onoriamo in lei una delle
personalità più rilevanti della nostra epoca. Accogliamone il messaggio e
seguiamone l’esempio.
Vergine Maria, Regina di tutti i Santi, aiutaci ad essere miti e umili di cuore come
questa intrepida messaggera dell’Amore. Aiutaci a servire con la gioia e il sorriso
ogni persona che incontriamo. Aiutaci ad essere missionari di Cristo, nostra pace e
nostra speranza. Amen!
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“Preghiera semplice" della famiglia
Signore, fa’ della nostra famiglia uno strumento della tua pace:
dove prevale l'egoismo, che portiamo amore,
dove domina la violenza, che portiamo tolleranza,
dove scoppia la vendetta, che portiamo riconciliazione,
dove serpeggia la discordia, che portiamo comunione,
dove regna l'idolo del denaro, che portiamo libertà dalle cose,
dove c’è scoraggiamento, che portiamo fiducia,
dove c'è sofferenza,che portiamo consolazione,
dove c'è solitudine, che portiamo compagnia,
dove c’è tristezza, che portiamo gioia,
dove c'è disperazione, che portiamo speranza.
O Maestro,
fa' che la nostra famiglia non cerchi tanto di accumulare,
quanto di donare,
non si accontenti di godere da sola ma sappia condividere.
Perché c'è più gioia nel dare che nel ricevere, nel perdonare che nel prevalere,
nel servire che nel dominare.
Così costruiremo insieme una società solidale e fraterna.
Amen