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N.1 – Luglio 2004
Le competenze
tra persona e organizzazione
Editoriale
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Mauro Mander per Servizio Pubblicazioni di Schema
…Il ponte, ideale collegamento tra luoghi lontani,
si eleva dalle attività del quotidiano divenendo momento
di riflessione, di passaggio, di sviluppo.
Gestire la rete, il Know How
e la tecnologia
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Ferdinando Castellano – Marco Baffoni
Di fronte al processo di globalizzazione in atto, cresce
la complessità e la fragilità della rete: quali competenze
diviene necessario sviluppare per guidare le imprese
nel contesto economico attuale?
Il bilancio delle competenze
come processo di valorizzazione
delle persone
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Ferdinando Castellano - Cristiana Genta
Un progetto di Mappatura e Bilancio delle Competenze
in una società operante nel campo assicurativo,
che sta sviluppando al suo interno una cultura
organizzativa fondata sulla gestione strategica
delle competenze.
Dalla competenza a vivere
alla competenza professionale
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Stefano Rampone intervista Anna Castellano
Quale rilevanza può avere il tema della competenza
a vivere per il soggetto e per le organizzazioni? Alcune
risposte si possono individuare adottando, a fronte
della letteratura scientifica sin qui prodotta,
un orientamento teorico e metodologico
sufficientemente comprensivo della complessità
delle organizzazioni…
Case History
23
Mauro Mander
Progettare e realizzare un sistema di valutazione
delle prestazioni insieme alle competenze: il focus
sullo sviluppo professionale…
Recensioni…
www.schema.it
Schematizie n. 01 – giugno 2004
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EDITORIALE
Mauro Mander per il Servizio Pubblicazioni di Schema
Questo è il primo numero di una rivista dove i consulenti SCHEMA discutono e approfondiscono
temi di organizzazione che continuano a suscitare interesse e attenzione.
Si rivolge anzitutto ai CLIENTI-COLLEGHI con cui negli anni si è lavorato, e con cui abbiamo
condiviso le fatiche e le passioni della professione che ci accomuna.
L’obiettivo è quello di mantenere aperto il dialogo su alcuni argomenti che, negli anni,
rappresentano un riferimento per il lavoro nelle organizzazioni.
Se dovessimo descrivere questa rivista con un’immagine, con un simbolo che la rappresenta,
potrebbe essere un ponte, che collega località diverse, che le fa sentire più vicine e che, nello
stesso tempo, passa più in alto rispetto ai paesaggi sottostanti, allo scorrere di fiumi, che
simbolicamente
sono
invece
le
nostre
attività
di
lavoro
quotidiane,
gli
impegni
che
continuamente ci incalzano.
Questa rivista rappresenta, almeno per noi, un ponte, un luogo che si eleva al di sopra della
quotidianità e che, nello stesso tempo, è luogo di riflessione, di passaggio, di sviluppo.
Se invece questa rivista fosse un verbo, sarebbe quello di rilanciare, perché crediamo che gli
elementi di riflessione che proviamo e proveremo a raccontare su queste pagine, siano nati
anzitutto nella relazione con i nostri clienti – colleghi (con voi che ci leggete), con cui abbiamo
condiviso momenti ed esperienze di valore professionale ma anche personale.
Allora ci sembra corretto affermare che l’atto del rilanciare ha in sé il significato di fare un
bilancio, di analizzare ciò che si è fatto o detto su certi argomenti, e ha in sé anche la capacità di
anticipare il futuro, di porsi in una dimensione prospettica.
Se poi questa rivista fosse un animale, vorremmo che assomigliasse a una giraffa, che ha le
potenzialità per vedere lontano e, nello stesso tempo, è capace di un’espressione che rispecchia
(a noi umani) uno stato di profonda riflessione, un’attenta analisi della situazione.
Abbiamo detto attraverso queste immagini ciò che vorremmo che fosse questa rivista, un luogo
corale che ci consenta un dialogo “alto” su alcuni temi di interesse per chi opera nelle
organizzazioni e per le organizzazioni.
Tuttavia questo risultato potrà essere raggiunto solo se il dialogo sarà a più voci.
Per questo vi ringraziamo finora per le vostre considerazioni, i suggerimenti e anche per le
critiche, che cercheremo di trasformare in miglioramenti (o almeno ci proveremo).
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Il formato elettronico e i canali offerti dalle nuove tecnologie consentono, tra l’altro, uno
scambio più rapido ed efficace, pur se certamente più distante rispetto all’incontrarsi di persona.
Auguriamo a tutti una buona lettura, che sia di stimolo per rilanciare l’interesse e la riflessione
su temi che riguardano le persone, prima ancora che le organizzazioni.
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GESTIRE LA RETE, IL KNOW HOW E LA TECNOLOGIA
Ferdinando Castellano – Marco Baffoni
Lo scenario macroeconomico attuale si presenta come lo scenario della globalizzazione, della
complessità e della tecnologia.
Tale scenario porta la maggior parte delle aziende e delle organizzazioni ad essere molto più
attente nella ricerca di elevati standard di efficacia e di efficienza e quindi rende più difficile e
rischioso il competere. In questo senso verifichiamo come, a fronte di un incessante processo di
cambiamento alcune tecnologie siano sempre più disponibili costando sempre meno, mentre
altre continuano ad avere costi elevati ma, per la costante ricerca tecnologica mirata a livelli
sempre più alti di efficienza e difficoltà, hanno un ciclo di vita più breve rispetto a quello che
avevano alcuni decenni fa. Verifichiamo altresì che la rete produttiva, commerciale e finanziaria
da una parte è più complessa, dall’altra è più fragile perché più ampia e caratterizzata da
intrinseche fragilità di sistema.
Ogni organizzazione chiamata a muoversi all’interno di tale scenario adotta strategie nuove,
sviluppando un forte dinamismo, unito sempre più spesso alla indispensabile capacità di
assunzione del rischio. Infatti le imprese che conducono business attraverso varie linee
geografiche, culturali e legali risentono di pressioni aggiuntive ed hanno dei profili di rischio che
sono considerevolmente più complessi rispetto ai rischi che interessano società che operano
localmente.
In questo contesto diventa quindi fondamentale la possibilità di misurare e gestire in modo
sempre più rigoroso ed affidabile i propri rischi, nonché di disporre di adeguati strumenti per
poter valutare gli effetti nel tempo delle proprie scelte strategiche d'investimento, sviluppando
metodologie di risk management sempre più innovative e complesse.
Con la globalizzazione per le imprese che hanno delocalizzato i sistemi produttivi si è allargato il
mercato d’accesso, nella misura in cui sono in grado di gestire un prezzo dei prodotti e dei
servizi coerente con i nuovi scenari di business.
Questo processo di delocalizzazione ha inevitabilmente generato anche un cambiamento dal
punto di vista della gestione delle competenze e dei sistemi formativi di sviluppo del Know
How.
Cambia la prospettiva sia dei Paesi in via di sviluppo che dei Paesi industrializzati. Mentre è
evidente l’impatto della globalizzazione sulla modificazione del sistema di competenze dei
Paesi in via di sviluppo quale conseguenza dell’impiantarsi di nuove aziende e della crescita dei
commerci, pur sembrando meno evidente questo fenomeno ha conseguenze anche nei Paesi
industrializzati. Infatti, nei primi vengono localizzate attività sostanzialmente ripetitive che
richiedono quindi manodopera a basso livello di scolarità e competenza. Al contempo, nei Paesi
industrializzati avviene un fenomeno meno evidente ma altrettanto significativo.
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In queste aree, infatti, vengono a scomparire le attività delocalizzate nei Paesi in via di sviluppo
e si ha la necessità di sviluppare centri per la creazione del Know How che governa
economicamente e tecnologicamente tutte le attività produttive: è richiesto cioè lo sviluppo di
quelle competenze necessarie per le attività di ideazione e ingegnerizzazione dei beni che
vengono prodotti materialmente nei Paesi in via di sviluppo e dei servizi correlati al commercio
degli stessi.
Alcuni Paesi, come USA, Gran Bretagna e Giappone, sono già entrati nella cosiddetta epoca post
industriale, grazie ad una struttura formativa ed economico finanziaria che offre maggiori
vantaggi innovativi, unita alla presenza di grandi imprese.
Questi Paesi perciò possono assorbire il contraccolpo della perdita di insediamenti produttivi
perché da anni stanno costruendo sistemi formativi in grado di sviluppare le competenze
necessarie per realizzare quelle attività che precedono la produzione, o comunque indispensabili
per commercializzare il prodotto.
In primo luogo, infatti, il sistema formativo, che spesso viene sostenuto dai governi, è
strutturato per sostenere le imprese nei processi di globalizzazione. Questi Paesi hanno una
struttura formativa che per tradizione e cultura è maggiormente orientata a creare Know How
applicativo e quindi a sviluppare persone e organizzazioni (centri di ricerca e centri di sviluppo)
che supportino l’industria nell’ideazione, nello sviluppo e nell’industrializzazione di nuovi
prodotti.
Inoltre, tali Paesi hanno una struttura finanziaria, in alcuni casi guidata anche da input e
orientamenti statali, che garantisce costantemente una vera e propria analisi delle business
opportunities ed è in grado di finanziarle, supportando lo sviluppo ed investendo nella ricerca.
Altri Paesi industrializzati, come l’Italia e alcuni Paesi europei, sono meno pronti a recepire la
modificazione delle competenze necessarie per costruire l’impresa e la conseguente innovazione
del concetto stesso d’impresa. L’Italia non ha grandi imprese che da sole possano sostenere
notevoli investimenti di ricerca perché si è sviluppata soprattutto le piccola e media impresa: il
problema è capire quali forme di associazioni tra le imprese possano finanziare la ricerca.
La delocalizzazione appare strettamente legata alla complessità dello scenario.
Verifichiamo che al crescere di complessità nelle reti di scambio tra le organizzazioni, da un lato
aumenta la complessità per produrre beni e servizi a costi competitivi, dall’altra diventa possibile
produrre beni e servizi che fino a poco tempo fa era impensabile produrre.
È possibile constatare ad esempio che l’imprenditore, il quale scelga di delocalizzare un’impresa,
sostanzialmente finisce per separare l’impresa nelle sue parti: probabilmente il centro di ricerca,
l’Headquarter e tutta l’area commerciale resteranno in un Paese ad alto tasso di Know How,
mentre il nucleo produttivo sarà trasferito in un Paese distante magari qualche decina di migliaia
di chilometri. Diventa perciò molto più complesso gestire i processi di comunicazione tra le parti
dell’impresa, tenere insieme l’organizzazione, mantenere un unico livello di visione, sviluppare
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un’unica missione e costruire un’impresa su dati culturali e territoriali diversi in grado di
integrarsi e crescere in un’unica cultura d’impresa.
Appaiono quindi assai più complesse ed assolutamente nuove le competenze indispensabili
affinché il management sia in grado di governare queste reti di comunicazione e di scambio
all’interno delle imprese e tra le imprese.
Il problema per le imprese allora è identificare le competenze da sviluppare per leggere e
comprendere la complessità di tale scenario. Appare sempre più importante visualizzare
l’evoluzione dei diversi contesti da una prospettiva dinamica, cogliendone i continui mutamenti
in atto.
Ad esempio, se intorno alle grandi città cinesi, e più in generale asiatiche, crescono gli
stabilimenti produttivi trasferiti dall’Europa, significa che queste aree diventeranno le porte di un
mercato di diversi miliardi di persone, dove oltre a produrre aumenteranno anche le vendite in
quello che sarà un nuovo mercato. Queste grandi città nell’arco di dieci anni cambieranno ad
una velocità molto superiore a qualsiasi metropoli europea o statunitense: i Paesi industrializzati
dovranno allora guardare a queste aree per capire cosa sono chiamati a fare per gli anni futuri.
Bisognerà individuare là le competenze perché è là il mercato dove si dovrà vendere o per lo
meno non si potrà non considerare quell’area come un mercato di riferimento.
Naturalmente vi sono alcune differenze a seconda delle caratteristiche del sistema Paese in cui
avviene il processo di localizzazione. Ad esempio, il sistema culturale e formativo ha garantito
all’India una cultura di business e tecnologica che propone vincoli ed opportunità diverse dalla
Cina. Nello specifico indiano diviene possibile portare in questo Paese non solo il sistema
produttivo ma anche l’ideazione del prodotto servizio, quindi le competenze per la costruzione di
sistemi formativi.
In presenza di un sistema formativo adeguato, in grado di supportare lo sviluppo delle nuove
competenze, il complesso scenario economico della globalizzazione rende necessario un costante
orientamento all’innovazione per quelle imprese alla ricerca di maggiori vantaggi competitivi. La
tecnologia presenta due aspetti che meritano una riflessione in relazione allo scenario attuale.
Alcune tecnologie, come ad esempio la tecnologia informatica, sono sempre più diffuse, costano
sempre meno e non rappresentano più un vantaggio competitivo ma costituiscono una mera
facility. Altre tecnologie costano invece molto care e sono soggette in ogni caso ad innovazione.
È il caso, ad esempio, delle tecnologie più avanzate per la produzione: queste, infatti, costano
sempre molto care, pur avendo un ciclo di vita più breve di prima poiché la ricerca le rende
obsolete in tempi rapidi.
Tale processo rende le aziende molto più aggressive nel gestire queste tecnologie e la necessità
di investire in tempi più brevi le spinge ad una più alta competitività sul mercato. Diviene allora
necessaria una grande riflessione delle imprese che producono tecnologie costose nel capire
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come sia possibile evitare che i loro clienti abbiano sofferenze finanziarie a causa del costo della
loro tecnologia. Di qui la necessità per le imprese produttrici di tecnologia, una volta progettato
un nuovo prodotto, di costruire il progetto di ritorno dell’investimento prima che la tecnologia sia
venduta: in quanti anni si intende ammortizzare questa tecnologia e guadagnare attraverso il
suo impiego? Anche perché tendenzialmente i Clienti di chi costruisce tecnologia sofisticata e
costosa tendono anche a fondersi con il processo di globalizzazione e quindi a diradarsi: se sono
in sofferenza per il mancato ammortamento della tecnologia acquistata entrano in uno stallo
nell’innovazione, perdono di competitività e rischiano di morire come clienti per il produttore di
tecnologia.
Ecco perché tutta l’innovazione deve essere effettuata facendo delle proiezioni e riducendo i
costi della tecnologia venduta attraverso non solo la funzionalità della tecnologia ma anche
attraverso l’impiego di nuovi materiali per le componenti.
Occorre sviluppare un sistema di competenze che non sia orientato solo alla creazione del
proprio valore, ma si preoccupi anche della creazione di valore per il Cliente e su questo si
confronti nella negoziazione di vendita.
Significativa è l’esperienza di una piccola impresa italiana, il cui Amministratore Delegato, nel
corso di un incontro di lavoro avuto recentemente ha sottolineato che la sua Vision è “occuparsi
dell’ebit del Cliente”. Egli infatti cerca costantemente di individuare le migliori prestazioni
possibili del proprio prodotto/tecnologia affinché il ritorno sull’investimento del suo Cliente sia
coerente con il ciclo di vita del prodotto/tecnologia stessa: è in questo modo che si occupa
dell’ebit del Cliente.
In particolare, poiché un suo Cliente che opera in uno dei settori più innovativi ed
all’avanguardia, sta pensando di
usare
un
materiale
nuovo
per
sviluppare
un
proprio
prodotto in grado di avere un’affidabilità eccellente, egli pensa che prima o poi anche nei settori
contigui che hanno le stesse esigenze, utilizzeranno lo stesso materiale. Se questo Cliente usa
un materiale diverso per fare il suo prodotto, l’Amministratore Delegato dell’impresa sua
fornitrice intuisce che probabilmente la materia prima utilizzata costa meno, è resistente nello
stesso modo ed è più leggera, con costi minori di gestione e medesima affidabilità.
Se anche i Clienti competitors dell’impresa più innovativa useranno lo stesso materiale,
l’Amministratore Delegato dell’azienda produttrice di tecnologie non venderà più alcune sue
macchine perdendo gran parte del proprio business. Diviene sin d’ora importante perciò mettersi
alla testa dell’innovazione tecnologica sui prodotti degli altri potenziali clienti e proporre loro
studi di innovazione tecnologica, preoccupandosi anche in questo modo della creazione del loro
valore.
L’Amministratore Delegato in questione non solo pensa di vendere delle macchine adatte a
lavorare i nuovi materiali che il Cliente intende utilizzare per costruire il prodotto, ma pensa
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anche di usare lo stesso materiale per costruire parte delle sue macchine, con gli stessi
vantaggi. In questo modo la tecnologia, anche la più costosa, diventa oggetto di condivisione.
L’Amministratore Delegato di questa impresa sta mettendo in piedi una rete di competenza
tecnologica sulle macchine e sui materiali che è una sfida di alta complessità.
La competenza è quella di costruire una rete intorno ad una business idea innovativa e costruire
una rete diviene più facile se si è consapevoli che non ci si deve occupare solo della propria
creazione di valore, ma occorre occuparsi anche della creazione di valore del proprio Cliente.
In tale scenario, i distretti diventano nodi di reti più grandi ed appaiono quali veri e propri nodi
di competenza di reti più grandi. È facile immaginare che nei Paesi ad alta industrializzazione in
futuro rimarrà la produzione della tecnologia costosa, di quella tecnologia più sofisticata
sviluppata sempre da quei Paesi, che tuttavia non saranno in grado di fare grandi passi senza
costruire delle reti di competenze all’interno dei quali le reti locali sono dei semplici nodi.
Alla luce di queste riflessioni è possibile constatare che le piccole imprese più competitive sono
quelle ad alta concentrazione di Know How, con pochi addetti ma legate a medie e grandi
imprese che spingono all’innovazione. Questo permette la creazione della filiera dell’innovazione
con organizzazioni che possiedono competenze e dimensioni diverse.
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IL BILANCIO DELLE COMPETENZE
COME PROCESSO DI VALORIZZAZIONE DELLE PERSONE
Ferdinando Castellano – Cristiana Genta
1. Premessa
Il contesto in cui le aziende si trovano oggi ad operare è estremamente dinamico, a livello
aziendale questo comporta una continua rivisitazione delle strategie e delle politiche, delle
strutture e delle tecnologie, dei processi e delle procedure per essere sempre competitivi ed
innovativi. Il nuovo scenario sta mettendo in evidenza la persona quale elemento distintivo nel
vantaggio competitivo, si affacciano così sulla scena termini quale “capitale intellettuale”, ossia
quel patrimonio costituito da conoscenze, informazioni, proprietà intellettuale, esperienze, idee
che può essere utilizzato per la creazione di ricchezza (D’Egidio, 2003). In questo contributo
tratteremo di una dimensione del capitale intellettuale: il capitale umano, ossia la parte
“pensante”, costituita
essenzialmente dai
contributi
diretti
delle persone che animano
l’organizzazione, contributi che si evidenziano nell’agire professionale e nell’espressione delle
competenze.
Obiettivo di questo articolo è, infatti, stimolare il dibattito ed il confronto sull’importanza che le
competenze stanno assumendo nelle organizzazioni e sulle connessioni tra sistemi di
competenze e processi di sviluppo e valorizzazione delle persone, attraverso la riflessione su un
caso concreto di intervento.
Nelle pagine successive viene quindi descritto un progetto di Mappatura e Bilancio delle
Competenze in una società operante nel campo assicurativo, che sta sviluppando al suo interno
una cultura organizzativa fondata sulla gestione strategica delle competenze.
2. La gestione strategica delle competenze
Il dibattito sul significato del termine “competenza” e sulle strategie di impiego e di sviluppo sta
ormai da decenni animando il mondo delle organizzazioni e della consulenza. Alcuni si ritrovano
nella definizione data da L.M. Spencer e S.M. Spencer (1995) che, riprendendo ed ampliando
quella di R.E. Boyatzis (1982), definiscono la competenza come “una caratteristica intrinseca
individuale che è casualmente collegata ad una performance efficace o superiore in una
mansione o in una situazione e che è misurata sulla base di un criterio prestabilito”. La
competenza
viene
quindi
intesa
come
parte
integrante
e
duratura
della
personalità
dell’individuo, del quale può predire il comportamento in un’ampia gamma di situazioni e
compiti, predittività che dipende dall’impiego di criteri o standard specifici di misurazione.
Un’altra definizione significativa di competenza è quella proposta da G. Le Boterf
(1994)
secondo il quale “… non è uno stato od una conoscenza posseduta. Non è riconducibile né ad un
sapere, né a ciò che si è acquisito con la formazione … La competenza non risiede nelle risorse
(conoscenze, capacità, …) da mobilizzare, ma nella mobilizzazione stessa di queste risorse.
Qualunque competenza è finalizzata (o funzionale) e contestualizzata … La competenza è un
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saper agire (o reagire) riconosciuto. Qualunque competenza, per esistere, necessita del giudizio
altrui”. Questa definizione, oltre a delineare il dominio della competenza evidenziando inclusioni
ed esclusioni, evidenzia il concetto di contestualizzazione: essa, dice infatti G. Le Boterf, “non
può essere separata dalle proprie condizioni di ‘messa in opera’”.
Negli anni si è dunque osservato un susseguirsi di modelli e di teorie, ma ciò su cui quasi tutti
concordano è che il vantaggio competitivo delle aziende si gioca oggi anche sulla capacità di
individuare e sviluppare velocemente le competenze necessarie, distintive ed innovative
possedute dalle persone che operano al loro interno; rendendo così le competenze un fattore
differenziante rispetto ai competitor, riconosciuto dai clienti nei prodotti e servizi loro offerti.
La responsabilità manageriale è caratterizzata anche dal farsi carico dell’individuazione delle
competenze core per lo sviluppo della propria organizzazione e la predisposizione di opportuni
percorsi di valorizzazione del capitale umano. In questa logica il manager, sostengono Lipparini
e Grant (2002), “svolge un ruolo critico e delicato nel processo di creazione, mantenimento e
diffusione del saper fare delle organizzazioni […] Al management sono richieste azioni volte ad
assicurare il continuo aggiornamento della base di conoscenza dell’impresa, nonché la
disponibilità di strumenti e meccanismi volti al governo degli uomini ed alla loro motivazione”.
Il cambiamento cui si sta assistendo che sta sempre più esaltando i concetti di unicità e valore
dell’individuo è, prima di tutto, culturale. L’innovazione continua, infatti, fa del capitale
intellettuale l’unico fattore di continuità per il cambiamento. Quest’ultimo si manifesta nel fatto
che le imprese hanno sempre meno bisogno di certezze procedurali e sempre più la necessità di
valorizzare le persone mentre esprimono se stesse (Ratti, 1998), esaltando l’idea che le
competenze possono essere apprese e che sono le persone stesse ad esprimerle nei contesti nei
quali sono inserite.
Risulta quindi evidente come la gestione delle competenze professionali sia correlata e coerente
con il modello di organizzazione nel quale si è inseriti, ovvero alle strutture ed ai processi di
lavoro. Se è vero infatti che le competenze sono un insieme di elementi che concorrono
all’efficacia dell’azione professionale, che sono contestualizzate e contestualizzabili, allora è
altrettanto vero che esse vanno relazionate all’esercizio di un ruolo organizzativo. L’analisi delle
competenze presuppone quindi, citando S. Pugliese (2004), la definizione dei ruoli organizzativi
che sono strettamente legati al modello di organizzazione, che è tuttavia dinamico e frutto di
interpretazioni e di scelte effettuate dal management.
È in questo scenario che si inserisce l’iniziativa di Mappatura e Bilancio delle competenze,
oggetto di questo contributo.
3. La Mappatura ed il Bilancio delle competenze: modelli, teorie ed esperienze
Il progetto che andiamo ora a descrivere è stato realizzato in un’azienda di piccole/medie
dimensioni operante nel settore assicurativo.
L’idea è nata dall’esigenza del Capo del Personale di individuare le competenze possedute e da
sviluppare all’interno dell’organizzazione, coerentemente con le strategie aziendali ed il mercato
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di riferimento. La costruzione di un processo di Mappatura e Bilancio delle competenze ha inoltre
consentito la definizione di percorsi di formazione e sviluppo mirati e l’individuazione e
sistematizzazione dei ruoli presenti in organizzazione.
Il processo è stato realizzato con una stretta collaborazione tra la consulenza e la Direzione del
Personale, che hanno co-progettato l’intervento e monitorato il suo svolgimento nei mesi: la
consulenza ne ha presidiato processo, modello, metodo e strumenti, la Direzione del Personale
la contestualizzazione e la puntuale realizzazione delle azioni organizzative.
Il processo di lavoro prevedeva la realizzazione di quattro fasi: progettazione dell’intervento e
comunicazione dell’iniziativa; Mappatura delle competenze; Bilancio delle competenze; colloqui
di feed back e definizione dei piani di sviluppo. Tutte le persone operanti in organizzazione sono
state coinvolte in misura differente nelle fasi del lavoro, in funzione del ruolo organizzativo
ricoperto.
Nella fase di progettazione sono stati individuati e costruiti gli strumenti di: mappatura e
diagnosi delle competenze, gestione del processo comunicativo tra la consulenza ed il cliente ed
all’interno dell’organizzazione cliente, monitoraggio del processo. Questa si è conclusa con la
presentazione ai sindacati ed al management del processo di lavoro, in termini fasi, azioni,
strumenti, responsabilità e tempi. Il puntuale coinvolgimento degli esponenti sindacali nelle
iniziative di sviluppo organizzativo e di formazione è infatti un elemento che da tempo
caratterizza la gestione delle relazioni industriali da parte del Capo del Personale.
Prima di entrare nel merito della descrizione delle altre fasi del progetto, riteniamo opportuno
evidenziare l’impiego di uno strumento innovativo: il DataBase delle competenze. Questo
sistema per la gestione di dati integrati ha come obiettivo aumentare l’efficienza e l’efficacia del
processo di gestione delle informazioni inerenti le competenze necessarie all’organizzazione e
possedute dalle persone che in questa operano; questo al fine di fornire alla Direzione del
Personale un maggior supporto nella gestione dei percorsi di formazione, sviluppo e carriera.
Questo strumento informatico consente infatti: l’immissione, cancellazione e modifica dei dati; la
ricerca di dati attraverso query; l’ordinamento e la classificazione dei dati secondo vari criteri; la
stampa di rapporti e schede.
Per quanto concerne invece il modello di competenze che ha guidato il processo di intervento, è
stato adottato quello di Quaglino (1985), che utilizza una rappresentazione triangolare per
interpretare la competenza come rappresentazione dell’insieme delle risorse a cui l’individuo fa
riferimento per determinare il proprio agire organizzativo. Secondo la visione di Quaglino, le
competenze si articolano in conoscenze, capacità e qualità. L’ipotesi metodologica con cui tale
modello è stato applicato, parte dall’idea che le competenze core possano essere le medesime in
tutta l’organizzazione, ad eccezione ovviamente delle conoscenze tecnico specialistiche, e che i
profili professionali si differenzino per il differente peso attribuito a ciascuna di esse. Seguendo
questa logica, quindi, fatto cento la pesatura complessiva delle competenze si tratta di
individuare in ciascun contesto organizzativo quanto, a seconda del livello gerarchico, “pesano”
le conoscenze, le capacità e le qualità (pesatura verticale). Successivamente occorre
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comprendere, per ciascun livello gerarchico, quanto “pesano” le capacità relazionali, rispetto a
quelle gestionali e logico strategiche (pesatura orizzontale). Il medesimo ragionamento, fatto
cento le qualità, viene poi effettuato per le qualità relazionali, sociali ed operative e, fatto cento
le conoscenze, per quelle organizzative, di base e tecnico specialistiche.
Questa complessa struttura consente di differenziare e personalizzare i profili di competenza in
funzione del contesto di riferimento,
conservando sempre un elevato livello di coerenza
organizzativa interna. Questo è funzionale alla crescita orizzontale e trasversale delle persone
all’interno
dell’organizzazione,
avendo
sempre
ben
chiare
ed
evidenti
le
peculiarità
caratterizzanti i differenti mestieri.
Alla luce delle logiche appena descritte, la fase di Mappatura delle competenze ha avuto inizio
con un’intervista al Direttore Generale. Questa aveva una duplice finalità, da un lato individuare
le conoscenze organizzative e generali, le capacità e le qualità core richieste in organizzazione,
in coerenza con le strategie di sviluppo ed il mercato di riferimento, dall’altro effettuarne la
pesatura verticale. Le competenze individuate sono state poi ulteriormente specificate dal top
management in un’intervista di gruppo, durante la quale sono state pesate orizzontalmente. A
questo hanno fatto seguito una serie di interviste individuali ai Responsabili delle Direzioni e
degli Uffici, finalizzate a definire le conoscenze tecnico specialistiche caratterizzanti i profili
ricoperti dai loro diretti collaboratori, le responsabilità e le attività.
È a questo punto evidente come tutto il management abbia partecipato attivamente al processo
di Mappatura delle competenze: il Direttore Generale ha delineato le strategie, i Responsabili
delle Direzioni hanno definito nel dettaglio le competenze, i Responsabili degli Uffici hanno
contribuito nella definizione delle conoscenze tecnico specialistiche. Il management è stato
inoltre coinvolto sia nel processo di diffusione delle informazioni riguardanti il progetto in corso a
tutte le persone operanti in organizzazione, sia nella costruzione della cultura organizzativa
necessaria alla sua realizzazione.
La fase di Mappatura delle Competenze si è conclusa con la rielaborazione delle interviste ed il
disegno dei Profili di Competenza, in termini di: responsabilità, attività, conoscenze, capacità e
qualità. Tali profili sono stati poi inseriti nel Data Base delle competenze, per essere poi
alimentati con le valutazioni.
Successivamente ha avuto inizio la fase del Bilancio delle Competenze, con un’attività di
formazione alla valutazione rivolta al management e finalizzata a: sviluppare sensemaking sul
concetto di valutazione come valorizzazione delle persone, presentare le schede di valutazione e
sviluppare le competenze necessarie alla loro compilazione, responsabilizzare i manager nella
gestione del processo all’interno delle Direzioni di appartenenza.
Dopo aver delineato con il management azioni e tempistiche di realizzazione si è dato avvio al
processo di etero-valutazione a cascata e di auto-valutazione e proposta dei piani di sviluppo,
che ha coinvolto tutto il personale dell’organizzazione. La Direzione del Personale ha poi raccolto
le schede ed i piani di sviluppo professionale ed ha inserito le etero-valutazioni compilate dai
responsabili sui collaboratori nel DataBase delle competenze, per poi stamparle ed utilizzarle
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come strumento per i colloqui di feedback. Il processo si è infatti concluso con i colloqui
individuali di feedback tra responsabile e collaboratore, finalizzati a condividere gli eventuali
scostamenti emersi tra auto ed etero valutazioni ed a condividere il piano di sviluppo
individuale.
Il progetto può essere considerato un caso di successo, infatti gli obiettivi inizialmente dichiarati
sono stati raggiunti, la relazione con la committenza è stata consolidata e sono in fieri una serie
di iniziative di formazione, valutazione e sviluppo organizzativo, nate anche dagli esiti di questo
intervento e per dare continuità al processo di sviluppo avviato.
Sono comunque state rilevate alcune criticità, la principale rispetto alla costruzione e
condivisione di una cultura organizzativa che riconosca la valutazione come processo e mezzo di
valorizzazione delle persone. Occorre infatti investire ancora nella condivisione di una
rappresentazione positiva della valutazione, con il superamento di resistenze e fantasmi.
Per quanto concerne invece i tempi di realizzazione del processo, vi è stato uno slittamento della
pianificazione con un ritardo, costantemente monitorato, di circa quattro mesi, soprattutto nella
fase conclusiva dei colloqui di feed back. Questo è attribuibile principalmente a tre fattori: gli
impegni delle persone, che ipotizziamo essere parzialmente riconducibili a difese organizzative,
il rispetto dei tempi necessari per il cambiamento e l’apprendimento, la rielaborazione
individuale ed organizzativa.
4. Considerazioni conclusive
All’interno del processo di lavoro e delle logiche che hanno guidato la Mappatura ed il Bilancio
delle Competenze, vi sono stati alcuni elementi che meritano di essere evidenziati quali fattori
chiave di successo.
Innanzi tutto, l’attenzione dedicata alla progettazione dell’intervento come sistema integrato e
coerente con gli altri processi di sviluppo e valorizzazione delle persone in organizzazione e
l’individuazione del momento adeguato in cui introdurre il concetto di competenza nella cultura
organizzativa.
In secondo luogo la logica del co-design e della co-gestione del processo tra consulenza e
committenza,
attraverso
la
costituzione
“un’organizzazione che contiene
ed
di
un’”organizzazione”
appartiene a
tutti
i
virtuale,
soggetti
che
intesa
come
direttamente
o
indirettamente sono coinvolti nel processo di cambiamento; questi in funzione dell’evolversi del
processo ne modificano il disegno e le modalità di funzionamento. L’organizzazione virtuale è
inserita nei modelli organizzativi e nei processi delle organizzazioni che partecipano al progetto,
utilizzando al meglio i punti di forza e le potenzialità” (Casagrande, Castellano, 1998).
Lavorare in una logica di co-design significa infatti “disegnare insieme” i passi da compiere per
realizzare il cambiamento, costruire un rapporto forte tra consulenza e committenza, con un
reciproco
riconoscimento
delle
competenze,
una
condivisione
degli
obiettivi
e
delle
responsabilità, una reciproca intesa sul valore aggiunto che ciascuno fornisce alla realizzazione
dei risultati.
Schematizie n. 01 – giugno 2004
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Questo è stato possibile collaborando nell’analisi del contesto e della domanda, nella costruzione
e condivisione degli obiettivi e del processo di intervento, nella realizzazione e valutazione dei
risultati del lavoro.
Un terzo fattore chiave di successo è stato il coinvolgimento e la responsabilizzazione dei
manager durante tutto il processo di lavoro; questi anziché fruitori di un progetto sono stati
infatti considerati attori protagonisti, rendendo così possibile lo sviluppo di competenze
manageriali, soprattutto rispetto la valutazione e l’assunzione di responsabilità, e la costruzione
di una cultura organizzativa che intende le persone come soggetti attivi, responsabili e sé
costruenti.
Infine, occorre ricordare l’importanza assunta dall’information technology per la riuscita del
progetto, il database delle competenze è risultato essere un utile strumento di supporto per la
Direzione del Personale. L’informatica rappresenta infatti una componente inscindibile nella
progettazione e gestione organizzativa. Pugliese (2004) ci ricorda però che le competenze, in
quanto attributi delle persone, possiedono delle peculiarità che rendono l’integrazione e
l’applicazione della tecnologia dell’informazione a tratti difficile o comunque non sempre
immediata.
L’introduzione, il consolidamento e la diffusione dei concetti di competenza, valutazione e
valorizzazione rendono ora possibile, all’interno di questa Azienda, la realizzazione di processi di
valutazione del potenziale e delle performance, l’introduzione di un sistema di MBO, la
costruzione di percorsi di formazione e sviluppo mirati e la definizione di percorsi di carriera
interni; sono state infatti costruite le basi concettuali, metodologiche e culturali per la
costituzione di un sistema di gestione delle persone per competenze.
5. Il Responsabile del Personale dice che …
“Le evoluzioni interne al nostro gruppo hanno determinato, nel volgere di pochi anni, profondi
cambiamenti anche strutturali.
Si è cosi presentata la concreta opportunità di introdurre strumenti innovativi finalizzati al
miglioramento sistematico delle risorse umane e della loro organizzazione.
In questo contesto il progetto di valutazione delle competenze si sta dimostrando all'altezza
delle aspettative: la fotografia dei profili individuali ci ha permesso di conoscere meglio i punti di
forza e di debolezza dei singoli intervistati e di comporre un quadro comparativo di riferimento
utile per una serie di provvedimenti.
Nel corso del 2003 abbiamo realizzato un primo piano di formazione pluridisciplinare e di
aggiornamento professionale specialistico che ha coinvolto tutto il personale su obiettivi non solo
didattici ma anche di aggregazione e motivazione. I risultati conseguiti giustificano ulteriori
investimenti in questa direzione mirati soprattutto alle esigenze delle varie unità organizzative e
coordinati con le strategie aziendali di medio e lungo termine.
La mappa delle competenze inoltre, con i suoi aggiornamenti costanti, già offre alla Direzione un
valido supporto per ogni scelta organizzativa che coinvolge ruoli e persone.
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Il terzo punto su cui stiamo lavorando è un sistema di valutazioni delle prestazioni e dei risultati
che, integrandosi con quelle delle competenze e delle posizioni, garantisca massimo equilibrio ed
efficacia alle politiche retributive ed incentivanti.”
6.
Bibliografia
Boyatzis R., The Competent Manager: A model for Effective Managers, Wiley, New York, 1982.
Castellano A.M., Castellano F., Mander M. (a cura di), Persone, professionisti, organizzazioni.
Storie e riflessioni di “Schema” in 10 anni di consulenza, Tirrenia Stampatori, Torino, 1998.
D’Egidio F., “Il bilancio dell’intangibile: la nuova frontiera dell’economia della conoscenza”, in
Hamlet, n°37, marzo 2003.
Le Boterf G., De la compétence. Essai sur un attracteur étrange, Les èdition d’Organisation,
Paris, 1994.
Lipparini A. e Grant R.M., “La gestione strategica delle competenze organizzative”, in Sviluppo &
Organizzazione, n° 192, luglio/agosto 2002.
Pugliese S., Valutazione e sviluppo delle competenze, IPSOA, Milano, 2004.
Quaglino G.P., Fare formazione, Il Mulino, Bologna, 1985.
Ratti F., “Postfazione”, in Camuffo A., Piccoli grandi capi. Competenze per la produzione
flessibile, Etas Libri, Milano, 1998.
Spencer L.M. e Spencer S.M., La competenza nel lavoro, Franco Angeli, Milano, 1995.
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15/31
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DALLA COMPETENZA A VIVERE ALLA COMPETENZA PROFESSIONALE
Stefano Rampone, consulente Schema, intervista Anna Castellano, Client Leader
di Schema e docente di psicologia delle organizzazioni all’Università di Torino
La competenza a vivere: questa è la specifica tematica che vorrei oggi approfondire. Partire
quindi da questo costrutto per quanto riguarda l’individuo e cercare di capire come tutto questo
possa interessare anche le organizzazioni…
Un transito quasi obbligato ci porta dal costrutto di competenza a vivere al costrutto di
competenza professionale… Il presupposto su cui si basa questa affermazione è quello che il
soggetto sia attivo, epistemico e sé-costruente. Ma soprattutto che il soggetto sia uno, una
persona. Il fatto poi che questa persona stia gestendo delle relazioni familiari, la sua vita
privata, o stia lavorando, questo diventa significativo solo dal punto di vista dell’osservatore,
non dal punto di vista del soggetto che agisce. La persona resta persona durante l’intera
quotidianità, transitando per tutte le attività che svolge nel corso della giornata.
Il focus è dunque la competenza della persona. Numerosi sono gli studi effettuati al riguardo:
nello specifico, io chiamo competenza a vivere il termine che identifica le competenze della
persona. Tutta la psicologia parla di competenza: competenza mentale, psichica, psicologica, nel
governo delle relazioni, nel governo del mondo interno, nel fare, nel pensare, nel decidere…
Tutta la psicologia da questo punto di vista mette in luce aspetti di competenza. Però se
volessimo proprio farne una sintesi, operazione del resto arbitraria, e volessimo ancorare il
concetto di competenza umana ad alcuni concetti relativamente semplici, noi potremmo arrivare
a dire che la competenza umana è descrivibile secondo diversi aspetti.
In primo luogo, una competenza simbolico narrativa, ovvero la nostra capacità di produrre
simboli, prevalentemente verbali, e di costruirci attorno trame narrative: noi siamo in grado di
ricostruire la storia di qualunque cosa ci succeda. E quindi collochiamo la nostra produzione
simbolica in una dimensione spaziale e temporale. In secondo luogo, una competenza
ermeneutica: la produzione di simboli, le persone, le relazioni, gli oggetti che noi incontriamo
nella realtà… tutto questo viene filtrato e interpretato alla luce di quelle che sono le nostre
mappe cognitive, cioè le nostre trame conversazionali, i nostri costrutti cognitivi. Un terzo tipo di
competenza, infine, ci consente di produrre modelli d’azione: sostanzialmente noi siamo in
grado di definire piani di intenzioni, trasformarli in atti, cioè sequenze, ed infine in azioni.
Decidendo di volta in volta il modello d’azione più adatto alla situazione in cui ci troviamo.
Questo per sintetizzare il concetto di competenza a vivere, e soprattutto per ribadire che la
competenza è un concetto che riguarda prima di tutto il soggetto globale. Io non credo che
esista un soggetto non globale. In psicologia questo concetto si traduce in termini di percezione,
memoria, script, frame, mappe cognitive, sense making, inferenza, decisione, modelli di azione,
… Tutto questo è vero in un contesto sociale, relazionale generico, ma diventa ovviamente
incomprensibile in un’organizzazione. Se dovessimo costruire un modello di competenze solo
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sulla base di questi presupposti, oltre a risultare incomprensibili, faremmo un errore sul piano
teorico e metodologico. Nel momento in cui noi operiamo in un sistema sociale localizzato e
definito come l’organizzazione, dobbiamo necessariamente considerare il linguaggio che è
proprio dell’organizzazione. E l’organizzazione non parla il linguaggio della percezione, della
memoria, del pensiero, dei costrutti mentali, ma parla un altro linguaggio, il linguaggio delle
azioni organizzative, ovvero il linguaggio del corso di azioni e decisioni che fa l’organizzazione. E
quindi noi abbiamo bisogno di un traduttore, un media, un mediatore tra la competenza umana
e questo sistema sociale organizzato. In qualche misura tutte le volte che parliamo di
competenza professionale parliamo della traduzione della competenza umana in un contesto
organizzativo, consapevoli che la competenza professionale è limitata ad un contesto, ad una
cultura, a linguaggi, simboli e significati definiti. Decliniamo la competenza professionale in
ragione del linguaggio di quella organizzazione.
È ovvio quindi che quando andiamo a costruire un modello di competenze in un’organizzazione
perdiamo qualcosa in termini di precisione dei costrutti: necessariamente il linguaggio della
competenza umana si contamina e si fertilizza nel momento in cui entra in contatto con un
linguaggio che è quello della comunità vivente. Se io parlo di comunicazione e di competenza a
comunicare, io posso citare 250 autori e studiosi della comunicazione…. da Chomsky, a
Watzlawick, a Luft. Ma se io parlo di capacità a comunicare devo andare a vedere come questa
si esprime in una determinata organizzazione. Nella descrizione della capacità di comunicazione
dovrò quindi privilegiare il linguaggio dell’organizzazione, determinati aspetti della capacità di
comunicazione piuttosto che altri. Non perché mi adeguo o mi appiattisco come ricercatore sul
fenomeno organizzativo, ma perché coniugo il linguaggio dell’organizzazione con il linguaggio
della “scienza”. La capacità di comunicazione che vado a descrivere in quell’organizzazione ha
quindi le caratteristiche e i toni che sono propri dell’organizzazione.
In alcune organizzazioni ad esempio è importante sottolineare tutti gli aspetti legati alla
costruzione del consenso; in altre è invece molto più importante mettere in luce il tema del
feedback, piuttosto che la negoziazione. Sono comunque consapevole che la capacità di
comunicazione a 360° io non la posso descrivere: per quanto accurata sia la mia descrizione, io
so che in quello specifico contesto sociale alcune cose sono inutili, altre sono antiattitudinali,
altre sono del tutto incomprensibili. Quindi devo attenermi a quello che è inteso come
comunicazione là dentro, osservabile sia da me sia da tutti gli altri. Nelle organizzazioni un
modello di competenza diventa qualcosa di molto concreto: si costruiscono le schede di
valutazione della performance, del potenziale, alcuni indicatori finiscono nel sistema di
compensation e nell’MBO... Il modello di competenza può diventare la chiave per la selezione
delle risorse nuove, per la mobilità interna,… Dunque, qualcosa di molto concreto, che la gente
deve capire, saper maneggiare e nel quale deve potersi riconoscere…
Mi sembra quasi un approccio di tipo antropologico da parte del ricercatore nei confronti
dell’organizzazione. Un ricercatore che si avvicina all’organizzazione consapevole della specificità
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del
linguaggio,
della
cultura,
dei
simboli
utilizzati
all’interno
di
questa
particolare
organizzazione….
Sì, perché tu parti dal presupposto che il soggetto è il soggetto, mentre le organizzazioni “sono”
delle culture, non “hanno” delle culture. Questo soggetto è produttore di cultura, simboli e
significati all’interno della comunità vivente e del sistema sociale organizzato. Da questo punto
di vista la cultura non è una variabile dell’organizzazione come la tecnologia o la struttura, ma è
una modalità di leggere l’organizzazione, un criterio sovraordinato per ordinare gli elementi e i
fenomeni che si svolgono al suo interno. Per questo motivo, se tu la leggi come cultura non
puoi che leggerla in termini antropologici. In realtà l’approccio culturale è interdisciplinare:
accoglie alcuni assunti della psicologia dell’organizzazione, dell’etnografia.
Il corso di azioni e decisioni di cui parlavamo prima è prodotto dalle relazioni tra gli umani, che
si producono sostanzialmente attraverso la comunicazione, intesa come produzione simbolica. Io
non credo che possa succedere qualcosa nelle organizzazioni che non sia successo o che non
stia succedendo tra persone. Perché sono le persone che fanno, che decidono, che decidono di
non decidere, sono le persone che usano le risorse messe a loro disposizione. Più risorse hanno
a disposizione, più rilevante è la loro decisione o la loro azione all’interno dell’organizzazione.
Questo punto di vista rende tutti partecipi dello stesso destino: e allora non ha più senso parlare
di competenze esclusivamente per l’Amministratore Delegato e non per l’operaio. Anche
l’operaio ha un sistema di competenze, e anche le sue competenze sono assolutamente rilevanti
ai fini del risultato.
Questo è un approccio di recente nascita o è qualcosa che in letteratura scientifica si porta
avanti da tempo…?
Da un punto di vista di letteratura è una storia antica, non lo inventiamo certo oggi. I precursori
di questo ragionamento rientrano nel filone della psicologia costruttivista: il più famoso
sostenitore di questa tesi è sicuramente Weick, che scrive di organizzazioni da almeno un
quarantennio. Per cui non possiamo dire che sia recentissimo. Sicuramente ha avuto un
incremento esponenziale a partire dagli anni ’80, con gli studi di Schein e di Schon sul
professionista riflessivo. E a partire dalle scuole della cultura.
Mi sembra comunque un modello teorico che ben si concilia con i tempi attuali, tempi di
incertezza, di conflitti tra culture che se gestiti in modo inadeguato possono generare forti
danni…
Una lettura dell’organizzazione che mi sembra quindi particolarmente adeguata alla
complessità degli scenari in cui ci troviamo.
Da un punto di vista teorico, questa visione supera una divisione tra due scuole di pensiero. La
prima, la scuola dell’azione organizzativa, in qualche misura rendeva anonimo il soggetto. La
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seconda, la scuola di pensiero dell’organizzazione centrata sull’attore, andava invece in senso
opposto, enfatizzando il soggetto. Le teorie della complessità, le scuole della cultura e del
simbolismo organizzativo, gli studi di Weick, hanno contribuito progressivamente a legare i due
filoni, creando il terreno d'incontro e di interpretazione sia della persona sia dell’organizzazione.
La scuola dell’azione organizzativa, di cui Thompson è il padre, leggeva la competenza
esclusivamente in termini di competenza dell’organizzazione, dell’azione organizzativa: il
soggetto doveva rispondere o corrispondere a quelle che erano le necessità dell’organizzazione.
Nel pensiero sull’attore organizzativo in compenso l’organizzazione era reificata, cioè “altro”
rispetto al soggetto. Infatti i teorici dell’attore parlavano del rapporto persona-organizzazione,
facendola diventare un qualcosa con cui l’attore si metteva in relazione.
Ora, da una parte il soggetto era appiattito nel processo organizzativo, spalmato nel corso di
azioni e decisioni; dall’altra parte c’era invece un’antagonista, coprotagonista, a seconda del
livello di conflittualità preteso tra attore e organizzazione, dove l’organizzazione era altro
rispetto al soggetto. La visione attuale ricompone i due aspetti, perché assume il valore di corso
di azioni e decisioni dell’azione organizzativa, ma rimette il soggetto individuato, non anonimo,
dentro quella relazione. Per cui non possiamo più parlare di relazioni tra persone e
organizzazione, bensì di relazione tra persone, tra capo e collaboratore, tra capi progetto,
capifunzione… Tra il singolo e il gruppo, ma tra persone, non tra singolo e organizzazione,
perché l’organizzazione la fa il singolo. Lui contribuisce a produrla, e quindi non è altro da lui.
Sul piano formativo tutto ciò ha delle conseguenze formidabili.
Sul piano dell’azione organizzativa il centro della formazione era il funzionamento dei processi;
sul piano dell’attore organizzativo era il funzionamento della persona, che tra l’altro ha dato il
via ad una scuola legata alla soggettività. Il punto è che da una parte c’era un processo senza
interlocutore, dall’altra una soggettività con un interlocutore fantasmatico. Quando oggi tu vai a
fare un ragionamento formativo fondato su un modello di competenza delle persone, hai in
qualche modo riavvicinato le persone alle cose che fanno. Vai a fare formazione su qualcosa che
è almeno descritto in termini comprensibili ed condivisi. Non insegni nè la comunicazione
dell’organizzazione, né la finestra di Johari, ma vai a discutere della comunicazione così come si
produce all’interno di quella comunità vivente. Quindi una riscoperta delle persone e delle loro
relazioni…
Abbiamo in questo modo una visione più complessiva, non schizofrenica, che eviti di tralasciare
alcuni aspetti fondamentali…
La competenza professionale diventa un derivato, un di cui della competenza a vivere, un di cui
del linguaggio, delle azioni e delle relazioni che stanno all’interno di un’organizzazione. In questo
modello
di
competenza
si
rincontrano
il
linguaggio
della
comunità,
il
linguaggio
dell’organizzazione e l’individualità, la soggettività della persona, nel riconoscimento di quelle
che sono le sue caratteristiche peculiari.
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Naturalmente siamo pur sempre soggetti a razionalità limitata e intenzionale, e quindi, per
quanto si cerchi di considerare tutto, qualcosa viene comunque tralasciato. È necessaria la
consapevolezza che il modello di competenze di un’organizzazione sia comunque relativo,
parziale e determinato da quella particolare situazione. Relativo perché non coglie l’intera
competenza, ma solamente una parte. Relativo al sistema che lo ha costruito, cioè a chi è il
committente, a chi è il consulente, e a qual è il soggetto di cui stiamo parlando. Non vale per
tutte le organizzazioni, non vale per tutte le persone, ed è determinato nel tempo e nello spazio.
Quello che tu fai nel 2004 è possibile che sia invecchiato in modo sostanziale nel 2006, oppure
che sia ancora valido nel 2008. È comunque datato, perché è comunque frutto di una cultura, e
la cultura cambia. È frutto di un’organizzazione che cambia e che è probabilmente già cambiata
nel momento in cui il modello di competenza è stato scritto. Il problema non è tanto l’oggettività
del modello, quanto piuttosto la consapevolezza dei suoi limiti. È ovvio che se io ho in mano una
Ferrari so di poter fare determinate cose, mentre se ho in mano una 500 ne posso fare della
altre. Se a un’organizzazione serve una 500 non ha senso darle una Ferrari. Se a
un’organizzazione serve una Ferrari, non puoi darle una 500. Ma è comunque illusorio rincorrere
il modello ideale, generalizzabile, standardizzabile, scientificamente fondato su un’oggettività
senza parentesi.
Costruire un modello di competenza significa in qualche misura compiere un’arbitraria
operazione
di
semplificazione.
Significa
costruire
una
mappa
del
territorio,
con
la
consapevolezza che la mappa non è il territorio. Il modello di competenza professionale è la
mappa, una mappa che ha comunque un’utilità incredibile nelle organizzazioni. Come diceva
Kelly, meglio una cattiva mappa che nessuna mappa. Ma non si può confondere la mappa con il
territorio. E poi ci sono le persone, che fortunatamente riservano ancora delle sorprese. Di
conseguenza, lo strumento serve nella misura in cui è adeguato e rispecchiante una determinata
organizzazione, senza il vincolo epistemologico di avere la verità assoluta…
Quindi uno strumento di lettura che sia sufficientemente contingente all’organizzazione…
Esattamente. Uno strumento di lettura, cioè un media.
Il rischio non è però quello di cadere in un iperrelativismo? Venendo meno un modello ideale di
lettura che valga sistematicamente per tutte le organizzazioni, si ricerca uno strumento ad hoc,
consapevoli che la realtà che si guarda è continuamente in evoluzione…
Sì. È il relativismo. È l’epistemologia dell’oggettività tra parentesi. Non dell’oggettività pura. Da
questo punto di vista se vuoi, non c’è niente di più scientifico in questo momento. Rispecchia
esattamente la direzione nella quale si stanno muovendo tutte le scienze. Non è un relativismo
abusivo, non è una rinuncia a definire, ricercare, individuare, essere precisi, … è una rinuncia
alla pretesa di oggettività. È il riconoscimento che tutta l’oggettività che noi possiamo esprimere
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è un’oggettività tra parentesi, relativa, debole. Come debole è il soggetto. Perché è debole?
Perché riconosciamo che è un soggetto a razionalità limitata e intenzionale, e che le
organizzazioni sono garbage can. Cioè cestini della spazzatura.
Ma questo non diminuisce l’impegno etico, estetico e contenutistico nella costruzione di un
modello di competenza. A mio avviso lo aumenta, perché ti obbliga a interrogarti in termini di
contributo scientifico, nella sua attualità, che puoi dare come consulente. Devi chiederti se
effettivamente quello che tu stai raccogliendo come linguaggio e che stai cercando di
sistematizzare nel modello sia accurato, preciso, comprensibile… Aumenti i livelli di attenzione,
non li diminuisci. Questo non ti impedisce di avere alcuni riferimenti macro e di prendere dalla
letteratura alcune definizioni consolidate. Ci sono dei modelli di modelli ai quali ti puoi riferire,
ma proprio nell’aggiornamento e nella ricerca continua si giustifica il tuo relativismo. Altrimenti
potresti pensare di aver già raggiunto la perfezione ed avere un modello preconfezionato in
tasca.
E invece questo ti spinge continuamente a verificare sul piano scientifico che le tue conoscenze
siano sempre aggiornate. Ma le organizzazioni non sono né aggiornate né antiquate… le
organizzazioni sono dei fenomeni. Ed è la tua capacità di leggere il fenomeno che può essere più
o meno adeguata. Nella costruzione del modello è perciò richiesto un maggior impegno
scientifico, una maggior verifica della genuinità dei contenuti che si vanno a raccogliere
all’interno delle organizzazioni.
Un lavoro per nulla semplice quello del consulente…
No. Direi che in questa ottica diventa anche più complesso di come eravamo abituati a pensarlo
in precedenza.
Ma, indicativamente, questo approccio quando prende forma? Quando si è cominciato a capire
che le cose per come si stavano studiando non andavano più bene?
Per dirla alla Schein, quando la consulenza è uscita dal modello di consulenza “vendere e dire” e
dal modello di consulenza “medico paziente”. Per entrare in una logica che noi in Schema
abbiamo chiamato RPC (Ricercare e progettare nella complessità), e che Schein chiama
consulenza di processo. E da un certo punto di vista è davvero figlia di un relativismo, e
relativizza. Nella posizione medico paziente io sono il consulente che ti cura: tu sei
l’organizzazione che ha delle malattie, io vengo, faccio la prognosi e ti curo. Nel modello
“vendere e dire”, tu mi dici che hai dei bisogni, io ti vendo l’expertise che ti manca per coprire la
soglia del bisogno che tu esprimi. Nella consulenza di processo, tu interroghi sia la tua
ignoranza, sia i bisogni e le capacità della persona che incontri. Perché tu non incontri
un’organizzazione, bensì una persona. E il relativismo ti aiuta a riconoscere la persona come
soggetto: per conoscere quell’organizzazione probabilmente dovrai poi andare oltre la sua
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stanza... E ci devi andare con lui, per fare la diagnosi. Perché tu porti degli strumenti che non
sono quelli normalmente utilizzati, perché porti delle parole che possono non essere capite. È
diventato molto più un fare insieme.
Per questo motivo, quando qualcuno ci chiama per fare una ricerca di clima, noi dobbiamo
andare ad interrogare la domanda che ci è stata rivolta. Perché vuoi fare una ricerca di clima?
Siamo sicuri? Non è detto che la risposta sia per forza una ricerca di clima… Per cui innanzitutto
un’analisi della domanda, successivamente un’analisi dei bisogni e un’analisi delle capacità.
Perché l’altro non è solo bisognoso, ma è anche capace. E su questo la consulenza di processo,
come RPC, ha messo in chiaro le cose. L’ottica medico paziente prevede che l’altro sia solo
bisognoso… per quanto anche la medicina oggigiorno abbia scoperto che se non ti fondi sulle
risorse del paziente la malattia non la combatti. Quando un medico mi ha detto ”Non esiste la
malattia, esiste il malato!”… io ho capito che aveva fatto una rivoluzione copernicana. Il modello
medico-paziente sostiene che se io sono capace a fare la diagnosi, io faccio la diagnosi, io faccio
la prognosi. E l’altro riceve la cura. E spesso la cura nel mondo della consulenza si è rivelata più
dannosa della malattia, perché, come in medicina, quando sbagli la cura poi fai danni: non solo
non guarisci la malattia, ma rischi di causarne un’altra.
E ripeto, non sei meno strumentato nel fare il consulente di processo. È solo diverso l’uso che fai
della tua strumentazione e le domande che ti poni. Una ricerca qualitativa ed un’analisi della
varianza continuano a restare tali, non cambiano…ma cambia profondamente il modo in cui tu le
proponi, le interpreti e le usi.
È forse un discorso di diversa consapevolezza….
E l’altro versante è la consapevolezza. Che ti rende più incerto. Incerto quasi quanto le
organizzazioni….
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CASE HISTORY
Mauro Mander
Un caso di analisi e gestione delle competenze è stato seguito da Schema presso la sede
italiana di una banca SIM internazionale, che opera con diverse Business Unit per linee di
prodotto – mercato. Si è trattato di un processo articolato di Performance Management, che ha
trovato la sua conclusione nella realizzazione di un sistema che comprende insieme: la
valutazione delle prestazioni e la valutazione delle competenze.
L’esigenza primaria del progetto è stata quella di trasferire alla struttura aziendale alcuni valori
relativi allo sviluppo della professionalità e alla responsabilità dei superiori nel processo di
crescita dei collaboratori.
In tal senso era importante dare ai dipendenti consapevolezza di quali fossero le competenze
richieste nell’organizzazione, e responsabilizzarli su quelle richieste dal loro ruolo.
Un’ulteriore esigenza era quella di favorire la mobilità interna e darne un sostegno professionale,
basato su dati più oggettivi di quelli utilizzati fino a quel momento, attraverso l’individuazione di
alcune competenze trasversali, che consentissero di formulare giudizi al di là della appartenenza
di mestiere o di BU.
Su questo tema è stato possibile strutturare e realizzare, attraverso la cooperazione tra
Responsabili, collaboratori e Human Resources, alcuni percorsi di sviluppo delle competenze,
tuttora in fase di verifica e taratura.
Tra i messaggi lanciati con questo progetto c’era soprattutto quello che la gestione di
competenze e prestazioni sono aspetti sui quali capo e collaboratore devono mantenere aperto il
confronto tutto l’anno (non solo durante i colloqui di verifica e valutazione), perché sono temi
legati all’andamento delle attività, ai risultati e alle modalità con cui raggiungerli.
Questo elemento, ovvio nella sua logica, non era affatto diffuso in Azienda, se non, come
avviene di solito, grazie allo stile personale di singoli capi che, d’altro canto, non erano valutati e
apprezzati in merito alle loro maggiori competenze gestionali.
Questa iniziativa ha previsto la valutazione delle competenze come processo parallelo a quello
della valutazione delle prestazioni, che utilizzava cioè gli stessi momenti di colloquio: una prima
parte dedicata alle prestazioni e una seconda dedicata alle competenze.
L’idea di collocare anche temporalmente i colloqui di analisi delle competenze con quelli di
analisi delle prestazioni è stata piuttosto dibattuta in Azienda e nella Funzione HR, anche perché
in letteratura le posizioni su questo aspetto sono molto distanti, ognuna con validi motivi a
supporto.
L’elemento che ha fatto propendere per questa soluzione è stato quello dell’abitudine della
struttura ad evitare in genere i colloqui gestionali con i collaboratori, nonché a trattare in modo
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superficiale la scheda di valutazione delle prestazioni utilizzata fino ad allora, molto scarna e non
orientata ad individuare temi e spazi di sviluppo.
Nelle dichiarazioni aziendali e nei fatti, questo progetto non è nato come strumento dell’ente HR,
ma come strumento per raggiungere gli obiettivi professionali di ogni dipendente, con
ruoli distinti tra HR, Responsabili Centrali di BU e Responsabili di Linea.
L’ente HR ha avuto un ruolo di definizione delle logiche e dei modelli da adottare, in coerenza
con le scelte dell’Azienda, predisponendo gli strumenti di analisi e seguendone la diffusione, la
messa in opera e l’impiego da parte dei Responsabili.
Il ruolo dei Responsabili Centrali è stato invece quello di applicare il processo nei confronti dei
collaboratori diretti e verificare che questi a loro volta lo utilizzassero con i rispettivi
collaboratori, prendendo visione delle valutazioni realizzate dai loro diretti riporti nei confronti
dei collaboratori (e non intervenendo nei risultati, per legittimare il più possibile i responsabili di
livello intermedio).
I Responsabili di linea (capi ufficio, …) hanno infine utilizzato lo strumento per migliorare la
propria capacità di raggiungere gli obiettivi, discutendoli con i loro superiori, e per gestire e
supportare la crescita professionale dei collaboratori, definendo e concordando gli obiettivi per
l’anno successivo e il piano di sviluppo delle competenze.
Il processo di gestione delle competenze responsabilizza tuttavia anche il collaboratore a:
porre in atto le competenze richieste per raggiungere i risultati previsti dal suo ruolo, attivarsi
nell’individuare i percorsi di sviluppo di competenze che più soddisfano le necessità dell’Azienda
e le proprie aspirazioni professionali, impegnarsi nella realizzazione del piano di sviluppo.
La definizione di competenze utilizzata da questo progetto fa esplicito riferimento a modelli
classici, che le definiscono
come stili professionali, caratterizzati
da
comportamenti
determinati da: conoscenze possedute, capacità operative sviluppate e attitudini
personali, orientate a realizzare ciò che è previsto dal ruolo ricoperto.
Le competenze chiave o trasversali individuate dal progetto (attraverso una serie d’interviste
di gruppo con dipendenti dei vari livelli) sono sei:
· CONOSCENZA E SVILUPPO DEL BUSINESS E DEI MERCATI
· GESTIONE DELLE RELAZIONI CON IL SISTEMA CLIENTE
· TENSIONE AL RISULTATO
· INTEGRAZIONE INTERFUNZIONALE E DIFFUSIONE DI INFORMAZIONI
· GESTIONE DEL CAMBIAMENTO
· SVILUPPO DEL CAPITALE UMANO
Ad ognuna di esse è stata attribuita una definizione, che ne specifica i confini, in modo da creare
una definizione il più possibile chiara e univoca. Le definizioni di competenza sono poi state
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tradotte in una serie di comportamenti o azioni che ne rappresentano la parte “visibile”,
dunque analizzabile (comportamenti coerenti con la competenza o, al contrario, non coerenti).
Come si nota già nel titolo, queste competenze si riferiscono soprattutto alle attitudini personali,
ovvero a quella parte del sistema di competenze che altrove viene definito come “saper essere”
o “qualità”: elementi che rinviano a inclinazioni e stili soggettivi, complessi da valutare in modo
oggettivo, ma facili da osservare nell’agire di lavoro e molto importanti per raggiungere i
risultati.
Ad esempio, la TENSIONE AL RISULTATO è definita come:
· Orientare il proprio impegno al controllo e al raggiungimento degli obiettivi
assegnati, e allo sviluppo degli standard ottimali di prestazione, efficienza e qualità
del contributo professionale
· Attivarsi per superare gli ostacoli e garantire i risultati attesi anche in situazioni di
pressione e turbolenza
· Essere determinati nel portare a termine ciò che è stato promesso
Le competenze
specifiche
sono
state
invece
definite
individuando le
caratteristiche
professionali “tipiche” di figure operanti nella stessa area professionale o in aree omogenee, e
ponendole in elenchi di competenze per area professionale, non statici e stabiliti per
sempre, ma con la possibilità di essere verificati e modificati.
Prendendo spunto dall’elenco definito per la propria area professionale, il Responsabile deve
individuare le competenze specifiche che ritiene più significative per le responsabilità del ruolo
del collaboratore; la scelta delle competenze specifiche più significative può essere suggerita
anche dal collaboratore, in una logica di responsabilizzazione e coinvolgimento.
Il progetto ha previsto, per ogni competenza (trasversale e specifica) quattro diversi gradi di
“padronanza”, in funzione del ruolo professionale occupato, che rinviano ad altrettanti livelli di
approfondimento richiesto, ovvero a quanto è ritenuto necessario in Azienda per ricoprire
con efficacia i vari ruoli.
I livelli di competenza utilizzati sono:
1. Apprendimento e contributo individuale. Portare il proprio contributo al gruppo di lavoro
e collaborare alla realizzazione dei fattori critici di successo (livello richiesto a tutti i dipendenti).
2.
Applicazione
e
generazione
di
valore.
Generare
valore
aggiunto
attraverso
il
raggiungimento degli obiettivi e l’integrazione di idee e contributi individuali (livello previsto per
le figure di capo intermedio).
3. Guida e orientamento. Definire gli obiettivi e indicare le modalità di realizzazione,
coinvolgere e sviluppare la struttura, individuare opportunità e trasferire la propria esperienza.
4. Impostazione strategica. Definire gli obiettivi strategici, generare vantaggio competitivo,
essere di riferimento all’interno e all’esterno per la propria esperienza professionale.
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Per TENSIONE AL RISULTATO, il primo livello richiesto è rappresentato, nel Manuale, dalla
possibilità di vedere e apprezzare comportamenti positivi come:
· Conosce i propri punti di forza e le aree di miglioramento, e si attiva per migliorare la
performance
· Cerca di capire, chiedendo e confrontandosi con Responsabile e colleghi, quali sono gli spazi
di miglioramento di un lavoro effettuato
· Organizza efficacemente il suo lavoro per realizzarlo nei tempi prestabiliti
· E’ disponibile a aiutare i colleghi in difficoltà pur di raggiungere i risultati prefissati
· Controlla in autonomia l’andamento delle proprie attività rispetto ai piani definiti, segnalando
eventuali ostacoli
· Garantisce il raggiungimento dei risultati quantitativi e qualitativi assegnati
· Mette a disposizione dei colleghi le proprie conoscenze per portare a termine il lavoro
Per lo stesso livello il Manuale prevede che non siano presenti alcuni comportamenti critici, che
non fanno apprezzare questa competenza, come:
· Mantiene gli standard di prestazione richiesti solamente quando è controllato dal
Responsabile
· Svolge il lavoro senza tenere conto dei parametri di qualità ed efficienza richiesti
· Non si preoccupa di capire quali fattori potrebbero eventualmente ostacolare il
raggiungimento dei risultati
· Non adotta soluzioni creative e innovative per superare le difficoltà che ostacolano il lavoro
· Lavora per soddisfare gli standard minimi richiesti
· Non è disposto a modificare i propri piani di lavoro per realizzare il lavoro secondo gli
standard previsti
Questo tipo di indicatori, come si può osservare, facilita la preparazione di un colloquio basato
su
fatti
osservabili
e
rende
più
chiare
le
aspettative
nei
confronti
dei
dipendenti,
responsabilizzando anche il superiore ad attivarsi per favorire, nei collaboratori, i comportamenti
positivi (attraverso deleghe, comunicazione, verifiche e così via).
Individuate e condivise le competenze e i livelli di approfondimento richiesto per svolgere con
efficacia le attività di lavoro previste, si tratta di confrontare il richiesto con ciò che il
collaboratore è già in grado di dimostrare: il confronto tra ciò che è richiesto e ciò che
effettivamente è agito definisce infatti la valutazione del livello di adeguatezza delle
competenze del collaboratore.
Una delle scelte discriminanti di questo progetto è stata quella di prevedere l’autovalutazione
da parte dei soggetti, per arricchire la dialettica tra capo e collaboratore e aumentare il
coinvolgimento sull’iniziativa e sui suoi valori di riferimento. Dunque sia il Responsabile e sia il
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collaboratore, congiuntamente o meglio ancora separatamente, devono esprimere la propria
valutazione relativamente alle competenze agite nel lavoro.
Da tale confronto sarà possibile far emergere una valutazione di adeguatezza rispetto al
livello richiesto, espressa utilizzando una scala a tre livelli:
· Livello 1: “Non ancora pienamente adeguato al livello richiesto”, se durante il tempo
considerato non si è osservata completa e totale corrispondenza tra quanto richiesto e
quanto messo in atto nell’agire quotidiano
· Livello 2: “Corrispondente al livello richiesto”
· Livello 3: “Superiore al livello richiesto”, se durante il periodo considerato, oltre a una
completa e totale corrispondenza tra quanto richiesto e quanto effettivamente messo in atto
nell’agire quotidiano, la persona ha realizzato attività e/o si è assunto responsabilità previste
per livelli di competenza superiori e le ha portate a termine efficacemente.
L’ultima fase del colloquio tra Responsabile e collaboratore deve essere destinata alla definizione
di un piano di sviluppo del collaboratore, che tenga conto di quanto emerso dalla valutazione;
i piani di sviluppo devono riguardare infatti una o più competenze chiave o specifiche, in
funzione delle prospettive di crescita e degli interessi / aspirazioni emersi durante il colloquio.
Gli obiettivi di sviluppo delle competenze concordati in questa fase possono diventare nuove
aspettative legate al ruolo del collaboratore, che andranno quindi verificate successivamente.
Per preparare i capi di BU e intermedi ad utilizzare questo sistema è stato preparata
un’iniziativa formativa (una o due giornate secondo i livelli), che ha spiegato il modello e gli
strumenti, e che ha aiutato i partecipanti a compilare la propria autovalutazione, da presentare
poi nel colloquio con il superiore.
Un primo risultato di questo progetto è senza dubbio quello di aver fatto riflettere l’Azienda su
quali siano le competenze più importanti, focalizzandosi in particolare su quelle trasversali,
che hanno consentito di uniformare il giudizio verso i dipendenti delle varie BU, e individuando
una chiave di lettura per analizzare come loro agiscono, al di là delle specificità professionali.
Un ulteriore valore aggiunto del processo è relativo allo strumento di valutazione (la
“scheda”), che presenta un’importante parte sullo sviluppo delle competenze, utile perché i
capi riescano a stabilire non solo lo spazio di crescita per i propri collaboratori, ma anche le
azioni concrete da avviare a sostegno di tale sviluppo.
Tra i risultati di questo progetto c’è anche l’evidenza delle condizioni di successo di un
processo di gestione delle competenze (per lo sviluppo e per la motivazione dei soggetti),
rappresentate dalla necessità che il processo sia:
·
costante e continuativo nel tempo, cioè non episodico
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·
circolare e che si autoalimenta, attraverso verifiche e gruppi di miglioramento
·
responsabilizzante per tutte le figure coinvolte, nel senso che deve attivare sia il
Responsabile sia il collaboratore: il primo per comunicare e sostenere i piani di sviluppo
insieme a HR, il secondo dovrà attivarsi ad applicare concretamente ciò che viene appreso
durante le iniziative di sviluppo.
Infine, tra il materiale sviluppato, è importante ricordare il “Manuale” dei comportamenti
positivi e critici, messo a punto per ogni competenza e per ognuno dei livelli: il suo valore sta
nell’aiutare i capi a concretizzare i giudizi (soprattutto quelli di parziale coerenza) rispetto a
competenze qualitative (vedi “tensione al risultato”), dove è necessario fornire al collaboratore
esempi concreti di comportamenti da agire, perché possa effettivamente migliorarsi.
Questo strumento consente ancora oggi di fare colloqui valutativi molto efficaci e, per le persone
che entrano in Azienda, di verificare quali siano i valori aziendali e come essi dovrebbero essere
praticati, in un legame “virtuoso” tra valori, competenze e azioni quotidiane di lavoro.
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RECENSIONI…
VALUTAZIONE E SVILUPPO DELLE COMPETENZE
Strategie, Organizzazione, Metodi per l’impresa competitiva
IPSOA, Milano 2004
Silvio Pugliese
Abstract
La gestione delle competenze nelle organizzazioni è un tema di rilevanza strategica
per la
competitività delle imprese; le competenze rappresentano infatti un “bene” limitato, il cui
sviluppo richiede tempi lunghi e costi rilevanti. Tuttavia, delle competenze “si parla tanto ma si
fa poco”, nel senso che esistono molti studi, ricerche e progetti sperimentali documentati ma
non c’è ancora un’applicazione sistematica nelle aziende.
Dall’intenzione di contribuire alla
soluzione di questo problema trae lo spunto la pubblicazione del libro in oggetto, che si prefigge
lo scopo di costituire uno strumento “semplice”, di facile lettura, che riassume gli aspetti teorici
sulla gestione delle competenze e mira a sviluppare quelli applicativi in una prospettiva integrata
con
la
gestione
organizzativa
e quella
della
formazione e dello
sviluppo.
L’opera
è
prevalentemente focalizzata sulla gestione delle competenze nelle organizzazioni produttive di
beni e servizi e, volutamente, non affronta gli aspetti relativi alla gestione delle competenze
nel settore dell’istruzione e nelle pubbliche amministrazioni che richiederebbero una trattazione
specifica e differenziata. Essa si prefigge di fornire, attraverso brevi richiami teorici e concettuali
e la presentazione di casi applicativi, elementi i utili per:
1. delineare e definire il dominio applicativo dell’intervento di analisi delle competenze che si
intende intraprendere;
2. analizzare, selezionare e mettere a punto metodi e strumenti
di analisi,
descrizione e
valutazione delle competenze;
3. definire delle strategie
pianificazione dello sviluppo delle competenze coerenti
con la
strategia aziendale.
Presentazione del testo
Il tema della gestione delle competenze nelle organizzazioni è stato ampiamente sviluppato
negli ultimi anni, sono stati organizzati numerosi seminari e convegni ed esistono ormai molte
pubblicazioni che ne affrontano gli aspetti salienti.
La letteratura, ampia e articolata, è tuttavia maggiormente focalizzata sugli aspetti concettuali
relativi alla finalità, definizione, descrizione e valutazione delle competenze mentre le poche
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pubblicazioni con un taglio applicativo sono spesso riferite a grosse organizzazioni e ad ambiti
applicativi specifici.
Da ciò la necessità di un lavoro finalizzato alla trattazione
di metodi, tecniche e strumenti
“semplici e pratici” di intervento, utilizzabili da un operatore in contesti applicativi differenti
con particolare riferimento alle piccole e medie imprese di produzione e
servizi dove la
diffusione è ancora limitata.
Il lavoro si sviluppa su un’ipotesi di fondo, secondo la quale i metodi, le tecniche e gli strumenti
per l’analisi, la definizione e la valutazione delle competenze sono difficilmente definibili in
“valore assoluto” ovvero con un modello astratto universale applicabile in tutte le situazioni,
ma necessitano di un’accurata personalizzazione in relazione al contesto applicativo. In
particolare, quest’ultima attività dovrebbe condurre ad
una coerenza stretta
tra i metodi di
analisi e valutazione delle competenze e i modelli organizzativi agiti nella specifica situazione,
che vanno perciò analizzati ed esplicitati. Inoltre, viene considerata indispensabile l’integrazione
dei suddetti metodi con il processo più ampio di gestione dello sviluppo organizzativo
dell’azienda per la quale diventa importante, se non indispensabile, inserire gli interventi di
analisi delle competenze in progetti di sviluppo organizzativo entro i quali si definiscono
le
finalità specifiche.
L’opera
si articola in cinque sezioni principali, ciascuna delle quali
affronta un aspetto
importante della gestione delle competenze nelle organizzazioni produttive (di beni e servizi) e
rappresenta un capitolo del libro.
Nella prima sezione vengono focalizzate
e argomentate
la stretta relazione esistente tra le
strategie organizzative di un’impresa e l’emergere della necessità di sviluppo delle competenze
professionali. Partendo dall’ipotesi che la gestione delle competenze presuppone una chiara
contestualizzazione organizzativa, vengono affrontate le evoluzioni dei modelli organizzativi e
descritto lo stato dell’arte sui modelli e gli approcci condivisi; da questi ultimi vengono quindi
estrapolati le variabili di maggiore influenza sulla gestione delle competenze e si focalizza
l’attenzione sulla definizione dei processi e sull’analisi e descrizione dei ruoli organizzativi,
indicata come presupposto fondamentale della gestione delle competenze.
La seconda sezione entra nello specifico dei metodi di analisi e definizione delle competenze,
illustra le tecniche e gli strumenti più diffusi e propone delle modalità ottimali in relazione al
contesto organizzativo di riferimento e alla finalità dell’intervento. Allo scopo viene esplorato e
chiarito il concetto stesso di competenza e vengono delineati i requisiti tecnici e metodologici
per loro individuazione e descrizione, e quindi illustrati e discussi tre casi di analisi e descrizioni
di competenze all’interno di specifici progetti di cambiamento organizzativo.
La terza sezione affronta una delle fasi più delicate della gestione delle competenze, la
valutazione; vengono illustrati gli obiettivi e le tecniche prevalenti di valutazione delle
competenze in relazione a quelli proposti dalla letteratura e alla finalizzazione della valutazione
stessa. A tale scopo viene innanzitutto delineato il dominio del processo di valutazione che può
comprendere competenze potenziali e agite e vengono evidenziate le ricadute delle esperienze
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di valutazione
del potenziale e delle prestazioni già utilizzate nelle organizzazioni. Si passa
quindi ad affrontare gli aspetti tecnici e metodologici della valutazione, evidenziandone le
criticità e le difficoltà e fornendo linee guida per la scelta di una strategia di valutazione. Viene
anche effettuata una sintesi ragionata delle tecniche e degli strumenti riportati dalla letteratura
e approfondite due tecniche significative quali l’Assessment Center e il colloquio di valutazione.
Infine, per approfondire gli aspetti applicativi delle tecniche analizzate e analizzarne opportunità
e vincoli, vengono presentati diversi casi di valutazione delle competenze condotte in aziende di
varia natura e per scopi differenti.
La quarta sezione affronta una fase successiva ma inscindibile dall’analisi delle competenze
ovvero la pianificazione del loro sviluppo; essa si prefigge lo scopo di sottolineare l’importanza
di pianificare lo sviluppo delle competenze per le organizzazioni ed evidenziare lo strettissimo
collegamento con le fasi di valutazione e descrizione per poi suggerire degli spunti tecnici e
metodologici
per la conduzione di tale attività. A tale scopo vengono illustrate le principali
metodologie di sviluppo delle competenze utilizzate dalla aziende e suggeriti dei criteri per una
scelta coerente con gli obiettivi di sviluppo; vengono quindi illustrati dei casi e degli esempi per
evidenziare ancora una volta le
opportunità e i vincoli applicativi nella pianificazione delle
competenze.
Infine, l’ultima sezione, affronta un aspetto
apparentemente strumentale alla gestione delle
competenze che si sta però sempre più configurando come una variabile strutturale ovvero
l’utilizzo della tecnologia. Questa sezione, lungi dall’affrontare in modo esaustivo il tema, si
pone l’obiettivo di
aprire una finestra sul contributo attuale e potenziale delle tecnologie
informatiche e telematiche (ICT – Information and Communication Technology) sulla gestione
delle competenze. Allo scopo viene delineato il dominio di azione del sistema informativo per la
gestione delle competenze e viene tracciato un quadro dello stato dell’arte nella disponibilità di
sistemi informatici di supporto e quindi delineati opportunità e vincoli sulla situazione attuale
nell’applicazione della tecnologia e sui possibili sviluppi futuri.
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