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A tavola con... Gualtiero Marchesi
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Tanti di questi
Marchesi
A cura di: Maria Zanolli
Foto di: Francis
Ottant’anni e non averli.
Il maestro li ha compiuti il 19 marzo,
un pesci cuspide ariete.
Per festeggiare l’evento, fino al 20 giugno,
al Castello Sforzesco di Milano si racconta
la sua vita in una mostra.
Lui è felice, ci incontra con un libro di poesie
in mano e tante, tantissime, un’infinità di cose da dire.
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Quando arriviamo nel tempio del maestro, dopo aver costeggiato le morbide curve delle bollicine, nell’attesa di incontrare Marchesi sfoglio il libro delle dediche del
ristorante. Sull’ultima pagina c’è una frase:
“Se il paradiso avesse una cucina,
Gualtiero potrebbe aprirci un ristorante”.
Santo Marchesi, penso.
Beh, ci manca poco. Sicuramente, se mai decidessero di
beatificare uno chef, lui sarebbe il prescelto. Mentre
m’immagino la cerimonia, il maestro arriva.
Ci accoglie con eleganza, sorride con quel suo
sorriso semiserio che non sai mai se è così o se ti
prende un po’ in giro.
Ottant’anni e non averli. Da vicino fa ancora più impressione. Se siamo quello che mangiamo, vuol dire che Marchesi ha sempre mangiato bene. E su questo non ci piove.
Ha iniziato al “Mercato”, quando era piccolo, l’albergo ristorante dei genitori nel quartiere di Porta Vittoria a Milano. Poi in Francia, al “Ledoyen” di Parigi, allo “Chapeau
Rouge” di Digione e dai fratelli Troisgros.
“Quando sono andato via dai fratelli Trogrois mi racconta Marchesi - a un certo punto ho
detto: ‘Me ne vado, ho capito’. Trogrois mi ha
chiesto che cosa avevo capito.
E io ho detto: ‘Vedrai’.”
In quel ‘vedrai’ c’è tutta la grinta e il coraggio di Gualtiero
che per primo in Italia, nel 1985, si aggiudica con
il suo ristorante di via Bonvesin de la Riva la
terza stella Michelin.
La strada è appena iniziata.
Sulle tavole italiane e internazionali non si
parla altro che dei suoi piatti rivoluzionari, a
metà tra la cucina, l’arte, la poesia e l’happening.
Una cucina che si fonda su un lavoro di esperienza sul campo, di studio e di ricerca,
di grande fantasia e intuizione, ma
soprattutto una cucina di pensiero, che “cerca di cogliere l’essenza dell’arte culinaria nel
suo profondo estrinsecarsi in
sapori, gusti e aromi”.
Così scrive sul suo libro
“Marchesi si nasce” realizzato insieme alla mostra in
corso al Castello Sforzesco
di Milano.
La felicità non gli manca in
questo grande momento.
E nemmeno la poesia.
Che ci legge dal suo menù, dove
annota, come una partitura musicale, i pensieri più importanti della
sua vita.
Didascalie immagini.
Sopra, Riso Oro e Zafferano.
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L’INTERVISTA A
GUALTIERO MARCHESI
Ristorante Il Marchesino
Ha visto cosa c’è scritto sul libro
delle dediche del ristorante?
“Se il paradiso avesse una cucina,
Gualtiero potrebbe aprirci un ristorante”.
L’ha letto anche lei?!
È bellissimo, l’avrà scritto un bambino…
Ma la scrittura era da adulto
Io preferisco i bambini, perché sono più onesti, sinceri,
puliti. Pensi che un giorno un ragazzino mi ha detto che
quando mangia il riso oro gli sembra di volare su Marte.
Quindi lei è uno chef spaziale…
Eh sì, tutti vorrebbero andare su Marte, ma anche sulla
Luna, forse sulla Luna è più facile,
è più a portata di mano.
E cosa potremmo cucinare sulla Luna?
Sa che io sono per la cucina del microclima, bisogna andare sulla Luna e respirare l’aria che c’è per capire cosa
bisogna fare o se è meglio tornare indietro.
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Nell’immagine sotto, Dripping di Pesce (photo by M.Borchi)
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Facciamo un passo indietro.
La mia prima domanda, in realtà, era per lei. Mi
spiego meglio: visto che Marchesi è il maestro
dei maestri ha tutto il diritto, dopo oltre sessant’anni di grande cucina, di rivolgere una domanda al mondo della gastronomia…
Dove andiamo?
Fatemi sapere dove andate…
Ma è un po’ preoccupato?
No, perché alla fine l’uomo risolve sempre i suoi problemi,
è che se guardo i libri storici a partire da Escoffier, è inconcepibile come fosse grande quella cucina, così ridondante, barocca, piena di cose. Oggi siamo arrivati
all’estremo. Diciamo che i giapponesi ci sono arrivati prima
di noi, la loro cucina è semplice, pulita, straordinaria.
Ognuno è specialista del suo campo e solo i grandi cuochi fanno i menu kaiseki. Non tutti ci arrivano, solo quelli
bravi. Quindi io sono molto riconoscente alla cucina giapponese.
È anche una cucina salutare?
La cucina deve essere salute, se no sono pasticci e basta.
Sul mio menù degustazione, dopo le polemiche sulla cucina molecolare, ho scritto: “la cucina è una scienza, sta
al cuoco farla divenire arte”. Se vogliamo fare buona salute dobbiamo avere un ottimo prodotto e non rovinarlo.
Rispettarlo, valorizzarlo…
Esatto. Parecchi pezzi che espongo alla mostra al Castello
Sforzesco sono semplici come il pollo cotto arrosto o un
broccolo romano intero cotto e messo sul piatto.
Leggendo il suo libro c’è una frase che mi è piaciuta molto. “Quel che soddisfa il gusto deve essere minore di quel che soddisfa gli altri sensi”,
l’ha scritta Olindo Guerrini. Quali emozioni dovremmo provare degustando una pietanza?
È una questione di cultura. La gente ama i sapori ridondanti, ma più si caricano i sapori più si va lontani dalla materia. Un amico giornalista mi ha regalato ultimamene un
libro interessante sull’argomento di un autore francese,
s’intitola “L’elogio dell’insapore”. Più rincariamo i sapori,
più ne abbiamo bisogno. Il silenzio, tutto sommato, è una
delle cose più belle. Mettersi in riva al mare e sentire il rumore dell’acqua. C’è un piatto della mostra che ho chiamato “L’ultimo arrivato” è una calamarata, calamaretti
sparpagliati su un piatto col fondo nero.
Nell’immagine sotto, Seppia al nero.
I GRANDI PIATTI FIRMATI MARCHESI
Riso oro e zafferano 1981
Raviolo aperto 1982
Penne con asparagi e tartufi 1982
Seppia al nero 1983
Costoletta alla milanese del 2000-1991
Le quattro paste 2000
Piramide di riso 2001
Dripping di pesce 2004
Pera cotta al vino rosso e cialde di cioccolato 2004
Il Rosso e il Nero 2006
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Quindi si sente il mare?
Si mangiano i sapori veri del calamaro. Non sappiamo niente del calamaro perché è sempre storpiato da centomila cose. Poi, di fianco,
gli metto un riso con i piselli, sedano, carote. Mi piace l’idea del gioco,
che uno prenda il riso e lo mescoli con il resto oppure mangiarlo separato. Io sono per il “separatismo”.
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LA MOSTRA
STORIAE D’ITALIA. GUALTIERO MARCHESI
E LA GRANDE CUCINA ITALIANA
E se dovessimo esprimere l’amore in un piatto, quale sarebbe?
Qualsiasi piatto. Qualsiasi piatto, fatto con amore, viene meglio. Dico
sempre che apprezzo molto la cucina delle donne, perché loro ci mettono il cuore più dell’uomo. C’è una frase di Shelling che dice più o
meno così: “La pressione spinge l’uomo al di fuori dal suo centro”.
Ma chi è che c’è di bravo, oltre a lei?
Non lo so, io non vado tanto in giro ad assaggiare.
C’è però una tendenza un po’ strana, fanno tutti troppo gli artisti o i
compositori e invece devono fare i cuochi. Cucinare le cose bene.
Sono tutti diventati sofisticati, ma la cultura per arrivare lì non c’è.
Ho letto com’è nato uno dei suoi piatti mitici, il “Raviolo
Aperto”. Una cliente le racconta che durante un matrimonio le hanno servito dei ravioli mal riusciti che si erano aperti
una volta depositati sul piatto. L’ispirazione per un nuovo
piatto può nascere anche prendendo spunto da un errore?
Si parte da uno spunto per correggere una cosa. Anche il risotto alla milanese è nato così, ho messo mano a qualcosa che c’era già. L’ho sistemato.
Come ha messo a posto del risotto?
L’altro giorno parlando con una persona dicevamo che in generale i
risotti sanno sempre di formaggio, sa perché?
Perché se ne mette troppo.
Si, ma il motivo è un altro. L’acidità del formaggio è molto alta e quindi
influisce moltissimo sul sapore del risotto. Quindi, partendo dall’esperienza francese dove ho imparato a fare il burro acido, ho introdotto questo burro nel risotto. Poi il risultato finale è sempre una
questione di equilibrio di tutti gli elementi.
Lei sa un sacco di cose, ma per diventare maestro avrà
pur fatto qualche errore…
Se non avessi fatto errori non sarei qua. Ma già il fatto di fare errori è
perché ci si rende conto di aver sbagliato e quindi si rimedia. Se si può.
La cosa più difficile da imparare in cucina?
Il mestiere, come dicono tutti, si ruba. Quando sono andato via dai
fratelli Trogrois a un certo punto ho detto: “Me ne vado, ho capito”.
Trogrois mi ha chiesto che cosa avevo capito. E io ho detto: “Vedrai”.
E cosa aveva capito?
Lo spirito con cui era condotto il lavoro. Non era solo imparare a fare
un piatto. Sono le tecniche che ti permettono di arrivare lì. Come
quando un barman fa un cocktail perfetto, ha raggiunto lo scopo di
mettere assieme diverse cose e di creare l’armonia di un cocktail, la
stessa cosa vale per il piatto: gli ingredienti che vanno su questo
piatto devono, magari in contrasto, creare armonia. Lo diceva anche
Eraclito: “Dal contrasto nasce una bellissima armonia”.
Le hanno dedicato addirittura un Castello per i suoi 80
anni, è felice?
Quando gli amici mi dicevano: “Torneresti a Milano?”. Io gli dicevo:
“Dovrebbero darmi almeno la Scala o il Castello”. Pensa che caso,
manca solo il Duomo per le esequie…
L’ironia non le manca mai.
Ma tra 30 anni cosa mangeremo?
Non posso saperlo. L’altro giorno Aldo Spoldi in una presentazione del
mio libro ha detto una cosa fortissima. “Noi mangiamo il nostro
tempo”. È vero, noi siamo il nostro tempo. Mi è quasi difficile sapere
cosa ci sarà, posso intuire che cosa sta avvenendo e che cosa verrà
perché sono moderno per quel tanto che mi concede la mia storia.
La prima volta che andai negli Stati Uniti mi ricordo che rimasi colpito
dalla cucina che era buonissima e completamene diversa dalla nostra.
Ma allora è un vantaggio avere una storia? Oppure si è più liberi a non
averla? Questo è l’eterno dilemma.
Fino al 20 giugno il Castello Sforzesco di Milano ospiterà la mostra dedicata al maestro Marchesi (visitabile
tutti i giorni dalle 9 alle 17.30). Il percorso espositivo si
sviluppa in sette punti che ripercorrono la storia dello
chef, dalle origini a oggi. Un viaggio tra le fotografie,
gli oggetti, i dipinti e le creazioni che hanno contrassegnato la vita del grande maestro.
www.milanocastello.it
E un panino firmato Marchesi da mettere nella
schiscetta del 2010?
Adesso su due piedi non saprei. Bisogna che mi
guardi in giro con gli occhi del panino… C’è una
bellissima frase di Hermann Hesse che dice:
“L’idea nasce dell’anima dell’artista, non è materia,
è pensiero”.
Visto che il nostro piatto nazionale è la
pasta, come si fa una pasta “Marchesi”?
Ci vogliono le sfogline, le donne emiliane che lavorano la pasta. Perché loro hanno la manualità,
la tradizione, l’arte.
E per la cottura della pasta?
Per cuocere la pasta secca, c’è un segreto di
Agnesi: il miglior modo è cuocerla in acqua bollente salata per qualche minuto e il resto della cottura spegnere il fuoco e mettere il coperchio.
Quando apri il coperchio l’acqua rimane limpida: questo vuol dire che
non c’è una cessione di amidi e la pasta rimane corposa.
Mezza mela a fine pasto pulisce la bocca.
Lo diceva sua madre, vale ancora?
Eccome. E pensare che io propongo un piatto di
sottobosco che nasce proprio con questo intento. La frutta acida toglie tutto.
Ma mi sono ricordato dopo che mia madre mangiava sempre mezza mela, ecco da dove arriva.
Certe cose le hai dentro e arrivano al momento
giusto.
Parlando di vini, qual è il suo preferito?
Direi un bollicine.
Lei, oltre alla cucina, ama la musica e
l’opera. C’è un pezzo che ha nel cuore
e vuole lasciarci come conclusione dell’intervista?
Facciamo un brindisi a Baccus con la Traviata:
“Libiamo, libiano ne'lieti calici”.