La gestione della continuità
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La gestione della continuità
ISSN 0392-4505 Anno XXXII - Maggio-Giugno 2011 186 Rivista bimestrale di politica sociosanitaria Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria La gestione della continuità Maggio-Giugno 2010 E 15,00 Salute e Territorio - Registrazione al Tribunale di Firenze n. 2582 del 17/05/1977 Poste Italiane SpA - Spedizione in Abbonamento Postale - Regime libero - 70% - CNS/CBPA - CENTRO 1 Quarantasette luoghi comuni sui disastri La sanità toscana per l’Unità d’Italia La rete “Unire” I modelli organizzativi territoriali Le cure intermedie geriatriche per il paziente cronico complesso La riabilitazione nell’adulto La continuità della cura nel paziente oncologico La gestione del dolore cronico La cardiologia in rete Le ulcere cutanee croniche L’insufficienza renale La prospettiva delle Medical Humanities Modelli, percorsi, esperienze L’ospedale di continuità Imparare la salute Contributi Monografia Esperienze dal territorio 00sommario 129:00sommario 1 20-07-2011 9:36 Pagina 129 Sae l ute Territorio Direttore responsabile Mariella Crocellà Redazione Antonio Alfano Gianni Amunni Alessandro Bussotti Francesco Carnevale Bruno Cravedi Laura D’Addio Gian Paolo Donzelli Claudio Galanti Carlo Hanau Gavino Maciocco Benedetta Novelli Mariella Orsi Daniela Papini Paolo Sarti Luigi Tonelli Comitato Editoriale Gian Franco Gensini, Preside Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Firenze Mario Del Vecchio, Professore Associato Università degli Studi di Firenze, Docente SDA Bocconi Antonio Panti, Presidente Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Firenze Luigi Setti, Direttore Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria - FORMAS Segreteria di redazione Simonetta Piazzesi 349/4972131 186 Rivista bimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. Gambassini FORMAS - Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria Anno XXXII - Maggio-Giugno 2011 Sommario 130 D. Alexander Quarantasette luoghi comuni sui disastri 135 A. Panti La sanità toscana per l’Unità d’Italia 138 G. Belleri La rete “Unire” Monografia La gestione della continuità 145 G. Maciocco I modelli organizzativi territoriali 150 M. Inzitari Le cure intermedie geriatriche per il paziente cronico complesso 155 F. Benvenuti, A. Taviani La riabilitazione nell’adulto 159 L. Cataliotti, R.D. Mediati La continuità della cura nel paziente oncologico 163 R.D. Mediati La gestione del dolore cronico 167 F. Bandini, G. Banchi, I. Berni, F. Cellerini, A. Fumarulo, M. Guarnieri, P. Petrone, M. Vannucci, S. Vignini, A. Zuppiroli La cardiologia in rete 171 L. Rasero, S. Bruni Le ulcere cutanee croniche 175 S. Bianchi, R. Bigazzi L’insufficienza renale 179 M. Zonza La prospettiva delle Medical Humanities 182 D. Coletta, B. Novelli, G. Vannini, R. Tarquini Modelli, percorsi, esperienze 184 R. Tarquini, D. Coletta, S. Dolenti, A. Valoriani, N. Mennuti, G.F. Gensini L’ospedale di continuità Segreteria informatica Marco Ramacciotti Direzione, Redazione [email protected] http://www.salute.toscana.it Edizioni ETS s.r.l. Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa Tel. 050/29544 - 503868 - Fax 050/20158 [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] Questo numero è stato chiuso in redazione il 15 giugno 2011 Esperienze dal territorio 189 A. Ciarrocchi, A. Tonini, Imparare la salute P. Pedani, S. Marconi, F. Pratesi, M. Bontà Abbonamenti 2011 Italia € 50,00 Estero € 60,00 Fotocomposizione e stampa Edizioni ETS - Pisa Per abbonarsi: www.edizioniets.com/saluteeterritorio Pagamenti online con carta di credito o PayPal 01Alexander 130:Layout 1 22-07-2011 Sae l ute Territorio 130 David Alexander CESPRO - Centro di studio della Protezione civile Università di Firenze [email protected] L a letteratura su come il pubblico percepisce i rischi di disastro è ormai ampia (Larsson e Enander, 1997; Brilli e Polic, 2005; Kirschenbaum 2005). Si indaga anche sull’influenza della cultura popolare nella percezione delle calamità (Couch, 2000; Palm 1998), con particolare attenzione all’influenza del cinema (Bahk e Neuwirth, 2000; Mitchell et al., 2000; Quarantelli, 1985). Da questi studi vengono fuori solide evidenze che alcuni luoghi comuni sui disastri sono largamente diffusi, ben radicati e fortemente creduti (Fischer, 1994; Grenstad e Selle, 2000). Come scriveva Jeffrey Arnold nella rivista Prehospital and Disaster Medicine (2006): “Almeno una cosa è diventata prevedibile dei disastri negli anni recenti: una volta che avviene il disastro, verrà seguito da un eruzione di luoghi comuni”. Uno degli aspetti che colpisce di più dei disastri moderni è la schiacciante inevitabilità degli errori che vengono commessi, i luoghi comuni che vengono diffusi e le inefficienze che caratterizzano la loro gestione. Diversi eventi forniscono esempi di come questi luoghi comuni sono importanti. Ad esempio, il 4 ottobre 1999 sia Agence Fran- 11:36 Pagina 130 Protezione civile N. 186 - 2011 Quarantasette luoghi comuni sui disastri ce Presse (AFP) che il Servizio mondiale della BBC hanno riportato che le alluvioni nell’America centrale avevano dato luogo a casi di febbre dengue. Visto che la dengue ha da 8 a 11 giorni di incubazione e le alluvioni sono iniziate 4 giorni prima, è improbabile che i casi fossero legati alle esondazioni. Infatti, è assai raro che i disastri naturali siano la causa di epidemie. Sia nell’uragano Mitch in America centrale (novembre 1998) che nel maremoto dell’Oceano Indiano nel 2004, e del terremoto in Kashmir del 2005 si parlava nella stampa dell’inevitabilità delle epidemie. Nel caso del maremoto, secondo i media, le malattie dovevano mietere più vittime delle onde, ma in tutti questi casi epidemie non ci sono state (cfr. Floret et al., 2006). A New Orleans dopo l’uragano Katrina (agosto-settembre 2005) si parlava di un’“epidemia” di sciacallaggio. Un’analisi più sobria (Tierney et al., 2006) ha ridimensionato il fenomeno e ha fatto vedere che molte opportunità di sciacallaggio non sono state sfruttate, e le incursioni con la forza nei negozi sono state praticate maggiormente per procurare cibo e acqua durante un periodo di isolamento della gente e di privazione di I pregiudizi più diffusi sulla gestione e le conseguenze delle calamità tutti i generi di prima necessità. Questa situazione si è ripetuta dopo il terremoto del 12 gennaio 2010 in Haiti (Alexander, 2010). Nei disastri o di fronte a dei rischi, esiste un’ampia gamma di evidenza della proliferazione dei luoghi comuni, fenomeni che per convenienza possiamo denominare “miti” (Paulozzi, 1980; De Ville De Goyet, 2004). Segue un tentativo di elencare sistematicamente i più comuni malintesi in questo settore e di offrire una breve spiegazione del perché sono errati. Comunque, è opportuno ricordare che le osservazioni in questo elenco e la loro definizione come luoghi comuni rispondono a criteri statistici non assoluti. Non si intende dire che siano “miti” in ogni possibile caso e senso, ma si sostiene invece che siano valide generalizzazioni. Mito n. 1: I disastri sono eventi veramente eccezionali. Realtà: Essi sono una parte normale della vita quotidiana e in molti casi sono eventi ripetitivi. Mito n. 2: I disastri causano molto caos e quindi non possono essere gestiti sistematicamente. Realtà: Esistono eccellenti modelli teorici su come funzionano i disastri e come gestirli. Dopo 90 anni di ricerca in questo campo, i lineamenti generali dei disastri sono assai ben conosciuti, ed essi tendono a ripetersi da un evento al prossimo. Mito n. 3: I disastri ammazzano la gente senza rispetto per il loro ceto sociale o economico. Realtà: i poveri e gli emarginati sono molto più a rischio di morte delle persone ricche o benestanti. Mito n. 4: Spesso i terremoti sono la causa di alte cifre di mortalità. Realtà: Il crollo degli edifici è responsabile per la maggior parte dei casi di morte nei disastri sismici. Mentre non è possibile fermare i terremoti, è possibile comunque costruire edifici antisismici ed organizzare le attività umane in modo tale da minimizzare il rischio di morte. Per 01Alexander 130:Layout 1 20-07-2011 9:40 Pagina 131 Sae l ute Protezione civile Territorio 131 N. 186 - 2011 di più, la maggioranza dei terremoti, anche di tipo dannoso, non causano alta mortalità. Mito n. 5: Le persone possono sopravvivere per molti giorni sotto le macerie di un edificio crollato. Realtà: La stragrande maggioranza delle persone salvate vive da sotto le macerie vengono estratte entro 24 ore dall’impatto, persino entro 12 ore. Mito n. 6: Quando il disastro colpisce, il panico è una reazione comune. Realtà: La maggior parte delle persone si comportano in modo razionale durante una crisi. Mentre il panico non è da scontare interamente, è di importanza così limitata che alcuni dei più eminenti sociologi lo considerano insignificante o improbabile. Mito n. 7: La gente scappa dal luogo di un disastro. Realtà: Invece, solitamente avviene una “reazione di convergenza”, in cui l’area si riempie di gente. Pochi superstiti andranno via e persino i residenti evacuati per obbligo torneranno appena possibile. Mito n. 8: Quando il disastro colpisce, i superstiti sono storditi ed apatici. Realtà: I superstiti rapidamente si danno da fare nelle opere di ripristino e ripresa. L’attivismo è molto più comune del passivismo. Questa è la cosiddetta “comunità terapeutica”. Nei peggiori casi conosciuti, solo il 15-30% delle vittime dimostrano reazioni passive e stordite. Mito n. 9: Dopo un disastro le persone non saranno in grado di prendere decisioni razionalmente e quindi faranno cose sbagliate se non vengono dirette dalle autorità. Realtà: Le persone prendono decisioni in base all’informazione che riescono ad avere e alla loro abilità di interpretarla. In questa ottica, le loro decisioni sono da giudicare razionali. Mito n. 10: I disastri danno luogo a grandi manifestazioni di comportamento antisociale. Realtà: In genere, i disastri sono caratterizzati da grandi manifestazioni di solidarietà sociale, generosità e sacrificio. Mito n. 11: Lo sciacallaggio è un problema comune e grave dopo i disastri. Realtà: Il fenomeno di sciacallaggio è raro e il suo scopo è quasi sempre limitato. Esso avviene maggiormente dove ci sono forti precondizioni (cioè, dove quasi non ci vuole un disastro per scatenarlo), ad esempio in casi in cui la comunità è profondamente divisa. Mito n. 12: Nei disastri la gente si dà alla violenza per proteggere i propri interessi. Realtà: Si stabilisce nella maggior parte dei casi una “comunità terapeutica”: c’è maggior tendenza ad aiutare il prossimo che nei tempi normali. Mito n. 13: Dopo un disastro bisogna imporre la legge marziale per prevenire il crollo totale dell’ordine sociale. Realtà: L’imposizione della legge marziale è estremamente rara e, se dovesse essere dichiarata, significherebbe che i normali meccanismi di governo non sono per niente efficaci. Mito n. 14: Una forte presenza militare è necessaria nell’area di un disastro per scoraggiare i delinquenti. Realtà: Nello sviluppo di strutture e piani di protezione civile, la risposta all’emergenza avrebbe dovuto essere trasformata da militare a civile. Visto che nella maggior parte dei casi la delinquenza aumenta poco o niente dopo un disastro, la polizia è solitamente in grado di tenere la situazione sotto controllo senza bisogno di assistenza militare. Mito n. 15: I mass media creano un’immagine drammatica dei disastri. Realtà: Esiste una tendenza quasi universale dei media di esagerare e distorcere le informazioni sui disastri. È raro che i giornalisti siano esperti in questo campo. La loro mancanza di conoscenza è spesso ben riconoscibile nella qualità dei loro rapporti. Essi offrono il tipo di informazione che gli spettatori, ascoltatori o lettori vogliono avere, talvolta a dispetto della pura verità oggettiva. Mito n. 16: Le salme non sepolte costituiscono una minaccia alla salute dei superstiti. Realtà: Neanche la decomposizione avanzata è fonte di rischio alla salute. Un interramento troppo rapido può demoralizzare i superstiti, e può inoltre compromettere la certificazione della morte, i riti funebri e, dove serve, il bisogno di autopsia. Mito n. 17: Le epidemie di malattie contagiose sono un risultato quasi inevitabile dello scompiglio e la cattiva salute indotta nei superstiti di un grande disastro. Realtà: In genere, il livello di sorveglianza epidemiologica e di approvvigionamento di servizi sanitari è sufficiente a fermare qualsiasi epidemia. Comunque, con maggior attenzione alla sanità, l’entità di diagnosi delle malattie potrebbe essere aumentata. Mito n. 18: Grandi quantità e assortimenti di farmaci dovrebbrero essere inviate nelle zone disastrate. Realtà: Gli unici medicinali che servono sono quelli atti a curare specifiche patologie. Inoltre non dovrebbero essere scaduti, dovrebbero essere adatti ad una corretta conservazione nell’area disastrata, e dovrebbero essere ben identificabili in termini dei loro costituenti farmacologici. Tutti gli altri medicinali non sono soltanto inutili, ma anche potenzialmente pericolosi. Mito n. 19: Gli ospedali da campo sono particolarmente utili per la cura delle persone ferite nei disastri di brusco impatto. Realtà: Solitamente, gli ospedali da campo vengono allestiti troppo tardi per curare i feriti e quindi 01Alexander 130:Layout 1 20-07-2011 9:40 Pagina 132 Sae l ute Territorio Protezione civile essi finiscono per fornire medicina generale e continuità di cura per le popolazioni delle aree disastrate. Dato che il trasporto e l’utilizzo degli ospedali da campo sono costosi e logisticamente difficili, in alcuni casi potrebbe essere più efficiente dedicarsi invece alla riapertura e potenziamento degli ospedali normali della zona, anche se sono significativamente danneggiati. Mito n. 20: In seguito ad un disastro la vaccinazione di massa è un modo eccellente di prevenire la diffusione di malattie contagiose. Realtà: Mentre la vaccinazione, accuratamente mirata, di specifici gruppi vulnerabili (ad esempio, medici, infermieri e bambini) può essere utile, la vaccinazione di massa indiscriminata spreca risorse. Nel periodo caotico dopo un disastro non è possibile mantenere in ordine le cartelle cliniche e somministrare accuratamente una seconda dose di vaccino. Le popolazioni della zona si spostano troppo per permettere a una tale iniziativa di funzionare. Mito n. 21: Per prevenire le epidemie, un cordone sanitario dovrebbe essere allestito intorno alla zona disastrata. Realtà: È raro che i cordoni sanitari funzionino. Lo spostamento di persone e beni è tale che non si può controllare rigorosamente l’ingresso e l’uscita dalla zona in modo tale da poter disinfettare persone e cose, il che comunque è sempre una risposta sbagliata. Nella maggior parte dei casi i cordoni sanitari non fanno niente per la salute ma ostacolano i soccorsi. L’alternativa preferibile è di allestire un osservatorio epidemiologico e praticare misure tarate dove e quando si manifestano condizioni di pericolo o precarietà. Mito n. 22: Le salme, i superstiti, le macerie ed altre cose dovrebbero essere spruzzati con disinfettante per prevenire la diffusione di malattie. Realtà: Questa comune e popolare misura spreca vaste quantità di disinfettante e non fa assolutamente niente per tutelare la sanità pubblica. Mito n. 23: Solitamente quando avviene un disastro c’è una mancanza di risorse e a causa di questo non si riesce a gestire bene l’evento. Realtà: La mancanza, se c’è, è quasi sempre provvisoria. Anziché trovare le risorse, il problema sostanziale è di distribuirle bene e usarle in modo efficace. In molti casi c’è un problema di gestire una sovrabbondanza di certi tipi di risorsa. Mito n. 24: In seguito ad un disastro il prezzo dei beni essenziali salirà vertiginosamente. Realtà: Questo fenomeno esiste, ma assolutamente non è la norma. Mito n. 25: Dopo un disastro qualsiasi aiuto è utile se è fornito rapidamente. Realtà: Soccorsi ed aiuti rapidi e mal pensati possono creare una situazione 132 N. 186 - 2011 di caos. Solo certi tipi di assistenza tecnica, beni e servizi saranno necessari. Non tutte le risorse presenti nell’area prima del disastro saranno distrutte. L’approvvigionamento di materiali o manodopera inutile consuma risorse di organizzazione che potrebbero essere utilizzate in modo più efficace per ridurre gli effetti del disastro. Mito n. 26: Per gestire bene un disastro è necessario accettare tutte le forme di aiuto che vengono offerte. Realtà: È molto meglio accettare soltanto le donazioni di beni e servizi che sono dimostrabilmente utili alla zona disastrata. Mito n. 27: Bisogna donare vestiti usati alle vittime dei disastri. Realtà: Così si accumulano grandi quantità di indumenti inutili che le vittime non possono o non vogliono indossare. Mito n. 28: Le imprese, le organizzazioni ed i governi sono sempre molto generosi quando sono invitati a inviare aiuti in una zona disastrata. Realtà: Questo è possibile, ma in passato si sono riscontrati numerosi casi di offerte di materiali inutili nelle zone colpite: farmaci scaduti, attrezzi obsoleti, merci non più vendibili.. e tutto nel nome della “generosità”. Mito n. 29: La tecnologia salverà il mondo dai disastri. Realtà: Per la maggior parte, i disastri sono un problema sociale. Abbiamo già notevoli risorse tecnologi- che, ma esse sono distribuite piuttosto male e in molti casi sono utilizzate con poco effetto. Per di più, la tecnologia è una potenziale fonte di vulnerabilità, non soltanto un modo di ridurla. Mito n. 30: I maremoti sono legati alle maree (in inglese “tidal waves”). Realtà: I maremoti sono onde marine indotte da terremoti, eruzioni vulcaniche o frane sottomarine con un meccanismo di propagazione assolutamente diverso da quello delle onde causate dal vento ed i movimenti del mare causati dalle maree. Il loro impatto sulle coste può essere leggermente influenzato dalle maree, ma non la loro causa. Mito n. 31: Si misura la magnitudo dei terremoto sulla scala Richter. Realtà: La scala di Charles F. Richter di “magnitudo locale” (ML), non è accurata a valori alti e quindi è stata sostituita da scale più robuste, come body wave magnitude (M B ) e moment magnitude (M). Mito n. 32: Esiste una forma di tempo meteorologico che è precursore ai terremoti. Realtà: La credenza popolare che i terremoti avvengono quando il tempo è afoso e il vento è cessato non ha base di fatto. Numerosi studi scientifici hanno cercato di identificare condizioni atmosferiche da trattare come precursori dei terremoti, ma il successo è stato solo parziale, segnatamente con il rilascio di alogeni nell’aria 01Alexander 130:Layout 1 20-07-2011 9:40 Pagina 133 Sae l ute Protezione civile Territorio 133 N. 186 - 2011 e fenomeni di filtraggio e rifrazione della luce. Mito n. 33: Siamo ben organizzati per affrontare un attacco NBCR o una pandemia. Realtà: Nella maggior parte dei paesi, compresi quelli più ricchi e grandi, la preparazione è parziale, se non gravemente mancante. Mito n. 34: In un attacco di terrorismo biologico o una pandemia la profilassi sarà efficace ed efficiente. Realtà: Le scorte di antidoti e vaccini sono insufficienti, altrettanto i reparti di isolamento, i nuclei di pronto intervento, le strutture di decontaminazione e la formazione di soccorritori e medici. Inoltre, potrebbe essere difficile identificare rapidamente il patogeno o la tossina implicata nella crisi. Mito n. 35: La decontaminazione NBCR è un problema risolto. Realtà: Molte questioni rimangono aperte riguardo i protocolli e le procedure usate per la decontaminazione, ad esempio i reagenti e detergenti usati, il numero di persone che possono essere decontaminate per unità di tempo, se ci si deve togliere tutti i vestiti prima dell’atto di decontaminazione. Mito n. 36: I principali effetti di un attacco NBCR oppure una pandemia sarebbero di natura medica. Realtà: Lo scompiglio della vita quotidiana potrebbe dar luogo a conseguenze ancora più imponenti (in termini logistici, sociali, economici e psicologici) degli effetti medici della crisi. Mito n. 37: In un attacco NBCR oppure una pandemia sarebbe facile evitare la contaminazione di ospedali ed altri centri medici. Realtà: Per certi patogeni o tossine la contaminazione sarebbe assai difficile da evitare senza misure assolute e molto complicate che, probabilmente, non sarebbero istituite in tempo utile. Mito n. 38: Sarà facile identificare il patogeno, l’agente chimico o l’isotopo usato in un attacco NBCR. Realtà: Esistono così tanti patogeni, agenti ed isotopi che potrebbe risultare necessario un’analisi ad alto livello in un laboratorio super attrezzato, il quale causerebbe notevoli problemi di trasporto e ritardo nell’arrivare ai risultati dell’analisi. Mito n. 39: L’antrace è una polvere bianca. Realtà: Bacillus anthracis è una sostanza senza particolare colore e, infatti, quasi invisibile. L’antrace raffinata trasformata in un’arma da guerra sarebbe ancora più difficile da vedere. Mito n. 40: Il panico e il comportamento irrazionale sono conseguenze inevitabili di un attacco NBCR. Realtà: Nei disastri di tutti i tipi la gente cerca di comportarsi in modo razionale e di prendere decisioni di buon senso. Questo è antitetico al panico. Comunque, se le persone non sono dotate di informazio- ne adeguata, i loro processi decisionali potrebbero non essere suscettibili ad analisi razionale. Mito n. 41: Le tendenze del terrorismo globale sono assai irregolari ma esse dimostrano rapidi e sostanziosi aumenti nei tempi recenti. Realtà: Mentre il baricentro dell’attività terroristica tende a spostarsi continuamente, la somma degli attacchi, e i loro effetti, è rimasta piuttosto stabile per diversi decenni, con aumenti soltanto modesti. Mito n. 42: I soccorritori di emergenza non si presenteranno al lavoro durante un disastro. Invece, essi rimarranno a casa per proteggere le proprie famiglie. Realtà: A seguito di disastri l’assenteismo di massa non è comune tra i lavoratori chiave dell’emergenza. Al contrario, il loro senso del dovere tende ad aumentare. Mito n. 43: I soccorritori non sapranno cosa fare durante un disastro o una grande crisi. Realtà: Si spera che la formazione e l’esperienza abbiano trasformato i soccorritori e i coordinatori di emergenza in professionisti altamente preparati. Mito n. 44: I disastri accadono sempre a qualcun altro. Realtà: La “sindrome dell’invulnerabilità personale” può indurre le persone a credere che in qualche modo sono immuni ai disastri. Non è vero. Mito n. 45: La continuità degli affari aziendali (in inglese “business continuity management”, BCM) ap- partiene soltanto al settore privato. Realtà: Il settore pubblico (composto di amministrazioni comunali, provinciali, regionali e nazionali, ed enti associati) deve essere in grado di superare gli effetti del disastro e continuare le sue attività come qualsiasi compagnia privata. Quindi non esiste motivo perché la BCM non sia applicabile ad imprese pubbliche. Mito n. 46: Nei disastri ci sono eroi e indifferenti. Realtà: Ci possono essere davvero gli indifferenti, sebbene la “comunità terapeutica” che prevale nel seguito dei disastri tende a mitigare il loro effetto, ma la maggior parte delle persone che agiscono con altruismo e a favore del prossimo non sono veramente “eroi” ma soltanto persone che fanno il proprio lavoro nel miglior modo possibile. Quando le persone provano ad essere eroi i risultati possono distruggere il lavoro di squadra da cui dipende la risposta al disastro. Mito n. 47: Il disastro è sempre un’esperienza negativa. Realtà: Mentre è vero che la maggior parte della gente coinvolta in disastri soffre, in alcuni casi terribilmente, ci sono anche quelli che si approfittano (legittimamente o illegittimamente), ad esempio con la vendita di alloggi prefabbricati. La “finestra di opportunità” aperta dal disastro può essere usata in modo positivo per aumentare la resilienza contro gli eventi del futuro. Infine, 01Alexander 130:Layout 1 20-07-2011 9:40 Pagina 134 Sae l ute Territorio Protezione civile nei casi migliori, la ricostruzione può produrre un ambiente più sicuro e attraente di quello che esisteva prima del disastro. In sintesi, i luoghi comuni (ovvero i cosiddetti “miti”) del disastro sono numerosi, di larga diffusione e in alcuni casi fortemente condivisi. Sono entusiasticamente propagati dai mass media e, purtroppo, accettati da molti esponenti della protezione civile, come dimostra un’analisi approfondita pubblicata da 134 Bibliografia Alexander D.E. (2010), News reporting of the 12 January 2010 Haiti earthquake: the role of common misconceptions, Journal of Emergency Management, 8 (in corso di stampa). Arnold J.L. (2006), Disaster myths and Hurricane Katrina 2005: can public officials and the media learn to provide responsible crisis communication during disasters?, Prehospital and Disaster Medicine, 21 (1), pp. 1-4. Bahk C.M., Neuwirth K. (2000), Impact of movie depictions of volcanic disaster on risk perception and judgements, International Journal of Mass Emergencies and Disasters, 18, (1), pp. 63-84. Brilly M., Polic M. (2005), Public perception of flood risks, flood forecasting and mitigation, Natural Hazards and Earth System Science, 5 (3), pp. 345-55. Couch S.R. (2000), The cultural scene of disasters: conceptualizing the field of disasters and popular culture, International Journal of Mass Emergencies and Disasters, 18 (1), pp. 21-38. De Ville de Goyet C. (2004), Epidemics caused by dead bodies: a disaster myth that does not want to die, Pan American Journal of Public Health, 15, pp. 297-9. Fischer H.W. III (1994), Response to Disaster: Fact Versus Fiction and its Perpetuation: The Sociology of Disaster, University Press of America, Lanham, Maryland, USA. Floret N., Viel J.F., Mauny F., Hoen B., et al. (2006), Negligible risk for epidemics after geophysical disasters, Emerg. Infect. Diseases, 12 (4), pp. 543-8. N. 186 - 2011 Alexander (2007). Comunque, ci sono segni di progresso nello sconfiggere alcuni dei luoghi comuni più diffusi. Ad esempio, nel periodo immediatamente dopo il terremoto di Haiti (nel gennaio 2010), alcuni alti ufficiali sanitari di- chiaravano ripetutamente ai mass media che le salme non sepolte non danno luogo ad epidemie e, quasi per la prima volta, le notizie sono state registrate e riprodotte, per lo meno dalle emittenti più responsabili (Alexander, 2010). Grendstad G., Selle P. (2000), Cultural myths of human and physical nature: integrated or separated?, Risk Analysis, 20 (1), pp. 27-40. Kirschenbaum A. (2005), Preparing for the inevitable: environmental risk perceptions and disaster preparedness, International Journal of Mass Emergencies and Disasters, 23 (2), pp. 97-127. Larsson G., Enander A. (1997), Preparing for disaster: public attitudes and actions, Disaster Prevention and Management, 6 (1), pp. 11-21. Mitchell J.T., Thomas D.S.K., Hill A.A. et al. 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(2006), Metaphors matter: disaster myths, media frames, and their consequences in Hurricane Katrina, Annals of the American Academy of Political and Social Science, 604 (1), pp. 57-81. 02Panti 135:Layout 1 20-07-2011 9:41 Pagina 135 Sae l ute Storia ospedaliera Territorio 135 N. 186 - 2011 Antonio Panti Presidente Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Firenze Q uest’anno, nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, il fiorentino “Centro di documentazione per la Storia dell’assistenza e della sanità” pubblica per le Edizioni Polistampa una splendida riedizione del “Regolamento dei Regi Spedali di Santa Maria Nova e di Bonifazio”, che il commissario Marco Govoni Gerolami redasse nel 1783 per incarico di Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana. Vale la pena di leggere il testo settecentesco, non solo per la sua classica bellezza letteraria, ma perché rappresenta un momento alto della riflessione illuministica sulla trasformazione dei luoghi di ricovero in ospedali moderni, dotati di apparati di insegnamento pratico, già volti a coniugare appropriatezza delle cure e sostenibilità economica. Il Regolamento nasce da un impulso del Granduca stesso che, alla sua venuta in Toscana, come egli stesso scrive, notava come “gli Spedali erano tenuti in pochissima economia e pochissima cura; la maggior parte delle entrate si dissipava negli impiegati e famiglie loro, i malati erano mal tenuti e con poca pulizia. Nell’Ospedale di Firenze Santa Maria Nuova vi era pochissimo ordine e subordinazione La sanità toscana per l’Unità d’Italia … Qualunque astante impiegato si riteneva autorizzato a qualunque impertinenza tanto dentro che fuori all’Ospedale”. Pietro Leopoldo, uno dei massimi esponenti del dispotismo illuminato, decise di metter mano a questa situazione e di riorganizzare il sistema ospedaliero toscano, assegnando all’antico ospedale di Santa Maria Nuova, fondato nel 1283 da Folco Portinari, il ruolo di ospedale di cura e di insegnamento, separando i malati curabili dagli incurabili, dai dementi e dai malati cutanei (rognosi) e tutti quanti dai poveri e dai mendicanti. Il giudizio del Granduca sulla società toscana è piuttosto pesante. La nobiltà era “estremamente ignorante, non studiando né applicandosi, unicamente occupata dell’ozio, senza cultura né istruzione e generalmente poco in punto d’onore”. I preti erano “in numero eccessivo, al che contribuisce la quantità dei benefizi … Per la maggior parte preti ignorantissimi, portati all’interesse, di cattivi costumi, maldicenti per professione, sempre occupati per le case a riportare tutte le ciarle, dediti all’ozio, al gioco e di cattivo esempio ai secolari”. Riportiamo queste frasi, tratte dalla “Relazione sul governo di To- Una preziosa testimonianza settecentesca sulla trasformazione dell’ospedale in un moderno luogo di cura scana” di Pietro Leopoldo, dall’ampio e documentatissimo articolo di Marco Geddes da Filicaia che fa da ottima introduzione, insieme al contributo storico di Esther Diana, al testo del regolamento e che ci è servito da guida per valutarne l’importanza e la modernità. Il regolamento, che sviluppa e porta a compimento le idee contenute nella relazione di Pietro Cocchi, risalente alla metà del ’700, non solo consentì un rinnovamento della funzionalità e della gestione dell’ospedale fiorentino, ma servì da esempio ad altrettanti regolamenti ospedalieri, dentro e fuori d’Italia, che segnano la nascita dell’ospedale moderno sul piano organizzativo e gestionale. Il testo ripubblicato contiene anche le tavole allegate alla prima edizione. È di particolare interesse la prima che, sotto l’aspetto di una specie di albero genealogico, contiene la pianta organica dell’ospedale, con la definizione dei ruoli e dei rapporti gerarchici di tutto il personale, dal Commissa- rio granducale fino agli ultimi inservienti. Definire la collocazione gerarchica e funzionale del personale tutto, così come predisporre una serie di minuziose tabelle e registri che consentano di controllare in ogni momento i consumi e la spesa di tutto quanto si usa e consuma nell’ospedale, già mostra come alla razionalità illuministica non sfuggisse la necessità di monitorare costantemente la spesa sia sul piano analitico che complessivo perché, come fa notare il Cocchi nella sua precedente relazione, il Granduca non vuol aumentare i finanziamenti all’ospedale ma esige cure migliori e risultati più visibili. Lasciando agli storici della sanità una puntuale esegesi del regolamento, già presente nella citata introduzione di Marco Geddes, qui preme porre in evidenza alcune peculiarità che ne attestano la modernità. Nessuna pretesa di esaustività ma solo alcuni spunti, elencati in estrema sintesi, ma certamente significativi. Nell’epoca in cui 02Panti 135:Layout 1 20-07-2011 9:41 Pagina 136 Sae l ute Territorio Storia ospedaliera nasce la clinica e l’organizzazione ospedaliera dell’età moderna, si pongono infatti i problemi che ancora non sono del tutto risolti, spesso più esplosi sul piano quantitativo che su quello qualitativo. Nel regolamento leopoldino gli snodi che colpiscono chi si occupa di organizzazione sanitaria sono molti e spesso già brillantemente affrontati. Ne facciamo un breve elenco, senza alcun carattere di esaustività. Il primo punto è che il Regolamento è preciso nel creare un filtro per l’accesso all’ospedale. Il paziente prima di essere ammesso, che si presenti da solo o accompagnato da familiari, che abbia o no certificati di indigenza, deve essere visitato da un medico che definisce la patologia e che inizia a compilare una cartella clinica di cui il Regolamento fornisce il prototipo e che rappresenta un esempio preciso di diaria giornaliera. La cartella, che costituisce anche un diario clinico, deve essere obbligatoriamente firmata dal medico che ha in carico il paziente e, se del caso, contenere anche il riscontro autoptico. Ciò consente anche una primitiva raccolta di dati. Ugualmente deve essere scritta e quindi sottoposta a controllo la prescrizione, preparazione e somministrazione di farmaci prevedendo le singole responsabilità dei medici, degli infermieri e dei farmacisti. Infatti il regolamento suggerisce di “stabilire un solenne ed esatto riscontro delle ordinazioni avanti che i rimedi escano dall’officina e l’accrescere la circospezione nell’atto istesso della propinazione con l’aggiunta di persone più idonee”. Il Regolamento raccomanda la tempestività e l’accuratezza delle medicazioni per evitare l’aggravarsi delle infezioni. Vi è un “sovrintendente alle Infermerie” che rappresenta una anticipazione della direzione sanitaria. È interessante rilevare come la relazione del Cocchi proponesse un incremento dell’autorità dei medici e della loro partecipazione al governo dell’ospedale che, al contrario, il regolamento non riprende. Il Cocchi lamenta che “i medici non hanno mai avuto la minima autorità nell’ospedale, né si è mai dato esempio, per quando si sappia, che alcun superiore del luogo abbia mai interrogato alcun medico sul trattamento degli infermi”. La proposta del Cocchi non anticipa certamente il governo clinico ma pone con forza la necessità di una direzione sanitaria almeno in senso igienistico. Ma il Granduca, per quanto illuminato, non vuol rinunciare ad un impianto istituzionale rigorosamente gerarchico. Tuttavia il Granduca, che poco dopo abolirà la pena di morte in Toscana, ricorda a tutti e impone l’obbligo di ascoltare i pazienti, interrogarli su come sono stati trattati e di trattarli con civiltà, mitigando ogni eventuale atto coercitivo nei confronti dei dementi senza alcun disprezzo o violenza: “gnuno ardisca mai percuotere i dementi”, e ancora: “niuno Ministro, Professore, Giovane, Oblata e Serventi o altra persona addetta allo Spedale o estranea ardisca, per qualunque occasione e sotto qualunque pretesto, offendere, ram- 136 N. 186 - 2011 pognare le inferme, né dir loro parole disgustose o far burle di alcun sorta o obbligarle a servire altre malate, specialmente in cose laboriose, e molto meno permetterà che alcuno o alcuna che assista o serva allo Spedale percipa pagamento, mercede o regalo da qualsivoglia inferma o convalescente dello Spedale suddetto”. Problemi non del tutto risolti dopo due secoli. La questione dell’assistenza da parte delle Oblate, una sorta di ordine religioso fondato da Monna Tessa, servente del fondatore Folco Portinari, reca molti problemi non solo organizzativi e disciplinari ma anche economici (troppo numerose da mantenere per i servizi che danno) e politici per i rapporti con la Chiesa. Anche la razionalità del Cocchi o del Granduca si arresta o almeno accetta qualche compromesso. Tuttavia il tentativo del regolamento di inserire tutto il personale in un unico disegno gestionale è degno di nota e notevolmente anticipatore. Pochi anni dopo la pubblicazione del regolamento di Santa Maria Nuova, Vincenzo Chiarugi trasformerà l’assistenza dei dementi nell’Ospedale di Bonifazio, allineandosi alle idee del Pinel e di tutto il movimento illuminista francese. Anche questa pagina del settecento fiorentino è degna di nota e segna l’inizio di una lunga strada che porterà, due secoli dopo, alla legge Basaglia. Un momento della storia fiorentina in cui tolleranza e ragione seppero convivere e recare frutti di civiltà. Il Regolamento dedica ancora una pagina illuminante alla collegialità della visita, al controllo della dieta, così come consente con ragionevolezza a ciascuno “il culto della loro religione”. In conclusione, sia sul piano del rispetto dei singoli pazienti che della loro cura, per quel che allora era possibile, vi è uno sforzo significativo di razionalizzazione del sistema. La consapevolezza di questo sforzo è evidente in quella parte del regolamento di grande interesse e modernità relativa alla istruzione medica. Il Granduca, nella sua relazione, si era lamentato che nelle università di Pisa e di Siena vi fosse “gran lusso e numero di professori i quali non si danno la pena necessaria per l’istruzione della gioventù”. Da questa constatazione nasce l’idea di consentire l’esercizio della professione ai medici che si fossero abilitati dopo due anni di frequenza a Santa Maria Nuova, secondo un calendario di insegnamento teorico e pratico che ben si inserisce nel grande movimento di trasformazione della medicina in disciplina scientifica e che porta alla moderna università. Questi spunti, ed altri di uguale o maggiore importanza, rendono conto della rilevanza del regolamento toscano nell’evoluzione dell’assistenza ospedaliera. Ne parliamo in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia per ricordare come, ancor prima dell’atto sostanziale dell’unità nazionale, vi siano stati momenti alti di riflessione civile e politica che hanno contribuito a creare quel clima di ideali e di aspi- 02Panti 135:Layout 1 20-07-2011 9:41 Pagina 137 Sae l ute Storia ospedaliera Territorio 137 N. 186 - 2011 razioni da cui nasce un movimento unitario che non è soltanto politico ed istituzionale ma rappresenta il coagulo di impegni civili e sociali fioriti sul rinnovato sentire dei diritti di cittadinanza. Potremmo dire, con un salto di oltre un secolo, che il sistema sanitario nazionale porta a compimento quei principi di universalità e di uguaglianza che già allora erano presenti sia pur come elargizione del sovrano e non come conquista di liberi cittadini. La storia dell’ospedale come luogo di cura aperto a tutti, regolato a misura di pazienti e non più fondato sul contenimento o sull’esclusione, nasce allora e si affermerà len- tamente fino alla moderna grandiosa organizzazione. Se la storia non è maestra di vita ci dà almeno il senso delle nostre radici come direzione verso la quale volgere la concretizzazione dei valori civili. Ancora oggi Santa Maria Nuova, recentemente trasformato secondo i canoni della medicina moderna, dopo otto se- coli, rappresenta un luogo fondamentale per l’assistenza nella città di Firenze. Uno strumento modernissimo di assistenza ai cittadini inserito in strutture antiche di quasi otto secoli. La capacità di rinnovarsi all’interno della tradizione trova una delle sue radici più significative nel regolamento leopoldino. 03Belleri 138:Layout 1 20-07-2011 Sae l ute Territorio 138 Giuseppe Belleri MMG, ASL di Brescia, Animatore di formazione SIMG (Società italiana di medicina generale) I l progetto di governo clinico (da ora GC) dell’ASL di Brescia nasce ufficialmente alla fine del 2005 con una delibera aziendale, frutto della collaborazione con la SIMG (Società italiana di medicina generale, coordinatore Dott. Gerardo Medea) dopo la fase “pilota” del biennio precedente. Gli obiettivi generali dell’iniziativa erano così enunciati: promuovere la qualità dei servizi erogati dalle cure primarie per – migliorare l’efficacia, l’efficienza e l’appropriatezza degli interventi sanitari rivolti agli assistiti affetti da una o più patologie croniche; – verificare gli obiettivi raggiunti attraverso il monitoraggio di indicatori di processo ed esito, in un processo di audit clinico continuo. Se l’atto ufficiale di nascita del progetto si colloca alla metà del primo decennio del secolo le sue radici vanno rintracciate nella sperimentazione sul desease management del diabete, svoltasi negli ultimi anni del 900, e nella successiva elaborazione, diffusione ed implementazione dei PDTA del diabete ed ipertensione. Attorno al progetto si è aggre- 9:46 Pagina 138 Governo clinico N. 186 - 2011 La rete “Unire” gata in modo spontaneo e per certi versi non intenzionale una Comunità di pratica (CdP) dai caratteri misti, sia virtuale e a distanza, sia con momenti di interazione in presenza, che è cresciuta via via negli anni fino ad aggregare la maggioranza dei MMG dell’ASL provinciale di Brescia. Dalla comunità di pratica alla pratica di comunità Secondo la sociologa dell’organizzazione Silvia Gherardi dell’Università di Trento il costrutto teorico-pratico CdP ha subito una progressiva evoluzione concettuale caratterizzata da tre tappe: 1. Fase pedagogica: l’idea di CdP si differenzia “da una parte dalle teorie cognitive dell’apprendimento e dall’altra parte dalla concezione di apprendimento come apprendimento individuale. Pertanto con tale concetto si opera sia una differenziazione rispetto a dove ha luogo l’apprendimento (nella comunità e non nella testa) sia rispetto a chi apprende (la comunità come soggetto collettivo e non il singolo)”. La nozione di CdP sottolinea che il processo di apprendimento è allo stesso tempo sociale e cognitivo: “…una comunità di prati- Un’esperienza di comunità di pratica per il governo clinico delle patologie croniche in medicina generale ca è una condizione intrinseca per l’esistenza della conoscenza, se non altro perché fornisce il supporto interpretativo necessario per dar senso al suo patrimonio/retaggio” (Lave e Wenger, 1991, p. 98) e presuppone una stretta relazione tra conoscenza, tecnologia di pratica e la cultura di quella pratica (“La conoscenza è inerente alla crescita e trasformazione delle identità ed è situata nelle relazioni tra professionisti, la loro pratica, gli artefatti di quella pratica e l’organizzazione sociale, economica e politica delle comunità di pratica” (ibidem, p. 122). 2. Fase del knowledge management: sul finire del secolo scorso Wenger sviluppa un quadro analitico (Wenger, 2000) a fini manageriali centrato “su un concetto di CdP come meccanismo attraverso il quale la conoscenza è posseduta, trasferita e creata. Il processo di apprendimento ha luogo attraverso tre distin- ti “modi di appartenenza” – impegno, immaginazione e allineamento – ognuno dei quali contribuisce ad un aspetto distinto dell’evoluzione e coerenza sociale di una CoP”. Nella versione manageriale la CdP dovrebbe consentire ai manager di comprendere ed intervenire sui processi di knowledge management aziendale (Wenger e Snyder 2000). 3. Fase delle comunità online: dalla CdP alle pratiche di comunità. La diffusione delle nuove tecnologie informatiche costituisce il nuovo tessuto connettivo sociale della comunità che facilita sia l’interazione sincrona (slide e collegamenti video), che l’interazione asincrona (email, discussion boards, mailing lists, wikis e blogs) che l’accesso alle informazioni immagazzinate (file sharing, depositi di documenti etc…). In questo nuovo contesto interattivo si indeboliscono i legami sociali “de visu”, caratteri- 03Belleri 138:Layout 1 20-07-2011 9:46 Pagina 139 Sae l ute Governo clinico Territorio 139 N. 186 - 2011 stici delle comunità professionali stabili, e il baricentro della teoria e della ricerca si sposta dalla comunità alle pratiche, al sapere tacito e alla conoscenza condivisa, mentre la dimensione comunitaria resta sullo sfondo e riduce il suo impatto sull’evoluzione delle professioni. In sintesi secondo Silvia Gherardi “l’idea originale di CdP entro una letteratura prevalentemente antropologica/ educazionale sottolineava la dimensione sociale e situata dell’apprendimento, la sua traduzione entro gli studi manageriali ne ha spostato l’accento verso la problematica dell’individuare e gestire/ coltivare la dimensione di comunità ed infine la sua traduzione nel contesto delle comunità on-line mette l’accento sulle competenze sociali necessarie a gestire una dimensione interattiva mediata dalla tecnologia…”. Il passaggio da comunità di pratica a “pratiche di una comunità […] esprime un cambiamento di prospettiva e di epistemologia. Infatti l’accento sulla comunità presuppone che essa sia la fonte dell’azione e della conoscenza (priorità ontologica del soggetto che preesiste all’azione), mentre l’accento sulle pratiche guarda al divenire del soggetto come effetto delle connessioni in azione tra il mondo materiale, la conoscenza e gli attori presenti secondo un principio di simmetria”. Comunità di pratica, governo clinico e rete “Unire” Il progetto di GC dell’ASL di Brescia si colloca nel solco di questa evoluzione teoricoesperienziale in cui la pratica prevale sul ruolo svolto dalla comunità nel cementare le relazioni, l’identità e le azioni collettive, anche per il carattere prevalentemente virtuale, a distanza e distribuito della CdP che si è aggregata attorno progetto di GC. Si può analizzare l’esperienza di governance della rete “Unire” utilizzando la mappa interpretativa degli elementi strutturali delle CdP indicati da Wenger, vale a dire capo tematico, comunità e pratica. In modo forse un po’ schematico questo è il profilo che ne emerge: 1. Campo tematico. Il focus della proposta di GC è centrato sulla valutazione, retrospettiva ed in itinere, della qualità delle cure prestate ai pazienti affetti dalle due principali patologie croniche, vale a dire ipertensione e diabete. La metodologia adottata è quella dell’audit sulle cartelle cliniche informatizzate mentre gli indicatori epidemiologici, di processo ed esito clinico sono stati desunti dai PDTA diffusi negli anni precedenti all’avvio del progetto. I contenuti culturali dei PDTA e l’audit sugli indicatori (valutazione della qualità dell’assistenza rispetto a standard di riferimento) costituiscono l’impegno reciproco e il terreno comune che fa da tessuto connettivo alla comunità coagulatasi attorno al progetto. 2. Comunità. I MMG aderenti al GC hanno contestualmente aderito ad una comunità virtuale on-line co- stituita “ad hoc” per supportare il progetto dal punto di vista comunicativo. La lista di discussione rete UNIRE, gestita dal server Yahoo e collegata anche ad uno spazio web di raccolta del materiale prodotto, oltre a diffondere agli iscritti informazioni, interrogazioni informatiche SQL, documenti e istruzioni sulla gestione dei processi informatici, promuove la discussione e il confronto tra i MMG aderenti su temi clinici, professionali e sindacali. L’arruolamento dei medici nel progetto è avvenuto nella fase di formazione sul campo, a piccoli gruppi distrettuali, in cui i partecipanti si sono confrontati sulla gestione dei PDTA ed hanno acquisito le procedure informatiche necessarie all’allineamento degli archivi. 3. Pratica. Il principale strumento per portare a termine il processo di audit/governance è il programma informatico di gestione della cartella clinica MilleWin della DataMat di Firenze. Va sottolineato che il programma incorpora in sé i presupposti professionali e “tecnici” per la valutazione di qualità, in quanto frutto ventennale dei continui miglioramenti introdotti dalla CdP dei medici di MG aderenti al progetto culturale della SIMG. I corsi di formazione periferici sull’uso del programma ai fini del GC sono stati l’occasione per fare emergere, esplicitare e socializzare – secondo il modello di knowledge management elaborato da Nonaka – la conoscenza tacita e il sapere pratico elaborato dai medici nella propria attività professionale quotidiana. Va sottolineato che l’adesione al GC non ha comportato un impegno supplementare dei MMG, rispetto alla normale gestione della cartella informatizzata, se non l’adozione di codifiche comuni e di alcune procedure informatiche, senza le quali non sarebbe possibile ottenere dati omogenei e confrontabili. In questo senso la fase preliminare di formazione e arruolamento dei medici, finalizzata all’allineamento degli archivi si è rivelata fondamentale per assicurare l’omegeneità e la qualità sia delle estrazioni informatiche che, di riflesso, dei report individuali e di gruppo. Governo clinico e rete “Unire” Dal punto di vista pratico l’adesione al progetto di GC è subordinata ad alcuni requisiti formali: – Utilizzo della cartella informatizzata (MilleWin o altro software che consenta interrogazioni informatiche in SQL). – Adesione ai PDTA dell’ASL (diabete, ipertensione e rischio CV) e al SISS (Sistema informativo socio sanitario della Regione Lombardia). – La connessione ad internet e l’iscrizione alla lista di discussione provinciale “Rete Unire”, gestita dalla sezione provinciale SIMG e aperta a tutti i MMG. 03Belleri 138:Layout 1 20-07-2011 9:46 Pagina 140 Sae l ute Territorio Governo clinico Il processo ciclico di audit/GC si regge su due indispensabili presupposti informativi: – Generazione delle informazioni cliniche durante l’attività ambulatoriale e domiciliare (eventi, diagnosi, prescrizioni, accertamenti diagnostici, parametri clinici etc.) in sintonia con le modalità di gestione delle patologie croniche previste dai PDTA. – Codifica e registrazione informatica condivisa delle diagnosi (codici ICD9) e degli indicatori di processo ed esito relativi agli assisti “in percorso”, anche con la collaborazione del personale di studio. Nella rete Unire il processo di valutazione di qualità prevede un ciclo di tipo cibernetico in quattro tappe con periodicità semestrale. 1. Nella prima tappa, al singolo medico di medicina generale viene richiesto di gestire i pazienti aderendo alle indicazioni dei PDTA elaborati e condivisi con gli altri attori della rete assistenziale (specialisti ospedalieri e territoriali). 2. La seconda tappa prevede la distribuzione di una query (interrogazione informatica in linguaggio SQL diffusa attraverso la lista di discussione collegata al progetto) che permette al medico di estrarre dal proprio archivio i dati relativi al monitoraggio delle condizioni di salute e del rischio di malattia dei propri assisti. Il medico, sempre tramite posta elettronica, invia al centro di elaborazione semestralmente o con altra periodi- cità, in forma anonima e criptata, il file contenente i dati raccolti. 3. Dopo alcune settimane il centro di elaborazione restituisce i dati a ogni medico in forma di report collettivo e personalizzato. A questo punto ogni partecipante al progetto di governo clinico è nelle condizioni di auto-valutare le proprie performance in rapporto agli indicatori di qualità e agli standard di processo o esito previsti dal PDT. 4. Nella quarta e ultima tappa possono presentarsi due eventualità. Se il medico verifica carenze rispetto agli standard prefissati, può porvi rimedio introducendo gli opportuni correttivi di carattere clinico e/o organizzativo per migliorare la propria qualità professionale. Se invece gli obiettivi previsti dal governo clinico sono stati raggiunti, il medico dovrà semplicemente mantenere gli standard di buona pratica clinica raggiunti. In entrambi casi con la successiva estrazione semestrale il medico avrà l’opportunità di monitorare l’andamento del proprio lavoro. Il progetto, iniziato con un gruppo pilota di 25 MMG nel 2005, ha portato al progressivo arruolamento nel processo di governance di oltre la metà dei medici in attività nel 2009 (su circa 700 generalisti in attività). Con un investimento in formazione pratica sul campo e un piccolo incentivo economico deliberato dalla ASL provinciale (pari a un euro/anno a paziente per 140 N. 186 - 2011 Road map formativa per l’attivazione e diffusione del governo clinico: durata 8-12 mesi Fase 1 (durata 3-4 mesi): formazione. Formazione pratica in piccoli gruppi (due serate dedicate alla dimostrazione delle procedure informatiche) per uniformare le modalità di inserimento dei dati, la codifica di informazioni e l’allineamento degli archivi tra tutti i partecipanti. Senza questa fase è impossibile garantire l’omogeneità della codifica e della registrazione delle informazioni. Fase 2 (durata 4-6 mesi): allineamento archivi. Dopo la fase formativa il MMG durante la normale attività assistenziale inizia l’inserimento progressivo dei dati di processo e di esito relativi al monitoraggio dei pazienti cronici, come previsto dai relativi PDTA locali, precedentemente implementati. In questa fase si realizza il fondamentale allineamento degli archivi rispetto alle codifiche stabilite dal gruppo di coordinamento, senza il quale le informazioni estratte successivamente non sarebbero affidabili e confrontabili tra i partecipanti al governo clinico. Fase 3 (durata 2-3 mesi): prima estrazione e ritorno informativo. Invio della prima query informatica per la prima estrazione dei dati e successiva restituzione degli stessi. Il relativo report (di gruppo e individuale) costituisce il primo feed-back informativo che offre ai partecipanti l’occasione di effettuare il cosiddetto benchmarking interno ed esterno al gruppo. Consiste in un confronto sistematico tra le proprie performance con quelle del gruppo di pari, gli standard predefiniti e, nelle fasi successive, con le performance precedenti del singolo professionista. l’invio di otto report a cadenza trimestrale, nel corso del 2007) la rete Unire è diventata in pochi anni una realtà consolidata in tutta la provincia, dopo una fase di intensa formazione pratica sul campo in piccoli gruppi a livello distrettuale (box). Il salto di qualità metodologico e pratico rispetto agli obsoleti report farmacoeconomici è risultato evidente a tutti i partecipanti: a differenza dei report ASL a preminente contenuto economico, quelli di governo clinico consentono di correlare i dati epidemiologici (prevalenza di patologie croniche), gli indicatori di processo (parametri bioumorali e clinici), i consumi farmaceutici e gli indicatori di esito (eventi cardiovascolari, ricoveri, eccetera). Grazie ai numerosi indicatori contenuti dei report indivi- duali e di gruppo il medico di medicina generale può governare la qualità del proprio lavoro e aggiustare di volta in volta la rotta, in funzione delle informazioni raccolte. I dati relativi al contesto organizzativo ed epidemiologico sono i seguenti: – ASL provinciale di BS: 915000 abitanti. – MMG in attività: 706. – Medici iscritti alla ML Unire: 450 circa. – Inizio invio dati: marzo 2005. – Ritorni informativi trasmessi: 2 report a trimestre nel 2006 e nel 2007, 3 annui nel 2008, 2009 nel 2010. – Tipologia dei ritorni informativi: report su diabete, ipertensione, scompenso cardiaco, RCCV, fibrillazione atriale e BPCO (vedi Tabelle 1-2). 03Belleri 138:Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 9:46 Pagina 141 Sae l ute Governo clinico Territorio 141 Tab. 1. Dati cumulativi della trasmissione dicembre 2010 su ipertensione arteriosa da parte dei 406 MMG partecipanti * Pazienti ipertesi e/o diabetici e/o con IRC (creatinemia: ♀ > 1,3, ♂ > 1,5) e/o con microalbuminuria >300 mg/die. ** Pazienti ipertesi con registrazione di almeno una colesterolemia totale e HDL, trigliceridimia, creatininemia, potassiemia, glicemia, es. urine, ECG nei tre anni precedenti. *** Trasmissione solo per MMG che utilizzano query unica. Il trend di adesioni al GC è passato in pochi anni da poche decine ad oltre la metà dei medici operanti nella provincia di Brescia: 2005 - Report gennaio 2006 su ipertensione e diabete: 25 MMG, 35578 assistiti. 2006 - Report gennaio 2007 su ipertensione e diabete: 73 MMG, 109145 assistiti. 2007 - Report gennaio 2008 su ipertensione e diabete: 296 MMG, 423413 assistiti. 2008 - Report gennaio 2009 su ipertensione, RCCV e diabete: 372 MMG, 562890 assistiti. 2009 - Report gennaio 2010 su ipertensione, RCCV, scompenso cardiaco, fibrillazione atriale, BPCO e diabete: 399 MMG, 599.974 assistiti pari al 59,9% della popolazione dell’ASL. Nel corso del 2010 sono state promosse iniziative di formazione e di ricerca collaterali al governo clinico, vale a dire: – ciclo di incontri dei Gruppi di miglioramento sull’area cardiovascolare (dal 2° trimestre): report su stili di vita, RCCV, ipertensione e diabete; – ciclo di incontri dei Gruppi di miglioramento sulla gestione della BPCO (dal 2° semestre): report su BPCO; – formazione sul campo autogestita dai MMG sullo scompenso cardiaco, accreditata dalla Regione Lombardia, sull’applicazione del PDTA dello scompenso che ha coinvolto quasi 300 medici suddivisi in 26 gruppi locali (5 incontri serali nell’arco dell’anno, con 20 crediti ECM); – una prima valutazione dell’impatto del governo 03Belleri 138:Layout 1 20-07-2011 Sae l ute Territorio 142 9:46 Pagina 142 Governo clinico Tab. 2. Dati cumulativi della trasmissione diabete da parte dei 414 MMG partecipanti. * Solo per MMG che utilizzano query unica. N. 186 - 2011 clinico sulla spesa sanitaria per le malattie croniche (prescrizioni di farmaci, accertamenti ecc.). I dati raccolti nell’arco del quinquennio 2006-2010 hanno documentato un progressivo miglioramento di tutti gli indicatori epidemiologici, di processo ed esito compresi nei report, dimostrato l’efficacia del progetto a livello individuale, di gruppo e di sanità pubblica (http://spazioinwind.libero.it/reteunire/, www.aslbrescia.it). Sono in corso le elaborazioni statistiche per valutare l’impatto del GC sugli esiti di salute, desunti dal confronto tra il gruppo di aderenti al GC e i medici che non hanno partecipato al sistema di valutazione della qualità. Purtroppo il mancato rinnovo dell’accordo sindacale che prevedeva incentivi economici per gli aderenti al progetto ha pregiudicato la continuità dei report, che da trimestrali sono divenuti, dal 2008, annuali. Ciononostante è comunque cresciuto il numero di partecipanti al GC, che alla fine del 2009 ha superato il 50% della popolazione medica della provincia. Nel 2010 è stata introdotta la cosiddetta query unica, invece delle interrogazioni informatiche per ogni singola patologia, e l’invio dei dati tramite il portale ASL. Queste innovazioni hanno semplificato le procedure informatiche e favorito ulteriormente la partecipazione di colleghi poco esperti in informatica, arricchendo nel contempo i report di ulteriori indicatori (scompenso cardiaco, fibrillazione atriale e BPCO) e correlazioni statistiche. 03Belleri 138:Layout 1 20-07-2011 9:46 Pagina 143 N. 186 - 2011 Bibliografia Aa.Vv. (2009), Promuovere e sviluppare Comunità di Pratica e di Apprendimento nelle Organizzazioni Sanitarie - Nuove prospettive per la Formazione Continua in Sanità, Atti del Convegno di Torino, 29-30 ottobre 2009. Alessandrini G. (2007), Comunità di pratica e società della conoscenza, Carocci, Roma. 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Una potente motivazione alla ristrutturazione dei sistemi sanitari va ricercata nella necessità di far fronte ai costi derivanti dai crescenti consumi, alimentati dall’estensione del diritto di accesso ai servizi, dall’invecchiamento della popolazione e dall’introduzione di nuove bio-tecnologie. L’esigenza di contenere i costi, eliminando le spese inappropriate o inutili e dando più efficienza al sistema, si accompagnò ad un altro tipo di spinta, di ordine politico/ideologico: la tendenza alla privatizzazione e all’introduzione del mercato, secondo le linee di politica neo-liberista già segnalata in precedenza. La coincidenza cronologica dei due tipi di pressione (“più efficienza” e “più mercato”) ebbe l’effetto di dare più forza e giustificazione al secondo, attraverso il seguente ragionamento: solo applicando le regole del mercato, iniettando cioè potenti dosi di competizione e privatizzazione, il sistema può diventare efficiente. 9:47 Pagina 145 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 145 I modelli organizzativi territoriali Gli effetti di questa onda d’urto sui sistemi sanitari delle circa 200 nazioni del mondo sono stati differenti, asimmetrici. Il mercato della salute, con i suoi corollari (privatizzazioni, sviluppo delle assicurazioni commerciali, profonde diseguaglianze nella salute e nell’accesso ai servizi sanitari) è dilagato, interessando i paesi più popolosi del pianeta – dalla Cina all’India – e devastando i sistemi sanitari dei paesi più poveri, particolarmente quelli dell’Africa sub-Sahariana. Negli anni ’90 cure primarie e medici di famiglia vengono messi sotto pressione; essi devono rappresentare il filtro, meglio ancora la diga, verso l’accesso alle più costose cure secondarie (gatekeeping). La valutazione delle cure primarie e dei medici di famiglia avviene quasi unicamente su indicatori di spesa e di efficienza. In questo stesso periodo, negli USA la spinta sul contenimento dei costi assume aspetti particolarmente inquietanti: alcune HMOs (for-profit) arrivano a minacciare il licenziamento di quei medici di famiglia che non riescono a limitare l’uso dei servizi dei propri assistiti (Kassirer, 1995). Cure primarie e trasformazioni dei sistemi sanitari Nuovo Millennio, nuovo approccio alle cure primarie Dal 2000 le politiche nei confronti delle cure primarie in generale e della medicina di famiglia in particolare cambiano decisamente segno, anche a seguito di analisi e di valutazioni della realtà che non si limitano, come negli anni ’90, agli aspetti contabili e di efficienza. Si scrutano gli scenari futuri (nelle diverse prospettive: epidemiologica, demografica, socio-antropologica) e si scopre che il modello tradizionale di assistenza sanitaria – bio-medico, paternalista, basato sull’attesa e focalizzato sull’assistenza alle patologie acute – è sempre meno in grado di affrontare con successo le sfide di una realtà in rapido cambiamento. “Lo ‘status quo’ non è più sostenibile. Se vogliamo soddisfare i bisogni di salute dei nostri pazienti negli anni a venire, dobbiamo produrre un cambiamento radicale nella qualità, nell’organizzazione, nell’erogazione dei nostri servizi”, con queste parole si apre un recente documento dei medici di famiglia britan- nici intitolato The Future Direction of General Practice (Royal College of General Practitioners, 2007). Toni simili sono stati usati in un analogo e contemporaneo documento dei medici di famiglia italiani: “Non è più procrastinabile un cambiamento sostanziale della nostra realtà professionale. Per ottenerlo dobbiamo investire tutte le nostre energie” (Federazione italiana medici di famiglia, 2007). Morrison e Smith, in un editoriale del “British Medical Journal” del 2000, definirono la difficile situazione della medicina di famiglia: hamster health care, l’assistenza sanitaria del criceto. “In tutto il mondo i medici sono infelici perché si sentono come criceti all’interno di una ruota. Devono correre sempre più veloci per rimanere fermi. Ma sistemi che dipendono da persone che devono correre sempre più velocemente non sono sostenibili. La risposta è che questi sistemi devono essere ridisegnati perché il risultato di una ruota che gira sempre più veloce non è solo la perdita della qualità delle 04Maciocco 144(145):Layout 1 20-07-2011 Sae l ute Territorio 146 cure, ma anche la riduzione della soddisfazione professionale e un aumento del burnout tra i medici” (Morrison, 2000). Nel novembre 2008, la rivista “The New England Journal of Medicine”, ha pubblicato una serie di articoli e poi ospitato una tavola rotonda sulle prospettive delle cure primarie: Perspective roundtable: Redesigning Primary Care (Lee, 2008). Lo spunto: la crisi delle cure primarie negli USA, le difficoltà di risposta ad un numero crescente di pazienti cronici, in tempi sempre più stretti, e con compensi inferiori agli specialisti. Al capezzale delle cure primarie i principali analisti americani dei sistemi sanitari, da Barbara Starfield della Johns Hopkins University di Baltimora a Thomas Bodenheimer della University of California, San Francisco, che lanciano questo preciso messaggio: bisogna avere il coraggio di reinventare le cure primarie. “Nuove” cure primarie connotate da due principali caratteristiche: a) essere centrate sui pazienti e b) basate su team multidisciplinari. Il concetto di patient-centered primary care è diventato da tempo la fondamentale linea d’indirizzo per l’innovazione e il miglioramento della qualità dell’assistenza sanitaria (Davis, 2005). Un concetto che include i seguenti attributi: – facilità di accesso alle cure (tempestività della risposta, facilità di comunicazione con i professionisti, via telefono o e-mail, ecc.); – coinvolgimento del paziente nelle scelte e nella ge- 9:47 Pagina 146 La gestione della continuità N. 186 - 2011 stione delle cure (supporto all’auto-cura, counselling, facilità di accesso ai propri dati personali, ecc.); – pro-attività degli interventi (utilizzazione di registri di patologia, sistemi di programmazione delle visite e di allerta dei pazienti che facilitano il follow-up, ecc.); – coordinamento delle cure (tra i diversi professionisti) e la continuità dell’assistenza (tra differenti livelli organizzativi, es, tra ospedale e territorio). I fattori che premono verso il cambiamento – rendendolo “non più procrastinabile” – sono molteplici. Ne elenchiamo qui i tre più importanti. b) coinvolgere i pazienti nei processi assistenziali attraverso il più ampio accesso alle informazioni, il counselling e il supporto all’autocura; c) allestire sistemi informativi – accessibili anche ai pazienti – in grado di documentare i risultati (e la qualità) degli interventi sanitari; d) organizzare sistemi di follow-up e reminding che agevolino il controllo dei processi di cura, in particolare nel campo delle malattie croniche; e) garantire il coordinamento delle cure (tra i diversi professionisti) e la continuità dell’assistenza (tra differenti livelli organizzativi, es, tra ospedale e territorio). Nel 2006 l’American College of Physicians pubblica un fondamentale documento di indirizzo sulla riqualificazione delle cure primarie negli USA, intitolato: The Advanced Medical Home: A Patient-Centered, Physician-Guided Model of Health Care (http://www.acponline. org/hpp/statehc06_5.pdf). 1. Il ruolo dei pazienti. “L’opinione del medico non è più vista dai pazienti come sacrosanta”. Questa fulminante constatazione, tratta dal sopra-citato documento dei medici di famiglia britannici, pare racchiudere vari ed opposti sentimenti: sorpresa, sgomento, meraviglia, smarrimento, desiderio di rinnovamento, nostalgia del passato. La presa d’atto, forse tardiva, di una situazione che vede gli assistiti – in misura sempre maggiore – non solo reclamare i classici (ma spesso ancora trascurati) elementi di supporto alla cura quali il rispetto della dignità, della riservatezza, del consenso, dell’autonomia, ma anche esigere, e quindi ricercare attivamente, l’accesso diretto alle informazioni per acquisire le conoscenze, e talora le abilità, necessarie per essere partner attivi nel processo assistenziale e per partecipa- re alle decisioni che riguardano la loro salute. Nel 1998 si tenne a Salisburgo un seminario di 5 giorni a cui parteciparono 64 rappresentanti di 29 paesi, appartenenti a varie categorie: operatori sanitari, ricercatori, rappresentanti di gruppi di pazienti, giornalisti, giuristi, artisti. Il tema dell’incontro era il rapporto tra pazienti e terapeuti nell’assistenza sanitaria; le conclusioni furono sintetizzate nella linea-guida: Nothing about me without me (“Niente che riguardi me senza di me”) (Delbanco, 2001). Il seminario di Salisburgo è considerato il punto di partenza di un vasto movimento finalizzato a promuovere una più larga e decisiva presenza dei pazienti nei processi assistenziali che li riguardano, soprattutto attraverso lo strumento dell’informazione. Motori dell’iniziativa sono stati l’Harvard Medical School (http://cme.hms. harvard.edu) e altre istituzioni di ricerca e advocacy americane come The Commonwealth Fund (http://www. commonwealthfund.org) e The Institute of Medicine (http://www.iom.edu/). Nel 2005 viene pubblicato un importante contributo del Commonwealth Fund che specifica il ruolo delle cure primarie nel promuovere un’assistenza sanitaria centrata sul paziente (Davis, 2005). Cure primarie coerenti con questa impostazione devono: a) offrire agli assistiti le massime facilitazioni nell’accesso ai servizi, utilizzando ampiamente strumenti come telefono, email e internet nelle relazioni tra pazienti e professionisti; 2. Le diseguaglianze nella salute. Le iniquità sociali nella salute sono in costante crescita e spiegano una parte sostanziale del totale carico di malattia anche nei paesi dell’Europa occidentale, tutti dotati di robusti sistemi pubblici di welfare (Mackenbach, 2003). In Svezia circa un terzo del carico totale di malattia è il risultato delle iniquità socioeconomiche in salute. In entrambi i sessi, gran parte del carico differenziale di malattia ricade sui lavoratori non qualificati. La cardiopatia ischemica è la patologia che maggiormente differenzia la mortalità tra i gruppi 04Maciocco 144(145):Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 meno e più avvantaggiati della società. Conseguentemente gli sforzi per ridurre le iniquità nella salute dovrebbero essere viste come un’importante strategia per migliorare lo stato generale medio della popolazione. In molti paesi sta diventando chiaro che miglioramenti nella salute della popolazione generale non possono essere raggiunti senza sforzi aggiuntivi per ridurre le iniquità sociali nella salute all’interno del paese (Whitehead, 2006). 3. Le malattie croniche. Sebbene i tassi di mortalità per malattie croniche stiano diminuendo, la prevalenza di queste patologie è in netta crescita. Una crescita alimentata dall’effetto congiunto di due fenomeni: a) l’invecchiamento della popolazione (l’approssimarsi all’età della pensione della generazione del baby-boom accentuerà nei prossimi decenni tale processo); b) la crescente esposizione a fattori di rischio di carattere ambientale e sociale. Il dato sull’obesità è certamente quello più eclatante per la rapidità con cui tale condizione si sta diffondendo in tutto il mondo, in particolare tra la popolazione americana, e per le drammatiche conseguenze in termini di comorbilità (Doshi, 2007) e di effetti sulla longevità; essa infatti potrebbe registrare in USA, per la prima volta negli ultimi due secoli, l’interruzione della sua costante crescita (Olshansky, 2005). Nel 2005 l’OMS pubblica un ampio rapporto dal titolo Preventing chronic diseases. A vital investment (WHO, 2005). 9:47 Pagina 147 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 147 L’anno seguente esce la versione in lingua italiana, a cura del Ministero della salute, nella cui prefazione si legge il seguente passo: “Negli ultimi anni l’aumento del numero dei malati cronici sta creando un’emergenza per i sistemi sanitari: cardiopatie, cancro, diabete, disturbi mentali, malattie respiratorie, dell’apparato digerente e del sistema osteoarticolare sono ormai tra le cause più diffuse di sofferenza e morte. E non è un ‘problema dei ricchi’: negli ultimi vent’anni le malattie croniche si sono diffuse anche nei paesi più poveri e oggi sono responsabili dell’86% dei decessi in tutta Europa. I principali fattori di rischio sono l’ipertensione arteriosa, il fumo, l’obesità e il sovrappeso, l’alcol, il colesterolo e la glicemia elevati, la sedentarietà. Si tratta di fattori modificabili grazie a interventi sull’ambiente sociale, come è stato fatto recentemente in Italia con il divieto di fumo nei locali pubblici, e grazie a trattamenti medici, come i farmaci antipertensivi. D’altra parte, in Italia abbiamo un sistema di cure che funziona come un radar a cui il paziente appare per essere curato e scompare alla vista una volta guarito. Perfetto per le malattie acute, ma non per le patologie croniche, per le quali serve invece un modello di assistenza diverso: occorre evitare non solo che le persone si ammalino, ma anche che chi è già malato vada incontro a ricadute, aggravamenti e disabilità. Un sistema, insomma, adatto a malattie che non guariscono e che devono essere seguite nel territorio, adeguatamente attrezzato”. Le strategie per affrontare adeguatamente le malattie croniche sono ben diverse da quelle attuate per le malattie acute: richiedono un diverso ruolo delle cure primarie basa- to sulla medicina d’iniziativa e un’attenzione del tutto particolare nei confronti dei determinanti sociali della salute. Il cambiamento di paradigma Il paradigma dell’attesa è quello tipico delle malattie acute: attesa di un evento su cui intervenire, su cui mobilitarsi per risolvere il problema. Applicare alle malattie croniche il paradigma assistenziale delle malattie acute provoca danni incalcolabili. Ciò significa che il “sistema” si mobilita davvero solo quando il paziente cronico si aggrava, si scompensa, diventa “finalmente” un paziente acuto. Ciò significa rinunciare non solo alla prevenzione, alla rimozione dei fattori di rischio, ma anche al trattamento adeguato della malattia cronica di base. L’attesa è il paradigma classico del modello bio-medico di sanità, quello su cui da sempre si fonda la formazione universitaria, e non deve stupire che sia il paradigma dominante anche nell’ambito della sanità distrettuale. Il paradigma dell’iniziativa è quello che meglio si adatta alla gestione delle malattie croniche, perchè i suoi attributi sono: a) la valutazione dei bisogni della comunità e l’attenzione ai determinanti della salute (anche quelli cosiddetti “distali”, ovvero quelli socio-economici, che sono alla base delle crescenti diseguaglianze nella salute, anche sul versante dell’utilizzazione e qualità dei servizi, nei portatori di malattie croniche); b) la propensione agli interventi di prevenzione, all’utilizzo di sistemi informativi e alla costruzione di database, alle attività programmate e agli interventi proattivi (es.: costruzione di registri di patologia, stratificazione del rischio, richiamo programmato dei pazienti, ecc.); c) il coinvolgimento e la motivazione degli utenti, l’attività di counselling individuale e di gruppo, l’interazione con le risorse della comunità (associazioni di volontariato, gruppi di autoaiuto, ecc.). La sanità d’iniziativa, con le caratteristiche sopra descritte, è quella che meglio si adatta alla gestione della sanità distrettuale in generale e delle malattie croniche in particolare (comprese le malattie mentali e l’assistenza ai soggetti tossicodipendenti), dove l’assistenza è per la gran parte “estensiva” e caratterizzata dalla presa in carico a lungo termine, dove il valore aggiunto dei processi di cura è rappresentato dalla capacità di presidiare la continuità delle cure e dalla qualità delle relazioni che si stabiliscono tra servizio e utenti, tra terapeuta e paziente. Community-oriented primary care Un gruppo di ricercatori canadesi ha proposto una versione allargata (“expanded”) del chronic care model, dove gli aspetti clinici sono integrati da quelli di sanità pubblica, quali la prevenzione primaria collettiva e l’attenzione ai determinanti della salute (Barr, 2003). La proposta di iniettare 04Maciocco 144(145):Layout 1 22-07-2011 Sae l ute Territorio 148 all’interno delle cure primarie metodi e contenuti della sanità pubblica la ritroviamo in un recente documento dell’OMS, intitolato: Primary health care as a strategy for achieving equitable care (Le cure primarie come strategia per raggiungere un’assistenza equa) (De Maeseneer, 2007). Le cure primarie che si propongono questo scopo sono definite da De Maeseneer community oriented e sono caratterizzate da: – la sistematica valutazione dei bisogni sanitari della popolazione; – l’identificazione dei bisogni di salute della comunità; – l’implementazione di interventi sistematici, con il coinvolgimento di specifici gruppi di popolazione (es.: rivolti al cambiamento degli stili di vita o al miglioramento delle condizioni di vita); – il monitoraggio dell’impatto di tali interventi, per verificare i risultati raggiunti in termini di salute della popolazione. Il compito di definire le priorità e di stabilire la pianificazione strategica deve essere assunto da un team misto di operatori delle cure primarie e di rappresentanti 11:25 Pagina 148 La gestione della continuità N. 186 - 2011 della comunità. La Community-oriented primary care (COPC) in questo senso integra l’approccio verso l’individuo con quello verso la popolazione, combinando le abilità cliniche del medico di famiglia con l’epidemiologia, la medicina preventiva e la promozione della salute. valutando regolarmente i risultati e i problemi. 3. Infrastrutture fisiche e informatiche per consentire il lavoro associato dei team multi-professionali secondo il metodo della sanità d’iniziativa. La Casa della salute può essere un modello, ma qualsiasi struttura (pubblica o privata) in grado di ospitare un consistente gruppo di professionisti, e di essere un valido punto di riferimento per la popolazione, è benvenuta. 4. La disponibilità di cure intermedie all’interno della rete dei servizi della SdS (o Z/D). Si tratta di posti letto ad alta intensità assistenziale infermieristica/riabilitativa in grado di garantire la continuità assistenziale nei pazienti dimessi dall’ospedale (in condizioni di stabilità clinica, ma non ancora in grado di tornare al proprio domicilio per motivi sociali o sanitari) o non in grado di rimanere al proprio domicilio a causa di una malattia intercorrente che tuttavia non richiede un ricovero ospedaliero. Si tratta di posti letto da individuare in Case della salute, in ospedali di comunità o in RSA. Conclusioni Le due diverse, complementari, visioni che abbiamo ora descritto ci consegnano un modello di cure primarie radicalmente diverso dalla rappresentazione corrente e sorprendentemente vicino al profilo della Primary Health Care di Alma Ata. Un modello in cui i concetti di patient-centered e communityoriented sono le due facce di una stessa medaglia. Da una parte plasmare i servizi in funzione dei bisogni e dell’empowerment dei pazienti (accessibilità, informazione, proattività, self-care) e dall’altra presidiare l’approccio comunitario e di sanità pubblica (valutazione dei bisogni della comunità, partecipazione dei cittadini, lotta alle diseguaglianze nella salute, interventi di prevenzione primaria). Un modello che richiede tempo per realizzarsi compiuta- mente ma nella cui roadmap di avvicinamento trovano posto le seguenti condizioni: 1. Team multi-professionali (medici di famiglia, infermieri, altre professioni sanitarie e sociali) in grado di prendersi carico di gruppi di popolazione (minimo 10 mila abitanti) e di garantire loro una continuità assistenziale integrata; ciò comporta una diversa organizzazione della medicina generale, basata su modelli che privilegiano l’attività di gruppo (come le “aggregazioni funzionali territoriali” e le “unità complesse di cure primarie”). 2. Il supporto all’auto-cura. La gestione delle malattie croniche può essere insegnata alla maggior parte dei pazienti e un rilevante segmento di questa gestione – la dieta, l’esercizio fisico, il monitoraggio (della pressione, del glucosio, del peso corporeo, ecc.), l’uso dei farmaci – può essere trasferito sotto il loro diretto controllo. Il supporto all’auto-cura significa aiutare i pazienti e le loro famiglie ad acquisire abilità e fiducia nella gestione della malattia, procurando gli strumenti necessari e Bibliografia called PeoplePower: nothing about me without me, Health Expectations, 4, pp. 144-50. Barr U.J., Robinson S., Marin-Link, Underhill L. (2003), The Expanded Chronic Care Model, Hospital Quarterly, 7 (1), pp. 73-82. De Maeseneer J et al. (2007), Primary health care as a strategy for achieving equitable care, a literature review commissioned by Health Systems Knowledge Network, WHO, March. 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I pazienti anziani con patologie croniche utilizzano una proporzione rilevante delle risorse sanitarie disponibili, che vanno dai dispositivi di urgenza e di degenza acuta al consumo di farmaci (4). Diverse esperienze internazionali hanno cercato una risposta efficace ed efficiente. Tra esse il celebre modello statunitense Chronic Care Model (5) che si basa su una stratificazione prognostica dei pazienti cronici in classi di rischio, con interventi proporzionati e adattati, e soprattutto su un approccio proattivo, diretto a ricercare e seguire attivamente i pazienti per prevenire le fasi di scom- 9:48 Pagina 150 La gestione della continuità N. 186 - 2011 Le cure intermedie geriatriche per il paziente cronico complesso penso. Nonostante non esista una definizione univoca, il profilo del paziente cronico complesso è caratterizzato da una importante comorbosità, in cui spicca un’alta prevalenza di alcune malattie croniche, in particolare l’insufficienza cardiaca o la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), l’alta frequentazione dei dispositivi di urgenza, molteplici ricoveri all’anno in reparti per acuti, la presenza di disabilità e la polifarmacia. Altre variabili rilevanti sono l’età avanzata e lo scarso supporto sociale. Per implementare questo tipo di modello, per molte ragioni, incluse l’expertise e bilanci costo/efficienza, il ruolo centrale deve essere assunto dalla medicina di base, e, tra le professioni sanitarie, dall’infermieristica. Data la complessità del fenomeno, però, ed il fatto che ogni territorio ha le proprie peculiarità e eterogeneità, difficilmente una singola organizzazione o alcuni professionisti specifici potranno affrontare da soli la sfida alla cronicità. Sarà necessario invece strutturare percorsi di cura partecipativi e condivisi. In particolare, il 5% di pa- Il “modello” della Catalogna zienti di alta complessità, che corrisponde alla “punta della piramide” del Kaiser Permanente è esposto a un rischio particolarmente elevato di accesso ai dispositivi d’urgenza e di ricovero. Per queste persone l’approccio preventivo di per sé non sarà sufficiente, dato l’alto rischio di riacutizzazioni, e, quando necessario, un supporto specializzato dovrà fornire una maggiore intensità di trattamento, sia a domicilio o in regime di ricovero. Su questa base, e sempre nell’ottica di ottimizzare l’utilizzo delle risorse, non è scontato che questa maggiore intensità di cure la debba fornire l’ospedale per acuti. Per pazienti adeguatamente selezionati, livelli assistenziali dotati di minore tecnologia e concentrazione di risorse umane, e quindi con minori costi, come i Community Hospital inglesi o le Skilled Nursing Facilities americane (6), potrebbero offrire una alternativa. La realtà della Spagna è frammentata in esperienze molto diverse che caratterizzano le varie Comunità autonome, che, in generale, possiedono autonomia di gestione sulla sanità. In Catalogna, in particolare, l’attenzione al paziente cronico complesso rappresenta una priorità strategica del Dipartimento di salute del governo della Comunità, per la quale recentemente si è costituito uno specifico organo consultivo con associato un osservatorio epidemiologico dedicato. Queste entità raccolgono l’esperienza e le linee marcate durante gli ultimi quattro anni dal Piano strategico d’innovazione in attenzione primaria, che ha fornito un quadro orientativo del modello, contestualizzando le esperienze internazionali. Lo sviluppo pratico, però, ancora preliminare, si è articolato finora attraverso una serie d’iniziative spontanee, spesso sorte da necessità di migliorare l’efficienza dell’assistenza da parte degli stessi provider. Tali iniziative hanno adattato elementi del modello alle differenti realtà del territorio (urbana, rurale, e con diversa disponibilità di 05Inzitari 150:Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 risorse sanitarie). Il sistema sanitario catalano possiede una struttura potente di attenzione primaria (medicina di base), organizzata da anni in Centri integrati e interdisciplinari di attenzione primaria (CAP). Parallelamente, esiste una rete “sociosanitaria” capillare, costruita sui principi di equità demografica e territoriale e accessibilità universale. Tale risorsa può rappresentare un valore aggiunto per l’attenzione al 5% dei pazienti complessi cui si è fatto riferimento, con alto rischio di scompenso e necessità puntuale di risorse specializzate. L’obiettivo dell’articolo è illustrare la struttura della rete geriatrica della Catalogna, descrivere gli strumenti di coordinamento tra livelli assistenziali e, attraverso alcune esperienze pilota, suggerire che tipo di supporto la geriatria, soprattutto attraverso l’attenzione intermedia, può offrire nell’assistenza al paziente cronico complesso. La rete sociosanitaria in Catalogna La “Rete sociosanitaria” o geriatrica della Catalogna fu creata, all’inizio degli anni ‘80, per decisione strategica del Governo autonomo, per far fronte ai cambiamenti demografici ed epidemiologici incipienti (7). L’agenzia sociosanitaria (Pla Vida als Anys, poi Pla Director SocioSanitari), che ne è l’organismo di riferimento nell’amministrazione sanitaria, fu il frutto della sinergia tra i Dipartimenti di salute e politiche sociali, che generarono l’integrazione dei servizi sani- 9:48 Pagina 151 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 151 tari e sociali in unica prestazione, a beneficio degli utenti della rete. Durante gli anni ’90 fu consolidata la mappa dei servizi, che include Unità funzionali di consulenza geriatrica negli ospedali per acuti, centri di ricovero per convalescenza e riabilitazione geriatrica, lungodegenza e cure palliative, più servizi ambulatoriali e domiciliari, tutti pubblici o convenzionati, e con distribuzione su tutto il territorio (Fig. 1). Gli anni 2000 furono invece dedicati alla promozione della qualità attraverso indicatori regionali condivisi e audit. Le linee di attenzione dell’agenzia e della rete sono quattro: la geriatria (rivolta a pazienti con patologie croniche o acute invalidanti, come ictus e frattura di femore), le demenze, altre malattie neurologiche che decorrono con importante disabilità (SLA, SM etc.), e l’attenzione alla fine della vita (cure palliative), aspetto sul quale la Catalogna è referente della OMS (8). I vari livelli assistenziali della rete sono preposti ad assistere questo tipo di malati in maniera integrata e trasversale (dal ricovero al territorio). L’attenzione intermedia Nella rete sociosanitaria, i dispositivi di convalescenza e riabilitazione e le unità domiciliari interdisciplinari che forniscono supporto specializzato all’attenzione primaria operano secondo obiettivi e metodologia dell’attenzione intermedia britannica. Secon- do la definizione della British Geriatrics Society, l’intermediate care funge da collegamento tra ospedali generali e medicina di base, con l’obiettivo di evitare ricoveri ospedalieri o degenze prolungate, promuovendo l’autonomia del paziente e facilitando il ritorno al domicilio attraverso interventi intensivi e limitati nel tempo (9). Al centro rimangono i principi della geriatria, cioé l’interdisciplinarietà e la revisione periodica del trattamento individualizzato, pianificato sulla base di una valutazione multidimensionale. La rete geriatrica catalana ha quindi in sé, intrinsecamente, la vocazione di continuità tra ricovero acuto e territorio, per favorire la transizione di paziente fragile Fig. 1. Distribuzione delle risorse della rete sociosanitaria in Catalogna, per Regioni sanitarie. Le risorse sono espresse come numero di posti letto, o come numero di strutture per le risorse ambulatoriali (EAIA), di supporto al domicilio (PADES) o di consulenza negli ospedali per acuti (UFISS). Fonte: Servei Català de la Salut, Àrea Serveis i Qualitat, 2004. 05Inzitari 150:Layout 1 20-07-2011 Sae l ute Territorio 152 o complesso tra i differenti livelli del sistema sanitario. Strumenti di coordinazione assistenziale La coordinazione tra livelli assistenziali, sul territorio catalano, si realizza in maniera differente a seconda delle caratteristiche del territorio. In zone suburbane o più periferiche il modello più efficiente ed “in voga” sembra quello delle Organizzazioni sanitarie integrate, istituzioni uniche che raccolgono tutti i livelli assistenziali, dall’acuto alle cure primarie. La città di Barcellona è invece organizzata in quattro Aree integrate di salute (AIS), ognuna dotata di un ventaglio completo e simile di servizi assistenziali, da un ospedale universitario di terzo livello, a un referente per l’attenzione intermedia, all’attenzione primaria. Ogni AIS è poi organizzata in Comitati operativi (CO), che riuniscono tutti gli operatori che si occupano di una stessa traiettoria o di uno stesso profilo di paziente, come, per esempio, per le urgenze, la salute mentale o il malato fragile. I CO sono coordinati dagli stessi professionisti assistenziali, e gli attori implicati vanno dai rappresentanti sanitari delle differenti istituzioni alle autorità sanitarie locali, a altri, che intervengono secondo l’opportunità, come il trasporto sanitario, la farmacia etc. La finalità è migliorare la coordinazione e ottimizzare l’utilizzo delle risorse, arrivando magari a progettare traiettorie cliniche inter-istituzionali. Oltre a lavorare su obiettivi specifici e 9:48 Pagina 152 La gestione della continuità N. 186 - 2011 concordati, il CO sociosanitario e del malato fragile dell’AIS Barcellona nord si propone di aggregare e stimolare i professionisti che condividono obiettivi assistenziali comuni perché intraprendano iniziative innovative “dal basso”. Nel contesto del nostro CO sono nate alcune esperienze pilota orientate all’attenzione agli anziani con malattie croniche scompensate, con l’obiettivo di evitare il ricovero negli ospedali generali, evento che può risultare controproducente tanto per il paziente anziano, in assenza di un approccio geriatrico esperto (10), come pure, ovviamente, per il sistema. Tali esperienze e strumenti sono descritti nel paragrafo seguente, e schematizzate nella Fig. 2. livello, l’Ospedale universitario Vall d’Hebròn. I pazienti candidati venivano trasferiti rapidamente, direttamente dai dispositivi di urgenza (70% dei casi) a una Unità di convalescenza e riabilitazione geriatrica di una struttura di attenzione intermedia, l’Ospedale sociosanitario Pere Virgili, vincolato alla stessa Università. Dotato di tecnologia diagnostica di base (RX e laboratorio), include équipe sanitarie multidisciplinari composte da specializzati o esperti in geriatria. Un gruppo di referenti riunito dall’amministrazione aveva pre-marcato degli standard di qualità per la valutazione del progetto. Tra i risultati più interessanti del primo gruppo pilota (N=68, età media 82,6 anni [range 65-97], 51,5% donne), Traiettorie e transizioni: tre esempi Traiettoria del “paziente subacuto” Questo progetto risponde alla necessità di liberare risorse di urgenza sul territorio. L’ipotesi di partenza era che pazienti anziani con patologia cronica scompensata, ben diagnosticati, con necessità di bassa tecnologia diagnostico-terapeutica, potessero essere presi in carico da strutture postacute o di attenzione intermedia in alternativa all’ospedale per acuti. La selezione dei pazienti, elemento chiave per favorire una adeguata ubicazione dei pazienti anziani fin dalla porta d’entrata dell’ospedale (11), era realizzata da un équipe esperta in geriatria al momento del ricovero in un ospedale universitario di terzo Fig. 2. Traiettorie e transizioni per il paziente anziano con patologia cronica, includono il trasferimento dall’ospedale generale alle cure intermedie (paziente subacuto), l’ingresso diretto del paziente cronico scompensato alle cure intermedie, e gli strumenti di coordinamento alla dimissione. 05Inzitari 150:Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 la degenza media in ospedale per acuti (2,6+2,9 giorni, con 1,5+1,6 giorni selezionando i pazienti trasferiti direttamente da urgenze/emergenze) e la degenza nelle cure intermedie (11,4+4,2 giorni). Il 75% dei ricoveri era motivato da riattivazione di malattie croniche cardio-respiratorie (75%). Alla dimissione, 56 pazienti tornarono al domicilio pre-ricovero, 2 furono trasferiti all’ospedale per acuti, 7 a lungodegenza, e 3 morirono, rispettando tutti gli standard prefissati. Supporto specializzato nell’attenzione al paziente cronico complesso Dalla fine del 2009 il nostro ospedale ha rafforzato l’alleanza con i CAP della zona (Vallcarca-Sant Gervasi), costruendo un proprio modello di attenzione al paziente cronico. La popolazione di questi CAP presenta elevati indici di invecchiamento, e il territorio è caratterizzato da importanti barriere architettoniche. Questi CAP dispongono di una Unità di assistenza a domicilio (UAD), composta da un medico e un infermiere, che si dedica quasi esclusivamente al follow-up domiciliare di pazienti con patologia cronica a rischio di riacutizzazioni e ricovero. La UAD si appoggia alle Unità di attenzione intermedia dell’Ospedale Pere Virgili quando riscontra uno scompenso della patologia che non possa essere gestito al domicilio. L’alleanza tra attenzione primaria e intermedia è multifattoriale, e include aspetti di formazio- 9:48 Pagina 153 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 153 ne, consulenze di geriatria, e un programma pilota di ammissione diretta alle cure intermedie, senza passare per l’ospedale per acuti, e continuità alla dimissione. Nel primo pilotaggio, abbiamo ammesso 21 pazienti con patologie croniche scompensate, soprattutto insufficienza cardiaca (41%) e BPCO (12%), nell’Unità di cure intermedie (età media+DS 86,4±7,7, 50% donne, 10+2,5 farmaci cronici, indice di Barthel all’ingresso 43,7+25,2, il 25 % viveva solo). Di questi, dopo 30 giorni di degenza (il progetto prevede programma di riabilitazione/riattivazione), 3 pazienti morirono, 1 fu trasferito all’ospedale per acuti, e il resto dimesso al domicilio. Strumenti di continuità assistenziale alla dimissione Relativamente alla continuità assistenziale alla dimissione, nella Regione sanitaria di Barcellona esiste un sistema “istituzionale” di notifica della dimissione da un ospedale per acuti o di cure intermedie a attenzione primaria, chiamato sistema PREALT. Si tratta di un foglio che contiene una breve valutazione multi-dimensionale e interdisciplinare, con informazione medica, necessità d’infermeria, situazione sociale e, soprattutto, farmaci prescritti alla dimissione (con eventuale emissione di ricette). Questo documento si invia entro le 48 precedenti alla dimissione al CAP di riferimento, in caso di pazienti con necessità di contatto da parte dell’équipe primaria nei gior- ni immediatamente seguenti la dimissione, per residua instabilità clinica, fragilità sociale e particolare necessità di aderenza terapeutica. Questo circuito, valido tanto per gli ospedali per acuti come per la rete sociosanitaria, è contemplato tra gli indicatori di qualità marcati dal Servizio sanitario catalano, che marca come standard una percentuale minima delle dimissioni a domicilio. Importanza della tecnologia dell’informazione Finalmente, un fattore fondamentale per garantire la continuità dell’assistenza, chiave per la presa in carico dei pazienti con patologie croniche, è rappresentato dai sistemi di informazione. La possibilità di disporre di informazioni e documenti relativi alla storia e al piano di trattamento del paziente nel precedente livello assistenziale è fondamentale per orientare la linea assistenziale quando il paziente transita in un nuovo dispositivo. Nonostante esistano importanti margini di miglioramento, e molte azioni di base da sviluppare, un primo passo è stato mosso attraverso la creazione della “storia clinica condivisa” (HC3), una applicazione web-based, nella quale si depositano le informazioni sulle diagnosi, il trattamento cronico e i documenti relativi ai ricoveri, come le lettere di dimissioni e i referti delle prove diagnostiche. I professionisti dell’istituzione che in quel momento hanno in carico il paziente, limitatamente al tempo del ricovero possono accedere al sistema e visualizzare tali informazioni. Conclusioni Nel modello di attenzione al paziente cronico complesso, la geriatria può rappresentare un valore aggiunto come supporto all’attenzione primaria, soprattutto per la gestione delle fasi di scompenso della patologia cronica, con l’obiettivo di prevenire il ricovero e ridurre la degenza in ospedale per acuti. Per pazienti ben selezionati, l’attenzione intermedia geriatria potrebbe rappresentare una valida alternativa al ricovero in ospedale per acuti fin dal primo momento delle fasi di scompenso. In particolare, la geriatria può apportare una cultura già consolidata nella cura della persona anziana, fragile, con patologia cronica, che include in sé il training dei professionisti a utilizzare, come base, la valutazione multidimensionale e la visione interdisciplinare. La realtà della Catalogna, in cui esiste una rete capillare e gratuita di servizi geriatrici differenziati e integrati, si presta particolarmente a essere integrata nel modello di attenzione alla cronicità. Il buon funzionamento del sistema ha però bisogno dell’implicazione dell’amministrazione nel supportare la creazione e il funzionamento degli strumenti di coordinamento e la diffusione della tecnologia dell’informazione, che rappresenta un elemento cardine del modello. 05Inzitari 150:Layout 1 20-07-2011 Sae l ute Territorio 154 9:48 Pagina 154 La gestione della continuità Bibliografia (1) Murray C.J., Lopez A.D. (1997), Alternative projections of mortality and disability by cause 1990-2020: Global Burden of Disease Study, Lancet, 349 (9064), pp. 1498-504. (2) Wolff J.L., Starfield B., Anderson G. (2002), Prevalence, expenditures, and complications of multiple chronic conditions in the elderly, Arch Intern Med, 162 (20), pp. 2269-76. (3) Gijsen R., Hoeymans N., Schellevis F.G., Ruwaard D., Satariano W.A., van den Bos G.A. (2001), Causes and consequences of comorbidity: a review, J Clin Epidemiol, 54 (7), pp. 661-74. (4) Thorpe K.E., Ogden L.L., Galactionova K. 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Il mandato dei servizi è consentire attraverso un processo integrato multiprofessionale il massimo recupero possibile delle funzioni lese in seguito ad eventi patogeni o lesionali, prevenire le menomazioni secondarie e correggere la disabilità, contenere o evitare lo svantaggio sociale, per una migliore qualità di vita e inserimento psicosociale (1). Gli obiettivi dell’intervento riabilitativo nell’adulto e anziano variano a seconda della gravità e tipo della malattia che ha causato la menomazione e la comorbilità (2). L’obiettivo della riabilitazio- 9:49 Pagina 155 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 155 La riabilitazione nell’adulto ne può essere: – la guarigione (recovery) quando l’intervento riporta il soggetto a una restitutio “ad integrum”; – il recupero funzionale (restitution) quando l’intervento produce un completo recupero funzionale a spese delle potenzialità di riserva degli organi e apparati interessati; – l’adattamento funzionale (substitution) quando l’intervento avviene per riorganizzazione degli organi e apparati interessati; – l’adattamento comportamentale (compensation) quando l’intervento recupera un’accettabile qualità della vita mediante compensi prevalentemente ambientali. Si è modificata la struttura della famiglia: sempre più anziani vivono soli, o con coniuge anch’esso anziano e disabile, o figli non disponibili a far fronte alle esigenze poste dalla disabilità residua e dalle cure della malattia. Il cittadino è più esigente e sempre meno propenso ad accettare e gestire, anche con il supporto del MMG e dell’assistenza domiciliare le conseguenze funzionali o le variazioni dello stato clinico imposte dagli esiti cronici di una patologia. Nei più giova- Un percorso integrato di interventi scelti a seconda dei bisogni del paziente ni il recupero funzionale raggiunto al termine di un percorso riabilitativo può non essere sufficiente per far riprendere al cittadino una vita autonoma o lavorativa. Pertanto il processo riabilitativo necessita di una forte integrazione tra attività di riabilitazione sanitaria (focalizzate sulla diagnosi e cura del soggetto con menomazione per minimizzare la sua disabilità o prevenire complicanze secondarie e terziarie) e attività di riabilitazione sociale (finalizzate a garantire al soggetto disabile la piena partecipazione alla vita sociale con la minor restrizione possibile delle sue scelte operative) (3). Questo concetto ispira l’organizzazione della rete dei servizi riabilitativi intesa come modello integrato e continuativo sanitario, sociosanitario e socio-assistenziale in grado di accogliere e accompagnare la persona e la famiglia lungo tutto l’itinerario terapeutico. In tale ambito il Progetto riabilitativo individuale (PRI) definito dal team multiprofessionale ha un ruolo fondamentale definendo la prognosi, il programma di interventi, nonché la conclusione della presa in cura sanitaria in relazione agli esiti raggiunti. Tiene conto delle aspettative del paziente e della famiglia con cui è condiviso. La cornice concettuale di riferimento del PRI è l’International Classification of Function. La rete dei sevizi di riabilitazione Il percorso di riabilitazione può iniziare con un evento clinico acuto gestito in prima istanza dall’ospedale e continuare fino al raggiungimento degli obiettivi del PRI attraverso molteplici livelli di intervento che agiscono in modo integrato. Meno frequentemente il processo disabilitante inizia in modo lento e progressivo e gestito, almeno inizialmente, a livello territoriale. In entrambi i casi l’accesso appropriato ai differenti nodi della rete dipende dalla gravità della disabilità, instabilità clinica, bisogno assistenziale ed è modulata dalla disponibilità di supporto familiare e sociale. 06Benvenuti 155:Layout 1 20-07-2011 9:49 Pagina 156 Sae l ute Territorio La gestione della continuità N. 186 - 2011 I nodi della rete per le attività sanitarie di riabilitazione (2) sono nei: – Presidi ospedalieri: • in ambito dei reparti per acuti; • in ambito di reparti con posti letto di riabilitazione intensiva (codice 56); • in ambito di strutture di 3° livello riabilitativo con posti letto di riabilitazione intensiva per gravi cerebrolesioni (codice 75); • in ambito dell’Unità spinale (codice 28); • in ambito di reparti di lungodegenza (codice 60); – Presidi territoriali: • in strutture di degenza continuativa o diurna a carattere intensivo ed estensivo; • in centri ambulatoriali; • al domicilio dell’assistito; • in strutture socio-assistenziali a carattere residenziale continuativo o diurno: RSA, RSD, centri diurni, ecc. L’articolazione della rete riabilitativa risponde alla esigenza di dare risposte a problemi di differente gravità e a scenari clinici che si modificano in tempi spesso protratti. L’intervento riabilitativo può essere suddiviso in varie fasi (4): – fase della prevenzione del danno e conseguenti menomazioni secondarie nelle patologie ad alto rischio di sviluppo di disabilità; – fase della riabilitazione intensiva; – fase di completamento del processo di recupero e del progetto di riabilitazione; – fase di mantenimento e/o di prevenzione del degrado del recupero motorio e funzionale acquisito. La fase della prevenzione del danno è caratterizzata da interventi svolti all’interno dei reparti per acuti (rianimazione, medicina, chirurgia) per problemi clinici in cui è necessario inserire l’intervento riabilitativo all’interno del protocollo terapeutico. L’intervento è integrato con l’assistenza infermieristica e mira a prevenire lo sviluppo di lesioni secondarie che possono coinvolgere apparato cardiovascolare, respiratorio, musco-scheletrico, digerente, urinario, il sistema nervoso e la cute. Le menomazioni secondarie se si sviluppano possono ritardare o impedire il recupero. La fase della riabilitazione intensiva si colloca nella fase post-acuta della malattia quando l’intervento riabilitativo può meglio intervenire nel recupero della funzione contenendo e minimizzando la gravità della menomazione e quindi la disabilità. Le attività sanitarie di riabilitazione si collocano concettualmente nell’ambito più generale delle cure intermedie(5), range di servizi finalizzati a facilitare la transizione da ospedale a domicilio, dalla dipendenza medica alla indipendenza funzionale. Quando la disabilità è importante, se coesiste instabilità clinica con necessità di tutela medica 24 ore, può essere necessario il ricovero presso presidi ospedalieri di riabilitazione altrimenti è appropriato il ricovero in strutture territoriali di degenza continuativa. Se le re territoriali di una degenza continuativa o diurna a carattere intensivo o estensivo. Ciononostante i servizi di riabilitazione sono riusciti ad aumentare progressivamente la copertura dei bisogni agendo in più direzioni. Sono stati definiti con l’ospedale per acuti di percorsi diagnosticoterapeutici (ictus, fratture femore). Sono stati definiti i criteri di accesso per i servizi di riabilitazione territoriale dando particolare priorità ai cittadini dimessi da ospedale. Lo sviluppo dell’Ospedale di continuità di Castelfiorentino ha permesso di dare risposte rapide ed efficaci ai cittadini che necessitano di lungodegenza o stabilizzazione clinica. Dal 2004 è presente un modulo per “disabilità di natura prevalentemente motoria” (DGR 402/2004 e LR 41/2005) della RSA Le Vele di Fucecchio per cittadini con disabilità ortopedica o con necessità di riabilitazione protratta. Svolge attività di riabilitazione intensiva ed estensiva per soggetti con grave disabilità e fragilità sociale che richiedono bassa tutela medica ed infermieristica. Infine, sono stati sviluppati percorsi finalizzati al mantenimento della funzione dopo il completamento del percorso riabilitativo (progetto AFA e CLEAR). 156 condizioni funzionali del paziente lo permettono ed il supporto familiare è adeguato questa fase può essere svolta all’interno di strutture di degenza diurna o ambulatoriale. La fase di completamento del processo di recupero è attuata tipicamente in strutture territoriali ambulatoriali. Si tratta di interventi a bassa intensità e solitamente prolungati nel tempo che accompagnano il cittadino al reinserimento all’interno del proprio ambiente di vita. La fase di mantenimento comprende attività sanitarie integrate con interventi di riabilitazione sociale. Comprende anche interventi non sanitari finalizzati al mantenimento del recupero motorio e funzionale acquisito con la riabilitazione attraverso programmi di attività fisica adattata (AFA). I servizi riabilitativi della AUSL11 Ci sono profonde differenze tra le AUSL della Toscana in termini di disponibilità e tipologia dei servizi di riabilitazione. Da situazioni di eccesso di offerta si passa a situazioni con offerta carente. Pertanto la rete dei servizi riabilitativi della AUSL11 va vista come integrata all’interno dell’offerta complessiva di Area vasta e regionale più in generale. In particolare le funzioni relative alle situazioni a maggiore complessità (riabilitazione ospedaliera per gravi cerebrolesioni, Unità spinale, cardiologica e respiratoria) sono svolte da strutture extra AUSL11. Non sono presenti inoltre struttu- Il progetto AFA Per Attività fisica adattata (AFA) si intendono programmi di esercizio non sanitari, svolti in gruppo, appositamente disegnati per cittadini con malattie croniche finalizzati alla modificazione dello stile di vita per la prevenzione 06Benvenuti 155:Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 terziaria della disabilità. È stato dimostrato che in molte malattie croniche il processo disabilitante è aggravato dall’effetto additivo della sedentarietà. È infatti provato che la sedentarietà è causa di nuove menomazioni, limitazioni funzionali e ulteriore disabilità. L’evidenza pubblicata nella letteratura internazionale ha ispirato gli ultimi Piani sanitari nazionali e regionali che hanno posto l’obiettivo prioritario di promuovere comportamenti e stili di vita per la salute in quanto numerose condizioni di morbosità, disabilità e mortalità prematura possono essere prevenute attraverso l’adozione di modelli comportamentali e stili di vita positivi, socialmente condivisi. In questo ambito è stato identificato l’aumento della attività fisica come obiettivo specifico in particolare nella popolazione anziana. La Regione Toscana ha promosso dal 2005 (DGR 595/ 2005) percorsi AFA sperimentali per le sindromi algiche da ipomobilità, prevenzione delle fratture da fragilità ossea ed osteoporosi e per le sindromi croniche stabilizzate negli esiti con limitazione della capacità motoria. Al termine della fase sperimentale durata 2 anni, costatata l’efficacia e sicurezza dei programmi(6-10), sono state date alle AUSL toscane più chiare indicazioni per la sua implementazione sul territorio (DGR 459/2009). Differenti programmi di AFA, specifici per differenti condizioni croniche, sono svolti in palestre non sanitarie o in 9:49 Pagina 157 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 157 spazi adatti presenti sul territorio. Non essendo compresi nei livelli essenziali di assistenza assicurati dal Servizio sanitario, il cittadino contribuisce ai costi del programma di prevenzione per la propria salute con una quota modesta. I programmi AFA hanno avuto un rapido sviluppo in tutte le AUSL della Toscana utilizzando sinergie con le professioni ed associazioni vocate alla promozione della salute ed alla attività sportiva. Nella AUSL11 di Empoli il programma AFA ha avuto inizio nel dicembre 2003. Sono attualmente attivi 193 per mal di schiena cronico, 52 corsi in piscina per gravi alterazioni degli arti inferiori, e 35 per soggetti per cittadini con alta disabilità. Annualmente i partecipanti regolari sono oltre 6000. Il progetto CLEAR Il progetto CLEAR (Clinical Leading Environment for the Assessment and Validation of Rehabilitation Protocols in Homecare), finanziato dall’Unione europea, prevede la realizzazione di un servizio di teleriabilitazione in quattro stati membri (Italia, Spagna, Polonia, Olanda) per diversi tipi di affezioni (neurologiche, cognitive, ortopediche e polmonari). L’obiettivo di CLEAR è fornire criteri e linee guida per la teleriabilitazione sperimentando modelli clinici di intervento estendibili su scala europea. Lo studio toscano, condotto da AUSL11, è focalizzato sulla sperimentazione del servizio su soggetti con menomazioni motorie dell’arto supe- riore per esiti di ictus per contrastare gli effetti deleteri del “non uso” nella fase cronica della malattia. Esso prevede l’integrazione dei seguenti aspetti: 1. La valutazione e la definizione di un programma personalizzato di riabilitazione e l’addestramento del paziente in ambiente sanitario. 2. La pratica a domicilio con programmi di esercizio terapeutico ed ausili forniti dalla AUSL11 nella cosiddetta “valigia riabilitativa”. Essa contiene oggetti di differente forma e dimensione da manipolare (puzzle, percorsi stampati da seguire con penne con differenti caratteristiche, ecc.) di basso costo e facilmente reperibili. Gli esercizi terapeutici previsti dal protocollo riabilitativo hanno differente complessità per coprire un’ampia gamma di necessità per pazienti con differente gravità e tipo delle menomazioni dell’arto superiore. 3. Un momento di riabilitazione intermedio in ambienti non sanitari (chiosco riabilitativo) dove continuare il programma con la supervisione di un fisioterapista tramite la piattaforma Habilis. La piattaforma Habilis è costituita dalle unità “dottore” e “paziente”, installate rispettivamente presso l’ospedale e presso i chioschi. Tramite l’unità “dottore” i terapisti preparano dei tutorial (librerie video) che mostrano la corretta esecuzione degli esercizi riabilitativi. Questi vengono inviati ai pazienti che, connettendosi alle unità installate presso i chioschi, visionano i tutorial, eseguono e registrano gli esercizi in file video. I video degli esercizi svolti dal paziente sono inviati al terapista che valuta i progressi e, se necessario, aggiorna il programma di esercizio. Data l’estensione del territorio della AUSL11, le unità “dottore” e “paziente” sono state istallate presso l’ospedale di Castelfiorentino per servire l’EmpoleseValdelsa e presso l’ospedale di San Miniato per il Valdarno Inferiore. Durante il progetto sono stati installati 8 chioschi riabilitativi in ambienti facilmente accessibili e ben distribuiti sul territorio della AUSL11. Sono equipaggiati con almeno due piattaforme “paziente”, con il materiale disponibile nelle valige riabilitative e con altre opportunità di esercizio basate sull’uso di tecnologie di maggior costo. I pazienti, quando capaci di eseguire i compiti previsti dal programma riabilitativo per domicilio e di utilizzare l’unità “paziente” della piattaforma Habilis, sono dimessi dal servizio sanitario con la richiesta di ripetere gli esercizi appresi ogni giorno a casa e due volte la settimana nel chiosco. Nel chiosco il paziente esegue gli esercizi utilizzando l’unità “paziente” della piattaforma Habilis. Tramite il sistema di videoconferenza un fisioterapista può mettersi in comunicazione con il paziente, per consigli o valutazione. Se il programma di esercizio necessita di modificazioni il paziente può essere richiamato per un 06Benvenuti 155:Layout 1 20-07-2011 9:49 Pagina 158 Sae l ute Territorio La gestione della continuità N. 186 - 2011 ulteriore ciclo terapeutico presso il servizio di riabilitazione della AUSL. Nel primo anno di attività so- no stati trattati oltre 180 pazienti con paresi dell’arto superiore. I risultati mostrano che il programma riabilitati- sta valutando la possibilità di estendere dal chiosco al domicilio il posizionamento della piattaforma. 158 Bibliografia (1) Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano (1998), Linee guida del ministro della sanità per le attività di riabilitazione; www.statoregioni.it. (2) Consiglio Sanitario Regionale (2010), Percorsi Riabilitativi. Documento regionale di indirizzo. 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Cunningham (eds.), eChallenges e-2010 Conference Proceedings, IIMC International Information Management Corporation, London 2010. 07Cataliotti-Mediati 159:Layout 1 N. 186 - 2011 Luigi Cataliotti Rocco Domenico Mediati Dipartimento Attività integrate di oncologia - AOU Careggi Firenze [email protected] G arantire un’assistenza continuativa alle persone colpite da una malattia oncologica, vuol dire offrire un approccio globale caratterizzato da continuità ed omogeneità assistenziale in tutte le fasi della malattia. Lo scopo di questo modello organizzativo è un’assistenza centrata sui bisogni e sull’autonomia della persona che, oltre a garantire l’efficienza nell’erogazione di singole prestazioni, possa offrire percorsi assistenziali integrati tra i diversi professionisti e tra le diverse componenti della società. Il percorso terapeutico (Fig. 1) al giorno d’oggi può essere molto lungo e articolato, gestito da diversi specialisti, è ancora generalmente caratterizzato da diverse discontinuità e disomogeneità nella gestione delle diverse fasi della malattia. La presa in carico globale del malato fin dall’inizio del percorso prevede un approccio multidisciplinare e multidimensionale, caratterizzato da un miglior trattamento antitumorale e da un precoce riconoscimento di eventuali altri bisogni (fisici, funzionali, psicologici, spirituali, sociali e riabilitativi) del malato. Questo modello assistenziale ha come ulteriore obiettivo il 20-07-2011 9:50 Pagina 159 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 159 La continuità della cura nel paziente oncologico miglioramento dell’umanizzazione delle cure realizzato anche attraverso una collaborazione profonda tra operatori di diverse discipline e con la partecipazione, nelle scelte terapeutiche, del malato e dei familiari. Gli obiettivi e gli strumenti operativi per la realizzazione della “continuità della cura nel paziente oncologico“ si trovano nel Piano oncologico nazionale 2010/2012 nel quale si “cerca di affrontare tutti i problemi connessi all’oncologia, dalla prevenzione alla cure palliative, dando ampio risvolto sia alla prevenzione (universale,secondaria e terziaria) che alla continuità di cura in fase diagnostica e terapeutica così come all’assistenza domiciliare e alle cure palliative”. Nel Piano oncologico si identifica un percorso del malato oncologico nel SSN nel quale sono messe in evidenza le figure del medico di medicina generale e del pediatra di libera scelta cui viene attribuito un ruolo chiave in tutte le fasi della malattia tumorale. Costoro devono essere protagonisti nella realizzazione delle azioni programmatiche tra le quali viene data importanza “all’implementazione dell’assistenza domiciliare integrata con la Gli interventi terapeutici e assistenziali da attivare nel percorso dall’ospedale al territorio partecipazione del MMG nella gestione delle patologie che non richiedano l’impegno dello specialista e alla partecipazione del MMG alla elaborazione di percorsi diagnostico terapeutici”. Il percorso si articola nell’assistenza ambulatoriale e nell’ospedale. In queste strutture, tra le altre cose, viene realizzato un piano “di cura personalizzato e si contribuisce anche ad erogare cure domiciliari integrate di terzo livello (ospedalizzazione domiciliare), per pazienti anche terminali”. L’importanza della continuità assistenziale sul territorio “L’approccio integrato vede come obiettivo la cura del malato e non solo del tumore, oltre a garantire il miglior trattamento antitumorale (attraverso ambulatori multidisciplinari per i vari tipi di tumori e linee guida condivise), permette un inserimento precoce delle cure palliative e la riabilitazione per la prevenzione ed il controllo dei sintomi legati alla malattia e/o alle terapie (dolore, supporto nutrizionale, supporto psicologico, Fig. 1. Il percorso terapeutico dei pazienti oncologici. 07Cataliotti-Mediati 159:Layout 1 Sae l ute Territorio 160 spirituale, sociale, ecc.). L’organizzazione dell’attività di oncologia deve prevedere, pertanto, momenti strutturati di condivisione e di confronto che sono indispensabili per realizzare un progetto assistenziale condiviso: i Dipartimenti oncologici potrebbero essere attivati, a tal fine, in ciascuna azienda ospedaliera. Sarebbe altresì opportuno individuare e, laddove già presenti, valorizzare le risorse del territorio, più facilmente e rapidamente raggiungibili (es. centri di ascolto telefonici e sportelli oncologici) destinate a: – informare sull’organizzazione e l’accesso ai servizi; – accogliere il bisogno espresso dall’utente ed attivare professionisti ed operatori preposti alla problematica rilevata; – consentire il monitoraggio delle criticità riscontrate dagli utenti e dagli operatori, al fine di attivare processi di miglioramento dei servizi. In questo modo si può assicurare alla persona malata e alla sua famiglia una migliore qualità di vita durante tutte le fasi delle cure e dell’assistenza, valorizzando gli interventi domiciliari e territoriali alla pari di quelli ospedalieri. Il mantenimento della migliore qualità di vita possibile costituisce infatti una priorità sia medica sia sociale”. Le cure palliative Nella legge 38/2010 le cure palliative vengono definite come “l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla 22-07-2011 11:28 Pagina 160 La gestione della continuità N. 186 - 2011 persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”. Lo scopo delle cure palliative è il mantenimento di una buona qualità di vita del malato oncologico il più a lungo possibile, offrendo la possibilità di mantenere i contatti con il proprio mondo relazionale e il proprio contesto sociale. Per attuare un sistema efficiente e in grado di rispondere ai bisogni del malato e della famiglia, le cure palliative devono far parte del bagaglio culturale di tutti i medici che prendono in cura il malato oncologico, è necessaria una formazione specifica sull’argomento diretta sia ai medici di medicina generale che a tutti gli specialisti che curano i malati oncologici. “La rete di assistenza ai pazienti in fase terminale deve essere costituita da un insieme funzionale ed integrato di servizi distrettuali ed ospedalieri, sanitari e sociali, che si articolano in linee organizzative distinte ma anche concorrenti e specifiche strutture dedicate”. L’Hospice opera nel rispetto di principi di unitarietà e continuità con l’assistenza domiciliare e costituisce un’alternativa alla casa quando questa non è, temporaneamente o definitivamente, idonea ad accogliere la persona malata. I soggetti coinvolti nella funzionalità del sistema sono: le aziende sanitarie e ospedaliere, la cooperazione sociale, le associazioni di vo- tazione sociale, in considerazione del numero crescente di malati lungo sopravviventi (nel 2008 in Italia 1.800.000 le persone che hanno avuto nel passato un cancro) e della cronicizzazione della malattia. Il processo riabilitativo deve riguardare, come indicato nelle linee guida del 7 maggio 1998, oltre che aspetti strettamente clinici, anche aspetti psicologici e sociali per cui è necessario distinguere tra interventi riabilitativi prevalentemente di tipo sanitario ed interventi riabilitativi prevalentemente di tipo sociale, facenti capo a specifiche reti integrate di servizi e di presidi riabilitativi, a loro volta necessariamente interconnesse”. lontariato e gli enti locali; questi configurano un sistema nel quale la persona malata e la sua famiglia possono essere guidati e coadiuvati nel percorso assistenziale. La riabilitazione La sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi di una malattia tumorale è del 45,7% negli uomini e del 57,5% nelle donne. I dati italiani mostrano un aumento della sopravvivenza al cancro a cinque anni di circa il 15% rispetto al 1985, mentre a dieci anni il miglioramento è di circa il 6%. Dalla letteratura internazionale si rileva, che un gran numero di lungo sopravviventi presentano dolore e neuropatie indotti dal cancro o dalle sue terapie. A volte queste condizioni scompaiono con il tempo, ma i danni irreversibili di nervi e di tessuti possono causare dolore e sofferenza persistenti, nella maggior parte dei casi alle sequele fisiche, fanno seguito alterazioni psico-cognitive e sociali che determinano un grave peggioramento della qualità della vita. “La riabilitazione, intesa come ripristino di tutte le funzioni che il tumore e le terapie possono aver alterato, non solo da un punto di vista fisico, ha come obiettivo la qualità della vita del malato guarito o non guarito di cancro, al fine di riprendere il più possibile le condizioni di vita normali, limitando il deficit fisico, cognitivo e psicologico e potenziandone le capacità funzionali residue. La riabilitazione in oncologia assume una importante conno- Il modello simultaneous care (presa in carico del malato oncologico) (Fig. 2) Il modello delle simultaneous care è quello oggi più accreditato per garantire il migliore risultato terapeutico sia in termini di aspettativa di vita, che di qualità della vita. In ambito oncologico il passaggio dalle cure attive alle cure palliative costituisce un momento di forte criticità, sia per l’unità paziente-famiglia sia per gli operatori sanitari. Infatti in tale passaggio emergono bisogni che spesso trovano risposta in èquipe diverse con la conseguenza di aumentare il senso di abbandono da parte del malato. L’Organizzazione mondiale della sanità, scrive: “L’approccio delle cure palliative è applicabile in una fase precoce della malattia, in connessione con altre terapie intese a prolungare la vita come la 07Cataliotti-Mediati 159:Layout 1 20-07-2011 9:50 Pagina 161 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 161 N. 186 - 2011 Fig. 2. Modello simultaneous care Piano oncologico nazionale 2010-2012. chemioterapia e la radioterapia, includendo anche quelle indagini volte a meglio comprendere e ad evitare complicazioni cliniche”. In uno studio pubblicato nel 2010 sul New England Journal of Medicine si dimostra come un modello definito early palliative care applicato a pazienti affetti da carcinoma polmonare porta ad un significativo miglioramento della qualità della vita e dell’umore, una riduzione dell’aggressività delle cure nella fase terminale con un allungamento della durata della vita. Dal momento che i malati di tumore costituiscono oltre il 90% dei malati che usufruiscono oggi delle cure palliative, e per evitare l’abbandono al momento della sospensione delle terapie antitumorali, è necessaria una integrazione tra i percorsi di cura oncologici ospedalieri e i servizi ospedalieri e/o territoriali di cure palliative (UO cure palliative-Hospice-assistenza domiciliare). È necessario garantire livelli essenziali di assistenza uniformi su tutto il territorio nazionale nel quadro del programma di sviluppo nazionale delle cure palliative. La rete oncologica Lo strumento individuato per realizzare quanto descritto fin’ora è la rete oncologica, all’interno della quale si realizza il coordinamento di tutte le azioni che intervengono nella diagnosi, cura e assistenza al malato oncologico, sia in ospedale che nel territorio, mirando al raggiungimento di livelli standardizzati di qualità, corretta allocazione di risorse e per consentire equità nell’accesso alle cure a tutti i cittadini. “Il collegamento in rete realizza il sistema tramite il quale il malato di cancro può ricevere le cure più appropriate organizzate a livello multidisciplinare. La rete è organizzata sulla base delle esigenze delle singole Regioni, in Dipartimenti oncologici, organizzati territorialmente, in base a bacini di utenza mediamente di 500 mila - 1 milione di abitanti. Scopo generale del dipartimento è quello di prendere in carico e indirizzare il paziente oncologico, individuando il percorso di cura. La struttura di accesso al Dipartimento oncologico è preferibilmente collocata nel territorio ma è costituita da tutte le strutture (presidi ospedalieri, aziende ospedaliere, aziende universitarie, IRCCS, assistenza domiciliare, Hospice) dell’area geografica di pertinenza coinvolte nel processo di cura, assistenza e riabilitazione, nonché dai servizi di prevenzione primaria e secondaria e con il collegamento con i medici di medicina generale. Il Dipartimento oncologico è dunque una struttura funzionale interaziendale e transmurale che integra tutte le attività ospedaliere e territoriali che assistono il paziente oncologico, individua e garantisce l’implementazione dei percorsi diagnostico-terapeutici per ogni paziente in accordo con le linee guida regionali. La Rete oncologica regionale già attivata in Toscana (Istituto toscano tumori), Piemonte (Rete oncologica Piemonte e Valle d’Aosta) e Lombardia (Rete oncologica Lombarda) e in corso di attuazione in altre Regioni italiane, è a tutt’oggi il modello organizzativo ritenuto più efficace ed efficiente. Attraverso la Rete regionale è possibile coordinare non solo il percorso strettamente oncologico, ma anche il coordinamento con i servizi territoriali deputati alle cure palliative e i percorsi riabilitativi”. L’esperienza toscana In Toscana già nel Piano sanitario regionale 1999-2001 veniva evidenziata la “necessità di migliorare la qualità della vita del malato terminale, attraverso la terapia del dolore, ma anche con le cure palliative e l’accompagnamento del morente”. Nel 2000 è stata promulgata una legge regionale (996 26/9/2000) nella quale si stabilivano linee guida assistenziali e indirizzi organizzativi per lo sviluppo della rete di cure palliative. Venivano date le indicazioni specifiche delle cure palliative: “L’ambito di applicazione delle cure palliative riguarda di norma il controllo del dolore e degli altri sintomi nella fase terminale di patologie evolutive e irreversibili, definibile secondo i seguenti criteri: – criterio terapeutico: assenza, esaurimento, non opportunità di trattamenti curativi specifici; – criterio sintomatico: presenza di sintomi invalidanti che condizionano la riduzione di performance al di sotto del 50% della scala di Karnofsky; – criterio evolutivo temporale: da determinarsi in fase di valutazione specifica del quadro evolutivo temporale della malattia”. – Si definivano i criteri generali per l’organizzazione di una rete di assistenza ai pazienti terminali (rete integrata di servizi distrettuali e ospedalieri). – Si specificavano i diversi livelli assistenziali che devono essere garantiti (residenziali, day-hospital, ambulatoriale e domiciliare) privilegiando, quando possibile, l’assistenza domiciliare integrata. 07Cataliotti-Mediati 159:Layout 1 20-07-2011 9:50 Pagina 162 Sae l ute Territorio La gestione della continuità N. 186 - 2011 – Si sottolineava il ruolo fondamentale attribuito alle organizzazioni di volontariato. – Si descrivevano gli elementi costitutivi delle Unità di cure palliative (UCP), specificandone la composizione, i compiti e l’assetto organizzativo. – Si definivano i Centri residenziali di cure palliative (Hospice). Già da molti anni i medici e gli infermieri del Servizio di cure palliative dell’Azienda sanita- ria di Firenze sono presenti nei day hospital oncologici per attuare il concetto delle simulatneous care, questa presenza è stata ora formalizzata grazie alla collaborazione con la Fondazione italiana di leniterapia che con il Progetto “Oltre il ponte” garantisce la presenza regolare di un medico palliativista presso le sedi di oncologia medica con gli obiettivi di implementare la continuità del servizio sia in termini di continuità di cura che continuità operativa tra i due i loro familiari possono rivolgersi ad operatori specializzati per avere non solo informazioni sul percorso assistenziale, ma anche sostegno per le difficoltà psicologiche che possono incontrare nella malattia. La realtà clinica dell’oncologia ci impone di continuare a lavorare per omogeneizzare e migliorare la qualità dell’assistenza su tutto il territorio nazionale in tutte le fasi della vita delle persone ammalate di tumore. 162 Riferimenti bibliografici e normativi Early palliative care for patients with metastatic non-small-cell lung cancer, N Engl J Med, Aug 2010, 19, 363 (8), pp. 733-42. Legge 38/2010 G.U. n. 65 19 marzo 2010. DGR 996 Regione Toscana 26 settembre 2000. team, di ridurre la sensazione di abbandono nel paziente e nei familiari durante e dopo il passaggio da Oncologia medica e Unità di cure palliative e di migliorare la tollerabilità delle cure attive. Gli Hospice sono distribuiti in tutto il territorio regionale anche se ancora i modelli organizzativi di integrazione con il territorio e l’ospedale non sono omogenei. L’Istituto toscano tumori ha realizzato un call center oncologico al quale i pazienti e Piano oncologico nazionale - http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/piano_oncologico_2010_2012/sintesi.pdf. Progetto Oltre il ponte - www.leniterapia.it. Linee-guida del Ministro della sanità per le attività di riabilitazione, GU n. 124, Serie generale del 30 maggio 1998. 08Mediati 163:Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 Rocco Domenico Mediati SOD Cure palliative e terapia del dolore - Dipartimento di Oncologia - AOU Careggi, Firenze [email protected] D a alcuni anni la sofferenza dei malati di tumore e la terapia del dolore sono diventate argomenti sempre più presenti sui mezzi di comunicazione di massa e nei consessi scientifici, grande attenzione viene posta anche nei confronti del dolore cronico di malati affetti da malattie degenerative (artrosi, ecc.). Questa maggiore attenzione della popolazione, ha messo i medici e la classe dirigente del paese di fronte ad un problema fino a poco tempo fa trascurato: la sofferenza delle persone ammalate ed in particolare la sofferenza determinata dal dolore. La società sta facendo molti passi avanti, la richiesta di una buona qualità della vita e del mantenimento delle capacità funzionali più a lungo possibile si sono fatte sempre più pressanti. Il problema è stato affrontato con una legge dalla classe politica mentre, paradossalmente, l’unica categoria che dà l’impressione di essere ancora restia ad affrontare adeguatamente il problema è quella dei medici. La dimensione del problema I dati epidemiologici evidenziano un’incidenza del dolore cronico nella popolazione mondiale tale da farne un problema sociale. 9:51 Pagina 163 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 163 La gestione del dolore cronico In Europa il dolore rappresenta uno dei principali problemi sanitari in quanto interessa tutte le età, incide sulla qualità della vita delle persone e, in particolare nella forma cronica, si stima che abbia un’incidenza nella popolazione di circa il 25-30%, con relativi costi sociali in disabilità e perdita di produttività con relativi costi stimati negli Stati Uniti intorno ai 100 miliardi di dollari l’anno. Il dolore è tra tutti i sintomi quello che più mina l’integrità fisica e psichica del paziente e maggiormente angoscia e preoccupa i familiari, con un notevole impatto sulla qualità della vita. Uno studio italiano, condotto su un’ampia popolazione di soggetti anziani assistiti a domicilio in più di 25 ASL distribuite su tutto il territorio nazionale, dimostra come anche nel nostro paese il problema del dolore sia molto diffuso. Infatti, più del 40% degli ultra sessantacinquenni valutati ha lamentato un dolore che interferisce con le comuni attività quotidiane. Di queste persone soltanto il 27% riceveva analgesici: gli analgesici non oppioidi erano utilizzati nel 25% dei casi, gli oppioidi deboli e gli oppioidi forti erano somministrati rispettivamente solo nel 6% e Quando il MMG deve indirizzare il paziente al centro di terapia del dolore? 3% dei pazienti sintomatici. È da segnalare l’alta percentuale di pazienti che non riceveva alcun trattamento. Inoltre, un dato che emerge dallo studio è lo scarso utilizzo di farmaci analgesici nei soggetti con deterioramento cognitivo che riferiscono dolore. In particolare, si può osservare come il deficit cognitivo sia un fattore che interferisce negativamente con il trattamento antidolorifico. Non bisogna dimenticare che il dolore è una delle principali cause per le quali i malati attuano l’automedicazione e si rivolgono a metodiche alternative non sempre validate scientificamente e talvolta inefficaci se non pericolose. Aspetti normativi La legge 38 del marzo 2010 sancisce “il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore … al fine di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo le specifiche esigenze…”, definisce la terapia del dolore come “l’insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore”. La legge stabilisce i mezzi atti a garantire i seguenti diritti: – Campagne d’informazione. – Obbligo di riportare la rilevazione del dolore all’interno della cartella clinica. – Semplificazione delle procedure di accesso ai medicinali impiegati nella terapia del dolore. – Formazione e aggiornamento del personale medico e sanitario in materia di cure palliative e terapia del dolore. Nell’ottica di omogeneizzare sul territorio l’accesso alla terapia del dolore: – Stabilisce l’istituzione di reti nazionali per le cure palliative e la terapia del dolore. 08Mediati 163:Layout 1 20-07-2011 Sae l ute Territorio 164 – Istituisce l’obbligo del monitoraggio ministeriale per le cure palliative e la terapia del dolore. – Rilancia il progetto “Ospedale senza dolore” trasformandolo in “Ospedale e territorio senza dolore”. “Il passaggio al nuovo progetto ‘Ospedale - territorio senza dolore’, cosi come indicato nell’art. 6 e nell’art. 8, oltre a rafforzare l’attività dei ‘Comitati ospedale senza dolore’ favorisce l’integrazione ospedale-territorio, demandando alla struttura ospedaliera la gestione dei casi complessi e coinvolgendo nel processo assistenziale la figura del medico di medicina generale (MMG), introduce il concetto di rete assistenziale anche nel campo della lotta al dolore”. Il modello organizzativo La suddetta legge prevede, tra le altre iniziative, “la realizzazione di una rete nazionale per le cure palliative e di una rete nazionale per la terapia del dolore, volte a garantire la continuità assistenziale del malato dalla struttura ospedaliera al suo domicilio e costituita dall’insieme delle strutture sanitarie, ospedaliere, territoriali e assistenziali, delle figure professionali e degli interventi diagnostici e terapeutici disponibili nelle Regioni e nelle Province autonome, dedicati all’erogazione delle cure palliative e al controllo del dolore in tutte le fasi della malattia”. È previsto lo sviluppo di un modello assistenziale uniforme, che abbia come riferimento normativo quanto è esplicitato dall’intesa sotto- 9:51 Pagina 164 La gestione della continuità N. 186 - 2011 scritta in sede di Conferenza Stato-Regioni come indicato dall’art. 5, comma 3 in termini di requisiti minimi e di criteri di accreditamento, gestiti con appositi provvedimenti regionali e aziendali da una struttura specificamente dedicata al coordinamento della rete. Lo scopo è definire una nuova modalità assistenziale, volta alla presa in carico globale del paziente affetto da dolore cronico; il mezzo individuato è, quindi, la costituzione di una rete, di cui il medico di medicina generale è parte integrante, all’interno della quale venga gestita la presa in carico della persona con dolore, qualunque ne sia l’eziologia, con un approccio diagnostico-terapeutico appropriato, basato sulle evidenze scientifiche e nel rispetto dell’equità di accesso. Il 16 dicembre 2010 sono state emanate dalla Conferenza Stato-Regioni le linee guida che identificano le caratteristiche del modello organizzativo della rete integrata nel territorio. Il livello assistenziale è scomposto in tre nodi complementari: i centri di terapia del dolore (hub) nei quali è presente un’èquipe multidisciplinare che fa capo a un direttore specialista del settore, gli ambulatori di terapia antalgica (spoke) presenti in tutti i presidi ospedalieri con almeno un medico dedicato a tempo pieno e i presidi ambulatoriali territoriali con competenze di terapia antalgica (gestiti da un team di medici di medicina generale). Questo modello è stato sperimentato dal 2009, grazie ad Affinché il modello possa diventare realtà, è necessario agire sul piano della formazione e dell’integrazione culturale dei professionisti della rete di terapia del dolore, si impone la necessità di fornire un’adeguata informazione alla cittadinanza sul percorso assistenziale, di sensibilizzare tutti gli operatori sanitari all’uso dei farmaci oppiacei, di effettuare una formazione specifica indirizzata a MMG, pediatri e altri specialisti sui temi della terapia del dolore; questo sarà possibile attraverso opportune campagne di informazione-formazione circa l’appropriatezza prescrittiva in funzione della patologia clinica dolorosa. un progetto ministeriale realizzato in quattro Regioni pilota, Lazio, Emilia Romagna, Veneto e Sicilia, per lo sviluppo del progetto di reti assistenziali per le cure palliative e la terapia del dolore. Alla base del sistema un’équipe dedicata (MMG) è in grado di fornire una prima risposta concreta alle esigenze dei cittadini fungendo da triage per i centri di terapia del dolore e per gli ambulatori di terapia antalgica. Questo modello organizzativo, che dovrebbe essere progressivamente applicato su tutto il territorio nazionale, può essere realizzato solo se si crea una rete di MMG in grado di diventare il primo riferimento per i cittadini con dolore, di garantire una prima risposta ai loro bisogni, di indirizzarli verso i centri di riferimento o i centri ambulatoriali in relazione alla complessità del caso. Il sistema così organizzato, oltre a fornire una risposta assistenziale appropriata nei suoi tre nodi, dovrebbe avere come ricaduta un abbattimento degli accessi al Pronto soccorso per patologie dolorose. In ambito pediatrico, il problema presenta criticità e peculiarità tali da rendere necessari assetti organizzativi specifici; è prevista la realizzazione di centri di riferimento di terapia del dolore pediatrici (hub) negli ospedali pediatrici, cui far riferimento in caso di necessità di competenze specialistiche e l’acquisizione delle competenze per la gestione di un’ampia quota di situazioni dolorose da parte di pediatri ospedalieri e di famiglia. La persona ammalata nella rete di terapia del dolore Il malato che potrà fare riferimento alla “rete” integrata è in genere affetto da dolore cronico, cioè quel dolore che non rappresenta solo una estensione temporale del dolore acuto, ma assume caratteristiche qualitative completamente diverse, che necessitano di un approccio mentale, culturale e professionale mirato alla riduzione della sofferenza e al miglioramento della qualità della vita. Ciò si verifica generalmente quando la condizione patologica che provoca il dolore è nota e in buona parte non aggredibile o quando il dolore è persistente nel tempo o ancora quando la causa non è nota. In questi casi si instaura un circolo vizioso di depressione, ansia e altri disturbi emotivi, e il dolore diviene sindrome autonoma con pesante impatto sulla vita di relazione e su- 08Mediati 163:Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 gli aspetti psicologici e sociali caratteristici della persona. “Il trattamento deve essere tempestivo ed efficace, basato sulla appropriata conoscenza tecnico-professionale di quelle che sono le linee guida culturali ed i vincoli normativi e organizzativi per l’erogazione di terapia del dolore. Senza tale conoscenza approfondita, fatta di nozioni, professionalità ed esperienza, l’approccio sintomatico e palliativo corre il rischio di rimanere empirico, inefficiente e, se permeato dei diffusi pregiudizi sulla terapia con antalgici, perfino dannoso”. Per realizzare un sistema efficiente nella gestione del dolore e per migliorare lo stato attuale d’integrazione professionale è indispensabile consolidare i Centri di terapia del dolore e le Unità di medicina generale, e fare in modo che queste strutture si integrino adottando alcune regole operative comuni: – Formazione continua rivolta a tutto il personale sanitario che costituisce la rete. – Adozione di un protocollo diagnostico-terapeutico condiviso. – Identificazione dei pazienti con dolore cronico da avviare alla gestione integrata secondo criteri di appropriatezza. – Coinvolgimento attivo dei pazienti nel percorso di cura (patient empowerment). – Attivazione di un sistema informativo per la valutazione del processo e degli esiti basato su indicatori identificati e condivisi dai professionisti coinvolti. I pazienti potranno essere gestiti dai MMG, possibilmente 9:51 Pagina 165 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 165 associati nelle AFT, dove saranno presenti medici formati appositamente. Si potrà decidere di curare alcuni pazienti e/o indirizzarli correttamente all’interno della rete. Il MMG si potrà appoggiare alle èquipe specialistiche per pazienti con dolore acuto o cronico la cui sindrome dolorosa è caratterizzata dalla complessità della patologia o dalla difficoltà di inquadramento del tipo di dolore o dalla difficoltà nella selezione del trattamento elettivo con necessità di procedure specialistiche sia di routine sia innovative. Quindi il MMG dopo aver effettuato una diagnostica clinica e strumentale semplice, un tempestivo trattamento farmacologico, una eventuale gestione domiciliare di pazienti affetti da disabilità in collaborazione con l’ADI, deciderà se avviare il paziente ad un centro specialistico scegliendo tra hub e spoke in relazione alla complessità del caso (Fig. 1). In particolare i casi che con maggior probabilità avranno bisogno di una consulenza specialistica sono quelli caratterizzati da: – Dolore cronico senza una diagnosi di malattia causale. – Dolore cronico con diagnosi causale ma che non risponde alle terapie più semplici. – Dolore cronico con diagnosi di malattia inguaribile. – Necessità di identificare il tipo di dolore in atto (nocicettivo, neuropatico periferico o centrale). – Necessità di un approccio multispecialistico o multiprofessionale. – Necessità di una valutazione del profilo psicologico. – Necessità di attuare tecniche neuromodulative o neurolesive. – Necessità di somministrare farmaci per vie alternative. – Necessità di monitoraggio dei processi di cura adottati. – Necessità di controllo dei fattori critici. – Gestione integrata di schemi problematici (elevate dosi di oppiacei, necessità di cicliche variazioni di molecola, sospensione della cura ecc.). Fig. 1. Modello organizzativo della rete di terapia del dolore. – Necessità di ricorrere a strumentazioni specialistiche (indagini neurofisiologiche, radioterapia, ecc.). È possibile prevedere ricoveri presso i centri hub per esecuzione di indagini specialistiche allo scopo di identificare e trattare disfunzioni del sistema sensoriale e nocicettivo mediante: – Test specialistici invasivi quali lo studio del sistema nervoso simpatico o del sistema nocicettivo. – Indagini laboratoristiche particolari. – Terapie adeguate alla complessità del caso. Il ruolo degli hub nella rete sarà anche quello di punti di riferimento per la ricerca clinica e per la formazione del personale sanitario in collaborazione con le università. Grazie ad una legge illuminata e innovativa avremo i mezzi e la possibilità di migliorare l’assistenza di una grossa fetta dei nostri malati, quelli affetti da dolore. Questo avrà una notevole ricaduta sulla qualità della vita di molte persone e delle loro famiglie, incidendo positivamente sui costi sociali di una malattia molto diffusa e spesso invalidante. A questo punto il compito di noi medici è quello di essere scientificamente preparati e ben organizzati per sfruttare al meglio le potenzialità della rete di terapia del dolore indirizzando verso scelte terapeutiche scientificamente corrette molti nostri pazienti che attualmente vagano tra diverse figure professionali nell’infruttuosa ricerca di una soluzione per il loro stato di sofferenza. 08Mediati 163:Layout 1 20-07-2011 Sae l ute Territorio 166 9:51 Pagina 166 La gestione della continuità Riferimenti bibliografici e normativi Landi F., Onder G., Cesari M. et al. (2001), Pain management in frail, community-living elderly patients, Archives of Internal Medicine, 161, pp. 2721-4. 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Zuppiroli5 1 SS Cardiologia - Ospedale del Mugello - Azienda sanitaria di Firenze Medici di Medicina generale del Mugello 3 Dir. sanitario PA Bouturlin Barberino di Mugello 4 SC Cardiologia - Ospedale di Volterra - Azienda sanitaria USL 5 di Pisa 5 Dipartimento di Cardiologia - Azienda sanitaria di Firenze 2 G ià l’articolo 1 del D.lgs 229/1999 poneva l’appropriatezza delle cure a fondamento della nostra sanità: “Sono esclusi dai livelli di assistenza erogati a carico del SSN nazionale le tipologie di assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie che… non soddisfano il principio dell’efficacia e dell’appropriatezza, ovvero… sono utilizzati per soggetti le cui condizioni cliniche non corrispondono alle indicazioni raccomandate”. Il Piano sanitario della Regione Toscana 2008-2010 confermando i valori ed i principi del Piano precedente, tra cui uguaglianza ed umanizzazione della salute intesa come un diritto/dovere e la continuità assistenziale li integrava con ulteriori elementi ispirati ai principi dell’appropriatezza e della qualità, della produttività, dell’iniziativa e della responsabilizzazione verso il cittadino e l’utente. L’integrazione ospedale-territorio e il conseguente coinvolgimento sinergico di tutto il sistema nella risposta ai bi- sogni sanitari dei cittadini sono uno degli strumenti strategici per ottenere risultati di efficacia ed efficienza ed un serio bilanciamento fra domanda ed offerta. Il vertice dei ministri europei della salute tenutosi a Budapest nell’aprile scorso ribadisce questo principio come una della priorità della politica sanitaria europea; le dichiarazioni del Ministero della salute italiano e dell’Assessorato al diritto alla salute della Regione Toscana, anticipando le linee di programma del piano 2011-2015, consolidano ancor più questa impostazione. Il programma Dall’agosto 2008 il Dipartimento cardiologico e la struttura di Cardiologia dell’Ospedale del Mugello – dell’Azienda sanitaria di Firenze (ASF) hanno attivato un programma di razionalizzazione del percorso clinico terapeutico del cittadino con malattia di cuore. Il progetto è stato elaborato e condiviso con tutti gli attori del sistema sanitario locale e Obiettivi e risultati del progetto “Mugello nel cuore” coinvolge tutta la zona del Mugello. L’interazione tra i professionisti, la promozione dell’appropriatezza della risposta professionale e lo sviluppo della continuità assistenziale sono gli elementi fondanti del programma, approvato dalla Direzione dell’ASF nel febbraio 2009. Caratteristiche della zona di sviluppo del programma Il Mugello è un’area montuosa, decentrata, di confine; ha 70mila residenti, pari al 9% della popolazione dell’ASF e ne rappresenta circa metà del territorio; ha un solo ospedale con una struttura di Cardiologia con 5 specialisti, e una struttura di diagnostica cardiologica privata convenzionata; vi operano 60 medici di medicina generale e dispone di un servizio di assistenza infermieristica domiciliare attivo tutti i giorni della settimana. È un contesto vasto ma circo- scrivibile, con un tessuto sociale e professionale che tende a favorire la fiducia fra le parti del sistema e tra questo e i cittadini. Condizioni di partenza In questo scenario, siamo partiti nel 2008 dalla constatazione che il rapporto fra domanda e risposta specialistica si caratterizzava per scarsa appropriatezza, elevato numero di richieste e di prestazioni, lunga lista di attesa e un rapporto fra MMG e specialisti frammentato e incostante. Azioni Delimitazione dell’area di intervento Un primo passo per la riorganizzazione è stato quello di delimitare l’area di intervento ai soli residenti del Mugello, per essere in grado di conoscere bene tutte le variabili in gioco. 09Bandini 167:Layout 1 20-07-2011 Sae l ute Territorio 168 Pieno riconoscimento del medico di famiglia Cardine essenziale del programma è il pieno riconoscimento del ruolo del MMG, il cui esame clinico è condizione necessaria e sufficiente ad avviare il percorso ulteriore secondo un triage diagnostico che segue codici di priorità clinica. “Triage” diagnostico e valutazione integrata clinico strumentale specialistica Il cardiologo, dal canto suo, non si limita più alla ripetizione di una semplice visita, ma offre una valutazione clinico strumentale integrata in un’unica seduta e, quando la ritenga necessaria, condivide con il MMG ed effettua la presa in carico del paziente,occupandosi di tutto l’iter diagnostico e terapeutico. In concreto, si configurano quattro diversi scenari (Fig. 1): 1. Il paziente si rivolge al MMG, questi lo visita e attraverso un numero telefonico dedicato si consulta immediatamente con il cardiologo dell’ospedale (codice giallo); se la condizione è ritenuta urgente (indipendentemente dai casi in cui è appropriato l’accesso al DEA) lo specialista valuterà il paziente entro le 24/36 ore successive. 2. Il MMG giudica il consulto del cardiologo differibile, richiede e motiva una “consulenza cardiologica” che il paziente prenoterà attraverso un’agenda dedicata del CUP (codice verde). 3. Il MMG visita il cittadino e ritiene sufficiente un approfondimento strumentale con solo Ecg (codice 9:54 Pagina 168 La gestione della continuità bianco): in questo caso, il giorno successivo e senza bisogno di prenotazione, il paziente effettua l’esame in uno dei poliambulatori del territorio, con refertazione nel giorno stesso da parte del cardiologo dell’ospedale. La Società della salute ha provveduto ad allestire, per i distretti delle zone montane, una rete telematica di esecuzione, trasmissione e archiviazione digitale degli Ecg, il sistema sarà a regime dall’autunno del 2011. 4. Il paziente è affetto da malattia cardiovascolare cronica che richiede una valutazione periodica ravvicinata (continuità assistenziale): il cardiologo ospedaliero programma di- N. 186 - 2011 rettamente la consulenza alla data prevista. Presa in carico totale e “dinamica” Ogni indagine di secondo livello che si renda necessaria viene organizzata completamente dalla Cardiologia del Mugello ed il paziente viene ripreso in carico al termine del percorso di cura. Alla fine dell’iter clinico, soprattutto nei casi complessi, lo specialista informa discute e concorda telefonicamente con il MMG la strategia clinica. Il contatto diretto, attivo, professionale ed umano permette la tessitura ed il consolidamento del rapporto fiduciario fra specialista e medico di famiglia. Fig. 1 Appropriatezza Particolare attenzione è stata data alla ricerca e alla verifica della appropriatezza: attraverso incontri di aggiornamento organizzati congiuntamente ai MMG, al richiamo costante e diretto alle linee condivise in precedenza e al controllo della autoreferenzialità dello specialista. Controllo del “bisogno indotto” L’induzione del bisogno da parte dello specialista verso il curante ed il cittadino stesso è uno degli aspetti più critici e delicati: l’uso proprio delle risorse deve essere ricercato in prima istanza all’interno del sistema e promosso dal sistema stesso. È necessario porre la massima attenzione affinché l’organizzazione degli 09Bandini 167:Layout 1 20-07-2011 9:54 Pagina 169 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 169 N. 186 - 2011 Fig. 2 ambulatori di follow up e le conseguenti indicazioni sulla tempistica e la modalità dei controlli clinico strumentali siano improntati all’appropriatezza. Sinergia con le altre risorse specialistiche disponibili Nel 2010 il programma si è arricchito di una convenzione con una struttura privata accreditata di diagnostica cardiologica (la Pubblica Assistenza di Barberino di Mugello Bouturlin di Barberino di Mugello): l’atto ha stabilito non solo i termini quantitativi dell’accordo ma soprattutto ha sancito la piena sinergia fra l’ASF e un privato che aderisce completamente al programma, adottandone le modalità di programmazione e di risposta professionale. Risultati Appropriatezza Al termine del 2009 e stato raggiunto l’80% di appropriatezza delle richieste per consulenza cardiologica, partendo dal 50% dell’ultimo trimestre 2008 (Fig. 2). La valutazione dell’appro- priatezza è avvenuta attraverso l’analisi retrospettiva di oltre 1500 referti, il giudizio di appropriatezza è stato dato seguendo una revisione sintetica delle indicazioni di “valutazione cardiologica” segnalate dalle linee guida per patologia; la valutazione non si è limitata solo all’appropriatezza della richiesta ma anche alla validità “per esito” della consulenza. Il monitoraggio dell’appropriatezza nel tempo ha dimostrato quello che è ampiamente conosciuto: ovvero che alla maggiore disponibilità di risorse che si è avuta nei primi mesi di inserimento nel sistema della risorsa convenzionata si è registrato una netta riduzione dell’appropriatezza delle richieste passando dall’80% al 64% di media e che scorporando i dati per Comuni di richiesta il dato era ancora minore laddove la richiesta era stata maggiore (Fig. 3). Codici gialli Il numero delle richieste di valutazione “urgente” dopo i primi mesi di sperimentazio- ne è rimasto costante nel tempo con un numero medio di 31 al mese. La disponibilità di un consulto telefonico specialistico diretto per i casi complessi ed urgenti è risultato uno strumento di massima integrazione professionale in cui non si è rilevato over use ed estremamente efficace nel rafforzare la solidarietà professionale ed il rapporto fiduciario con i cittadini. Il fast track diretto per le urgenze differibili incide altresì sul funzionamento e la qualità complessiva del sistema, riduce il ricorso improprio alla risorsa specialistica ed al DEA e ha un’azione assai benefica sulle liste di attesa. I tempi di attesa e la conversione delle prestazioni in presa in carico Come indicato nella Fig. 4, è stato ottenuto un annullamento dei tempi di risposta ai cittadini in quanto, se la richiesta è urgente la risposta è pressochè immediata, mentre ciò che dal MMG viene ritenu- to differibile seguendo i canali tradizionali di prenotazione via CUP per una valutazione “integrata” (consulenza cardiologica) ha un tempo di attesa medio/anno di 20 giorni rispetto ai 5 mesi dell’inizio della sperimentazione. L’altro dato fondamentale da sottolineare è il passare dall’erogare delle prestazioni (6000 prestazioni dei primi 6 mesi del 2007) al fornire consulenze (1000 consulenze del 2009). Riflessioni e considerazioni riguardo a quest’esperienza La difficoltà ed una strada per superarla Per parlare di interazione fra le parti di un sistema si rende necessario delinearne gli aspetti costitutivi e individuarne i metodi con cui relazionarvisi: il sistema delle cure rientra nei sistemi complessi. I Sistemi ad alta complessità sono caratterizzati da moltissime variabili, poco definite, da molte relazioni dirette, indirette e non lineari, da regole autodefinite dal Fig. 3 09Bandini 167:Layout 1 20-07-2011 Sae l ute Territorio 170 9:54 Pagina 170 La gestione della continuità Fig. 4 sistema stesso, dalla scarsa prevedibilità dell’esito delle azioni che esplica, da un’alta discrezionalità e da un contesto fortemente adattativo che richiede flessibilità ed adattamento alle molteplici ed imprevedibili modulazioni. L’analisi e l’interazione con un sistema complesso esige un approccio sistemico in cui vengano considerati non gli elementi singoli ma l’insieme delle parti, intese come un tutto unico, e in cui massima sia l’attenzione sulle relazioni tra gli elementi piuttosto che sui singoli elementi presi separatamente. La complessità, la non linearità, la multidimensionalità, una visione sistemica e l’approccio adattativo oltre a caratterizzare un tale sistema forniscono anche i motivi per comprendere come sia spesso difficile dare concretezza ad affermazioni di principio che risultano invece immediatamente comprensibili e condi- vise da tutti quali la necessità di interazione fra ospedale e territorio, l’invito a lavorare in appropriatezza, il passaggio dalla prestazione alla presa in carico del paziente e l’offerta di una continuità assistenziale. Si può comprendere anche che la chiave per aprire la scatola della complessità si gioca sul tavolo del metodo: gli strumenti principali sono l’adattabilità dei paradigmi mentali e di conseguenza dei setting organizzativi. Piani, modelli, progetti devono essere considerati canovacci da interpretare modificare ed arricchire costantemente seguendo la traccia maestra della priorità e della responsabilità clinica; ciò esige un’intelligenza “umile” che abbia il coraggio di verificare costantemente gli effetti delle azioni intraprese sugli esiti previsti e cambiare, se necessario, l’impalcatura ipotizzata smontando e rimon- tando anche dalle fondamenta la costruzione ipotizzata. L’obiettivo alto Riprendendo come postulato una famosa frase di Antonio Gramsci: “nella vita bisogna avere il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà” e soprattutto se l’ottimismo della volontà non abdica al pessimismo della ragione possiamo affermare che si possono ottenere alcuni risultati tangibili anche in un terreno organizzativo difficile. Occorre, nel nostro caso, puntare oltre la logica consumistica di un prodotto che qualcuno compra e altri vende, e promuovere invece la relazione tra il paziente e i medici che in diversi ruoli si prendono cura della sua salute, collaborare strettamente con il MMG per riaffermare il suo ruolo centrale che deve responsabilmente spingerlo ad effettuare quella valutazione clinica in base alla quale la richiesta diventa o no appropriata. E il cardiologo non può limitarsi alla mera ripetizione di una visita, ma deve responsabilizzarsi, se del caso, con la presa in carico. L’incontro tra MMG e cardiologo deve avvenire anche “prima” del caso specifico, per tracciare insieme percorsi condivisi da attivare di volta in volta a seconda del contesto, separando le urgenze dalle altre condizioni. Se il MMG dovrà riconoscere il beneficio di un lavoro quotidiano più consapevole e partecipato, i cardiologi dovranno controllare il bisogno indotto e ridimensionare le N. 186 - 2011 indicazioni autoreferenziali, come in certi ambulatori di follow-up. Una particolare attenzione alla gestione del bisogno emotivo può rendere appropriata una valutazione cardiologica qualora l’intervento del MMG non riesca ad acquietare l’ansia (non i capricci) del paziente. Ma tutto ciò non basta senza una capillare educazione dei cittadini, ai quali non va demagogicamente promesso l’abbattimento delle liste d’attesa, ma l’impegno a responsabilizzare chi chiede e chi offre prestazioni affinché queste siano riservate solo a chi ne ha veramente bisogno e nei tempi giusti per la specifica condizione clinica. La sfida, è evidente, si gioca prevalentemente sul piano delle relazioni umane: promuovere l’appropriatezza significa anche contribuire a sconfiggere quella logica che vede la salute come una merce e le relazioni al suo interno come prodotti. Ne beneficeranno in primis i cittadini, ma anche quelle risorse economiche, non sempre scarse, ma disperse nel finanziare l’inappropriatezza. Conclusione “Mugello nel cuore” è quindi il tentativo di passare da una sanità burocratica, fatta di richieste e di risposte cartacee e di incomunicabilità, ad una potente integrazione tra cittadino e strutture sanitarie, un patto di solidarietà concreto che si realizzi nei fatti oltre che dichiarato nelle intenzioni. Il cammino è appena iniziato. 10Rasero-Bruni 171:Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 Laura Rasero1 Sergio Bruni2 1 Università degli studi di Firenze, Dipartimento di Sanità pubblica 2 Azienda USL 11 - Empoli L e lesioni cutanee croniche sono definibili come lesioni che provocano la perdita dei tessuti e dei loro annessi (1), sono rappresentate dalle ulcere diabetiche, arteriose e venose, ulcere da pressione e causate da tumore. La cronicità è dovuta al fatto che la guarigione è difficile o spesso impossibile da raggiungere e che l’andamento della lesione non attraversa le fasi tipiche necessarie per arrivare ad una riparazione tessutale (infiammazione, proliferazione e rimodellamento) (2). Sia l’incidenza che la prevalenza delle ulcere croniche sono difficili da determinare a causa delle barriere metodologiche che impediscono di formulare generalizzazioni dai dati disponibili. Il fenomeno è però rilevante sia per numero di persone affette da ulcere, sia per l’onere economico globale derivante dal trattamento e dal tempo assistenziale richiesto. Le ulcere procurano disabilità, dolore e un peggioramento della qualità di vita. Si stima che l’incidenza annuale della presenza di ulcere del piede nella popolazione diabetica è compresa tra il 2.5 e il 10.7% (3-5) In Italia il 30% di chi soffre di diabete da almeno 10 anni ha una forma 9:56 Pagina 171 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 171 Le ulcere cutanee croniche neuropatica distale, il 15% delle persone ospedalizzate hanno una ulcera distale (6). Le ulcere degli arti inferiori colpiscono circa il 1-2% della popolazione adulta (7) e il 3,6% delle persone con più di 65 anni (8). Il 75-90% delle ulcere degli arti inferiori sono dovute a patologia venosa cronica. Tra le ulcere croniche rivestono una notevole rilevanza le ulcere da pressione, caratterizzate da un’area localizzata di danno della cute e dei tessuti sottocutanei, causata da pressione, frizione o da una combinazione di questi fattori (9). Si formano normalmente in corrispondenza di prominenze ossee e la loro gravità è classificata in gradi (I-IV - NPUAP 1998). È ormai consolidata la consapevolezza che le lesioni da pressione tendono a formarsi prevalentemente nei soggetti affetti da patologie che ne compromettono la funzionalità neuromotoria e nei soggetti anziani allettati, alla luce di ciò è facile dedurre che tale problema è destinato a crescere in ragione dell’invecchiamento della popolazione (10). La prevalenza delle lesioni da pressione varia in rapporto all’ambiente in cui il soggetto vive o viene assistito ed alla concomitanza di particolari Un importante problema sociale patologie o morbilità. Da studi epidemiologici condotti si evince che l’incidenza e la prevalenza (dato molto più frequente) delle lesioni da pressione variano a seconda delle popolazioni osservate (11). Le ulcere da pressione sono molto frequenti nelle strutture preposte alle cure sanitarie, così come tra le persone che ricevono cure a domicilio procurando disabilità, dolore, alterazione della qualità di vita e richiedendo un notevole impegno gestionale in termini di risorse umane, materiali e tecnologiche (12-17). In Italia la prevalenza delle persone con presenza di ulcere da pressione è compresa tra l’8% e il 13,2% (18). In ambito domiciliare e nei reparti di cure intensive (Rianimazioni, Unità spinali ecc) la percentuale sale al 20%-66% (19). Le ulcere cutanee tumorali rappresentano un angoscioso problema per alcune persone affette da cancro. Possono svilupparsi nelle ultime fasi della vita o possono manifestarsi e accompagnare la persona per molti anni; alcuni pazienti traggono vantaggio dalla chemioterapia, dalla radioterapia o dall’escissione chirurgica, altri subiscono il continuo deterioramento della lesione (20). La fungating wound è un’ulcera che nasce dall’infiltrazione e dalla proliferazione di cellule maligne attraverso l’epidermide che originano da un tumore locale, da una lesione primaria distante o da metastasi (21, 22). Queste lesioni possono svilupparsi anche molto rapidamente (talvolta in 24 ore) possono assumere l’aspetto “a cavolfiore” (23) o causare tratti sottominati e fistole (24) essendo interessati i vasi ematici e linfatici, i linfedemi e sanguinamenti massivi sono complicanze frequenti (25, 26). Una ulteriore importante complicanza è rappresentata dalla colonizzazione batterica dei tessuti necrotici che produce ristagno ed iperproduzione di essudato che si accompagna a cattivo odore (27-29). Il dolore, vista l’eziopatogenesi multifattoriale, risulta difficilmente gestibile. Queste ulcere procurano degli effetti sulla vita di relazione devastanti (30-34). 10Rasero-Bruni 171:Layout 1 20-07-2011 9:56 Pagina 172 Sae l ute Territorio La gestione della continuità N. 186 - 2011 Le lesioni croniche rappresentano un’importante problematica sociale: oltre a colpire, nelle sue varie forme, un numero importante di soggetti, esse determinano costi diretti, indiretti ed intangibili molto elevati a questi spesso devono essere aggiunti quelli di gestione delle complicanze associate (infezione, dolore, discomfort, ecc.) (35). I costi diretti per le ulcere cutanee croniche ed una frazione attribuibile a patologie correlate (es. infezioni dell’ulcera) includono test diagnostici, servizi ospedalieri e territoriali, servizi ambulatoriali, farmaci e presidi. I costi indiretti riguardano il valore dei guadagni persi a causa della presenza di ulcera e delle complicanze correlate, del tempo speso dalla persona, da amici, da membri familiari e caregivers in genere per la gestione del soggetto affetto. I costi intangibili, sempre di difficile quantificazione, riguardano la stima monetaria del dolore e della sofferenza risultanti dalle lesioni cutanee, dolore ecc. La gran parte delle valutazioni sulle risorse assorbite dalla patologia riguarda generalmente i costi sanitari diretti, ossia quelli sostenuti per trattare o mitigare gli effetti delle ulcere. In Germania è stato stimato che per la gestione delle ulcere solo in termini di medicazione si spenda ogni anno 5 miliardi di euro (36). Ulteriori studi confermano l’importanza del problema dal punto di vista economico (3739). I costi sono destinati ad aumentare nei prossimi anni anche per il progressivo in- vecchiamento della popolazione. A tali cifre devono essere aggiunti alti costi, non solo materiali (ausili e materiale per medicazioni), ma anche quelli determinati dall’impiego di risorse umane dedicate (ore lavoro perse dai familiari, impegno orario dei badanti al domicilio e negli istituti, impegno infermieristico e del personale di supporto nei reparti ospedalieri, ecc.). La presunta spesa per la gestione da parte del personale infermieristico di una lesione cutanea deve essere calcolata considerando la frequenza del cambio della stessa (mediamente 7 volte al mese per le lesioni superficiali e 15 volte per quelle profonde, più volte al giorno per le ulcere tumorali), il tempo speso per medicazione da parte del personale infermieristico (10 minuti per la medicazione superficiale e 20 per quella profonda). La prevenzione delle ulcere, in particolare per quelle da pressione riveste un ruolo importante, sono molti gli studi che hanno dimostrato il ruolo determinante nell’evitare la comparsa o la progressione delle lesioni (4046). Nelle ulcere da pressione è fondamentale ridurre l’immobilità, mobilizzando/posizionando la persona, quando possibile, ogni due ore, garantendo l’alternanza dei decubiti, agendo sulla riduzione dei punti di appoggio, sullo scivolamento e frizione. Tra i presidi utilizzati per la prevenzione delle ulcere da pressione una notevole importanza hanno i materassi. I materassi si possono suddividere in statici (senza motore) che sono costituiti in po- tunnellizzazione, odore, letto dell’ulcera, condizioni della cute perilesionale e bordi dell’ulcera, essudato, tessuto necrotico e presenza o assenza di tessuto di granulazione ed epitelizzazione e la presenza /assenza di dolore), infatti una singola caratteristica non è in grado di fornire dati sufficienti per comprenderne l’eziologia, l’adeguatezza del trattamento e la sua evoluzione. La precoce identificazione delle lesioni che non rispondono al trattamento garantisce la possibilità di orientarsi verso una modalità di gestione diversa, ottenendo così risultati migliori. In letteratura sono ormai presenti molti dati clinici a sostegno dell’ipotesi che un’accurata valutazione della riduzione percentuale dell’area della lesione è un parametro fondamentale nelle prime settimane di trattamento. In particolare, una riduzione dell’area della lesione inferiore al 20-40% nel corso delle prime due-quattro settimane è un dato che fa ragionevolmente supporre che la lesione stia mostrando una scarsa risposta al trattamento. La corretta applicazione di protocolli di gestione e cura delle ulcere e l’introduzione di presidi di nuova generazione come le medicazioni avanzate (in Italia sono presenti circa 3000 prodotti che rientrano in varie categorie (idrocolloidi, schiume in poliretano, idrogeli, idrofibre medicazioni biodegradabili come il collageno e l’acido ialuronico ecc) hanno permesso di ridurre le criticità della problematica attraverso: controllo del dolore con il mantenimento di umidità/bassa ade- 172 liuretano a lento rilascio con memoria lunga della massa corporea o dinamici (movimentazione motorizzata) che si possono classificare in più categorie: a bassa pressione continua, a pressione alternata, questi riducono la pressione tramite il gonfiaggio-sgonfiaggio alternato delle celle/ cuscini, garantendo che vi sia un cambiamento della zona di appoggio del corpo, a cessione d’aria continua, tali presidi riducono la pressione distribuendo il peso corporeo sulla superficie di supporto evitando la compressione del tessuto, il materasso è formato da celle/cuscini gonfiati da un flusso costante, e cedenti aria al fine di ridistribuire i punti di contatto corporeo e letti fluidizzati che presentano microsfere in silicio (usati ad esempio nei centri ustione). La tipologia dei materassi viene scelta per ogni singolo utente in base alla valutazione del rischio di contrarre ulcere (valutato con apposite scale di valutazione del rischio ad es. Braden). In caso di comparsa di ulcera l’obiettivo del trattamento talvolta dovrà mirare al solo miglioramento della qualità della vita e non necessariamente alla guarigione. Per garantire un piano di trattamento realistico ed efficace la lesione deve essere monitorizzata e valutata costantemente. La raccolta dati regolare sullo stato della lesione è uno degli strumenti più importanti per ottimizzare le possibilità di guarigione dell’ulcera. La valutazione delle ulcere comprende molti aspetti (localizzazione, stadio di gravità, dimensione, tratti cavi, tessuto sottominato, 10Rasero-Bruni 171:Layout 1 20-07-2011 9:56 Pagina 173 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 173 N. 186 - 2011 sività e atraumaticità al cambio di medicazione, assorbimento dell’essudato (schiume di poliuretano), riduzione dell’odore (antibiotici e medicazioni al carbone), miglioramento dell’estetica attraverso il ripristino della simmetria corporea con presidi cavitari e sostituzione di medicazioni secondarie voluminose, contenzione dei sanguinamenti (medicazioni emostatiche come gli alginati) (47). Bibliografia (1) Centro Studi Economia sanitaria Ernesto Veronesi, marzo 2003. (2) Di Giulio P. (2001), Le ulcere cutanee croniche, BIF, 6, pp. 227-31. (3) Rith-Najaran S.J. et al. (1992), Identifiyng diabetic patients at high risk for lower extremity amputation in a primary care setting, Diabets Care, 15, pp. 1386-9. 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(46) Ulcere da pressione: prevenzione e trattamento, www.pnlg.it/reg/ 002/ 11Bianchi 175:Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 Stefano Bianchi1 Roberto Bigazzi2 9:57 Pagina 175 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 175 L’insufficienza renale 1 Direttore UOC Nefrologia e dialisi, ASL 6 di Livorno 2 Direttore Dipartimento di Medicina clinica e specialistica, ASL 8 di Livorno [email protected] [email protected] L’ approccio diagnosticoterapeutico e la stessa visione globale della malattia renale cronica (MRC) sono profondamente cambiate nella pratica clinica nefrologica degli ultimi anni. Il nefrologo, figura professionale tradizionalmente “iperspecialistica” e tipicamente ospedaliera, ha sempre “atteso” che la MRC si presentasse alla sua osservazione e questa quasi invariabilmente si manifestava con il quadro dell’insufficienza renale evoluta, da trattare con la terapia sostitutiva (dialisi e trapianto renale) oppure con quello di una glomerulonefrite acuta o cronica, da diagnosticare con biopsia renale e complessi esami immunologici e da curare con protocolli terapeutici tanto complicati quanto spesso non troppo efficaci e ricchi di effetti collaterali. Nella visione nefrologica classica si era quindi profondamente convinti, pur consapevoli che la MRC nasceva al di fuori dell’ospedale, su un territorio poco o per niente conosciuto (quando questa esordisse e vivesse le sue fasi iniziali non era dato quasi mai di sapere), che essa sviluppasse tutto il suo quadro clinico e le sue complicanze in ospedale, in strutture ad alta componente tecno- logica, sostanzialmente impenetrabili da quel mondo esterno che iniziava e terminava alla porta d’ingresso del reparto. Questa visione della MRC negli ultimi anni è profondamente cambiata per motivazioni diverse. In primo luogo, l’adozione sempre più diffusa di metodiche di misurazione della funzione renale e dell’escrezione urinaria di proteine, effettuate mediante l’utilizzo di formule matematiche della velocità della filtrazione glomerulare stimata e la determinazione del rapporto tra escrezione urinaria di proteine e di creatinina su campione urinario del mattino, senza ricorrere alla raccolta urinaria delle 24 ore, metodiche ambedue di semplice esecuzione, alta affidabilità e basso costo e routinariamente utilizzabili in ogni setting clinico, ha svelato che la prevalenza della MRC nella popolazione generale non è cosi bassa come si riteneva. Infatti, data-base epidemiologici realizzati in tutto il mondo hanno dimostrato che la prevalenza della MRC si attesta intorno al 10% della popolazione generale e raggiunge valori ancora più elevati se si considerano popolazioni ad alto rischio di sviluppare un danno renale (diabetici di ti- Insidia spesso sottovalutata: il messaggio al territorio po II, ipertesi, obesi ecc.) (1). La consapevolezza della reale prevalenza della MRC, fenomeno che molti studiosi definiscono con forse eccessiva enfasi “epidemico”, ci ha fatto capire che fino ad oggi avevamo posto la nostra attenzione solo alla piccola parte emersa dell’iceberg MRC, nelle sue fasi evolute e sintomatiche, ignorando l’esistenza di quella parte sommersa, ben più ampia e forse ancor più importante, per i possibili interventi sanitari da mettere in atto, preventivi, diagnostici e terapeutici. In secondo luogo, un’attenta analisi dell’epidemiologia della MRC ci ha indicato che le cause primitivamente responsabili della sua comparsa, dagli stadi iniziali a quelli evoluti della sua fase terminale, non sono più tanto le poco frequenti malattie nefrologiche “tradizionali”, a genesi immunologica o ereditaria, bensì condizioni cliniche non primitivamente nefrologiche, quali il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa e l’obesità, ad alta prevalenza nella popolazione e che, per l’allungamento della vita media e per la migliore sopravvivenza dei soggetti che ne sono affetti, hanno la possibilità di manifestare complicanze renali un tempo ritenute infrequenti. La terza grande sorpresa che i nefrologi, e più in generale i medici che si occupano di medicina interna, hanno potuto osservare negli ultimi anni è l’impressionante aumento dell’incidenza di eventi cardiovascolari (CV), fatali e non, che caratterizza la intera storia naturale della malattia renale (2). Infatti, se da decenni era noto che i pazienti in terapia sostitutiva dialitica hanno un’elevatissima probabilità di presentare eventi CV che da sempre rappresentano la principale causa di morte in questi pazienti, negli ultimi anni è emerso inequivocabilmente che anche negli stadi più precoci di nefropatia, ed in misura tanto maggiore quanto più questa si associa o è conseguenza di condizioni patologiche di per sé ad alto rischio di complicanze CV, il paziente nefropatico ha una probabilità di morire per eventi di questa natura maggiore di 11Bianchi 175:Layout 1 20-07-2011 9:57 Pagina 176 Sae l ute Territorio La gestione della continuità N. 186 - 2011 quanta sia la probabilità di raggiungere gli stadi terminali della malattia renale. La consapevolezza che la MRC rappresenta un importante fattore di comorbidità ed un marcatore di rischio CV, per il suo associarsi e coesistere con numerosissimi fattori di rischio sia tradizionali sia peculiari della malattia renale, ha avuto importanti conseguenze per quanto riguarda l’approccio globale a questi pazienti (3) (Tab 1.). La prima di queste è la necessità di considerare la diagnosi precoce di una malattia renale un momento fondamentale per stratificare il rischio cardio e cerebrovascolare di pazienti diabetici, ipertesi o anche apparentemente privi d’altre comorbidità e che questo momento diagnostico deve coinvolgere figure professionali diverse (medico di medicina generale in primo luogo e quindi specialisti nefrologi, cardiologi, diabetologi ecc.) che utilizzando percorsi diagnostico-terapeutici concordati e condivisi modulano anche temporalmente i diversi momenti d’intervento (chi facosa-quando); in secondo luogo che l’attuale “dispersione” di questi pazienti in setting clinici diversi rende auspicabile che, ovunque il paziente venga valutato, il livello non solo diagnostico ma l’approccio terapeutico ed il follow-up clinico possa risultare omogeneo, con chiarezza sui rispettivi compiti e sui momenti nei quali il referral allo specialista di turno possa essere opportuno, o al contrario differibile perché non necessario in quella situazione clinica. L’approccio diagnostico terapeutico al paziente con diabete mellito di tipo II rappresenta probabilmente il modello clinico paradigmatico per mettere in atto un protocollo d’intervento multidisciplinare. La nefropatia che si manifesta nel diabete mellito di tipo II (causa in alcuni paesi di oltre il 50% della insufficienza renale cronica che giunge alla terapia sostitutiva, dialisi e trapianto renale, 20% nel nostro paese ed in rapida crescita) costituisce probabilmente la situazione che meglio descrive questa fase di transizione epidemiologica delle malattie renali. Non più di trenta anni fà si riteneva che il diabete mellito di tipo II non determinasse, contrariamente al diabete mellito di tipo I, complicanze renali. Oggi sappiamo che questa convinzione derivava dal fatto che questi pazienti non vivevano tanto a lungo da sviluppare complicanze renali, andando incontro a morte sopratutto per eventi CV acuti. Il miglioramento della gestione dei fattori di rischio CV e delle complicanze acute dei pazienti diabetici ha permesso oggi di osservare, in un numero sempre crescente di questi pazienti, lo sviluppo di un danno renale clinicamente rilevante e che costituisce oggi uno dei più frequenti motivi di ricorso alla consulenza nefrologica (per fortuna, a compensare in parte questo aspetto, quasi più nessun paziente con diabete mellito di tipo I giunge all’uremia terminale!). L’evoluzione del danno renale, al pari delle altre complicanze micro e macro- ca afferisce a figure professionali diverse che il più delle volte lavorano secondo criteri clinici e protocolli diagnostici e terapeutici diversi, talvolta in contrasto fra loro, spesso causa d’inutili ripetizioni d’esami diagnostici non necessari e costosi per il sistema sanitario. Nelle prime fasi di malattia del diabete l’impegno renale è praticamente inesistente. In seguito, come segno di sofferenza renale, compaiono la microalbinuria e la proteinuria che continueranno a caratterizzare, assieme alla presenza di ipertensione arteriosa e dislipidemia, il decorso della malattia fino alle forme più gravi di insufficienza renale. Parallelamente allo svilupparsi del danno renale, il paziente diabetico presenterà in maniera sempre più clinicamente evidente le altre complicanze micro e macrovascolari della malattia. Il medico di medicina generale è il primo a vedere 176 vascolari evolve in un lungo periodo di tempo, mediamente due decenni, ed offre quindi numerose opportunità di diagnosi e d’intervento terapeutico, attuabili attraverso modifiche degli stili di vita ed adeguati trattamenti farmacologici. Inoltre, per fortuna, la diagnosi di coinvolgimento renale e la sorveglianza clinica nel tempo di questi soggetti può essere realizzata in tutti i presidi sanitari, anche i più periferici del territorio e con costi usualmente molto limitati. Anche il laboratorio più periferico è in grado, infatti, di fornire risposte rapide, economicamente sostenibili ed esaurienti che ci consentono di studiare le varie fasi dell’evoluzione clinica del danno renale e di verificare la correttezza delle nostre misure terapeutiche. Il paziente diabetico nelle varie fasi che caratterizzano la storia naturale della sua condizione clini- Tab. 1. Fattori di rischio cardiovascolare tradizionali e peculiari del paziente con malattia renale cronica. MCV = malattia cardiovascolare; RAAS = sistema renina-angiotensina-aldosterone; LDL = lipoproteine a bassa densità; HDL = lipoproteine ad alta densità. 11Bianchi 175:Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 il paziente al momento della diagnosi, spesso quando ancora nessuna complicanza è in atto, ed è il solo in grado di prendere in questo momento quelle decisioni che condizioneranno nel bene e nel male la prognosi del paziente. Questa è la fase nella quale (i nefrologi, i cardiologi ed i diabetologi sono ancora lontani, in ospedale) il trattamento adeguato ed intensivo dei fattori di rischio delle complicanze del diabete (trattamento dell’ipertensione arteriosa e della dislipidemia, controllo metabolico del diabete, attuazione di programmi di modifica di stili di vita non virtuosi ecc.) è in grado di ottenere i migliori risultati. Questa è la fase nella quale l’attuazione di misure terapeutiche efficaci è in grado di prevenire o almeno rallentare il rendersi evidente delle complicanze della malattia; più tardi il rendersi evidente delle complicanze richiederà l’intervento dello specialista. Purtroppo il trattamento del paziente in queste fasi, seppure opportuno e con possibilità ancora efficaci di intervento, permette solo un “contenimento” clinico della complicanza ormai presente e non una sua prevenzione. Risulta evidente quindi che chi vede per primo il paziente a rischio di sviluppare una MRC o addirittura prima che questa si manifesti è colui che ha le maggiori possibilità di essere efficace; al contrario chi gestirà la complicanza clinica, renale o cardiovascolare che sia, potrà solo limitare danni che comunque lasceranno un segno importante. Se il nefrologo si 9:57 Pagina 177 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 177 ostina caparbiamente a mantenere la sua posizione ospedaliera d’attesa è destinato a vedere probabilmente l’1% di questi pazienti, e solo nelle fasi evolute, mentre il restante 99% della storia clinica precedente del paziente si svilupperà e verrà gestita sul territorio. Quindi stadiare con precisione il danno renale, utilizzando gli strumenti più semplici ed affidabili, suddividere i compiti d’intervento terapeutico in base alla fase di malattia e definire con esattezza i tempi del followup rappresentano un possibile modello di approccio multidisciplinare ad una patologia cronica quale il diabete mellito (Fig. 1). Inoltre, solo chi opera sul territorio, quindi soprattutto il medico di medicina generale, è in grado di fare diagnosi precoce di nefropatia in queste condizioni, trattare i fattori di rischio cardiovascolare e di progressione del danno renale ed impedire l’instaurarsi di condizioni di danno evolute nelle quali il margine terapeutico risulta notevolmente ridotto. Le stesse considerazione valgono per altre condizioni cliniche, ad esempio per l’ipertensione arteriosa, dove la comparsa di una nefropatia evolutiva diviene sempre più frequente (4). È sul territorio quindi che deve nascere una strategia d’in- tervento attivo; sul territorio devono venire messe in pratica tutte quelle iniziative di prevenzione e diagnosi precoce, concordate tra il nefrologo ed il medico di medicina generale, a costituire un fronte unito nella diagnosi ed assistenza a malati con cronicità di lunga e talvolta lunghissima durata. Per ridurre al minimo possibile il numero di casi d’insufficienza renale grave o gravissima, è necessario quindi intervenire sulla malattia renale fin dalle sue fasi più precoci, all’interno di un percorso strutturato e condiviso fra specialisti diversi (nefrologi, cardiologi, diabetologi, ecc.)e medici di medicina generale. Fig. 1. Storia naturale della nefropatia diabetica e possibili interventi diagnostico-terapeutici concordati fra ospedale (specialisti nefrologi) e territorio (medici di medicina generale) nelle varie fasi d’evoluzione del danno renale. VGF = velocità della filtrazione glomerulare; CV = cardiovascolare; PA = pressione arteriosa; MMG = medico di medicina generale; microalb = microalbuminuria. 11Bianchi 175:Layout 1 20-07-2011 9:57 Pagina 178 Sae l ute Territorio La gestione della continuità N. 186 - 2011 La sempre più frequente attuazione di programmi condivisi d’intervento multidisciplinare, rappresenta il paradigma di come le cose possano andare nella giusta direzione quando l’ospedale ed il territorio concordano sull’esistenza di una domanda (la MRC è una condizione ad alta prevalenza ed un importante e facilmente diagnosticabile fattore di rischio CV) e decidono congiuntamente di lavorare insieme per offrire risposte efficaci ed adeguate (5). Questa esigenza non è sentita solo dalla medicina specialistica. Da tempo infatti anche la medicina generale ha avvertito l’esigenza di affrontare in modo integrato l’approccio alla malattia renale cronica rispondendo in maniera positiva alla richiesta dei nefrologi di costruire insieme percorsi diagnostici e terapeutici condivisi. Un ulteriore impulso è stato offerto dall’attività dei medici di medicina generale che seguendo le istanze del Chronic Care Model, secondo i criteri previsti dalla Regione Toscana, hanno iniziato a seguire in maniera strutturata coorti di pazienti ben definite come ipertesi, diabetici e scompensati di cuore, rendendosi conto della reale importanza che riveste in questi pazienti una diagnosi precoce di danno renale. Si sono quindi identificati percorsi, centrati essenzialmente sul paziente, che delineano con precisione i compiti del medico di medicina generale e dello specialista, partendo dall’identificazione sul territorio di soggetti a rischio di sviluppare un danno renale. All’interno di questi si dovranno identificare liste di pazienti arruolabili e la loro collocazione all’interno di percorsi ben definiti, con il ricorso alla consulenza specialistica del nefrologo, in casi selezionati secondo le istanze dei “Consensus” internazionali, ma nella maggior parte dei casi gestibili re, possano farsi carico della gestione diretta di un numero di pazienti cosi elevato qual è quello, ad esempio, dei pazienti diabetici e degli ipertesi non complicati. La strada da percorrere è una sola: definire protocolli diagnostici e terapeutici condivisi fra tutti i professionisti coinvolti, in misura diversa a seconda delle diverse fasi della malattia, nella gestione del paziente con malattia renale che permettano di attuare in sedi e realtà diverse (gli specialisti in ospedale ed i medici di medicina generale sul territorio) gli interventi più opportuni e maggiormente sostenibili. Il nefrologo illuminato collaborerà con entusiasmo a queste iniziative continuando ad occuparsi della malattia renale nella fase della cronicità evoluta e della acuzie (sperando che questa si riduca sempre di più!) ma sapendo che altri professionisti stanno lavorando assieme a lui nell’interesse del paziente nefropatico. 178 Bibliografia (1) Coresh J., Selvin E., Stevens L.A. et al. (2011), Prevalence of chronic kidney disease in the United States, JAMA, 298, pp. 2038-47; US Renal Data System 2010 Annual Data Report, Am J Kidney Dis, 57 (Suppl 1), pp. 1-526. (2) Go A.S., Chertow G.M., Fan D., McCulloch C.E., Hsu C.Y. (2005), Chronic kidney disease and the risks of death, cardiovascular events, and hospitalization, N Engl J Med, 351, pp. 1296-305. (3) Sarnak M.J., Levey A.S., Schoolwerth A.C. et al. (2003), Kidney disease as a risk factor for development of cardiovascular disease: a sta- dal medico di medicina generale per una lunghissima parte della storia naturale della MRC. Il ruolo del territorio Per ultimo, quale messaggio può inviare un nefrologo al territorio? Io credo un messaggio allo stesso tempo d’aiuto e collaborazione. Di aiuto, perché la strategia dell’attesa della MRC nei suoi stadi evoluti risulta sempre meno sostenibile; l’aumento della cronicità che giunge all’ospedale, infatti, sempre più difficilmente gestibile da un punto di vista sia clinico sia in termini di politica sanitaria che deve allocare ingenti risorse economiche a terapie costose ed impegnative. Nello stesso tempo non è neppure ipotizzabile che gli specialisti delle malattie renali, pochi numericamente ed impegnati nella gestione ospedaliera complessa della patologia nefrologica grave, nella realtà dell’ospedale per acuti ed organizzato per intensità di cu- tement from the American Heart Association Councils on Kidney in Cardiovascular Disease, High Blood Pressure Research, Clinical Cardiology, and Epidemiology and Prevention. Circulation, 108 (17), pp. 2154-69. 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Si tratta di contributi notevoli, assai importanti e dei quali, in ogni caso, bisogna tener conto nell’inquadramento del problema. Il punto di vista che tuttavia vorrei tematizzare, la lente attraverso la quale guardare il problema, è quello delle Medical Humanties, in particolar modo della medicina narrativa 9:59 Pagina 179 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 179 La prospettiva delle Medical Humanities e dell’Educazione terapeutica del paziente (ETP). La medicina narrativa permette, infatti, di focalizzare la centralità del paziente all’interno del percorso di cura, come riferimento assoluto attorno al quale dovrebbero ruotare i diversi interessi, ma, allo stesso tempo, valuta l’apporto fornito dai diversi attori che contribuiscono a realizzare il percorso di cura, autori di narrazioni (della cura) e, spesso, di contro-narrazioni2. In questa prospettiva, è stato più volte sottolineato il carente o scarso collegamento informativo esistente tra la rete dei servizi ospedalieri e quella dei servizi territoriali. Lo scambio informativo è spesso limitato nel contenuto (poche le informazioni trasmesse alla rete territoriale e a volte non della qualità auspicata) e nella forma (quasi sempre condensata, specialmente nei casi di malattie croniche in una lettera/relazione che presenta molti elementi predefiniti). Al di là dei limiti dello strumento, è tuttavia da rimarcare come il problema rimandi anche ad La ricostruzione del percorso di malattia del paziente attraverso strategie e competenze diverse una differenza sostanziale di impostazione professionale, che rende il dialogo difficile. Il personale ospedaliero, infatti, è abituato a lavorare in situazioni di acuzie, con tempi ristretti ma con un’abitudine più spiccata al lavoro multidisciplinare e d’équipe, concentrando i propri interventi nella struttura ospedaliera. Anche il personale delle reti territoriali, in particolar modo la medicina generale, sta riorganizzando il proprio lavoro, da individuale a medicina di gruppo (équipe territoriale), al fine di rispondere in maniera più appropriata ai bisogni dei pazienti, in particolare di quelli cronici, sia in condizioni di routine che dopo una dimissione ospedaliera. Inoltre, sempre di più, anche in virtù di scelte non provenienti dal mondo sanitario, ma di stretta derivazione politica, la struttura ospedalie- ra tende a contrarre la durata dei ricoveri, aumentando il carico di lavoro e di problemi per i servizi territoriali. Il secondo grande gruppo di criticità è dato dal non ancora ottimale funzionamento delle attività di assistenza domiciliare integrata. Le attività di assistenza domiciliare non risultano infatti di attivazione omogenea e sono inoltre presenti molteplici differenze nella composizione dei gruppi di lavoro. Spesso, inoltre, le competenze di carattere medico sono nuovamente rimandate alla medicina generale che, già oberata di lavoro e costretta a dotarsi di sempre nuove competenze, anche di tipo giuridico/normativo, non può che andare in affanno di fronte al carico di lavoro che la dimensione odierna della continuità delle cure propone. Non sono inoltre previste, o solo occasional- Per un sintetico panorama si può vedere l’agile libretto di Simeoni, De Santi, Comunicazione in Medicina, Torino 2009. Per una definizione del concetto di contro-narrazione, ovvero di come in una relazione narrativa non condivisa gli interlocutori producano narrazioni divergenti che, di fatto, influiscono negativamente sull’accordo e sull’agire cooperativo si veda G. Bert, Medicina narrativa. 1 2 12Zonza 179:Layout 1 20-07-2011 9:59 Pagina 180 Sae l ute Territorio La gestione della continuità N. 186 - 2011 mente, figure professionali che operino nelle attività di supporto e collegamento e che possano contribuire alla “presa in carico globale”. Il risultato che spesso si osserva è che il paziente, all’atto della dimissione, si trova di fronte ad un vero e proprio percorso ad ostacoli, che rende la dimensione esistenziale della malattia ancora più dolorosa. Un altro problema è, talvolta, lo scollamento degli interventi, tra il ramo sanitario e quello dei servizi sociali, con una sottovalutazione ed una sottoutilizzazione delle stesse possibilità offerte dal territorio. Gli operatori sanitari, infatti, tendono a conoscere poco le realtà non immediatamente riconducibili al proprio ambito, anche quando si tratta di risorse importanti per la costruzione di un progetto di cura in continuità. In alcuni casi sarebbe possibile attivare dei servizi di assistenza domiciliare o di supporto, ad integrazione delle risorse della rete sanitaria, o coinvolgere attivamente il volontariato e il terzo settore. Spesso, inoltre, alla malattia si accompagnano, o addirittura è la stessa malattia a crearli, molteplici fattori di disagio sociale, che non riguardano solo l’ambito clinico, ma che, tuttavia, ad esso sono profondamente legati. Queste possibilità e queste risorse, tuttavia, andrebbero, invece, attivate e coordinate in un unico progetto di cura, là dove la competenza è e de- ve rimanere di stretto ambito sanitario, ma con ampia apertura ai servizi sociali del territorio. Terzo gruppo di problematiche è quello rappresentato dalle risorse, materiali ed immateriali, dei protocolli e delle procedure insistenti nell’ambito della continuità delle cure. Se è evidente che un lavoro, che risulti efficace sulla continuità delle cure, porta con sé anche la necessità di reperire nuove risorse materiali, mi preme rimarcare gli aspetti relativi alle risorse immateriali, quelli, cioè, legati all’attivazione di procedure e protocolli, che rendano possibile e favoriscano lo scambio comunicativo, l’interazione e la collaborazione multidisciplinare tra diversi gruppi di lavoro. Rispetto a questa galassia di problemi, che risposte possono offrire le Medical Humanities, la medicina umanistica? Un possibile contributo delle Humantities si può articolare attraverso tre percorsi, intimamente legati. La medicina narrativa, col suo approccio peculiare, che pone attenzione al vissuto di malattia del paziente, è una strada importante. La parcellizzazione e separatezza degli interventi, che, come abbiamo visto, costituiscono uno dei nodi problematici della continuità clinica, producono infatti sicuramente una prima vittima: la storia, il vissuto di malattia del paziente. Affidato e condiviso con il generando una serie di problemi ben noti. L’ambizione è, però, ancora più alta, nel momento in cui la compliance dovesse essere sostituita dalla concordance, dalla condivisione, cioè, dell’intero percorso di cura, come massimo segno della continuità. La medicina narrativa diventa, quindi, un ponte che permette di costruire, di ricostruire, quell’alleanza nella fiducia, che deve rimanere la pietra angolare di ogni rapporto terapeutico. Una narrazione può diventare anche una narrazione collettiva, con uno sforzo ermeneutico che coinvolge, oltre al paziente, i diversi operatori della cura (ospedalieri, territoriali, di supporto) che, a vario titolo, si trovano ad interagire con la sua cura e ad entrare con forza dentro la sua vita. Ma la medicina narrativa offre anche la possibilità di rinsaldare un’altra relazione significante: quella tra i curanti, tra questi e gli altri operatori sanitari. Anche loro, infatti, nella loro interazione relazionale, costruiscono narrazioni. La loro relazione professionale è anche e soprattutto un intrecciarsi di narrazioni. Come abbiamo visto, la continuità delle cure ci pone di fronte, soprattutto, a narrazioni che non si intrecciano, che non si co-costruiscono, che non si interpretano reciprocamente. Questo causa, anche nelle relazioni professionali, la costruzione di 180 medico di famiglia, rinarrato con difficoltà, quando è possibile, con le équipe ospedaliere, questo vissuto si frantuma, si parcellizza e viene persa di vista la Illness3, come oggetto principale. Indifferenti alla Illness, faticosa da comprendere e co-costruire, gli operatori si concentrano spesso sulle determinazioni del Disease, che meglio si presta ad una frantumazione degli interventi clinici. Recuperare o attivare, quando questo non fosse stato attivato precedentemente, un approccio e una attitudine narrativa negli operatori indica, innanzitutto, la strada verso la comprensione. Comprensione del paziente, della sua storia, di come convive con la malattia e di come la malattia vive con lui, di come, quindi, il progetto di cura può costruirsi con lui, con la sua storia, con la storia dei suoi familiari e del suo contesto di vita. Questa comprensione è il ponte che creiamo, narrativamente, tra le varie determinazioni della malattia e della cura che, sebbene molteplici e differenti, debbono e possono trovare una sintesi, che prima è narrativa e, in quanto narrativa, diventa anche clinica. Per ogni narrazione non co-costruita, non co-narrata, non compresa, scaturisce il fiorire di contro-narrazioni, divergenti dal punto di incontro dato dalla cura, contro-narrazioni che portano il paziente a sottrarsi alla compliance con i curanti, Illness è il termine usato per indicare il “vissuto di malattia” del paziente, contrapposta al Disease, che indica la malattia intesa unicamente come evento biologico. 3 12Zonza 179:Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 contro-narrazioni, che generano disconoscimento, collaborazioni complicate e frustranti, isolamento. La costituzione di un approccio narrativo comune, attraverso una prassi di supervisione4 condivisa dai vari gruppi di lavoro, prima al loro interno e poi, successivamente, tra gruppi di lavoro diversi, è sicuramente un buon viatico per il superamento delle divisioni, delle fratture e delle azioni monadiche oggi presenti nell’orizzonte delle cure. Questo approccio, che si riflette anche nella metodologia educativa del team learning, potrà e dovrà, a sua volta, sostanziarsi in modalità processuali e metodologiche per permettere la comprensione e condivisione tra curanti, spesso impegnati in momenti clinici diversi tra di loro, ma che possono trovare un terreno comune di confronto e scambio. Il secondo percorso, proposto dalla medicina umanistica, strettamente conseguente da quanto appena richiamato, risiede nel concetto di “presa in carico globale”: è, questo, un concetto guida, un “ideale regolativo”, che orienta le azioni dei diversi operatori e che ha quindi anche una valenza etica, deontologica. Il concetto di “presa in carico 9:59 Pagina 181 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 181 globale” ricorda la lezione della medicina narrativa, che, sebbene le azioni e gli attori terapeutici possano essere diversi, il paziente, con la sua storia di malattia, con il suo vissuto, con i suoi bisogni, è unico. Vi è quindi la necessità di disegnare un unico percorso, un’unica via terapeutica nella quale raccogliere i contributi di tutti. È auspicabile che il paziente, al di là della diversità degli interventi e degli operatori, senta costruirsi attorno a sé un’unica presa in carico, sintetica e sistematica, che si sostanzi poi nei vari interventi specifici che vengono effettuati. Questa sistematicità, questa unitarietà di intenti permette di superare la parcellizzazione degli interventi, la suddivisione tra ospedale e territorio, tra le aree di cronicità e di intervento intensivo. Gli atti clinici, nei loro aspetti necessariamente diversi, per approccio e intensità, sono tutti parte di un’unica “presa in carico”. La “presa in carico globale” è quindi un concetto, un’idea regolativa, che, però, ha anche bisogno di operatività: protocolli, procedure, momenti di incontro e condivisione rappresentano sicuramente la cornice necessaria, il contesto nel quale va a realizzarsi il momento di sintesi. Sarebbe inoltre interessante che la presa in carico globale trovasse, dentro le varie unità operative, personale specificatamente formato, che presidiasse la presa in carico del paziente e che, all’interno dei vari processi e protocolli, agisse come collante tra i vari gruppi e momenti di cura, capace di porsi, attraverso il dialogo, come punto di riferimento nell’accoglienza e nell’orientamento per i pazienti stessi 5. Il realizzarsi di questi due momenti, la parte procedurale e organizzativa e quella delle risorse umane specificatamente formate e dedicate, significa sicuramente fare un passo avanti significativo nel garantire una continuità di cure in linea con le aspettative di adeguatezza clinica e attenzione umana che i pazienti richiedono. Infine, ma non ultima, la terza via, quella dell’Educazione terapeutica del paziente6, che dà concretezza all’idea di ponte tra le diverse anime della cura, in quanto rappresenta un legame ideale tra il momento di cura critico e l’area della cronicità. Principio ispiratore dell’Educazione terapeutica è il paziente competente, competente soprattutto nelle sue capacità di prendersi cura della sua ma- lattia, di effettuare operazioni terapeutiche essenziali, di regolare stili di vita e abitudini in funzione della malattia, di riconoscere adeguatamente i segnali di allarme. L’ETP ci dà quindi la possibilità di avere un paziente che ricorre in maniera adeguata ai servizi sanitari, esercitando la dovuta vigilanza sulla sua salute. L’ETP permette quindi di avere paziente cronici7 in grado di “pesare” meno sul sistema sanitario, garantendo, nel contempo, livelli elevati nella qualità di vita. Recenti studi hanno inoltre evidenziato come i pazienti sottoposti a programmi formali di ETP mostrino una aderenza decisamente più elevata rispetto alla norma. Condizione essenziale perché questo accada è dunque la realizzazione di programmi specifici e formali di ETP, che non possono però prescindere da una forte alleanza terapeutica tra curanti e pazienti, alleanza che può essere garantita dall’approccio narrativo. In questa prospettiva, le strategie offerte dalle Medical Humanities rappresentano sicuramente una possibilità da percorrere, una chance di umanizzazione dell’efficienza che, negli attuali contesti di crisi, non può non essere sfruttata. Per supervisione in questa sede non si intende un momento di controllo, di coordinamento, ma una pratica costante e sistematica di confronto e condivisione dei vissuti clinici e delle narrazioni. Questo momento, oltre ad avere una indubbia valenza relazionale e di costruzione del gruppo negli intendimenti della medicina narrativa, ha anche una valenza epistemica e cognitiva non indifferente. 5 Sto qui pensando alla lunga tradizione di orientamento del counseling, che infatti tanto ha dato al patrimonio esperienziale della medicina narrativa. 6 Per una trattazione essenziale dell’Educazione terapeutica del paziente si può vedere M.G. Albano (a cura di), Educazione terapeutica del paziente. Riflessioni modelli e ricerca, Milano 2010. 7 L’ETP è nata con l’esperienza maturata con alcune malattie croniche quali il diabete. 4 13Coletta-Novelli 182:Layout 1 Sae l ute Territorio 182 David Coletta1 Benedetta Novelli2 Giulia Vannini1 Roberto Tarquini1 1 Dipartimento interaziendale di formazione per la continuità nell’assistenza - Area vasta centro 2 Dipartimento Agenzia per la formazione AUSL11 di Empoli N el corso degli ultimi anni la continuità assistenziale ha cessato di essere un’opzione, un’idea progettuale ed è diventata una necessità. Alla base di questo ci sono stati cambiamenti epidemiologici, sociali, culturali ed economici che hanno aumentato la complessità dell’assistenza e le correlate situazioni di intervento a fronte di un cambiamento della struttura delle famiglie che con sempre più difficoltà sono in grado di prendersi carico dell’assistito. Si tratta di bisogni il cui carattere principale frequentemente non è sanitario (o schiettamente sanitario), ma una somma di esigenze personali e ambientali di fronte alle quali cresce la difficoltà di trovare modalità adeguate di risposta da parte del sistema sanitario. Diventa quindi indispensabile pensare ad una riorganizzazione dei servizi adeguata ai nuovi bisogni di salute, più orientata alla presa in carico della persona, all’ascolto del problema e all’accompagnamento, utilizzando percorsi che coinvolgano i vari professionisti e i vari livelli assistenziali, finalizzati al mi- 20-07-2011 10:00 Pagina 182 La gestione della continuità N. 186 - 2011 Modelli, percorsi, esperienze glioramento dello stato di salute e non solo alla risoluzione dello specifico problema clinico espresso, che rimane comunque fondamentale e la cui gestione deve essere fatta con i criteri della continuità. In definitiva, si tratta di passare dal concetto di sanità a quello di salute. Una delle modalità per rispondere alle esigenze descritte è stata l’organizzazione a due poli ospedale e territorio, dando al territorio compiti e funzioni sempre crescenti: medici di medicina generale, medici di comunità, specialisti, infermieri del territorio, assistenza domiciliare integrata, assistenza domiciliare programmata, residenze sanitarie assistite. Questo modello organizzativo ha dimostrato ampie zone di carenza anche perché il concetto di integrazione, su cui si basa questa modalità organizzativa, porta in sé un errore di fondo: possono essere integrate le procedure ed i progetti ma le azioni non sono integrabili pertanto questo concetto deve essere associato a quello di cooperazione. Ospedale e territorio sulla base di progetti condivisi devono mettere in atto azioni cooperanti e coerenti La continuità: moda, utopia o inevitabile strumento per il futuro? come risposta ai bisogni di salute del cittadino. In ambito ospedaliero questo quadro evolve attraverso due fasi: – La nascita di un polo ospedaliero ad alto livello interventistico e la scelta di aggregare e rafforzare funzioni quali il Pronto soccorso, la medicina critica, le competenze chirurgiche, ed altre che necessitano di alti livelli tecnologici per i momenti di acuzie della patologia. – L’evoluzione dei presidi periferici in strutture finalizzate a funzioni specifiche, più correlate con il territorio e più rispondenti ai problemi della cronicità come del resto previsto dal nuovo PSSIR. Questi ospedali possono svolgere un ruolo molto importante operando con i criteri della continuità; la mancanza dell’assillo di un turn over esasperato può permettere una maggiore stabilizzazione del paziente che, come la letteratura ci insegna, è anche generalmente più duratura permettendo di ridurre il numero dei nuovi ricoveri. Queste strutture, grazie al rapporto privilegiato e costante con il territorio, possono garantire una maggiore attenzione e sorveglianza sull’aderenza terapeutica e una ottimizzazione della presa in carico dei bisogni sanitari e sociali. Al momento l’unica struttura nata con questa mission è l’Ospedale di continuità Santa Verdiana di Castelfiorentino inserito nel Dipartimento interaziendale di formazione per la continuità dell’assistenza dell’Area vasta centro. In questa sede sono già operativi gli elementi sopra citati e, seppure in fase di crescita e di miglioramento, si possono già toccare con mano i benefici apportati dalla stretta cooperazione tra chi opera nell’ospedale di continuità e chi opera nel territorio dove si integrano gli approcci ospedalieri e quelli territoriali, con l’indispensabile supporto dell’Università degli studi di Firenze per quanto 13Coletta-Novelli 182:Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 attiene ricerca e formazione. Questo tipo di struttura costituisce un livello di assistenza ospedaliera con maggior peso assistenziale e minor intensità clinica, più adeguata al target dei malati cronici, attraverso la definizione di moduli specifici con una maggior presenza infermieristica, un collegamento preferenziale con il territorio (punto unico ADI) e uno stretto legame con il servizio sociale. Le nuove strutture dovrebbero prevedere la possibilità di ricovero ordinario, laddove siano possibili moduli di lungodegenza per pazienti in coma o con ventilazione assistita e servizi ambulatoriali e di day service, ricercando una sempre maggiore cooperazione in sinergia di azioni tra i diversi attori dei percorsi assistenziali. Sarebbe auspicabile che i pazienti oncologici in palliazione potessero essere accolti in strutture dedicate (hospice) preferibilmente situate nella stessa sede o in prossimità dell’Ospedale di continuità. Questo nuovo modello diventa elemento centrale dell’e- 10:00 Pagina 183 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 183 quilibrio della continuità dell’assistenza perché a questa affluiscono direttamente diverse figure professionali del territorio allo scopo di portare esperienze, conoscenza delle specifiche situazioni e vivere sul campo il lavoro multiprofessionale condiviso. In questo modo si realizza una sorta di linea di confine che prende atto con maggiore conoscenza di certe realtà, le studia e le rende adattabili all’utilizzo nel territorio in senso stretto. Un sistema, quindi, che si prende carico e risolve problemi reali, li studia, li elabora e standardizza. La capacità di ricerca dell’ospedale di continuità sta nell’individuare e produrre modelli, percorsi e protocolli appropriati di assistenza sul territorio, incrementando al massimo i rapporti interprofessionali e creando “intranet” multiprofessionali. Un altro aspetto importante è che questa struttura ospedaliera può direttamente affrontare, da un punto di vista diagnostico-terapeutico, problemi e patologie che il medico di medicina generale, anche se organizzato in struttu- re avanzate, non è in grado di risolvere. L’affrontare il problema della cronicità necessita la condivisione, la cooperazione e la sinergia di azioni avendo a disposizione una serie di opzioni importanti e indispensabili, patrimonio dell’ospedale di continuità, che sono più difficili da realizzare nell’ospedale organizzato per intensità di cura. Ne conseguono, quindi, molteplici cambiamenti nelle modalità con cui i professionisti svolgono la loro attività e in particolare nella presa in carico dei pazienti e dei rapporti con i loro familiari; si passa da una relazione bidirezionale a una interattiva tra gli attori del sistema. L’aderenza alla terapia è un esempio del percorso ininterrotto della continuità in quanto la stessa rappresenta un importante indicatore di qualità di assistenza. Conclusioni Considerati i cambiamenti in atto, non abbiamo esigenza di nuove riforme del sistema sociosanitario ma di rafforzare la cooperazione tra gli at- tori dell’assistenza e la sinergia tra le diverse strutture. La sperimentazione regionale dell’Ospedale di formazione per la continuità Santa Verdiana di Castelfiorentino ha anticipato e realizzato il cambiamento e rappresenta senz’altro un punto di partenza e di riferimento per i professionisti che vogliono intraprendere questo tipo di percorso. La forza e la novità di questa sperimentazione sono sostenute anche dalla compartecipazione istituzionale dell’Università degli studi di Firenze, dell’Azienda ospedaliero-universitaria Careggi e dell’Azienda USL 11 di Empoli. Come scrive Yokai Benkler nel libro The wealth of networks “le condizioni materiali della produzione in un’economia dell’informazione in rete sono cambiate in modo da favorire l’importanza del social sharing e dello scambio come modalità di produzioni economiche…”. La continuità diventa spazio dello scambio dei saperi per accelerare i processi innovativi a tutti i livelli e migliorare la qualità di cura per il paziente e i familiari. 14Tarquini… 184:Layout 1 20-07-2011 Sae l ute Territorio 184 10:02 Pagina 184 La gestione della continuità N. 186 - 2011 L’ospedale di continuità Roberto Tarquini1, David Coletta1, Silvia Dolenti1, Alice Valoriani1, Nedo Mennuti2, Gian Franco Gensini3 1 Dipartimento interaziendale di formazione per la continuità assistenziale Direzione AUSL 11 Empoli 3 Dipartimento Cuore e vasi - Università degli studi di Firenze 2 T re sono le motivazioni, strettamente connesse l’una alle altre, per le quali è nato l’ospedale di continuità, quale concreta e innovativa risposta ai modificati bisogni di salute. Innanzitutto i dati epidemiologici toscani (analogamente a quanto si verifica in tutta Italia) evidenziano un progressivo aumento della durata della vita media, accompagnato da un invecchiamento della popolazione, sempre più colpita da patologie correlate con l’età. La Toscana presenta l’indice di vecchiaia tra i più elevati del mondo con 192 ultrasessantacinquenni ogni 100 giovani di età inferiore ai 15 anni. Questo fenomeno si associa ad un aumento della prevalenza delle malattie croniche: è stato infatti stimato che, in Toscana, i pazienti con più di 65 anni affetti da BPCO siano circa 100.000, quelli con scompenso cardiaco cronico circa 55.000 e i pazienti anziani con multimorbidità affetti da più di 3 patologie sono circa il 9% (cioè circa 70000 persone). Una popolazione costituita prevalentemente da anziani con pluripatologia presenta bisogni di salute il cui carattere principale frequentemente non è solo sanitario (o schiettamente sanitario), ma la somma di esigenze personali e familiari, di assistenza e di collocazione ambientale di fronte alle quali cresce la difficoltà di trovare modalità adeguate di risposta da parte dei servizi. Mentre il modello assistenziale ospedaliero è sempre più rivolto alla gestione delle acuzie, il territorio si trova a lavorare nelle fasi di post-acuzie e di cronicità che rappresentano la parte più consistente del bisogno di salute dei cittadini e che fa del territorio stesso l’obbiettivo di un potenziamento di risorse da parte del Piano sanitario in vigore e soprattutto, probabilmente, di quello in corso di stesura. La collaborazione tra questi due modelli rimane tuttora scarsa (o addirittura inesistente) tanto che i pazienti cronici presentano troppo spesso un numero elevato (crescente!) di accessi al Pronto soccorso e riammissioni in ospedale maturando progressivamente la percezione/convinzione di “sentirsi non curati”(1) o perlomeno “malcurati “. L’analisi di questa mancanza di integrazione tra ospedale e territorio si appalesa particolarmente in certi passaggi critici che gli an- Le ragioni e i risultati di un’esperienza innovativa che collega ospedale e territorio glosassoni definiscono transition, un piccolo transito di cui il più importante è senz’altro il passaggio tra la degenza in ospedale e il rientro a casa; tuttavia il termine si riferisce a moltissime altre situazioni in cui il paziente è oggetto di qualche cambiamento. Più specificatamente il passaggio del paziente da un medico all’altro, da un reparto ad un altro dello stesso ospedale (ad esempio terapia intensiva-degenza ordinaria) o tra ospedali diversi (es medicina interna-struttura di riabilitazione) (2). Tutti questi momenti possono rappresentare delle criticità, qualora si verifichino in assenza di un adeguato trasferimento di informazioni tra i sanitari e tra sanitari e malati e loro familiari. Se non adeguatamente informato sulle caratteristiche di una struttura, le sue dotazioni di personale e di tecnologia, un paziente che viene trasferito ad esempio dalla terapia intensiva ad una degenza ordinaria, può percepire l’assistenza medica e infermieristica di quella struttura come inadeguata, in quanto di intensità inferiore al reparto di provenienza. In un certo senso vengono deluse delle aspettative e questo non contribuisce alla costruzione di quell’alleanza medico-paziente-famiglia, che è condizione essenziale per un buon percorso assistenziale e la soddisfazione di utenti e operatori. La criticità della dimissione ospedaliera tuttavia è una problematica che non riguarda soltanto il sistema sanitario italiano. Negli Stati Uniti vi sono ogni anno più di 40 milioni di dimissioni dall’ospedale senza informazioni tempestive ed affidabili (relazione di degenza), con conseguente sensibile incremento dei rischi di scarsa aderenza alla terapia, complicanze da inopportuna sospensione dei farmaci, precoci ed evitabili riammissioni (2). Difatti, negli Stati Uniti ben il 19.6% dei pazienti viene nuovamente ricoverato nei primi 30 giorni dalla dimissione e tra le varie cause di riammissioni evitabili vi è la mancanza di follow-up. Questo fenomeno 14Tarquini… 184:Layout 1 22-07-2011 N. 186 - 2011 ha assunto proporzioni tali che a partire dell’ottobre 2012 l’USA’s Federal Medicare System penalizzerà gli ospedali con una percentuale di riammissioni a 30 giorni superiore a quella attesa. La lettera di dimissione costituisce nella pratica clinica lo strumento che dovrebbe “istituire, consolidare” il legame ospedale-territorio potendo influenzare, in modo positivo o negativo, l’aderenza alla terapia e, conseguentemente, il numero di nuovi ricoveri per la stessa diagnosi. Sebbene la letteratura disponibile a proposito è scarsa e frammentaria, sostenuta da studi effettuati per lo più in realtà organizzativo-sanitarie diverse dall’Italia, da una recente revisione delle evidenze è emerso che la comunicazione diretta tra medico ospedaliero e medico di famiglia si verifica poco frequentemente (3%-20%) e il medico di famiglia si trova a “proseguire” le cure, senza aver ricevuto tutti gli elementi potenzialmente utili. Inoltre le lettere di dimissione sono spesso prive di informazioni importanti ai fini clinici, quali i risultati di test diagnostici (che mancano dal 33 al 63% dei casi), la terapia somministrata o note sul decorso ospedaliero (carenti dal 7 al 22%) e la terapia alla dimissione (dal 2 al 40%). Il follow-up consigliato manca in una elevata percentuale di casi (dal 2 al 43%). Evidenze più recenti hanno documentato che all’incompletezza della lettera di dimissione si associano una più bassa qualità di cure e sfavorevoli eventi clinici. Difatti, in uno studio di Moore et al. 11:35 Pagina 185 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 185 (3) è emerso che errori nel “trasferimento delle informazioni” al momento della dimissione si verificavano in una elevata percentuale di pazienti (fino al 50% dei casi) e si associavano ad una aumentata incidenza di riammissioni.Van Walraven et al (4) hanno documentato che il rischio di riammissione era molto più elevato per quei pazienti che venivano seguiti da medici ai quali non era stata consegnata una lettera di dimissione. Roy et al (5) hanno osservato come il 40% dei pazienti, al momento della dimissione, devono ancora ricevere i risultati di esami effettuati durante il ricovero, risultati che spesso non vengono comunicati ma che, nel 10% dei casi, richiederebbe un provvedimento successivo. Infine, come recentemente descritto, i pazienti sono particolarmente esposti ad errori medici nei giorni immediatamente successivi alla dimissione. Il 49% dei pazienti dimessi da ospedali è vittima di almeno un errore nei giorni successivi alla dimissione stessa, errore che riguarda più spesso la terapia. Circa il 19-23% dei pazienti presenta dopo la dimissione effetti collaterali dei farmaci, effetti che potevano essere prevenuti da una più accurata e corretta comunicazione. Sulla base di queste evidenze, il Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations (JCAHO) (6) ha stabilito che la lettera di dimissione deve essere completata entro 30 giorni dalla dimissione e che deve comprendere “la causa del ricovero, gli elementi significativi emersi du- rante la degenza, le procedure e i test diagnostici effettuati, la terapia somministrata, la descrizione delle condizioni del paziente alla dimissione, la terapia consigliata e le informazioni fornite al paziente e alla famiglia”. L’ospedale per la continuità L’ospedale per la continuità nasce nel gennaio 2010 al Santa Verdiana di Castelfiorentino dall’intesa tra la Regione Toscana, l’Università di Firenze e l’AUSL 11 con la precisa volontà/esigenza di colmare una frattura tra il momento ospedaliero specialistico e quello della medicina generale, in una realtà territoriale in cui questo ospedale sarebbe stato destinato alla chiusura con l’inizio dell’attività del nuovo Ospedale San Giuseppe di Empoli. Le istituzioni in questione, hanno così formalizzato un progetto che ha consentito non solo di non chiudere la struttura, ma di rilanciarla, arricchendola di nuove professionalità e facendone un modello di lavoro da esportare in caso di un buon esito dei risultati. Il principio informatore dell’organizzazione del lavoro al Santa Verdiana è che la medicina moderna non può più basarsi sul lavoro del singolo professionista, che, in scienza e coscienza, è l’unico responsabile della salute del proprio assistito: sia in ospedale che sul territorio i problemi sanitari della popolazione possono essere efficacemente affrontati e gestiti solo da un team che unisca competenze professionali diverse. Il Santa Verdiana rappresenta nei fatti un’unica struttura in cui i due modelli di medicina (quello della medicina generale e quello della medicina specialistico-ospedaliera) si fondono in modo da utilizzare gli elementi più funzionali di ambedue. Il lavoro dell’ospedale di continuità è coordinato dal sinergismo tra il docente universitario ed il medico della medicina generale, sinergismo grazie al quale è possibile esprimere la continuità assistenziale nei suoi principali aspetti: a) mediante l’instaurazione e quindi l’implementazione di un dialogo costruttivo tra il medico della struttura e il MMG; b) facilitando la comunicazione tra ospedale e territorio (soprattutto nei momenti critici dell’ammissione e della dimissione); c) mediante la condivisione dei percorsi diagnosticoassistenziali (con la possibilità di ricovero diretto dal territorio); costituendo un centro formativo per le figure professionali coinvolte nel processo assistenziale (medici e infermieri, studenti per le lauree di I e II livello di area sociosanitaria, medici specializzandi e tirocinanti per la medicina generale). L’Università degli studi di Firenze coordina questo nuovo modello formativo aprendosi, da un lato, alla medicina generale e, dall’altro, riaffermando il ruolo centrale della medicina interna. Il ruolo dell’università è, nella pratica quotidiana, quello di organizzare i momenti formativi per il personale sanitario del Santa Verdiana, per gli operatori delle altre aziende (nell’ambito 14Tarquini… 184:Layout 1 20-07-2011 Sae l ute Territorio 186 della “continuità di cure”) e nell’organizzare l’ attività di ricerca. Quest’ultima ha come finalità primaria quella della raccolta e di sistematizzare tutti gli elementi che permettano di esportare l’ospedale per la continuità in altre realtà sanitarie. Dal punto di vista assistenziale l’attività del Santa Verdiana è così organizzata: – Medicina di continuità (38 posti letto): per i malati con problemi cronici riacutizzati o anche acuti, e complessi ma con basso grado di criticità. – Long term care (10 posti letto): per malati con gravi problemi neurologici, con o senza tracheotomia e ventilazione assistita. Nel marzo 2010 è iniziata anche l’attività del day service, con l’obiettivo di organizzare in percorsi le prestazioni specialistiche e diagnostiche indispensabili a chiarire un dubbio diagnostico complesso, riducendo al minimo gli accessi dell’ammalato ai servizi e garantendo la relazione fra il medico curante e gli specialisti coinvolti. Ad oggi il day service è attivo 2 volte alla settimana. Al day service si accede su richiesta del MMG che contatta tramite mail o telefonicamente il medico al momento responsabile del DS, che provvede a fissare la prima visita. Tutti i medici dell’organico ruotano in day service, con turni di 2 mesi, in modo da non rendere troppo frammentaria la loro presenza e facendo sì che lo stesso medico chiuda i casi che ha preso in carico la prima volta, nei limiti delle possibilità. 10:02 Pagina 186 La gestione della continuità L’accesso dei pazienti alla struttura di degenza avviene attraverso contatto diretto fra medico curante e medici dell’ospedale, oppure per trasferimento diretto dal Pronto soccorso o da altri reparti ospedalieri (Fig. 1). Le caratteristiche dei pazienti che possono essere ricoverati al Santa Verdiana sono quelle di pazienti complessi, ma con criticità medio-bassa; questa viene identificata applicando uno score internazionale validato che è il Modified Early Worning Score, MEWS. I pazienti che possono essere ricoverati nella nostra struttura devono avere un MEWS score < 3, livello che identifica una bassa probabilità di deterioramento del paziente nelle 48 ore successive. Nella Tab. 1 è stata brevemente indicata l’attività di ri- N. 186 - 2011 Fig. 1 covero, con alcuni elementi di confronto con l’attività dello stesso ospedale nell’anno 2009. Dai dati riportati in Tab. 1 possiamo fare alcune considerazioni: a) il numero di pazienti ricoverati è stato sovrapponibile a quello dell’anno precedente nonostante la riduzione dei posti letto nel mese di giugno da 52 a 48, ma si è osservata una sen- Tab. 1 Media giorni di degenza Riepilogo anno 2009 Riepilogo anno 2010 17 13.11 Media età 78 78.7 Degenze < 3 gg 116 19 Numero ingressi continuità 691 697 Ingressi dal domicilio continuità 186 Ingressi Empolese 184 Ingressi Valdarno 107 Ingressi Valdelsa 406 Dimessi a domicilio con ventilazione assistita 1 Lungodegenza ingressi 78 Lungodegenza dimessi a casa 30 Lungodegenza dimessi Ospedale San Miniato 10 Lungodegenza dimessi verso RSA/RSD H24 6 Dimessi continuità verso RSA 21 Dimessi verso “Le Vele” modulo riabilitativo o Alzheimer 19 Segnalazione di fragilità sociale e/o sanitaria (Punto unico ADI) 101 Pazienti in attesa di RSA 0 14Tarquini… 184:Layout 1 20-07-2011 N. 186 - 2011 sibile riduzione della degenza media e un incremento importante dell’indice di occupazione media che è passato dal 61,9% del 2009 al 75,3% del 2010. Anche la provenienza dei pazienti ricoverati si è modificata, infatti a differenza dell’anno precedente solo il 10,3% si ricovera per trasferimento dagli altri reparti ospedalieri; b) è interessante osservare come, nell’ambito di una più stretta comunicazione ospedale territorio, circa un terzo dei pazienti (186/697, 26.6%) proveniva direttamente dal proprio domicilio, evitando un passaggio in DEA, che spesso rappresenta un disagio soprattutto per pazienti anziani nonché un impegno dei medici che viene sottratto ai pazienti acuti. Si tratta dei ricoveri su indicazione del MMG, con MEWS < 3, che in più occasioni sono venuti nella nostra struttura per avere/dare notizie sui propri assistiti e condividere il processo di cura e di dimissione. Tuttavia, i contatti tra i medici dell’ospedale e i colleghi della MG sono stati garantiti soprattutto dalle mail (4-5 al giorno) e dai contatti telefonici (una media di 8 al giorno). Il sistema è risultato sicuro ed appropriato, in quanto abbiamo avuto un solo caso di under-triage tra i pazienti provenienti dal domicilio, che è stato prontamente inviato in DEA, e nessun caso di over-triage, confermando appunto l’appropriatezza dei ricoveri; 10:02 Pagina 187 Sae l ute La gestione della continuità Territorio 187 c) le strutture di lungodegenza dovrebbero avere uno stretto collegamento con il territorio, interfacciandosi con i medici di famiglia e con l’attività distrettuale in grado di organizzare/erogare l’assistenza domiciliare integrata e la presa in carico presso le residenze socioassistenziali (RSA), in quanto il ricovero in lungodegenza non dovrebbe essere un ricovero “a vita”, ma rappresentare un momento assistenziale nell’ambito di una malattia cronica. In quest’ottica sono stati raggiunti buoni risultati riuscendo a dimettere verso il domicilio o verso altre strutture il 59% dei ricoverati. Tipologia di pazienti ricoverati Vengono ricoverati pazienti sia nell’immediata fase acuta che post-acuta per patologie complesse, multiorgano e/o con problematiche sociali, conseguenti ad una fase di scompenso di una patologia spesso cronica, al fine di infuenzare positivamente i processi biologici che sottendono il recupero riducendo l’entità della disabilità. La totalità dei pazienti è stata dimessa con più di due diagnosi a dimostrazione della multiproblematicità dell’utenza che impone sempre più una collaborazione tra diverse figure professionali: infermieri, assistenti sociali, medici ospedalieri, medici di medicina generale, medici di comunità. Complessivamente la ricorrenza delle più frequenti pa- tologie sono state: le malattie cerebro vascolari (222 casi), le malattie cardiovascolari (246 casi), la riacutizzazione di BPCO (70 casi), le infezioni (357 casi), la sindrome da allettamento (122 casi) e le neoplasie (133 casi). Per quanto riguarda l’attività formativa possiamo così sintetizzare. Attività formativa su studenti di Medicina e di Scienze infermieristiche: Hanno svolto il tirocinio pratico del V anno presso la nostra struttura 15 studenti di Medicina, uno dei quali ha poi effettuato anche la settimana opzionale. Tra gli studenti delle Scienze infermieristiche il tirocinio è stato svolto da 24 allievi, 10 invece sono stati gli OSS.L’attività di tesi: 2 studenti del CdL in Medicina e chirurgia si sono laureati con tesi sperimentali su argomenti inerenti la continuità assistenziale, con dati raccolti presso la nostra struttura. In questo momento, altri 2 studenti del CdL in Medicina e chirurgia e 1 delle Scienze infermieristiche stanno lavorando alla loro tesi di laurea, sempre con il Prof. Tarquini come relatore e il Dr Coletta come controrelatore su argomenti inerenti il progetto del Dipartimento interaziendale per la continuità dell’assistenza. Attività formativa per il personale della struttura: Abbiamo organizzato per il personale del Santa Verdiana tre corsi su argomenti quali: 1. Il lavaggio delle mani e la prevenzione delle infezioni. 2. Le indicazioni alla ventilazione assistita e la gestione dei ventilatori domiciliari. 3. La prevenzione e il trattamento delle lesioni da pressione, tutti argomenti che hanno un forte impatto nella quotidianità lavorativa. Per quanto riguarda la collaborazione con i MMG, punto nodale e qualificante del progetto, sono stati fatti molti incontri con le équipe territoriali e con il gruppo dei referenti di équipe della ASL11. Nel maggio 2011 abbiamo organizzato il primo Congresso sulla continuità assistenziale, al teatro di Castelfiorentino, con molti relatori provenienti da fuori azienda (qualcuno anche internazionale) e soprattutto dall’Azienda ospedaliero-universitaria Careggi. Il Congresso ha visto un notevole numero di iscritti, sia tra i medici che tra gli infermieri ed è stato molto ricco di spunti interessanti e di scambi di opinione tra i vari partecipanti, in fase di discussione, che ci ha confermato quanto l’argomento trattato fosse sentito e di attualità per la maggior parte degli intervenuti. In conclusione, il bilancio di questo primo anno di attività ci appare positivo, anche se molti sono gli aspetti migliorabili, soprattutto il coinvolgimento partecipe, anche con periodi di lavoro in ospedale, dei medici del territorio e l’ottimizzazione dei percorsi di trasferimento dalle altre strutture, mediante la stesura di protocolli “ad hoc” che riducano al minimo la carenza di infor- 14Tarquini… 184:Layout 1 20-07-2011 10:02 Pagina 188 Sae l ute Territorio La gestione della continuità mazione tra le strutture e, in ultima analisi, i rischi per il paziente. Nelle conclusioni a noi piacerebbe sottolineare questo: la medicina che è stata fatta in quest’anno al Santa Verdiana è senza dubbio una medicina nuova che, al di là delle difficoltà intrinseche e dei tanti aspetti ancora migliorabili, sembra aver dato risultati soddisfacenti in termini più strettamente assistenziali (degenza media, possibilità di creare un percorso territoriale per i malati cronici) che di comunicazione tra i vari operatori (“in primis” il MMG, con miglioramento della continuità e della condivisione terapeutica). Il Santa Verdiana non ha unicamente caratteristiche di ospedale di continuità ma è risultato essere in grado di porsi anche 188 Bibliografia (1) Tarquini R. et al. (2010), La continuità: un nuovo modello, Recenti Progressi in Medicina, 101 (7-8), pp. 314-9. (2) Ranjit S. et al. (2011), Improving transitions in inpatient and outpatient care using a paper or a web-based journal, J R Soc Med Sh Rep, 2, p. 6. (3) Moore C. et al. (2003), Medical errors related to discontinuity of care from an inpatient to an outpatient setting, J Gen Intern Med., 18, pp. 646-51. N. 186 - 2011 come riferimento territoriale, accogliendo e trattando pazienti provenienti dal DEA con patologie acute/riacutizzate a bassa criticità ma elevata complessità, ma anche direttamente dai MMG che trovano nella struttura una costante collaborazione e una pronta risposta alle necessità di ricovero o di diagnostica complessa, mediante la degenza o il servizio di day service. Infine è nostra convinzione che, grazie ad una attività formativa continua, che va sicuramente implementata, ma che ha rappresentato una costante della nostra attività e dei nostri obbiettivi, con il contributo costruttivo della gran parte del personale, si siano delineati gli elementi essenziali per poter esportare questo modello in altre realtà. (4) van Walraven C. et al. (2002), Effect of discharge summary availability during post-discharge visits on hospital readmission, J Gen Intern Med.,17, pp. 186-92. (5) Roy C.L. et al. (2005), Patient safety concerns arising from test results that return after hospital discharge, Ann Intern Med., 143, pp. 121-8. (6) Standard IM.6.10: Hospital Accreditation Standards, Oakbrook Terrace, Ill: Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations, 2006, pp. 338-40. 15Ciarrocchi(ESP) 189:01Panti 70 N. 186 - 2011 Angela Ciarrocchi1 Adriana Tonini1 Paola Pedani1 Sara Marconi1 Fioretta Pratesi2 Monica Bontà2 20-07-2011 10:04 Pagina 189 Esperienze dal territorio Sae l ute Territorio 189 Imparare la salute Promuovere la salute nelle scuole primarie di primo grado. Un progetto sperimentale 1 UO Educazione alla salute ASL 7 Siena 2 UO Educazione alla salute ASL 6 Livorno C on l’entrata in vigore della legge riguardante l’autonomia scolastica, la scuola è stata chiamata ad un ripensamento profondo delle finalità educative, dei contenuti e delle modalità del processo di insegnamento. Tale ripensamento ha riguardato anche gli interventi per la promozione della salute, ambito di collaborazione tra istituzioni scolastiche e servizi di Educazione alla salute delle ASL Toscane. Su input dell’OMS è stata messa in atto una notevole attività formativa sulla metodologia delle life skills, definite come “abilità del comportamento adattivo e positivo che consentono alle persone di rispondere efficacemente alle richieste ed alle sfide della vita quotidiana”. Nel tentativo di applicare concretamente questo metodo, le ASL di Siena e di Livorno hanno collaborato con i docenti per strutturare un percorso rivolto agli alunni della scuola primaria di primo grado. Questa fascia di età, infatti, è quella che maggiormente può avvantaggiarsi delle nuove metodologie basate sul raggiungimento delle “competenze di vita” prima che patterns negativi di comportamento e di interazione diventino stabili. Uno dei nostri obiettivi è stato quello di aiutare le istituzioni scolastiche a passare da interventi di promozione della salute centrati sulla figura dell’esperto (spesso estemporanei, frammentari e non in grado di fornire continuità nella relazione) ad altri centrati sulla figura del docente. L’efficacia dell’intervento preventivo non può prescindere infatti dalla quotidianità e dalla vicinanza emotiva tra educatore ed educando. La nostra progettazione ha tenuto conto anche di una ulteriore notevole criticità, cioè la difficoltà a valutare l’efficacia degli interventi realizzati. Per superare ciò il progetto prevede che ogni alunno, al termine dell’anno o del ciclo scolastico, venga valutato sul grado di acquisizione di ogni competenza con strumenti facili da utilizzare, immediati e che favoriscano un’autovalutazione. Tra quelli proposti, un esempio è “l’albero delle regole e delle competenze”: un albero di vario materiale costruito dagli alunni con la collaborazione degli insegnanti, che può rappresentare il singolo o tutta la classe; ogni foglia è una competenza raggiunta e/o una regola discussa e condivisa, e con l’aumentare delle competenze nuove foglie verranno aggiunte. Abbiamo posto alla base della nostra progettazione le life skills identificate dall’OMS come fondamentali per il processo formativo e trasversali a tutte le altre, quali: capacità di prendere decisioni, capacità di risolvere i problemi, pensiero creativo, pensiero critico, comunicare in modo efficace, capacità di relazioni interpersonali, autoconsapevolezza, empatia, gestione delle emozioni, gestione dello stress. Oltre a queste, il gruppo di lavoro formato da operatori ASL e insegnanti della scuola primaria ha cercato di individuare nel dettaglio quali competenze in tema di salute dovessero acquisire gli alunni al termine della scuola elementare, intendendo per competenze la capacità di comprendere e trasformare in comportamenti corretti le informazioni ricevute con la finalità di fare le scelte più giuste per il proprio benessere. Sono stati così selezionati quattro campi di intervento. Nel campo “come sono fatto” vengono illustrati temi riguardanti l’igiene personale, la conoscenza del funzionamento del corpo umano, l’importanza del movimento, la corretta postura e la prevenzione delle abitudini dannose per la salute (come fumo ed alcol). “Come mangio” approfondisce invece il tema di una corretta alimentazione e il rapporto tra movimento e alimentazione. “Come gioco” tratta della sicurezza negli ambienti di vita, dell’educazione al rispetto di sé, dell’altro e dell’ambiente, del rapporto con i “media” e con gli animali di affezione. Infine, “come mi sento” riguarda l’educazione affettiva e la gestione positiva delle emozioni. Per ciascuno di questi campi di intervento, il progetto prevede competenze da raggiungere per ogni anno della scuola primaria. In totale, all’inizio dell’anno scolastico 2010/2011, è stata presentata una proposta contenente 15Ciarrocchi(ESP) 189:01Panti 70 Sae l ute Territorio 190 68 obiettivi con i relativi criteri di valutazione. La sperimentazione ha coinvolto attivamente tutti gli insegnanti e il lavoro da affrontare è stato concordato e condiviso in modo da adattare la proposta ad ogni classe secondo i bisogni rilevati dagli insegnanti e le potenzialtà degli alunni. La metodologia adottata, condotta in modo interdisciplinare, comprende aspetti ludici, immaginativi e produttivi, utilizzando tecniche e strumenti in grado di sollecitare la creatività degli alunni e di stimolare la curiosità di acquisire nuove cono- 20-07-2011 10:04 Pagina 190 Esperienze dal territorio scenze, la competizione positiva, l’abitudine al lavoro di gruppo, la responsabilizzazione individuale, la spontaneità e la comunicazione tra ragazzi e tra gli stessi e i docenti. Sono stati coinvolti attivamente nel progetto anche i genitori degli alunni al fine di sensibilizzarli e informarli su alcune tematiche (come ad esempio l’alimentazione). Non essendo possibile in questa sede, per limiti di spazio, riportare l’intera proposta, ci limitiamo ad alcuni obiettivi specifici o comportamenti osservabili tra i 68 proposti: – il bambino riconosce i vari – – – – – sapori: salato, dolce, aspro, amaro, insipido; il bambino impara ad avere una dieta variata; il bambino sa attraversare la strada, conosce le regole sui viaggi in auto (seggiolini e cinture) e quelle per andare in bici; il bambino conosce le principali caratteristiche di comportamento degli animali domestici più conosciuti; il bambino rispetta i tempi di turnazione di un dialogo; il bambino è capace di risolvere i conflitti, analizzando il problema e trovan- Tabella percorso della classe Classe V A Scuola ………………………………………………………… N. 186 - 2011 do le possibili soluzioni; – igiene personale: denti (gestione dello spazzolino, quando e come lavarsi i denti, cosa succede ai denti non curati); – il bambino conosce le principali modalità di contagio delle malattie: virus, batteri e come si trasmettono. Per ogni obiettivo specifico sono riportate, nella progettazione, le azioni e gli strumenti consigliati. Ogni classe avrà così il suo percorso scegliendo tra gli obiettivi proposti quelli più idonei alle esigenze degli alunni (vedi Tabelle seguenti). 15Ciarrocchi(ESP) 189:01Panti 70 N. 186 - 2011 20-07-2011 10:04 Pagina 191 Esperienze dal territorio Sae l ute Territorio 191 Scheda alunno …………………………………………………………… Classe V A Scuola ………………………………………………………… Conclusioni La scelta degli obiettivi e dei comportamenti osservabili è improntata su un concetto olistico di salute intesa come promozione di idee e comportamenti orientati al benessere individuale e collettivo; ne deriva che il raggiungimento della condizione di salute determina una valorizzazione delle potenzialità di ogni individuo. Determinante è stato, ovvia- mente, il contributo degli insegnanti viste le loro specifiche competenze e la loro conoscenza del mondo dei bambini. Il progetto è attualmente in corso di realizzazione. Le scuole che hanno aderito sono circa il 50% di quelle inizialmente selezionate tra le due ASL, con un numero molto alto di insegnanti coinvolti. Il rispetto delle fasi e dei tempi di realizzazione è stato puntuale anche e soprattutto perchè vi era la necessità di integrarlo con i tempi dell’attività scolastica. Si sono presentate delle difficoltà legate alle resistenze degli operatori a cambiare modalità operative per adattarsi ad una articolazione del lavoro più pragmatica e meno referenziale. Anche l’idea della valutazione individuale di ogni alunno ha visto alcune perplessità degli inse- gnanti, risolte poi dopo aver verificato l’agibilità e la velocità di utilizzo dello strumento. Proprio nel percorso di valutazione dell’intervento si può individuare uno degli aspetti più innovativi di questo progetto. La valutazione di esito, come noto, risulta infatti particolarmente difficile da definire al termine degli interventi di promozione della salute nelle scuole. 15Ciarrocchi(ESP) 189:01Panti 70 Sae l ute Territorio 192 20-07-2011 10:04 Pagina 192 Esperienze dal territorio Bibliografia Bestini M., Braibanti P., Gagliardi M.P. (2004), La promozione dello sviluppo personale e sociale nella scuola: il modello Skills for life 11-14 anni, Franco Angeli, Milano. Bion W.R. (1971), Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma. Boda G. (2001), Life skill e peer education - Strategie per l’efficacia personale e collettiva, La Nuova Italia, Milano. Goleman D. (1998), Lavorare con intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano. Ma Slow (1971), Verso una psicologia dell’essere, Astrolabio, Roma. Trombetta C. (1989), La creatività - Un’utopia contemporanea, Sonzogno - Gruppo editoriale Fabbri - Bompiani. N. 186 - 2011 World Health Organization (1986), Ottawa Charter for Health Promotion International Conference on Health Promotion, Ottawa. World Health Organization (1994), Training Workshops for the Development and Implementation of Life Skills Programmes, Genèva. World Health Organization (1997), Life Skills Education for Children and Adolescents in Schools, Introduction and Guidelines to Facilitate the development and Implementation of Life Skills Programmes, Genèva. World Health Organization (1998), Health Promotion Glossary, Genèva. World Health Organization (1999), Partners in Life Skills Education, Genèva.