La gestione della continuità

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La gestione della continuità
ISSN 0392-4505
Anno XXXII - Maggio-Giugno 2011
186
Rivista bimestrale
di politica sociosanitaria
Laboratorio Regionale
per la Formazione Sanitaria
La gestione della continuità
Maggio-Giugno 2010
E 15,00
Salute e Territorio - Registrazione al Tribunale di Firenze n. 2582 del 17/05/1977
Poste Italiane SpA - Spedizione in Abbonamento Postale - Regime libero - 70% - CNS/CBPA - CENTRO 1
Quarantasette luoghi comuni sui disastri
La sanità toscana per l’Unità d’Italia
La rete “Unire”
I modelli organizzativi territoriali
Le cure intermedie geriatriche per il paziente cronico complesso
La riabilitazione nell’adulto
La continuità della cura nel paziente oncologico
La gestione del dolore cronico
La cardiologia in rete
Le ulcere cutanee croniche
L’insufficienza renale
La prospettiva delle Medical Humanities
Modelli, percorsi, esperienze
L’ospedale di continuità
Imparare la salute
Contributi
Monografia
Esperienze dal territorio
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Territorio
Direttore responsabile
Mariella Crocellà
Redazione
Antonio Alfano
Gianni Amunni
Alessandro Bussotti
Francesco Carnevale
Bruno Cravedi
Laura D’Addio
Gian Paolo Donzelli
Claudio Galanti
Carlo Hanau
Gavino Maciocco
Benedetta Novelli
Mariella Orsi
Daniela Papini
Paolo Sarti
Luigi Tonelli
Comitato Editoriale
Gian Franco Gensini, Preside Facoltà di Medicina
e Chirurgia, Università degli Studi di Firenze
Mario Del Vecchio, Professore Associato Università
degli Studi di Firenze, Docente SDA Bocconi
Antonio Panti, Presidente Ordine dei Medici Chirurghi
e degli Odontoiatri della Provincia di Firenze
Luigi Setti, Direttore Laboratorio Regionale
per la Formazione Sanitaria - FORMAS
Segreteria di redazione
Simonetta Piazzesi
349/4972131
186 Rivista bimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. Gambassini
FORMAS - Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria
Anno XXXII - Maggio-Giugno 2011
Sommario
130
D. Alexander
Quarantasette luoghi comuni sui disastri
135
A. Panti
La sanità toscana per l’Unità d’Italia
138
G. Belleri
La rete “Unire”
Monografia
La gestione della continuità
145
G. Maciocco
I modelli organizzativi territoriali
150
M. Inzitari
Le cure intermedie geriatriche
per il paziente cronico complesso
155
F. Benvenuti, A. Taviani
La riabilitazione nell’adulto
159
L. Cataliotti, R.D. Mediati
La continuità della cura nel paziente
oncologico
163
R.D. Mediati
La gestione del dolore cronico
167
F. Bandini, G. Banchi, I. Berni,
F. Cellerini, A. Fumarulo,
M. Guarnieri, P. Petrone,
M. Vannucci, S. Vignini,
A. Zuppiroli
La cardiologia in rete
171
L. Rasero, S. Bruni
Le ulcere cutanee croniche
175
S. Bianchi, R. Bigazzi
L’insufficienza renale
179
M. Zonza
La prospettiva delle Medical Humanities
182
D. Coletta, B. Novelli,
G. Vannini, R. Tarquini
Modelli, percorsi, esperienze
184
R. Tarquini, D. Coletta,
S. Dolenti, A. Valoriani,
N. Mennuti, G.F. Gensini
L’ospedale di continuità
Segreteria informatica
Marco Ramacciotti
Direzione, Redazione
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Questo numero è stato chiuso in redazione
il 15 giugno 2011
Esperienze dal territorio
189
A. Ciarrocchi, A. Tonini,
Imparare la salute
P. Pedani, S. Marconi, F. Pratesi,
M. Bontà
Abbonamenti 2011
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Estero € 60,00
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David Alexander
CESPRO - Centro di studio
della Protezione civile Università di Firenze
[email protected]
L
a letteratura su come il
pubblico percepisce i rischi di disastro è ormai
ampia (Larsson e Enander,
1997; Brilli e Polic, 2005; Kirschenbaum 2005). Si indaga
anche sull’influenza della
cultura popolare nella percezione delle calamità (Couch,
2000; Palm 1998), con particolare attenzione all’influenza del cinema (Bahk e
Neuwirth, 2000; Mitchell et
al., 2000; Quarantelli, 1985).
Da questi studi vengono fuori
solide evidenze che alcuni
luoghi comuni sui disastri sono largamente diffusi, ben radicati e fortemente creduti
(Fischer, 1994; Grenstad e
Selle, 2000). Come scriveva
Jeffrey Arnold nella rivista
Prehospital and Disaster Medicine (2006): “Almeno una cosa è diventata prevedibile dei
disastri negli anni recenti:
una volta che avviene il disastro, verrà seguito da un eruzione di luoghi comuni”.
Uno degli aspetti che colpisce
di più dei disastri moderni è
la schiacciante inevitabilità
degli errori che vengono commessi, i luoghi comuni che
vengono diffusi e le inefficienze che caratterizzano la
loro gestione. Diversi eventi
forniscono esempi di come
questi luoghi comuni sono
importanti. Ad esempio, il 4
ottobre 1999 sia Agence Fran-
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Quarantasette luoghi
comuni sui disastri
ce Presse (AFP) che il Servizio
mondiale della BBC hanno riportato che le alluvioni nell’America centrale avevano
dato luogo a casi di febbre
dengue. Visto che la dengue
ha da 8 a 11 giorni di incubazione e le alluvioni sono iniziate 4 giorni prima, è improbabile che i casi fossero legati
alle esondazioni. Infatti, è assai raro che i disastri naturali
siano la causa di epidemie.
Sia nell’uragano Mitch in
America centrale (novembre
1998) che nel maremoto dell’Oceano Indiano nel 2004, e
del terremoto in Kashmir del
2005 si parlava nella stampa
dell’inevitabilità delle epidemie. Nel caso del maremoto,
secondo i media, le malattie
dovevano mietere più vittime
delle onde, ma in tutti questi
casi epidemie non ci sono
state (cfr. Floret et al., 2006).
A New Orleans dopo l’uragano
Katrina (agosto-settembre
2005) si parlava di un’“epidemia” di sciacallaggio. Un’analisi più sobria (Tierney et al.,
2006) ha ridimensionato il
fenomeno e ha fatto vedere
che molte opportunità di
sciacallaggio non sono state
sfruttate, e le incursioni con
la forza nei negozi sono state
praticate maggiormente per
procurare cibo e acqua durante un periodo di isolamento
della gente e di privazione di
I pregiudizi più diffusi sulla gestione
e le conseguenze delle calamità
tutti i generi di prima necessità. Questa situazione si è ripetuta dopo il terremoto del
12 gennaio 2010 in Haiti
(Alexander, 2010).
Nei disastri o di fronte a dei
rischi, esiste un’ampia gamma di evidenza della proliferazione dei luoghi comuni,
fenomeni che per convenienza possiamo denominare “miti” (Paulozzi, 1980; De Ville
De Goyet, 2004). Segue un
tentativo di elencare sistematicamente i più comuni malintesi in questo settore e di
offrire una breve spiegazione
del perché sono errati. Comunque, è opportuno ricordare che le osservazioni in
questo elenco e la loro definizione come luoghi comuni rispondono a criteri statistici
non assoluti. Non si intende
dire che siano “miti” in ogni
possibile caso e senso, ma si
sostiene invece che siano valide generalizzazioni.
Mito n. 1: I disastri sono
eventi veramente eccezionali.
Realtà: Essi sono una parte
normale della vita quotidiana e in molti casi sono
eventi ripetitivi.
Mito n. 2: I disastri causano
molto caos e quindi non
possono essere gestiti sistematicamente.
Realtà: Esistono eccellenti
modelli teorici su come
funzionano i disastri e come gestirli. Dopo 90 anni
di ricerca in questo campo,
i lineamenti generali dei
disastri sono assai ben conosciuti, ed essi tendono a
ripetersi da un evento al
prossimo.
Mito n. 3: I disastri ammazzano la gente senza rispetto per il loro ceto sociale o
economico.
Realtà: i poveri e gli emarginati sono molto più a rischio di morte delle persone ricche o benestanti.
Mito n. 4: Spesso i terremoti
sono la causa di alte cifre
di mortalità.
Realtà: Il crollo degli edifici è responsabile per la
maggior parte dei casi di
morte nei disastri sismici.
Mentre non è possibile fermare i terremoti, è possibile comunque costruire
edifici antisismici ed organizzare le attività umane
in modo tale da minimizzare il rischio di morte. Per
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di più, la maggioranza dei
terremoti, anche di tipo
dannoso, non causano alta
mortalità.
Mito n. 5: Le persone possono
sopravvivere per molti giorni sotto le macerie di un
edificio crollato.
Realtà: La stragrande maggioranza delle persone salvate vive da sotto le macerie vengono estratte entro
24 ore dall’impatto, persino entro 12 ore.
Mito n. 6: Quando il disastro
colpisce, il panico è una
reazione comune.
Realtà: La maggior parte
delle persone si comportano in modo razionale durante una crisi. Mentre il
panico non è da scontare
interamente, è di importanza così limitata che alcuni dei più eminenti sociologi lo considerano insignificante o improbabile.
Mito n. 7: La gente scappa
dal luogo di un disastro.
Realtà: Invece, solitamente avviene una “reazione
di convergenza”, in cui l’area si riempie di gente. Pochi superstiti andranno via
e persino i residenti evacuati per obbligo torneranno appena possibile.
Mito n. 8: Quando il disastro
colpisce, i superstiti sono
storditi ed apatici.
Realtà: I superstiti rapidamente si danno da fare
nelle opere di ripristino e
ripresa. L’attivismo è molto più comune del passivismo. Questa è la cosiddetta “comunità terapeutica”.
Nei peggiori casi conosciuti, solo il 15-30% delle vittime dimostrano reazioni
passive e stordite.
Mito n. 9: Dopo un disastro
le persone non saranno in
grado di prendere decisioni
razionalmente e quindi faranno cose sbagliate se
non vengono dirette dalle
autorità.
Realtà: Le persone prendono decisioni in base all’informazione che riescono ad avere e alla loro abilità di interpretarla. In
questa ottica, le loro decisioni sono da giudicare razionali.
Mito n. 10: I disastri danno
luogo a grandi manifestazioni di comportamento
antisociale.
Realtà: In genere, i disastri sono caratterizzati da
grandi manifestazioni di
solidarietà sociale, generosità e sacrificio.
Mito n. 11: Lo sciacallaggio è
un problema comune e grave dopo i disastri.
Realtà: Il fenomeno di
sciacallaggio è raro e il suo
scopo è quasi sempre limitato. Esso avviene maggiormente dove ci sono
forti precondizioni (cioè,
dove quasi non ci vuole un
disastro per scatenarlo),
ad esempio in casi in cui la
comunità è profondamente
divisa.
Mito n. 12: Nei disastri la
gente si dà alla violenza
per proteggere i propri interessi.
Realtà: Si stabilisce nella
maggior parte dei casi una
“comunità terapeutica”:
c’è maggior tendenza ad
aiutare il prossimo che nei
tempi normali.
Mito n. 13: Dopo un disastro
bisogna imporre la legge
marziale per prevenire il
crollo totale dell’ordine sociale.
Realtà: L’imposizione della
legge marziale è estremamente rara e, se dovesse
essere dichiarata, significherebbe che i normali
meccanismi di governo
non sono per niente efficaci.
Mito n. 14: Una forte presenza militare è necessaria
nell’area di un disastro per
scoraggiare i delinquenti.
Realtà: Nello sviluppo di
strutture e piani di protezione civile, la risposta all’emergenza avrebbe dovuto essere trasformata da
militare a civile. Visto che
nella maggior parte dei casi la delinquenza aumenta
poco o niente dopo un disastro, la polizia è solitamente in grado di tenere la
situazione sotto controllo
senza bisogno di assistenza militare.
Mito n. 15: I mass media
creano un’immagine drammatica dei disastri.
Realtà: Esiste una tendenza quasi universale dei media di esagerare e distorcere le informazioni sui disastri. È raro che i giornalisti
siano esperti in questo
campo. La loro mancanza
di conoscenza è spesso
ben riconoscibile nella
qualità dei loro rapporti.
Essi offrono il tipo di
informazione che gli spettatori, ascoltatori o lettori
vogliono avere, talvolta a
dispetto della pura verità
oggettiva.
Mito n. 16: Le salme non sepolte costituiscono una minaccia alla salute dei superstiti.
Realtà: Neanche la decomposizione avanzata è fonte
di rischio alla salute. Un
interramento troppo rapido può demoralizzare i superstiti, e può inoltre compromettere la certificazione della morte, i riti funebri e, dove serve, il bisogno di autopsia.
Mito n. 17: Le epidemie di
malattie contagiose sono
un risultato quasi inevitabile dello scompiglio e la
cattiva salute indotta nei
superstiti di un grande disastro.
Realtà: In genere, il livello
di sorveglianza epidemiologica e di approvvigionamento di servizi sanitari è
sufficiente a fermare qualsiasi epidemia. Comunque,
con maggior attenzione alla sanità, l’entità di diagnosi delle malattie potrebbe essere aumentata.
Mito n. 18: Grandi quantità e
assortimenti di farmaci dovrebbrero essere inviate
nelle zone disastrate.
Realtà: Gli unici medicinali
che servono sono quelli atti a curare specifiche patologie. Inoltre non dovrebbero essere scaduti, dovrebbero essere adatti ad
una corretta conservazione nell’area disastrata, e
dovrebbero essere ben
identificabili in termini
dei loro costituenti farmacologici. Tutti gli altri medicinali non sono soltanto
inutili, ma anche potenzialmente pericolosi.
Mito n. 19: Gli ospedali da
campo sono particolarmente utili per la cura delle
persone ferite nei disastri
di brusco impatto.
Realtà: Solitamente, gli
ospedali da campo vengono allestiti troppo tardi
per curare i feriti e quindi
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essi finiscono per fornire
medicina generale e continuità di cura per le popolazioni delle aree disastrate. Dato che il trasporto e
l’utilizzo degli ospedali da
campo sono costosi e logisticamente difficili, in alcuni casi potrebbe essere
più efficiente dedicarsi invece alla riapertura e potenziamento degli ospedali
normali della zona, anche
se sono significativamente
danneggiati.
Mito n. 20: In seguito ad un
disastro la vaccinazione di
massa è un modo eccellente di prevenire la diffusione
di malattie contagiose.
Realtà: Mentre la vaccinazione, accuratamente mirata, di specifici gruppi
vulnerabili (ad esempio,
medici, infermieri e bambini) può essere utile, la
vaccinazione di massa indiscriminata spreca risorse. Nel periodo caotico dopo un disastro non è possibile mantenere in ordine le
cartelle cliniche e somministrare accuratamente
una seconda dose di vaccino. Le popolazioni della
zona si spostano troppo
per permettere a una tale
iniziativa di funzionare.
Mito n. 21: Per prevenire le
epidemie, un cordone sanitario dovrebbe essere allestito intorno alla zona disastrata.
Realtà: È raro che i cordoni
sanitari funzionino. Lo
spostamento di persone e
beni è tale che non si può
controllare rigorosamente
l’ingresso e l’uscita dalla
zona in modo tale da poter
disinfettare persone e cose,
il che comunque è sempre
una risposta sbagliata. Nella maggior parte dei casi i
cordoni sanitari non fanno
niente per la salute ma
ostacolano i soccorsi. L’alternativa preferibile è di allestire un osservatorio epidemiologico e praticare misure tarate dove e quando
si manifestano condizioni
di pericolo o precarietà.
Mito n. 22: Le salme, i superstiti, le macerie ed altre cose dovrebbero essere spruzzati con disinfettante per
prevenire la diffusione di
malattie.
Realtà: Questa comune e
popolare misura spreca vaste quantità di disinfettante e non fa assolutamente niente per tutelare
la sanità pubblica.
Mito n. 23: Solitamente
quando avviene un disastro c’è una mancanza di
risorse e a causa di questo
non si riesce a gestire bene
l’evento.
Realtà: La mancanza, se
c’è, è quasi sempre provvisoria. Anziché trovare le
risorse, il problema sostanziale è di distribuirle bene
e usarle in modo efficace.
In molti casi c’è un problema di gestire una sovrabbondanza di certi tipi di risorsa.
Mito n. 24: In seguito ad un
disastro il prezzo dei beni
essenziali salirà vertiginosamente.
Realtà: Questo fenomeno
esiste, ma assolutamente
non è la norma.
Mito n. 25: Dopo un disastro
qualsiasi aiuto è utile se è
fornito rapidamente.
Realtà: Soccorsi ed aiuti
rapidi e mal pensati possono creare una situazione
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di caos. Solo certi tipi di
assistenza tecnica, beni e
servizi saranno necessari.
Non tutte le risorse presenti nell’area prima del
disastro saranno distrutte.
L’approvvigionamento di
materiali o manodopera
inutile consuma risorse di
organizzazione che potrebbero essere utilizzate
in modo più efficace per ridurre gli effetti del disastro.
Mito n. 26: Per gestire bene
un disastro è necessario accettare tutte le forme di
aiuto che vengono offerte.
Realtà: È molto meglio accettare soltanto le donazioni di beni e servizi che
sono dimostrabilmente
utili alla zona disastrata.
Mito n. 27: Bisogna donare
vestiti usati alle vittime dei
disastri.
Realtà: Così si accumulano
grandi quantità di indumenti inutili che le vittime
non possono o non vogliono indossare.
Mito n. 28: Le imprese, le organizzazioni ed i governi
sono sempre molto generosi quando sono invitati a
inviare aiuti in una zona
disastrata.
Realtà: Questo è possibile,
ma in passato si sono riscontrati numerosi casi di
offerte di materiali inutili
nelle zone colpite: farmaci
scaduti, attrezzi obsoleti,
merci non più vendibili.. e
tutto nel nome della “generosità”.
Mito n. 29: La tecnologia salverà il mondo dai disastri.
Realtà: Per la maggior parte, i disastri sono un problema sociale. Abbiamo già
notevoli risorse tecnologi-
che, ma esse sono distribuite piuttosto male e in
molti casi sono utilizzate
con poco effetto. Per di
più, la tecnologia è una
potenziale fonte di vulnerabilità, non soltanto un
modo di ridurla.
Mito n. 30: I maremoti sono
legati alle maree (in inglese “tidal waves”).
Realtà: I maremoti sono
onde marine indotte da
terremoti, eruzioni vulcaniche o frane sottomarine
con un meccanismo di propagazione assolutamente
diverso da quello delle onde causate dal vento ed i
movimenti del mare causati dalle maree. Il loro impatto sulle coste può essere leggermente influenzato dalle maree, ma non la
loro causa.
Mito n. 31: Si misura la magnitudo dei terremoto sulla
scala Richter.
Realtà: La scala di Charles
F. Richter di “magnitudo
locale” (ML), non è accurata a valori alti e quindi è
stata sostituita da scale
più robuste, come body
wave magnitude (M B ) e
moment magnitude (M).
Mito n. 32: Esiste una forma
di tempo meteorologico che
è precursore ai terremoti.
Realtà: La credenza popolare che i terremoti avvengono quando il tempo è
afoso e il vento è cessato
non ha base di fatto. Numerosi studi scientifici
hanno cercato di identificare condizioni atmosferiche da trattare come precursori dei terremoti, ma il
successo è stato solo parziale, segnatamente con il
rilascio di alogeni nell’aria
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e fenomeni di filtraggio e
rifrazione della luce.
Mito n. 33: Siamo ben organizzati per affrontare un
attacco NBCR o una pandemia.
Realtà: Nella maggior parte dei paesi, compresi
quelli più ricchi e grandi,
la preparazione è parziale,
se non gravemente mancante.
Mito n. 34: In un attacco di
terrorismo biologico o una
pandemia la profilassi sarà
efficace ed efficiente.
Realtà: Le scorte di antidoti e vaccini sono insufficienti, altrettanto i reparti
di isolamento, i nuclei di
pronto intervento, le
strutture di decontaminazione e la formazione di
soccorritori e medici. Inoltre, potrebbe essere difficile identificare rapidamente il patogeno o la tossina implicata nella crisi.
Mito n. 35: La decontaminazione NBCR è un problema
risolto.
Realtà: Molte questioni rimangono aperte riguardo i
protocolli e le procedure
usate per la decontaminazione, ad esempio i reagenti e detergenti usati, il
numero di persone che
possono essere decontaminate per unità di tempo,
se ci si deve togliere tutti i
vestiti prima dell’atto di
decontaminazione.
Mito n. 36: I principali effetti
di un attacco NBCR oppure
una pandemia sarebbero di
natura medica.
Realtà: Lo scompiglio della
vita quotidiana potrebbe
dar luogo a conseguenze
ancora più imponenti (in
termini logistici, sociali,
economici e psicologici)
degli effetti medici della
crisi.
Mito n. 37: In un attacco NBCR oppure una pandemia
sarebbe facile evitare la
contaminazione di ospedali
ed altri centri medici.
Realtà: Per certi patogeni
o tossine la contaminazione sarebbe assai difficile
da evitare senza misure assolute e molto complicate
che, probabilmente, non
sarebbero istituite in tempo utile.
Mito n. 38: Sarà facile identificare il patogeno, l’agente
chimico o l’isotopo usato in
un attacco NBCR.
Realtà: Esistono così tanti
patogeni, agenti ed isotopi
che potrebbe risultare necessario un’analisi ad alto
livello in un laboratorio
super attrezzato, il quale
causerebbe notevoli problemi di trasporto e ritardo
nell’arrivare ai risultati
dell’analisi.
Mito n. 39: L’antrace è una
polvere bianca.
Realtà: Bacillus anthracis
è una sostanza senza particolare colore e, infatti,
quasi invisibile. L’antrace
raffinata trasformata in
un’arma da guerra sarebbe
ancora più difficile da vedere.
Mito n. 40: Il panico e il comportamento irrazionale sono conseguenze inevitabili
di un attacco NBCR.
Realtà: Nei disastri di tutti
i tipi la gente cerca di
comportarsi in modo razionale e di prendere decisioni di buon senso. Questo è
antitetico al panico. Comunque, se le persone non
sono dotate di informazio-
ne adeguata, i loro processi decisionali potrebbero
non essere suscettibili ad
analisi razionale.
Mito n. 41: Le tendenze del
terrorismo globale sono assai irregolari ma esse dimostrano rapidi e sostanziosi
aumenti nei tempi recenti.
Realtà: Mentre il baricentro dell’attività terroristica
tende a spostarsi continuamente, la somma degli
attacchi, e i loro effetti, è
rimasta piuttosto stabile
per diversi decenni, con
aumenti soltanto modesti.
Mito n. 42: I soccorritori di
emergenza non si presenteranno al lavoro durante un
disastro. Invece, essi rimarranno a casa per proteggere le proprie famiglie.
Realtà: A seguito di disastri l’assenteismo di massa
non è comune tra i lavoratori chiave dell’emergenza. Al contrario, il loro
senso del dovere tende ad
aumentare.
Mito n. 43: I soccorritori non
sapranno cosa fare durante
un disastro o una grande
crisi.
Realtà: Si spera che la formazione e l’esperienza abbiano trasformato i soccorritori e i coordinatori di
emergenza in professionisti altamente preparati.
Mito n. 44: I disastri accadono sempre a qualcun altro.
Realtà: La “sindrome dell’invulnerabilità personale” può indurre le persone
a credere che in qualche
modo sono immuni ai disastri. Non è vero.
Mito n. 45: La continuità degli affari aziendali (in inglese “business continuity
management”, BCM) ap-
partiene soltanto al settore
privato.
Realtà: Il settore pubblico
(composto di amministrazioni comunali, provinciali, regionali e nazionali, ed
enti associati) deve essere
in grado di superare gli effetti del disastro e continuare le sue attività come
qualsiasi compagnia privata. Quindi non esiste motivo perché la BCM non sia
applicabile ad imprese
pubbliche.
Mito n. 46: Nei disastri ci sono eroi e indifferenti.
Realtà: Ci possono essere
davvero gli indifferenti,
sebbene la “comunità terapeutica” che prevale nel seguito dei disastri tende a
mitigare il loro effetto, ma
la maggior parte delle persone che agiscono con altruismo e a favore del prossimo non sono veramente
“eroi” ma soltanto persone
che fanno il proprio lavoro
nel miglior modo possibile.
Quando le persone provano
ad essere eroi i risultati
possono distruggere il lavoro di squadra da cui dipende la risposta al disastro.
Mito n. 47: Il disastro è sempre un’esperienza negativa.
Realtà: Mentre è vero che
la maggior parte della gente coinvolta in disastri soffre, in alcuni casi terribilmente, ci sono anche quelli che si approfittano (legittimamente o illegittimamente), ad esempio con
la vendita di alloggi prefabbricati. La “finestra di
opportunità” aperta dal disastro può essere usata in
modo positivo per aumentare la resilienza contro gli
eventi del futuro. Infine,
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nei casi migliori, la ricostruzione può produrre un
ambiente più sicuro e attraente di quello che esisteva prima del disastro.
In sintesi, i luoghi comuni
(ovvero i cosiddetti “miti”)
del disastro sono numerosi, di
larga diffusione e in alcuni
casi fortemente condivisi. Sono entusiasticamente propagati dai mass media e, purtroppo, accettati da molti
esponenti della protezione civile, come dimostra un’analisi
approfondita pubblicata da
134
Bibliografia
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N. 186 - 2011
Alexander (2007). Comunque,
ci sono segni di progresso nello sconfiggere alcuni dei luoghi comuni più diffusi. Ad
esempio, nel periodo immediatamente dopo il terremoto
di Haiti (nel gennaio 2010),
alcuni alti ufficiali sanitari di-
chiaravano ripetutamente ai
mass media che le salme non
sepolte non danno luogo ad
epidemie e, quasi per la prima
volta, le notizie sono state registrate e riprodotte, per lo
meno dalle emittenti più responsabili (Alexander, 2010).
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Storia ospedaliera
Territorio 135
N. 186 - 2011
Antonio Panti
Presidente Ordine dei medici
chirurghi e degli odontoiatri
della provincia di Firenze
Q
uest’anno, nel 150° anniversario dell’Unità
d’Italia, il fiorentino
“Centro di documentazione
per la Storia dell’assistenza e
della sanità” pubblica per le
Edizioni Polistampa una
splendida riedizione del “Regolamento dei Regi Spedali di
Santa Maria Nova e di Bonifazio”, che il commissario Marco Govoni Gerolami redasse
nel 1783 per incarico di Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana. Vale la pena di leggere
il testo settecentesco, non
solo per la sua classica bellezza letteraria, ma perché rappresenta un momento alto
della riflessione illuministica
sulla trasformazione dei luoghi di ricovero in ospedali
moderni, dotati di apparati di
insegnamento pratico, già
volti a coniugare appropriatezza delle cure e sostenibilità economica.
Il Regolamento nasce da un
impulso del Granduca stesso
che, alla sua venuta in Toscana, come egli stesso scrive,
notava come “gli Spedali erano tenuti in pochissima economia e pochissima cura; la
maggior parte delle entrate si
dissipava negli impiegati e
famiglie loro, i malati erano
mal tenuti e con poca pulizia.
Nell’Ospedale di Firenze Santa Maria Nuova vi era pochissimo ordine e subordinazione
La sanità toscana
per l’Unità d’Italia
… Qualunque astante impiegato si riteneva autorizzato a
qualunque impertinenza tanto dentro che fuori all’Ospedale”. Pietro Leopoldo, uno
dei massimi esponenti del dispotismo illuminato, decise
di metter mano a questa situazione e di riorganizzare il
sistema ospedaliero toscano,
assegnando all’antico ospedale di Santa Maria Nuova,
fondato nel 1283 da Folco
Portinari, il ruolo di ospedale
di cura e di insegnamento,
separando i malati curabili
dagli incurabili, dai dementi
e dai malati cutanei (rognosi)
e tutti quanti dai poveri e dai
mendicanti.
Il giudizio del Granduca sulla
società toscana è piuttosto
pesante. La nobiltà era “estremamente ignorante, non studiando né applicandosi, unicamente occupata dell’ozio,
senza cultura né istruzione e
generalmente poco in punto
d’onore”. I preti erano “in numero eccessivo, al che contribuisce la quantità dei benefizi
… Per la maggior parte preti
ignorantissimi, portati all’interesse, di cattivi costumi,
maldicenti per professione,
sempre occupati per le case a
riportare tutte le ciarle, dediti
all’ozio, al gioco e di cattivo
esempio ai secolari”. Riportiamo queste frasi, tratte dalla
“Relazione sul governo di To-
Una preziosa testimonianza settecentesca
sulla trasformazione dell’ospedale
in un moderno luogo di cura
scana” di Pietro Leopoldo,
dall’ampio e documentatissimo articolo di Marco Geddes
da Filicaia che fa da ottima
introduzione, insieme al contributo storico di Esther Diana, al testo del regolamento e
che ci è servito da guida per
valutarne l’importanza e la
modernità.
Il regolamento, che sviluppa
e porta a compimento le idee
contenute nella relazione di
Pietro Cocchi, risalente alla
metà del ’700, non solo consentì un rinnovamento della
funzionalità e della gestione
dell’ospedale fiorentino, ma
servì da esempio ad altrettanti regolamenti ospedalieri,
dentro e fuori d’Italia, che segnano la nascita dell’ospedale moderno sul piano organizzativo e gestionale. Il testo
ripubblicato contiene anche
le tavole allegate alla prima
edizione. È di particolare interesse la prima che, sotto
l’aspetto di una specie di albero genealogico, contiene la
pianta organica dell’ospedale,
con la definizione dei ruoli e
dei rapporti gerarchici di tutto il personale, dal Commissa-
rio granducale fino agli ultimi
inservienti. Definire la collocazione gerarchica e funzionale del personale tutto, così
come predisporre una serie di
minuziose tabelle e registri
che consentano di controllare
in ogni momento i consumi e
la spesa di tutto quanto si
usa e consuma nell’ospedale,
già mostra come alla razionalità illuministica non sfuggisse la necessità di monitorare
costantemente la spesa sia
sul piano analitico che complessivo perché, come fa notare il Cocchi nella sua precedente relazione, il Granduca
non vuol aumentare i finanziamenti all’ospedale ma esige cure migliori e risultati
più visibili.
Lasciando agli storici della
sanità una puntuale esegesi
del regolamento, già presente nella citata introduzione
di Marco Geddes, qui preme
porre in evidenza alcune peculiarità che ne attestano la
modernità. Nessuna pretesa
di esaustività ma solo alcuni
spunti, elencati in estrema
sintesi, ma certamente significativi. Nell’epoca in cui
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Storia ospedaliera
nasce la clinica e l’organizzazione ospedaliera dell’età moderna, si pongono infatti i
problemi che ancora non sono del tutto risolti, spesso
più esplosi sul piano quantitativo che su quello qualitativo. Nel regolamento leopoldino gli snodi che colpiscono
chi si occupa di organizzazione sanitaria sono molti e
spesso già brillantemente affrontati. Ne facciamo un breve elenco, senza alcun carattere di esaustività.
Il primo punto è che il Regolamento è preciso nel creare
un filtro per l’accesso all’ospedale. Il paziente prima di
essere ammesso, che si presenti da solo o accompagnato
da familiari, che abbia o no
certificati di indigenza, deve
essere visitato da un medico
che definisce la patologia e
che inizia a compilare una
cartella clinica di cui il Regolamento fornisce il prototipo
e che rappresenta un esempio
preciso di diaria giornaliera.
La cartella, che costituisce
anche un diario clinico, deve
essere obbligatoriamente firmata dal medico che ha in carico il paziente e, se del caso,
contenere anche il riscontro
autoptico. Ciò consente anche
una primitiva raccolta di dati.
Ugualmente deve essere scritta e quindi sottoposta a controllo la prescrizione, preparazione e somministrazione di
farmaci prevedendo le singole
responsabilità dei medici, degli infermieri e dei farmacisti.
Infatti il regolamento suggerisce di “stabilire un solenne
ed esatto riscontro delle ordinazioni avanti che i rimedi
escano dall’officina e l’accrescere la circospezione nell’atto istesso della propinazione
con l’aggiunta di persone più
idonee”. Il Regolamento raccomanda la tempestività e
l’accuratezza delle medicazioni per evitare l’aggravarsi delle infezioni. Vi è un “sovrintendente alle Infermerie” che
rappresenta una anticipazione della direzione sanitaria. È
interessante rilevare come la
relazione del Cocchi proponesse un incremento dell’autorità dei medici e della loro
partecipazione al governo
dell’ospedale che, al contrario, il regolamento non riprende. Il Cocchi lamenta che
“i medici non hanno mai avuto la minima autorità nell’ospedale, né si è mai dato
esempio, per quando si sappia, che alcun superiore del
luogo abbia mai interrogato
alcun medico sul trattamento
degli infermi”. La proposta del
Cocchi non anticipa certamente il governo clinico ma
pone con forza la necessità di
una direzione sanitaria almeno in senso igienistico. Ma il
Granduca, per quanto illuminato, non vuol rinunciare ad
un impianto istituzionale rigorosamente gerarchico.
Tuttavia il Granduca, che poco
dopo abolirà la pena di morte
in Toscana, ricorda a tutti e
impone l’obbligo di ascoltare i
pazienti, interrogarli su come
sono stati trattati e di trattarli
con civiltà, mitigando ogni
eventuale atto coercitivo nei
confronti dei dementi senza
alcun disprezzo o violenza:
“gnuno ardisca mai percuotere i dementi”, e ancora: “niuno Ministro, Professore, Giovane, Oblata e Serventi o altra
persona addetta allo Spedale o
estranea ardisca, per qualunque occasione e sotto qualunque pretesto, offendere, ram-
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N. 186 - 2011
pognare le inferme, né dir loro
parole disgustose o far burle
di alcun sorta o obbligarle a
servire altre malate, specialmente in cose laboriose, e
molto meno permetterà che
alcuno o alcuna che assista o
serva allo Spedale percipa pagamento, mercede o regalo da
qualsivoglia inferma o convalescente dello Spedale suddetto”. Problemi non del tutto risolti dopo due secoli.
La questione dell’assistenza
da parte delle Oblate, una
sorta di ordine religioso fondato da Monna Tessa, servente del fondatore Folco Portinari, reca molti problemi non
solo organizzativi e disciplinari ma anche economici
(troppo numerose da mantenere per i servizi che danno)
e politici per i rapporti con la
Chiesa. Anche la razionalità
del Cocchi o del Granduca si
arresta o almeno accetta
qualche compromesso. Tuttavia il tentativo del regolamento di inserire tutto il personale in un unico disegno
gestionale è degno di nota e
notevolmente anticipatore.
Pochi anni dopo la pubblicazione del regolamento di Santa Maria Nuova, Vincenzo
Chiarugi trasformerà l’assistenza dei dementi nell’Ospedale di Bonifazio, allineandosi alle idee del Pinel e di tutto
il movimento illuminista francese. Anche questa pagina del
settecento fiorentino è degna
di nota e segna l’inizio di una
lunga strada che porterà, due
secoli dopo, alla legge Basaglia. Un momento della storia
fiorentina in cui tolleranza e
ragione seppero convivere e
recare frutti di civiltà.
Il Regolamento dedica ancora una pagina illuminante
alla collegialità della visita,
al controllo della dieta, così
come consente con ragionevolezza a ciascuno “il culto
della loro religione”. In conclusione, sia sul piano del rispetto dei singoli pazienti
che della loro cura, per quel
che allora era possibile, vi è
uno sforzo significativo di
razionalizzazione del sistema. La consapevolezza di
questo sforzo è evidente in
quella parte del regolamento
di grande interesse e modernità relativa alla istruzione
medica. Il Granduca, nella
sua relazione, si era lamentato che nelle università di
Pisa e di Siena vi fosse “gran
lusso e numero di professori
i quali non si danno la pena
necessaria per l’istruzione
della gioventù”. Da questa
constatazione nasce l’idea di
consentire l’esercizio della
professione ai medici che si
fossero abilitati dopo due
anni di frequenza a Santa
Maria Nuova, secondo un calendario di insegnamento
teorico e pratico che ben si
inserisce nel grande movimento di trasformazione della medicina in disciplina
scientifica e che porta alla
moderna università.
Questi spunti, ed altri di
uguale o maggiore importanza, rendono conto della rilevanza del regolamento toscano nell’evoluzione dell’assistenza ospedaliera. Ne parliamo in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia
per ricordare come, ancor prima dell’atto sostanziale dell’unità nazionale, vi siano
stati momenti alti di riflessione civile e politica che
hanno contribuito a creare
quel clima di ideali e di aspi-
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razioni da cui nasce un movimento unitario che non è soltanto politico ed istituzionale ma rappresenta il coagulo
di impegni civili e sociali fioriti sul rinnovato sentire dei
diritti di cittadinanza. Potremmo dire, con un salto di
oltre un secolo, che il sistema
sanitario nazionale porta a
compimento quei principi di
universalità e di uguaglianza
che già allora erano presenti
sia pur come elargizione del
sovrano e non come conquista di liberi cittadini.
La storia dell’ospedale come
luogo di cura aperto a tutti,
regolato a misura di pazienti
e non più fondato sul contenimento o sull’esclusione, nasce allora e si affermerà len-
tamente fino alla moderna
grandiosa organizzazione. Se
la storia non è maestra di vita
ci dà almeno il senso delle
nostre radici come direzione
verso la quale volgere la concretizzazione dei valori civili.
Ancora oggi Santa Maria Nuova, recentemente trasformato
secondo i canoni della medicina moderna, dopo otto se-
coli, rappresenta un luogo
fondamentale per l’assistenza
nella città di Firenze. Uno
strumento modernissimo di
assistenza ai cittadini inserito in strutture antiche di
quasi otto secoli. La capacità
di rinnovarsi all’interno della
tradizione trova una delle sue
radici più significative nel regolamento leopoldino.
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Giuseppe Belleri
MMG, ASL di Brescia, Animatore
di formazione SIMG
(Società italiana di medicina
generale)
I
l progetto di governo clinico (da ora GC) dell’ASL
di Brescia nasce ufficialmente alla fine del 2005 con
una delibera aziendale, frutto
della collaborazione con la
SIMG (Società italiana di medicina generale, coordinatore
Dott. Gerardo Medea) dopo la
fase “pilota” del biennio precedente.
Gli obiettivi generali dell’iniziativa erano così enunciati:
promuovere la qualità dei servizi erogati dalle cure primarie per
– migliorare l’efficacia, l’efficienza e l’appropriatezza
degli interventi sanitari
rivolti agli assistiti affetti
da una o più patologie
croniche;
– verificare gli obiettivi raggiunti attraverso il monitoraggio di indicatori di
processo ed esito, in un
processo di audit clinico
continuo.
Se l’atto ufficiale di nascita
del progetto si colloca alla
metà del primo decennio del
secolo le sue radici vanno rintracciate nella sperimentazione sul desease management del diabete, svoltasi negli ultimi anni del 900, e nella successiva elaborazione,
diffusione ed implementazione dei PDTA del diabete ed
ipertensione.
Attorno al progetto si è aggre-
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Governo clinico
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La rete “Unire”
gata in modo spontaneo e per
certi versi non intenzionale
una Comunità di pratica (CdP)
dai caratteri misti, sia virtuale
e a distanza, sia con momenti
di interazione in presenza,
che è cresciuta via via negli
anni fino ad aggregare la maggioranza dei MMG dell’ASL
provinciale di Brescia.
Dalla comunità di pratica
alla pratica di comunità
Secondo la sociologa dell’organizzazione Silvia Gherardi
dell’Università di Trento il costrutto teorico-pratico CdP
ha subito una progressiva
evoluzione concettuale caratterizzata da tre tappe:
1. Fase pedagogica: l’idea di
CdP si differenzia “da una
parte dalle teorie cognitive dell’apprendimento e
dall’altra parte dalla concezione di apprendimento
come apprendimento individuale. Pertanto con tale
concetto si opera sia una
differenziazione rispetto a
dove ha luogo l’apprendimento (nella comunità e
non nella testa) sia rispetto a chi apprende (la comunità come soggetto collettivo e non il singolo)”.
La nozione di CdP sottolinea che il processo di apprendimento è allo stesso
tempo sociale e cognitivo:
“…una comunità di prati-
Un’esperienza di comunità di pratica
per il governo clinico delle patologie croniche
in medicina generale
ca è una condizione intrinseca per l’esistenza della
conoscenza, se non altro
perché fornisce il supporto
interpretativo necessario
per dar senso al suo patrimonio/retaggio” (Lave e
Wenger, 1991, p. 98) e presuppone una stretta relazione tra conoscenza, tecnologia di pratica e la cultura di quella pratica (“La
conoscenza è inerente alla
crescita e trasformazione
delle identità ed è situata
nelle relazioni tra professionisti, la loro pratica, gli
artefatti di quella pratica e
l’organizzazione sociale,
economica e politica delle
comunità di pratica” (ibidem, p. 122).
2. Fase del knowledge management: sul finire del secolo scorso Wenger sviluppa
un quadro analitico (Wenger, 2000) a fini manageriali centrato “su un concetto di CdP come meccanismo attraverso il quale
la conoscenza è posseduta,
trasferita e creata. Il processo di apprendimento ha
luogo attraverso tre distin-
ti “modi di appartenenza”
– impegno, immaginazione e allineamento – ognuno dei quali contribuisce
ad un aspetto distinto dell’evoluzione e coerenza sociale di una CoP”. Nella
versione manageriale la
CdP dovrebbe consentire ai
manager di comprendere
ed intervenire sui processi
di knowledge management
aziendale (Wenger e Snyder 2000).
3. Fase delle comunità online: dalla CdP alle pratiche di comunità. La diffusione delle nuove tecnologie informatiche costituisce il nuovo tessuto connettivo sociale della comunità che facilita sia l’interazione sincrona (slide e
collegamenti video), che
l’interazione asincrona (email, discussion boards,
mailing lists, wikis e blogs)
che l’accesso alle informazioni immagazzinate (file
sharing, depositi di documenti etc…). In questo
nuovo contesto interattivo
si indeboliscono i legami
sociali “de visu”, caratteri-
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Governo clinico
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N. 186 - 2011
stici delle comunità professionali stabili, e il baricentro della teoria e della
ricerca si sposta dalla comunità alle pratiche, al sapere tacito e alla conoscenza condivisa, mentre
la dimensione comunitaria
resta sullo sfondo e riduce
il suo impatto sull’evoluzione delle professioni.
In sintesi secondo Silvia Gherardi “l’idea originale di CdP
entro una letteratura prevalentemente antropologica/
educazionale sottolineava la
dimensione sociale e situata
dell’apprendimento, la sua
traduzione entro gli studi manageriali ne ha spostato l’accento verso la problematica
dell’individuare e gestire/
coltivare la dimensione di comunità ed infine la sua traduzione nel contesto delle comunità on-line mette l’accento sulle competenze sociali
necessarie a gestire una dimensione interattiva mediata
dalla tecnologia…”. Il passaggio da comunità di pratica a
“pratiche di una comunità
[…] esprime un cambiamento
di prospettiva e di epistemologia. Infatti l’accento sulla
comunità presuppone che essa sia la fonte dell’azione e
della conoscenza (priorità ontologica del soggetto che
preesiste all’azione), mentre
l’accento sulle pratiche guarda al divenire del soggetto come effetto delle connessioni
in azione tra il mondo materiale, la conoscenza e gli attori presenti secondo un principio di simmetria”.
Comunità di pratica, governo clinico e rete “Unire”
Il progetto di GC dell’ASL di
Brescia si colloca nel solco di
questa evoluzione teoricoesperienziale in cui la pratica
prevale sul ruolo svolto dalla
comunità nel cementare le
relazioni, l’identità e le azioni collettive, anche per il carattere prevalentemente virtuale, a distanza e distribuito
della CdP che si è aggregata
attorno progetto di GC.
Si può analizzare l’esperienza
di governance della rete “Unire” utilizzando la mappa interpretativa degli elementi
strutturali delle CdP indicati
da Wenger, vale a dire capo
tematico, comunità e pratica.
In modo forse un po’ schematico questo è il profilo che ne
emerge:
1. Campo tematico. Il focus
della proposta di GC è centrato sulla valutazione, retrospettiva ed in itinere,
della qualità delle cure prestate ai pazienti affetti
dalle due principali patologie croniche, vale a dire
ipertensione e diabete. La
metodologia adottata è
quella dell’audit sulle cartelle cliniche informatizzate mentre gli indicatori
epidemiologici, di processo
ed esito clinico sono stati
desunti dai PDTA diffusi
negli anni precedenti all’avvio del progetto. I contenuti culturali dei PDTA e
l’audit sugli indicatori (valutazione della qualità dell’assistenza rispetto a standard di riferimento) costituiscono l’impegno reciproco e il terreno comune
che fa da tessuto connettivo alla comunità coagulatasi attorno al progetto.
2. Comunità. I MMG aderenti
al GC hanno contestualmente aderito ad una comunità virtuale on-line co-
stituita “ad hoc” per supportare il progetto dal
punto di vista comunicativo. La lista di discussione
rete UNIRE, gestita dal server Yahoo e collegata anche ad uno spazio web di
raccolta del materiale prodotto, oltre a diffondere
agli iscritti informazioni,
interrogazioni informatiche SQL, documenti e
istruzioni sulla gestione
dei processi informatici,
promuove la discussione e
il confronto tra i MMG aderenti su temi clinici, professionali e sindacali. L’arruolamento dei medici nel
progetto è avvenuto nella
fase di formazione sul
campo, a piccoli gruppi distrettuali, in cui i partecipanti si sono confrontati
sulla gestione dei PDTA ed
hanno acquisito le procedure informatiche necessarie all’allineamento degli
archivi.
3. Pratica. Il principale strumento per portare a termine il processo di audit/governance è il programma
informatico di gestione
della cartella clinica MilleWin della DataMat di Firenze. Va sottolineato che
il programma incorpora in
sé i presupposti professionali e “tecnici” per la valutazione di qualità, in quanto frutto ventennale dei
continui miglioramenti introdotti dalla CdP dei medici di MG aderenti al progetto culturale della SIMG. I
corsi di formazione periferici sull’uso del programma
ai fini del GC sono stati
l’occasione per fare emergere, esplicitare e socializzare – secondo il modello di
knowledge management
elaborato da Nonaka – la
conoscenza tacita e il sapere pratico elaborato dai medici nella propria attività
professionale quotidiana.
Va sottolineato che l’adesione al GC non ha comportato un impegno supplementare dei MMG, rispetto
alla normale gestione della
cartella informatizzata, se
non l’adozione di codifiche
comuni e di alcune procedure informatiche, senza le
quali non sarebbe possibile
ottenere dati omogenei e
confrontabili. In questo
senso la fase preliminare di
formazione e arruolamento
dei medici, finalizzata all’allineamento degli archivi
si è rivelata fondamentale
per assicurare l’omegeneità
e la qualità sia delle estrazioni informatiche che, di
riflesso, dei report individuali e di gruppo.
Governo clinico e rete
“Unire”
Dal punto di vista pratico l’adesione al progetto di GC è
subordinata ad alcuni requisiti formali:
– Utilizzo della cartella informatizzata (MilleWin o
altro software che consenta interrogazioni informatiche in SQL).
– Adesione ai PDTA dell’ASL
(diabete, ipertensione e
rischio CV) e al SISS (Sistema informativo socio
sanitario della Regione
Lombardia).
– La connessione ad internet
e l’iscrizione alla lista di
discussione provinciale
“Rete Unire”, gestita dalla
sezione provinciale SIMG e
aperta a tutti i MMG.
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Territorio
Governo clinico
Il processo ciclico di audit/GC
si regge su due indispensabili
presupposti informativi:
– Generazione delle informazioni cliniche durante l’attività ambulatoriale e domiciliare (eventi, diagnosi,
prescrizioni, accertamenti
diagnostici, parametri clinici etc.) in sintonia con
le modalità di gestione
delle patologie croniche
previste dai PDTA.
– Codifica e registrazione
informatica condivisa delle
diagnosi (codici ICD9) e
degli indicatori di processo
ed esito relativi agli assisti
“in percorso”, anche con la
collaborazione del personale di studio.
Nella rete Unire il processo di
valutazione di qualità prevede un ciclo di tipo cibernetico
in quattro tappe con periodicità semestrale.
1. Nella prima tappa, al singolo medico di medicina
generale viene richiesto di
gestire i pazienti aderendo
alle indicazioni dei PDTA
elaborati e condivisi con
gli altri attori della rete
assistenziale (specialisti
ospedalieri e territoriali).
2. La seconda tappa prevede
la distribuzione di una
query (interrogazione informatica in linguaggio
SQL diffusa attraverso la
lista di discussione collegata al progetto) che permette al medico di estrarre
dal proprio archivio i dati
relativi al monitoraggio
delle condizioni di salute e
del rischio di malattia dei
propri assisti. Il medico,
sempre tramite posta elettronica, invia al centro di
elaborazione semestralmente o con altra periodi-
cità, in forma anonima e
criptata, il file contenente
i dati raccolti.
3. Dopo alcune settimane il
centro di elaborazione restituisce i dati a ogni medico in forma di report collettivo e personalizzato. A
questo punto ogni partecipante al progetto di governo clinico è nelle condizioni di auto-valutare le proprie performance in rapporto agli indicatori di
qualità e agli standard di
processo o esito previsti
dal PDT.
4. Nella quarta e ultima tappa
possono presentarsi due
eventualità. Se il medico
verifica carenze rispetto
agli standard prefissati,
può porvi rimedio introducendo gli opportuni correttivi di carattere clinico e/o
organizzativo per migliorare la propria qualità professionale. Se invece gli obiettivi previsti dal governo
clinico sono stati raggiunti, il medico dovrà semplicemente mantenere gli
standard di buona pratica
clinica raggiunti. In entrambi casi con la successiva estrazione semestrale il
medico avrà l’opportunità
di monitorare l’andamento
del proprio lavoro.
Il progetto, iniziato con un
gruppo pilota di 25 MMG nel
2005, ha portato al progressivo arruolamento nel processo
di governance di oltre la metà
dei medici in attività nel
2009 (su circa 700 generalisti
in attività). Con un investimento in formazione pratica
sul campo e un piccolo incentivo economico deliberato
dalla ASL provinciale (pari a
un euro/anno a paziente per
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Road map formativa per l’attivazione e diffusione
del governo clinico: durata 8-12 mesi
Fase 1 (durata 3-4 mesi): formazione. Formazione pratica in piccoli
gruppi (due serate dedicate alla dimostrazione delle procedure informatiche) per uniformare le modalità di inserimento dei dati, la codifica di informazioni e l’allineamento degli archivi tra tutti i partecipanti. Senza questa fase è impossibile garantire l’omogeneità della codifica e della registrazione delle informazioni.
Fase 2 (durata 4-6 mesi): allineamento archivi. Dopo la fase formativa
il MMG durante la normale attività assistenziale inizia l’inserimento
progressivo dei dati di processo e di esito relativi al monitoraggio dei
pazienti cronici, come previsto dai relativi PDTA locali, precedentemente implementati. In questa fase si realizza il fondamentale allineamento degli archivi rispetto alle codifiche stabilite dal gruppo di coordinamento, senza il quale le informazioni estratte successivamente
non sarebbero affidabili e confrontabili tra i partecipanti al governo
clinico.
Fase 3 (durata 2-3 mesi): prima estrazione e ritorno informativo. Invio
della prima query informatica per la prima estrazione dei dati e successiva restituzione degli stessi. Il relativo report (di gruppo e individuale)
costituisce il primo feed-back informativo che offre ai partecipanti l’occasione di effettuare il cosiddetto benchmarking interno ed esterno al
gruppo. Consiste in un confronto sistematico tra le proprie performance con quelle del gruppo di pari, gli standard predefiniti e, nelle fasi
successive, con le performance precedenti del singolo professionista.
l’invio di otto report a cadenza trimestrale, nel corso del
2007) la rete Unire è diventata in pochi anni una realtà
consolidata in tutta la provincia, dopo una fase di intensa formazione pratica sul
campo in piccoli gruppi a livello distrettuale (box). Il
salto di qualità metodologico
e pratico rispetto agli obsoleti report farmacoeconomici è
risultato evidente a tutti i
partecipanti: a differenza dei
report ASL a preminente contenuto economico, quelli di
governo clinico consentono
di correlare i dati epidemiologici (prevalenza di patologie
croniche), gli indicatori di
processo (parametri bioumorali e clinici), i consumi farmaceutici e gli indicatori di
esito (eventi cardiovascolari,
ricoveri, eccetera).
Grazie ai numerosi indicatori
contenuti dei report indivi-
duali e di gruppo il medico di
medicina generale può governare la qualità del proprio lavoro e aggiustare di volta in
volta la rotta, in funzione
delle informazioni raccolte.
I dati relativi al contesto organizzativo ed epidemiologico sono i seguenti:
– ASL provinciale di BS:
915000 abitanti.
– MMG in attività: 706.
– Medici iscritti alla ML Unire: 450 circa.
– Inizio invio dati: marzo
2005.
– Ritorni informativi trasmessi: 2 report a trimestre
nel 2006 e nel 2007, 3 annui nel 2008, 2009 nel
2010.
– Tipologia dei ritorni informativi: report su diabete,
ipertensione, scompenso
cardiaco, RCCV, fibrillazione atriale e BPCO (vedi Tabelle 1-2).
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Tab. 1. Dati cumulativi della trasmissione dicembre 2010 su ipertensione arteriosa
da parte dei 406 MMG partecipanti
* Pazienti ipertesi e/o diabetici e/o con IRC (creatinemia: ♀ > 1,3, ♂ > 1,5) e/o con microalbuminuria >300 mg/die.
** Pazienti ipertesi con registrazione di almeno una colesterolemia totale e HDL, trigliceridimia, creatininemia, potassiemia, glicemia, es. urine, ECG nei tre anni precedenti.
*** Trasmissione solo per MMG che utilizzano query unica.
Il trend di adesioni al GC è
passato in pochi anni da poche decine ad oltre la metà
dei medici operanti nella provincia di Brescia:
2005 - Report gennaio 2006
su ipertensione e diabete:
25 MMG, 35578 assistiti.
2006 - Report gennaio 2007
su ipertensione e diabete:
73 MMG, 109145 assistiti.
2007 - Report gennaio 2008
su ipertensione e diabete:
296 MMG, 423413 assistiti.
2008 - Report gennaio 2009
su ipertensione, RCCV e
diabete: 372 MMG, 562890
assistiti.
2009 - Report gennaio 2010
su ipertensione, RCCV,
scompenso cardiaco, fibrillazione atriale, BPCO e diabete: 399 MMG, 599.974
assistiti pari al 59,9% della
popolazione dell’ASL.
Nel corso del 2010 sono state
promosse iniziative di formazione e di ricerca collaterali al
governo clinico, vale a dire:
– ciclo di incontri dei Gruppi
di miglioramento sull’area
cardiovascolare (dal 2° trimestre): report su stili di
vita, RCCV, ipertensione e
diabete;
– ciclo di incontri dei Gruppi
di miglioramento sulla gestione della BPCO (dal 2°
semestre): report su BPCO;
– formazione sul campo autogestita dai MMG sullo
scompenso cardiaco, accreditata dalla Regione Lombardia, sull’applicazione
del PDTA dello scompenso
che ha coinvolto quasi 300
medici suddivisi in 26
gruppi locali (5 incontri serali nell’arco dell’anno, con
20 crediti ECM);
– una prima valutazione
dell’impatto del governo
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Tab. 2. Dati cumulativi della trasmissione diabete da parte dei 414 MMG partecipanti.
* Solo per MMG che utilizzano query unica.
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clinico sulla spesa sanitaria per le malattie croniche
(prescrizioni di farmaci,
accertamenti ecc.).
I dati raccolti nell’arco del
quinquennio 2006-2010 hanno documentato un progressivo miglioramento di tutti
gli indicatori epidemiologici,
di processo ed esito compresi
nei report, dimostrato l’efficacia del progetto a livello individuale, di gruppo e di sanità pubblica (http://spazioinwind.libero.it/reteunire/, www.aslbrescia.it). Sono
in corso le elaborazioni statistiche per valutare l’impatto
del GC sugli esiti di salute,
desunti dal confronto tra il
gruppo di aderenti al GC e i
medici che non hanno partecipato al sistema di valutazione della qualità.
Purtroppo il mancato rinnovo
dell’accordo sindacale che
prevedeva incentivi economici per gli aderenti al progetto
ha pregiudicato la continuità
dei report, che da trimestrali
sono divenuti, dal 2008, annuali. Ciononostante è comunque cresciuto il numero
di partecipanti al GC, che alla
fine del 2009 ha superato il
50% della popolazione medica della provincia. Nel 2010 è
stata introdotta la cosiddetta
query unica, invece delle interrogazioni informatiche per
ogni singola patologia, e l’invio dei dati tramite il portale
ASL. Queste innovazioni hanno semplificato le procedure
informatiche e favorito ulteriormente la partecipazione
di colleghi poco esperti in
informatica, arricchendo nel
contempo i report di ulteriori
indicatori (scompenso cardiaco, fibrillazione atriale e BPCO) e correlazioni statistiche.
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Governo clinico
Territorio 143
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Progetti ed esperienze di coordinamento assistenziale
fra l’ospedale e il territorio
LA GESTIONE
DELLA CONTINUITÀ
Le strutture ambulatoriali territoriali
dedicate ai processi di recupero
Le patologie più frequenti da seguire dopo la dimissione
ospedaliera: esiti oncologici, sindromi dolorose, ulcere,
insufficienza renale
Il servizio di teleriabilitazione attivo in quattro Stati
membri della UE, tra cui l’Italia
Le funzioni dell’ospedale di continuità,
anello sanitario che collega il rapporto fra le residue
attività ospedaliere e gli interventi territoriali
Monografia a cura di Gian Franco Gensini e Roberto Tarquini
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Gavino Maciocco
Dipartimento di Sanità pubblica,
Università di Firenze
R
udolf Klein ha paragonato le trasformazioni
dei sistemi sanitari,
avvenute dagli anni ’80 in
poi in ogni parte del mondo,
a una sorta di epidemia planetaria (Klein, 1995). Una
potente motivazione alla ristrutturazione dei sistemi
sanitari va ricercata nella
necessità di far fronte ai costi derivanti dai crescenti
consumi, alimentati dall’estensione del diritto di accesso ai servizi, dall’invecchiamento della popolazione
e dall’introduzione di nuove
bio-tecnologie. L’esigenza di
contenere i costi, eliminando le spese inappropriate o
inutili e dando più efficienza
al sistema, si accompagnò ad
un altro tipo di spinta, di ordine politico/ideologico: la
tendenza alla privatizzazione e all’introduzione del
mercato, secondo le linee di
politica neo-liberista già segnalata in precedenza. La
coincidenza cronologica dei
due tipi di pressione (“più
efficienza” e “più mercato”)
ebbe l’effetto di dare più forza e giustificazione al secondo, attraverso il seguente ragionamento: solo applicando
le regole del mercato, iniettando cioè potenti dosi di
competizione e privatizzazione, il sistema può diventare efficiente.
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La gestione della continuità
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I modelli organizzativi
territoriali
Gli effetti di questa onda
d’urto sui sistemi sanitari
delle circa 200 nazioni del
mondo sono stati differenti,
asimmetrici. Il mercato della
salute, con i suoi corollari
(privatizzazioni, sviluppo
delle assicurazioni commerciali, profonde diseguaglianze nella salute e nell’accesso
ai servizi sanitari) è dilagato,
interessando i paesi più popolosi del pianeta – dalla Cina all’India – e devastando i
sistemi sanitari dei paesi più
poveri, particolarmente quelli dell’Africa sub-Sahariana.
Negli anni ’90 cure primarie
e medici di famiglia vengono
messi sotto pressione; essi
devono rappresentare il filtro, meglio ancora la diga,
verso l’accesso alle più costose cure secondarie (gatekeeping). La valutazione delle cure primarie e dei medici
di famiglia avviene quasi
unicamente su indicatori di
spesa e di efficienza. In questo stesso periodo, negli USA
la spinta sul contenimento
dei costi assume aspetti particolarmente inquietanti: alcune HMOs (for-profit) arrivano a minacciare il licenziamento di quei medici di famiglia che non riescono a limitare l’uso dei servizi dei
propri assistiti (Kassirer,
1995).
Cure primarie e trasformazioni
dei sistemi sanitari
Nuovo Millennio, nuovo approccio alle cure primarie
Dal 2000 le politiche nei confronti delle cure primarie in
generale e della medicina di
famiglia in particolare cambiano decisamente segno, anche a seguito di analisi e di
valutazioni della realtà che
non si limitano, come negli
anni ’90, agli aspetti contabili e di efficienza.
Si scrutano gli scenari futuri
(nelle diverse prospettive:
epidemiologica, demografica,
socio-antropologica) e si scopre che il modello tradizionale di assistenza sanitaria –
bio-medico, paternalista, basato sull’attesa e focalizzato
sull’assistenza alle patologie
acute – è sempre meno in
grado di affrontare con successo le sfide di una realtà in
rapido cambiamento.
“Lo ‘status quo’ non è più sostenibile. Se vogliamo soddisfare i bisogni di salute dei
nostri pazienti negli anni a
venire, dobbiamo produrre un
cambiamento radicale nella
qualità, nell’organizzazione,
nell’erogazione dei nostri servizi”, con queste parole si
apre un recente documento
dei medici di famiglia britan-
nici intitolato The Future Direction of General Practice
(Royal College of General
Practitioners, 2007).
Toni simili sono stati usati in
un analogo e contemporaneo
documento dei medici di famiglia italiani: “Non è più
procrastinabile un cambiamento sostanziale della nostra realtà professionale. Per
ottenerlo dobbiamo investire
tutte le nostre energie” (Federazione italiana medici di
famiglia, 2007).
Morrison e Smith, in un editoriale del “British Medical
Journal” del 2000, definirono
la difficile situazione della
medicina di famiglia: hamster
health care, l’assistenza sanitaria del criceto. “In tutto il
mondo i medici sono infelici
perché si sentono come criceti all’interno di una ruota.
Devono correre sempre più
veloci per rimanere fermi. Ma
sistemi che dipendono da
persone che devono correre
sempre più velocemente non
sono sostenibili. La risposta è
che questi sistemi devono essere ridisegnati perché il risultato di una ruota che gira
sempre più veloce non è solo
la perdita della qualità delle
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cure, ma anche la riduzione
della soddisfazione professionale e un aumento del burnout tra i medici” (Morrison,
2000).
Nel novembre 2008, la rivista
“The New England Journal of
Medicine”, ha pubblicato una
serie di articoli e poi ospitato
una tavola rotonda sulle prospettive delle cure primarie:
Perspective roundtable: Redesigning Primary Care (Lee,
2008). Lo spunto: la crisi delle cure primarie negli USA, le
difficoltà di risposta ad un
numero crescente di pazienti
cronici, in tempi sempre più
stretti, e con compensi inferiori agli specialisti. Al capezzale delle cure primarie i
principali analisti americani
dei sistemi sanitari, da Barbara Starfield della Johns
Hopkins University di Baltimora a Thomas Bodenheimer
della University of California,
San Francisco, che lanciano
questo preciso messaggio: bisogna avere il coraggio di
reinventare le cure primarie.
“Nuove” cure primarie connotate da due principali caratteristiche: a) essere centrate
sui pazienti e b) basate su
team multidisciplinari.
Il concetto di patient-centered primary care è diventato
da tempo la fondamentale linea d’indirizzo per l’innovazione e il miglioramento della
qualità dell’assistenza sanitaria (Davis, 2005). Un concetto che include i seguenti attributi:
– facilità di accesso alle cure
(tempestività della risposta, facilità di comunicazione con i professionisti,
via telefono o e-mail, ecc.);
– coinvolgimento del paziente nelle scelte e nella ge-
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La gestione della continuità
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stione delle cure (supporto
all’auto-cura, counselling,
facilità di accesso ai propri
dati personali, ecc.);
– pro-attività degli interventi (utilizzazione di registri di patologia, sistemi
di programmazione delle
visite e di allerta dei pazienti che facilitano il follow-up, ecc.);
– coordinamento delle cure
(tra i diversi professionisti) e la continuità dell’assistenza (tra differenti livelli organizzativi, es, tra
ospedale e territorio).
I fattori che premono verso il
cambiamento – rendendolo
“non più procrastinabile” –
sono molteplici. Ne elenchiamo qui i tre più importanti.
b) coinvolgere i pazienti nei
processi assistenziali attraverso il più ampio accesso alle informazioni, il counselling e il supporto all’autocura; c) allestire sistemi informativi – accessibili anche ai
pazienti – in grado di documentare i risultati (e la qualità) degli interventi sanitari;
d) organizzare sistemi di follow-up e reminding che agevolino il controllo dei processi di cura, in particolare nel
campo delle malattie croniche; e) garantire il coordinamento delle cure (tra i diversi
professionisti) e la continuità dell’assistenza (tra differenti livelli organizzativi,
es, tra ospedale e territorio).
Nel 2006 l’American College of
Physicians pubblica un fondamentale documento di indirizzo sulla riqualificazione delle
cure primarie negli USA, intitolato: The Advanced Medical
Home: A Patient-Centered, Physician-Guided Model of Health
Care (http://www.acponline.
org/hpp/statehc06_5.pdf).
1. Il ruolo dei pazienti. “L’opinione del medico non è più
vista dai pazienti come sacrosanta”. Questa fulminante
constatazione, tratta dal sopra-citato documento dei medici di famiglia britannici,
pare racchiudere vari ed opposti sentimenti: sorpresa,
sgomento, meraviglia, smarrimento, desiderio di rinnovamento, nostalgia del passato. La presa d’atto, forse tardiva, di una situazione che
vede gli assistiti – in misura
sempre maggiore – non solo
reclamare i classici (ma spesso ancora trascurati) elementi di supporto alla cura quali
il rispetto della dignità, della
riservatezza, del consenso,
dell’autonomia, ma anche
esigere, e quindi ricercare attivamente, l’accesso diretto
alle informazioni per acquisire le conoscenze, e talora le
abilità, necessarie per essere
partner attivi nel processo
assistenziale e per partecipa-
re alle decisioni che riguardano la loro salute.
Nel 1998 si tenne a Salisburgo un seminario di 5 giorni a
cui parteciparono 64 rappresentanti di 29 paesi, appartenenti a varie categorie: operatori sanitari, ricercatori,
rappresentanti di gruppi di
pazienti, giornalisti, giuristi,
artisti. Il tema dell’incontro
era il rapporto tra pazienti e
terapeuti nell’assistenza sanitaria; le conclusioni furono
sintetizzate nella linea-guida: Nothing about me without
me (“Niente che riguardi me
senza di me”) (Delbanco,
2001). Il seminario di Salisburgo è considerato il punto
di partenza di un vasto movimento finalizzato a promuovere una più larga e decisiva
presenza dei pazienti nei processi assistenziali che li riguardano, soprattutto attraverso lo strumento dell’informazione. Motori dell’iniziativa sono stati l’Harvard Medical School (http://cme.hms.
harvard.edu) e altre istituzioni di ricerca e advocacy americane come The Commonwealth Fund (http://www.
commonwealthfund.org) e
The Institute of Medicine
(http://www.iom.edu/).
Nel 2005 viene pubblicato un
importante contributo del
Commonwealth Fund che specifica il ruolo delle cure primarie nel promuovere un’assistenza sanitaria centrata sul
paziente (Davis, 2005). Cure
primarie coerenti con questa
impostazione devono: a) offrire agli assistiti le massime facilitazioni nell’accesso ai servizi, utilizzando ampiamente
strumenti come telefono, email e internet nelle relazioni
tra pazienti e professionisti;
2. Le diseguaglianze nella salute. Le iniquità sociali nella
salute sono in costante crescita e spiegano una parte sostanziale del totale carico di
malattia anche nei paesi dell’Europa occidentale, tutti
dotati di robusti sistemi pubblici di welfare (Mackenbach,
2003). In Svezia circa un terzo del carico totale di malattia è il risultato delle iniquità
socioeconomiche in salute. In
entrambi i sessi, gran parte
del carico differenziale di malattia ricade sui lavoratori
non qualificati. La cardiopatia ischemica è la patologia
che maggiormente differenzia la mortalità tra i gruppi
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meno e più avvantaggiati della società. Conseguentemente gli sforzi per ridurre le iniquità nella salute dovrebbero
essere viste come un’importante strategia per migliorare
lo stato generale medio della
popolazione. In molti paesi
sta diventando chiaro che miglioramenti nella salute della
popolazione generale non
possono essere raggiunti senza sforzi aggiuntivi per ridurre le iniquità sociali nella salute all’interno del paese
(Whitehead, 2006).
3. Le malattie croniche. Sebbene i tassi di mortalità per
malattie croniche stiano diminuendo, la prevalenza di
queste patologie è in netta
crescita. Una crescita alimentata dall’effetto congiunto di
due fenomeni: a) l’invecchiamento della popolazione
(l’approssimarsi all’età della
pensione della generazione
del baby-boom accentuerà nei
prossimi decenni tale processo); b) la crescente esposizione a fattori di rischio di carattere ambientale e sociale.
Il dato sull’obesità è certamente quello più eclatante
per la rapidità con cui tale
condizione si sta diffondendo
in tutto il mondo, in particolare tra la popolazione americana, e per le drammatiche
conseguenze in termini di comorbilità (Doshi, 2007) e di
effetti sulla longevità; essa
infatti potrebbe registrare in
USA, per la prima volta negli
ultimi due secoli, l’interruzione della sua costante crescita (Olshansky, 2005).
Nel 2005 l’OMS pubblica un
ampio rapporto dal titolo Preventing chronic diseases. A vital investment (WHO, 2005).
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L’anno seguente esce la versione in lingua italiana, a cura del Ministero della salute,
nella cui prefazione si legge il
seguente passo:
“Negli ultimi anni l’aumento del
numero dei malati cronici sta
creando un’emergenza per i sistemi sanitari: cardiopatie, cancro, diabete, disturbi mentali,
malattie respiratorie, dell’apparato digerente e del sistema
osteoarticolare sono ormai tra le
cause più diffuse di sofferenza e
morte. E non è un ‘problema dei
ricchi’: negli ultimi vent’anni le
malattie croniche si sono diffuse
anche nei paesi più poveri e oggi
sono responsabili dell’86% dei
decessi in tutta Europa.
I principali fattori di rischio sono l’ipertensione arteriosa, il fumo, l’obesità e il sovrappeso, l’alcol, il colesterolo e la glicemia
elevati, la sedentarietà. Si tratta
di fattori modificabili grazie a
interventi sull’ambiente sociale,
come è stato fatto recentemente
in Italia con il divieto di fumo
nei locali pubblici, e grazie a
trattamenti medici, come i farmaci antipertensivi.
D’altra parte, in Italia abbiamo
un sistema di cure che funziona
come un radar a cui il paziente
appare per essere curato e scompare alla vista una volta guarito.
Perfetto per le malattie acute,
ma non per le patologie croniche, per le quali serve invece un
modello di assistenza diverso:
occorre evitare non solo che le
persone si ammalino, ma anche
che chi è già malato vada incontro a ricadute, aggravamenti e
disabilità. Un sistema, insomma,
adatto a malattie che non guariscono e che devono essere seguite nel territorio, adeguatamente
attrezzato”.
Le strategie per affrontare
adeguatamente le malattie
croniche sono ben diverse da
quelle attuate per le malattie
acute: richiedono un diverso
ruolo delle cure primarie basa-
to sulla medicina d’iniziativa e
un’attenzione del tutto particolare nei confronti dei determinanti sociali della salute.
Il cambiamento di paradigma
Il paradigma dell’attesa è
quello tipico delle malattie
acute: attesa di un evento su
cui intervenire, su cui mobilitarsi per risolvere il problema. Applicare alle malattie
croniche il paradigma assistenziale delle malattie acute
provoca danni incalcolabili.
Ciò significa che il “sistema”
si mobilita davvero solo
quando il paziente cronico si
aggrava, si scompensa, diventa “finalmente” un paziente acuto. Ciò significa rinunciare non solo alla prevenzione, alla rimozione dei
fattori di rischio, ma anche al
trattamento adeguato della
malattia cronica di base.
L’attesa è il paradigma classico del modello bio-medico di
sanità, quello su cui da sempre si fonda la formazione
universitaria, e non deve stupire che sia il paradigma dominante anche nell’ambito
della sanità distrettuale.
Il paradigma dell’iniziativa è
quello che meglio si adatta
alla gestione delle malattie
croniche, perchè i suoi attributi sono:
a) la valutazione dei bisogni
della comunità e l’attenzione ai determinanti della
salute (anche quelli cosiddetti “distali”, ovvero
quelli socio-economici, che
sono alla base delle crescenti diseguaglianze nella
salute, anche sul versante
dell’utilizzazione e qualità
dei servizi, nei portatori di
malattie croniche);
b) la propensione agli interventi di prevenzione, all’utilizzo di sistemi informativi e alla costruzione di
database, alle attività programmate e agli interventi
proattivi (es.: costruzione
di registri di patologia,
stratificazione del rischio,
richiamo programmato dei
pazienti, ecc.);
c) il coinvolgimento e la motivazione degli utenti, l’attività di counselling individuale e di gruppo, l’interazione con le risorse della
comunità (associazioni di
volontariato, gruppi di autoaiuto, ecc.).
La sanità d’iniziativa, con le
caratteristiche sopra descritte, è quella che meglio si
adatta alla gestione della sanità distrettuale in generale e
delle malattie croniche in
particolare (comprese le malattie mentali e l’assistenza ai
soggetti tossicodipendenti),
dove l’assistenza è per la gran
parte “estensiva” e caratterizzata dalla presa in carico a
lungo termine, dove il valore
aggiunto dei processi di cura
è rappresentato dalla capacità di presidiare la continuità delle cure e dalla qualità delle relazioni che si stabiliscono tra servizio e utenti, tra terapeuta e paziente.
Community-oriented primary care
Un gruppo di ricercatori canadesi ha proposto una versione
allargata (“expanded”) del chronic care model, dove gli
aspetti clinici sono integrati
da quelli di sanità pubblica,
quali la prevenzione primaria
collettiva e l’attenzione ai determinanti della salute (Barr,
2003). La proposta di iniettare
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all’interno delle cure primarie
metodi e contenuti della sanità pubblica la ritroviamo in
un recente documento dell’OMS, intitolato: Primary
health care as a strategy for
achieving equitable care (Le
cure primarie come strategia
per raggiungere un’assistenza
equa) (De Maeseneer, 2007).
Le cure primarie che si propongono questo scopo sono
definite da De Maeseneer
community oriented e sono
caratterizzate da:
– la sistematica valutazione
dei bisogni sanitari della
popolazione;
– l’identificazione dei bisogni
di salute della comunità;
– l’implementazione di interventi sistematici, con il
coinvolgimento di specifici
gruppi di popolazione (es.:
rivolti al cambiamento degli stili di vita o al miglioramento delle condizioni
di vita);
– il monitoraggio dell’impatto di tali interventi, per
verificare i risultati raggiunti in termini di salute
della popolazione.
Il compito di definire le
priorità e di stabilire la pianificazione strategica deve
essere assunto da un team
misto di operatori delle cure
primarie e di rappresentanti
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La gestione della continuità
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della comunità.
La Community-oriented primary care (COPC) in questo
senso integra l’approccio verso l’individuo con quello verso
la popolazione, combinando le
abilità cliniche del medico di
famiglia con l’epidemiologia,
la medicina preventiva e la
promozione della salute.
valutando regolarmente i
risultati e i problemi.
3. Infrastrutture fisiche e
informatiche per consentire
il lavoro associato dei team
multi-professionali secondo il metodo della sanità
d’iniziativa. La Casa della
salute può essere un modello, ma qualsiasi struttura (pubblica o privata) in
grado di ospitare un consistente gruppo di professionisti, e di essere un valido
punto di riferimento per la
popolazione, è benvenuta.
4. La disponibilità di cure intermedie all’interno della
rete dei servizi della SdS (o
Z/D). Si tratta di posti letto
ad alta intensità assistenziale infermieristica/riabilitativa in grado di garantire la continuità assistenziale nei pazienti dimessi
dall’ospedale (in condizioni
di stabilità clinica, ma non
ancora in grado di tornare
al proprio domicilio per
motivi sociali o sanitari) o
non in grado di rimanere al
proprio domicilio a causa di
una malattia intercorrente
che tuttavia non richiede
un ricovero ospedaliero. Si
tratta di posti letto da individuare in Case della salute, in ospedali di comunità
o in RSA.
Conclusioni
Le due diverse, complementari, visioni che abbiamo ora
descritto ci consegnano un
modello di cure primarie radicalmente diverso dalla rappresentazione corrente e sorprendentemente vicino al
profilo della Primary Health
Care di Alma Ata.
Un modello in cui i concetti di
patient-centered e communityoriented sono le due facce di
una stessa medaglia. Da una
parte plasmare i servizi in
funzione dei bisogni e dell’empowerment dei pazienti (accessibilità, informazione,
proattività, self-care) e dall’altra presidiare l’approccio comunitario e di sanità pubblica
(valutazione dei bisogni della
comunità, partecipazione dei
cittadini, lotta alle diseguaglianze nella salute, interventi di prevenzione primaria).
Un modello che richiede tempo per realizzarsi compiuta-
mente ma nella cui roadmap
di avvicinamento trovano posto le seguenti condizioni:
1. Team multi-professionali
(medici di famiglia, infermieri, altre professioni sanitarie e sociali) in grado di
prendersi carico di gruppi
di popolazione (minimo 10
mila abitanti) e di garantire
loro una continuità assistenziale integrata; ciò
comporta una diversa organizzazione della medicina
generale, basata su modelli
che privilegiano l’attività
di gruppo (come le “aggregazioni funzionali territoriali” e le “unità complesse
di cure primarie”).
2. Il supporto all’auto-cura.
La gestione delle malattie
croniche può essere insegnata alla maggior parte
dei pazienti e un rilevante
segmento di questa gestione – la dieta, l’esercizio fisico, il monitoraggio (della
pressione, del glucosio, del
peso corporeo, ecc.), l’uso
dei farmaci – può essere
trasferito sotto il loro diretto controllo. Il supporto
all’auto-cura significa aiutare i pazienti e le loro famiglie ad acquisire abilità
e fiducia nella gestione
della malattia, procurando
gli strumenti necessari e
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Territorio
150
Marco Inzitari, MD, PhD
Direttore assistenziale, Hospital
socio-sanitari Pere Virgili
Professore associato
di Medicina, Università
autonoma de Barcelona
Coordinatore, Comitè Operatiu
socio-sanitari i del Malalt fràgil,
Area integral de Salut Barcelona
nord, Consorci sanitari
de Barcelona
[email protected]
L’
incremento di patologie
croniche nelle ultime
decadi è un fenomeno
multifattoriale, che trova nell’invecchiamento della popolazione e nei cambiamenti
dello stile di vita due determinanti fondamentali (1). Tale trasformazione epidemiologica comporta una serie di
conseguenze cliniche e funzionali per i pazienti, come
per esempio un incremento
del rischio di morte, disabilità
e istituzionalizzazione, e minaccia la sostenibilità dei sistemi sanitari (2, 3). I pazienti anziani con patologie
croniche utilizzano una proporzione rilevante delle risorse sanitarie disponibili, che
vanno dai dispositivi di urgenza e di degenza acuta al
consumo di farmaci (4). Diverse esperienze internazionali hanno cercato una risposta efficace ed efficiente. Tra
esse il celebre modello statunitense Chronic Care Model
(5) che si basa su una stratificazione prognostica dei pazienti cronici in classi di rischio, con interventi proporzionati e adattati, e soprattutto su un approccio proattivo, diretto a ricercare e seguire attivamente i pazienti
per prevenire le fasi di scom-
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Le cure intermedie
geriatriche per
il paziente cronico
complesso
penso. Nonostante non esista
una definizione univoca, il
profilo del paziente cronico
complesso è caratterizzato da
una importante comorbosità,
in cui spicca un’alta prevalenza di alcune malattie croniche, in particolare l’insufficienza cardiaca o la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), l’alta frequentazione dei dispositivi di urgenza, molteplici ricoveri all’anno in reparti per acuti, la presenza di disabilità e la polifarmacia. Altre variabili rilevanti sono l’età avanzata e lo
scarso supporto sociale. Per
implementare questo tipo di
modello, per molte ragioni,
incluse l’expertise e bilanci
costo/efficienza, il ruolo centrale deve essere assunto dalla medicina di base, e, tra le
professioni sanitarie, dall’infermieristica. Data la complessità del fenomeno, però,
ed il fatto che ogni territorio
ha le proprie peculiarità e
eterogeneità, difficilmente
una singola organizzazione o
alcuni professionisti specifici
potranno affrontare da soli la
sfida alla cronicità. Sarà necessario invece strutturare
percorsi di cura partecipativi
e condivisi.
In particolare, il 5% di pa-
Il “modello” della Catalogna
zienti di alta complessità,
che corrisponde alla “punta
della piramide” del Kaiser
Permanente è esposto a un rischio particolarmente elevato
di accesso ai dispositivi d’urgenza e di ricovero. Per queste persone l’approccio preventivo di per sé non sarà
sufficiente, dato l’alto rischio
di riacutizzazioni, e, quando
necessario, un supporto specializzato dovrà fornire una
maggiore intensità di trattamento, sia a domicilio o in regime di ricovero. Su questa
base, e sempre nell’ottica di
ottimizzare l’utilizzo delle risorse, non è scontato che
questa maggiore intensità di
cure la debba fornire l’ospedale per acuti. Per pazienti
adeguatamente selezionati,
livelli assistenziali dotati di
minore tecnologia e concentrazione di risorse umane, e
quindi con minori costi, come
i Community Hospital inglesi
o le Skilled Nursing Facilities
americane (6), potrebbero offrire una alternativa.
La realtà della Spagna è frammentata in esperienze molto
diverse che caratterizzano le
varie Comunità autonome,
che, in generale, possiedono
autonomia di gestione sulla
sanità. In Catalogna, in particolare, l’attenzione al paziente cronico complesso rappresenta una priorità strategica
del Dipartimento di salute del
governo della Comunità, per
la quale recentemente si è costituito uno specifico organo
consultivo con associato un
osservatorio epidemiologico
dedicato. Queste entità raccolgono l’esperienza e le linee
marcate durante gli ultimi
quattro anni dal Piano strategico d’innovazione in attenzione primaria, che ha fornito un quadro orientativo del
modello, contestualizzando
le esperienze internazionali.
Lo sviluppo pratico, però, ancora preliminare, si è articolato finora attraverso una serie d’iniziative spontanee,
spesso sorte da necessità di
migliorare l’efficienza dell’assistenza da parte degli stessi
provider. Tali iniziative hanno adattato elementi del modello alle differenti realtà del
territorio (urbana, rurale, e
con diversa disponibilità di
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risorse sanitarie). Il sistema
sanitario catalano possiede
una struttura potente di attenzione primaria (medicina
di base), organizzata da anni
in Centri integrati e interdisciplinari di attenzione primaria (CAP). Parallelamente,
esiste una rete “sociosanitaria” capillare, costruita sui
principi di equità demografica e territoriale e accessibilità universale. Tale risorsa
può rappresentare un valore
aggiunto per l’attenzione al
5% dei pazienti complessi cui
si è fatto riferimento, con alto rischio di scompenso e necessità puntuale di risorse
specializzate.
L’obiettivo dell’articolo è illustrare la struttura della rete
geriatrica della Catalogna,
descrivere gli strumenti di
coordinamento tra livelli assistenziali e, attraverso alcune esperienze pilota, suggerire che tipo di supporto la geriatria, soprattutto attraverso
l’attenzione intermedia, può
offrire nell’assistenza al paziente cronico complesso.
La rete sociosanitaria in
Catalogna
La “Rete sociosanitaria” o geriatrica della Catalogna fu
creata, all’inizio degli anni
‘80, per decisione strategica
del Governo autonomo, per
far fronte ai cambiamenti demografici ed epidemiologici
incipienti (7). L’agenzia sociosanitaria (Pla Vida als
Anys, poi Pla Director SocioSanitari), che ne è l’organismo di riferimento nell’amministrazione sanitaria, fu il
frutto della sinergia tra i Dipartimenti di salute e politiche sociali, che generarono
l’integrazione dei servizi sani-
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tari e sociali in unica prestazione, a beneficio degli utenti
della rete. Durante gli anni
’90 fu consolidata la mappa
dei servizi, che include Unità
funzionali di consulenza geriatrica negli ospedali per
acuti, centri di ricovero per
convalescenza e riabilitazione
geriatrica, lungodegenza e
cure palliative, più servizi
ambulatoriali e domiciliari,
tutti pubblici o convenzionati, e con distribuzione su tutto il territorio (Fig. 1). Gli anni 2000 furono invece dedicati alla promozione della qualità attraverso indicatori regionali condivisi e audit. Le
linee di attenzione dell’agenzia e della rete sono quattro:
la geriatria (rivolta a pazienti
con patologie croniche o acute invalidanti, come ictus e
frattura di femore), le demenze, altre malattie neurologiche che decorrono con importante disabilità (SLA, SM
etc.), e l’attenzione alla fine
della vita (cure palliative),
aspetto sul quale la Catalogna
è referente della OMS (8). I
vari livelli assistenziali della
rete sono preposti ad assistere questo tipo di malati in
maniera integrata e trasversale (dal ricovero al territorio).
L’attenzione intermedia
Nella rete sociosanitaria, i dispositivi di convalescenza e
riabilitazione e le unità domiciliari interdisciplinari che
forniscono supporto specializzato all’attenzione primaria
operano secondo obiettivi e
metodologia dell’attenzione
intermedia britannica. Secon-
do la definizione della British
Geriatrics Society, l’intermediate care funge da collegamento tra ospedali generali e
medicina di base, con l’obiettivo di evitare ricoveri ospedalieri o degenze prolungate,
promuovendo l’autonomia del
paziente e facilitando il ritorno al domicilio attraverso interventi intensivi e limitati
nel tempo (9). Al centro rimangono i principi della geriatria, cioé l’interdisciplinarietà e la revisione periodica
del trattamento individualizzato, pianificato sulla base di
una valutazione multidimensionale. La rete geriatrica catalana ha quindi in sé, intrinsecamente, la vocazione di
continuità tra ricovero acuto
e territorio, per favorire la
transizione di paziente fragile
Fig. 1. Distribuzione delle risorse della rete sociosanitaria in Catalogna, per Regioni sanitarie. Le risorse sono espresse come numero di posti letto, o come numero di strutture per le risorse ambulatoriali (EAIA), di
supporto al domicilio (PADES) o di consulenza negli ospedali per acuti (UFISS).
Fonte: Servei Català de la Salut, Àrea Serveis i Qualitat, 2004.
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o complesso tra i differenti livelli del sistema sanitario.
Strumenti di coordinazione
assistenziale
La coordinazione tra livelli
assistenziali, sul territorio
catalano, si realizza in maniera differente a seconda
delle caratteristiche del territorio. In zone suburbane o
più periferiche il modello più
efficiente ed “in voga” sembra quello delle Organizzazioni sanitarie integrate, istituzioni uniche che raccolgono
tutti i livelli assistenziali,
dall’acuto alle cure primarie.
La città di Barcellona è invece organizzata in quattro
Aree integrate di salute
(AIS), ognuna dotata di un
ventaglio completo e simile
di servizi assistenziali, da un
ospedale universitario di terzo livello, a un referente per
l’attenzione intermedia, all’attenzione primaria. Ogni
AIS è poi organizzata in Comitati operativi (CO), che riuniscono tutti gli operatori
che si occupano di una stessa
traiettoria o di uno stesso
profilo di paziente, come, per
esempio, per le urgenze, la
salute mentale o il malato
fragile. I CO sono coordinati
dagli stessi professionisti assistenziali, e gli attori implicati vanno dai rappresentanti
sanitari delle differenti istituzioni alle autorità sanitarie
locali, a altri, che intervengono secondo l’opportunità, come il trasporto sanitario, la
farmacia etc. La finalità è migliorare la coordinazione e
ottimizzare l’utilizzo delle risorse, arrivando magari a progettare traiettorie cliniche
inter-istituzionali. Oltre a lavorare su obiettivi specifici e
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concordati, il CO sociosanitario e del malato fragile dell’AIS Barcellona nord si propone di aggregare e stimolare
i professionisti che condividono obiettivi assistenziali
comuni perché intraprendano
iniziative innovative “dal
basso”. Nel contesto del nostro CO sono nate alcune
esperienze pilota orientate
all’attenzione agli anziani
con malattie croniche scompensate, con l’obiettivo di
evitare il ricovero negli ospedali generali, evento che può
risultare controproducente
tanto per il paziente anziano,
in assenza di un approccio
geriatrico esperto (10), come
pure, ovviamente, per il sistema. Tali esperienze e strumenti sono descritti nel paragrafo seguente, e schematizzate nella Fig. 2.
livello, l’Ospedale universitario Vall d’Hebròn. I pazienti
candidati venivano trasferiti
rapidamente, direttamente
dai dispositivi di urgenza
(70% dei casi) a una Unità di
convalescenza e riabilitazione
geriatrica di una struttura di
attenzione intermedia, l’Ospedale sociosanitario Pere Virgili, vincolato alla stessa Università. Dotato di tecnologia
diagnostica di base (RX e laboratorio), include équipe sanitarie multidisciplinari composte da specializzati o esperti in geriatria. Un gruppo di
referenti riunito dall’amministrazione aveva pre-marcato
degli standard di qualità per
la valutazione del progetto.
Tra i risultati più interessanti
del primo gruppo pilota
(N=68, età media 82,6 anni
[range 65-97], 51,5% donne),
Traiettorie e transizioni:
tre esempi
Traiettoria del “paziente subacuto”
Questo progetto risponde alla
necessità di liberare risorse di
urgenza sul territorio. L’ipotesi di partenza era che pazienti
anziani con patologia cronica
scompensata, ben diagnosticati, con necessità di bassa
tecnologia diagnostico-terapeutica, potessero essere presi
in carico da strutture postacute o di attenzione intermedia in alternativa all’ospedale
per acuti. La selezione dei pazienti, elemento chiave per favorire una adeguata ubicazione dei pazienti anziani fin
dalla porta d’entrata dell’ospedale (11), era realizzata da
un équipe esperta in geriatria
al momento del ricovero in un
ospedale universitario di terzo
Fig. 2. Traiettorie e transizioni per il paziente anziano con patologia cronica, includono il trasferimento
dall’ospedale generale alle cure intermedie (paziente subacuto), l’ingresso diretto del paziente cronico
scompensato alle cure intermedie, e gli strumenti di coordinamento alla dimissione.
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la degenza media in ospedale
per acuti (2,6+2,9 giorni, con
1,5+1,6 giorni selezionando i
pazienti trasferiti direttamente da urgenze/emergenze) e la degenza nelle cure
intermedie (11,4+4,2 giorni).
Il 75% dei ricoveri era motivato da riattivazione di malattie croniche cardio-respiratorie (75%). Alla dimissione, 56 pazienti tornarono al
domicilio pre-ricovero, 2 furono trasferiti all’ospedale
per acuti, 7 a lungodegenza,
e 3 morirono, rispettando
tutti gli standard prefissati.
Supporto specializzato nell’attenzione al paziente cronico
complesso
Dalla fine del 2009 il nostro
ospedale ha rafforzato l’alleanza con i CAP della zona
(Vallcarca-Sant Gervasi), costruendo un proprio modello
di attenzione al paziente cronico. La popolazione di questi CAP presenta elevati indici
di invecchiamento, e il territorio è caratterizzato da importanti barriere architettoniche. Questi CAP dispongono
di una Unità di assistenza a
domicilio (UAD), composta da
un medico e un infermiere,
che si dedica quasi esclusivamente al follow-up domiciliare di pazienti con patologia
cronica a rischio di riacutizzazioni e ricovero. La UAD si
appoggia alle Unità di attenzione intermedia dell’Ospedale Pere Virgili quando riscontra uno scompenso della patologia che non possa essere
gestito al domicilio. L’alleanza tra attenzione primaria e
intermedia è multifattoriale,
e include aspetti di formazio-
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ne, consulenze di geriatria, e
un programma pilota di ammissione diretta alle cure intermedie, senza passare per
l’ospedale per acuti, e continuità alla dimissione. Nel primo pilotaggio, abbiamo ammesso 21 pazienti con patologie croniche scompensate,
soprattutto insufficienza cardiaca (41%) e BPCO (12%),
nell’Unità di cure intermedie
(età media+DS 86,4±7,7, 50%
donne, 10+2,5 farmaci cronici, indice di Barthel all’ingresso 43,7+25,2, il 25 % viveva solo). Di questi, dopo 30
giorni di degenza (il progetto
prevede programma di riabilitazione/riattivazione), 3 pazienti morirono, 1 fu trasferito all’ospedale per acuti, e il
resto dimesso al domicilio.
Strumenti di continuità assistenziale alla dimissione
Relativamente alla continuità
assistenziale alla dimissione,
nella Regione sanitaria di
Barcellona esiste un sistema
“istituzionale” di notifica
della dimissione da un ospedale per acuti o di cure intermedie a attenzione primaria,
chiamato sistema PREALT. Si
tratta di un foglio che contiene una breve valutazione
multi-dimensionale e interdisciplinare, con informazione
medica, necessità d’infermeria, situazione sociale e, soprattutto, farmaci prescritti
alla dimissione (con eventuale emissione di ricette). Questo documento si invia entro
le 48 precedenti alla dimissione al CAP di riferimento,
in caso di pazienti con necessità di contatto da parte
dell’équipe primaria nei gior-
ni immediatamente seguenti
la dimissione, per residua instabilità clinica, fragilità sociale e particolare necessità
di aderenza terapeutica. Questo circuito, valido tanto per
gli ospedali per acuti come
per la rete sociosanitaria, è
contemplato tra gli indicatori
di qualità marcati dal Servizio sanitario catalano, che
marca come standard una
percentuale minima delle dimissioni a domicilio.
Importanza della tecnologia dell’informazione
Finalmente, un fattore fondamentale per garantire la
continuità dell’assistenza,
chiave per la presa in carico
dei pazienti con patologie
croniche, è rappresentato dai
sistemi di informazione. La
possibilità di disporre di
informazioni e documenti relativi alla storia e al piano di
trattamento del paziente nel
precedente livello assistenziale è fondamentale per
orientare la linea assistenziale quando il paziente transita in un nuovo dispositivo.
Nonostante esistano importanti margini di miglioramento, e molte azioni di base
da sviluppare, un primo passo è stato mosso attraverso la
creazione della “storia clinica condivisa” (HC3), una applicazione web-based, nella
quale si depositano le informazioni sulle diagnosi, il
trattamento cronico e i documenti relativi ai ricoveri, come le lettere di dimissioni e i
referti delle prove diagnostiche. I professionisti dell’istituzione che in quel momento
hanno in carico il paziente,
limitatamente al tempo del
ricovero possono accedere al
sistema e visualizzare tali
informazioni.
Conclusioni
Nel modello di attenzione al
paziente cronico complesso,
la geriatria può rappresentare
un valore aggiunto come supporto all’attenzione primaria,
soprattutto per la gestione
delle fasi di scompenso della
patologia cronica, con l’obiettivo di prevenire il ricovero e
ridurre la degenza in ospedale
per acuti.
Per pazienti ben selezionati,
l’attenzione intermedia geriatria potrebbe rappresentare una valida alternativa al
ricovero in ospedale per acuti
fin dal primo momento delle
fasi di scompenso. In particolare, la geriatria può apportare una cultura già consolidata nella cura della persona
anziana, fragile, con patologia cronica, che include in sé
il training dei professionisti a
utilizzare, come base, la valutazione multidimensionale e
la visione interdisciplinare.
La realtà della Catalogna, in
cui esiste una rete capillare e
gratuita di servizi geriatrici
differenziati e integrati, si
presta particolarmente a essere integrata nel modello di
attenzione alla cronicità. Il
buon funzionamento del sistema ha però bisogno dell’implicazione dell’amministrazione nel supportare la
creazione e il funzionamento
degli strumenti di coordinamento e la diffusione della
tecnologia dell’informazione,
che rappresenta un elemento
cardine del modello.
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Francesco Benvenuti
Antonio Taviani
UOC Cura e riabilitazione
delle fragilità, Dipartimento
Fragilità, AUSL11 Empoli
L’
invecchiamento della
popolazione ed i successi della medicina
hanno portato ad un prolungamento della vita ma ad una
guarigione spesso con esiti
funzionali. Gli esiti funzionali sono causa di disabilità e
quindi perdita della capacità
di riprendere una vita autonoma integrata nel contesto
sociale (partecipazione). In
questo quadro il mandato dei
servizi di riabilitazione è
quello di accogliere i cittadini
con problemi di disabilità
modificabili e soddisfarne il
bisogno di recupero funzionale tramite procedure e protocolli validati e aggiornati
secondo la medicina basata
sull’evidenza.
Il mandato dei servizi è consentire attraverso un processo
integrato multiprofessionale il
massimo recupero possibile
delle funzioni lese in seguito
ad eventi patogeni o lesionali,
prevenire le menomazioni secondarie e correggere la disabilità, contenere o evitare lo
svantaggio sociale, per una
migliore qualità di vita e inserimento psicosociale (1).
Gli obiettivi dell’intervento
riabilitativo nell’adulto e anziano variano a seconda della
gravità e tipo della malattia
che ha causato la menomazione e la comorbilità (2).
L’obiettivo della riabilitazio-
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La riabilitazione
nell’adulto
ne può essere:
– la guarigione (recovery)
quando l’intervento riporta il soggetto a una restitutio “ad integrum”;
– il recupero funzionale (restitution) quando l’intervento produce un completo recupero funzionale a
spese delle potenzialità di
riserva degli organi e apparati interessati;
– l’adattamento funzionale
(substitution) quando l’intervento avviene per riorganizzazione degli organi
e apparati interessati;
– l’adattamento comportamentale (compensation)
quando l’intervento recupera un’accettabile qualità
della vita mediante compensi prevalentemente
ambientali.
Si è modificata la struttura
della famiglia: sempre più anziani vivono soli, o con coniuge anch’esso anziano e disabile, o figli non disponibili
a far fronte alle esigenze poste dalla disabilità residua e
dalle cure della malattia. Il
cittadino è più esigente e
sempre meno propenso ad accettare e gestire, anche con il
supporto del MMG e dell’assistenza domiciliare le conseguenze funzionali o le variazioni dello stato clinico imposte dagli esiti cronici di
una patologia. Nei più giova-
Un percorso integrato di interventi
scelti a seconda dei bisogni del paziente
ni il recupero funzionale raggiunto al termine di un percorso riabilitativo può non
essere sufficiente per far riprendere al cittadino una vita
autonoma o lavorativa. Pertanto il processo riabilitativo
necessita di una forte integrazione tra attività di riabilitazione sanitaria (focalizzate sulla diagnosi e cura del
soggetto con menomazione
per minimizzare la sua disabilità o prevenire complicanze secondarie e terziarie) e
attività di riabilitazione sociale (finalizzate a garantire
al soggetto disabile la piena
partecipazione alla vita sociale con la minor restrizione
possibile delle sue scelte operative) (3).
Questo concetto ispira l’organizzazione della rete dei servizi riabilitativi intesa come
modello integrato e continuativo sanitario, sociosanitario e socio-assistenziale in
grado di accogliere e accompagnare la persona e la famiglia lungo tutto l’itinerario
terapeutico. In tale ambito il
Progetto riabilitativo individuale (PRI) definito dal team
multiprofessionale ha un ruolo fondamentale definendo la
prognosi, il programma di interventi, nonché la conclusione della presa in cura sanitaria in relazione agli esiti
raggiunti. Tiene conto delle
aspettative del paziente e
della famiglia con cui è condiviso. La cornice concettuale
di riferimento del PRI è l’International Classification of
Function.
La rete dei sevizi di riabilitazione
Il percorso di riabilitazione
può iniziare con un evento
clinico acuto gestito in prima istanza dall’ospedale e
continuare fino al raggiungimento degli obiettivi del PRI
attraverso molteplici livelli
di intervento che agiscono in
modo integrato. Meno frequentemente il processo disabilitante inizia in modo
lento e progressivo e gestito,
almeno inizialmente, a livello territoriale.
In entrambi i casi l’accesso
appropriato ai differenti nodi
della rete dipende dalla gravità della disabilità, instabilità clinica, bisogno assistenziale ed è modulata dalla disponibilità di supporto familiare e sociale.
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La gestione della continuità
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I nodi della rete per le attività sanitarie di riabilitazione
(2) sono nei:
– Presidi ospedalieri:
• in ambito dei reparti
per acuti;
• in ambito di reparti con
posti letto di riabilitazione intensiva (codice 56);
• in ambito di strutture
di 3° livello riabilitativo
con posti letto di riabilitazione intensiva per
gravi cerebrolesioni (codice 75);
• in ambito dell’Unità spinale (codice 28);
• in ambito di reparti di
lungodegenza (codice
60);
– Presidi territoriali:
• in strutture di degenza
continuativa o diurna a
carattere intensivo ed
estensivo;
• in centri ambulatoriali;
• al domicilio dell’assistito;
• in strutture socio-assistenziali a carattere residenziale continuativo o
diurno: RSA, RSD, centri
diurni, ecc.
L’articolazione della rete riabilitativa risponde alla esigenza di dare risposte a problemi di differente gravità e a
scenari clinici che si modificano in tempi spesso protratti. L’intervento riabilitativo
può essere suddiviso in varie
fasi (4):
– fase della prevenzione del
danno e conseguenti menomazioni secondarie nelle patologie ad alto rischio
di sviluppo di disabilità;
– fase della riabilitazione intensiva;
– fase di completamento del
processo di recupero e del
progetto di riabilitazione;
– fase di mantenimento e/o
di prevenzione del degrado
del recupero motorio e
funzionale acquisito.
La fase della prevenzione del
danno è caratterizzata da interventi svolti all’interno dei
reparti per acuti (rianimazione, medicina, chirurgia) per
problemi clinici in cui è necessario inserire l’intervento
riabilitativo all’interno del
protocollo terapeutico. L’intervento è integrato con l’assistenza infermieristica e mira a prevenire lo sviluppo di
lesioni secondarie che possono coinvolgere apparato cardiovascolare, respiratorio,
musco-scheletrico, digerente,
urinario, il sistema nervoso e
la cute. Le menomazioni secondarie se si sviluppano
possono ritardare o impedire
il recupero.
La fase della riabilitazione intensiva si colloca nella fase
post-acuta della malattia
quando l’intervento riabilitativo può meglio intervenire
nel recupero della funzione
contenendo e minimizzando
la gravità della menomazione
e quindi la disabilità. Le attività sanitarie di riabilitazione
si collocano concettualmente
nell’ambito più generale delle
cure intermedie(5), range di
servizi finalizzati a facilitare
la transizione da ospedale a
domicilio, dalla dipendenza
medica alla indipendenza
funzionale. Quando la disabilità è importante, se coesiste
instabilità clinica con necessità di tutela medica 24 ore,
può essere necessario il ricovero presso presidi ospedalieri di riabilitazione altrimenti
è appropriato il ricovero in
strutture territoriali di degenza continuativa. Se le
re territoriali di una degenza
continuativa o diurna a carattere intensivo o estensivo.
Ciononostante i servizi di riabilitazione sono riusciti ad
aumentare progressivamente
la copertura dei bisogni agendo in più direzioni. Sono stati
definiti con l’ospedale per
acuti di percorsi diagnosticoterapeutici (ictus, fratture femore). Sono stati definiti i
criteri di accesso per i servizi
di riabilitazione territoriale
dando particolare priorità ai
cittadini dimessi da ospedale.
Lo sviluppo dell’Ospedale di
continuità di Castelfiorentino
ha permesso di dare risposte
rapide ed efficaci ai cittadini
che necessitano di lungodegenza o stabilizzazione clinica. Dal 2004 è presente un
modulo per “disabilità di natura prevalentemente motoria” (DGR 402/2004 e LR
41/2005) della RSA Le Vele di
Fucecchio per cittadini con
disabilità ortopedica o con
necessità di riabilitazione
protratta. Svolge attività di
riabilitazione intensiva ed
estensiva per soggetti con
grave disabilità e fragilità sociale che richiedono bassa tutela medica ed infermieristica. Infine, sono stati sviluppati percorsi finalizzati al
mantenimento della funzione
dopo il completamento del
percorso riabilitativo (progetto AFA e CLEAR).
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condizioni funzionali del paziente lo permettono ed il
supporto familiare è adeguato questa fase può essere
svolta all’interno di strutture
di degenza diurna o ambulatoriale.
La fase di completamento del
processo di recupero è attuata tipicamente in strutture
territoriali ambulatoriali. Si
tratta di interventi a bassa
intensità e solitamente prolungati nel tempo che accompagnano il cittadino al reinserimento all’interno del proprio ambiente di vita.
La fase di mantenimento
comprende attività sanitarie
integrate con interventi di
riabilitazione sociale. Comprende anche interventi non
sanitari finalizzati al mantenimento del recupero motorio
e funzionale acquisito con la
riabilitazione attraverso programmi di attività fisica
adattata (AFA).
I servizi riabilitativi della
AUSL11
Ci sono profonde differenze
tra le AUSL della Toscana in
termini di disponibilità e tipologia dei servizi di riabilitazione. Da situazioni di eccesso di offerta si passa a situazioni con offerta carente.
Pertanto la rete dei servizi
riabilitativi della AUSL11 va
vista come integrata all’interno dell’offerta complessiva di
Area vasta e regionale più in
generale. In particolare le
funzioni relative alle situazioni a maggiore complessità
(riabilitazione ospedaliera
per gravi cerebrolesioni,
Unità spinale, cardiologica e
respiratoria) sono svolte da
strutture extra AUSL11. Non
sono presenti inoltre struttu-
Il progetto AFA
Per Attività fisica adattata
(AFA) si intendono programmi di esercizio non sanitari,
svolti in gruppo, appositamente disegnati per cittadini
con malattie croniche finalizzati alla modificazione dello
stile di vita per la prevenzione
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terziaria della disabilità. È
stato dimostrato che in molte
malattie croniche il processo
disabilitante è aggravato dall’effetto additivo della sedentarietà. È infatti provato che
la sedentarietà è causa di
nuove menomazioni, limitazioni funzionali e ulteriore
disabilità.
L’evidenza pubblicata nella
letteratura internazionale ha
ispirato gli ultimi Piani sanitari nazionali e regionali che
hanno posto l’obiettivo prioritario di promuovere comportamenti e stili di vita per
la salute in quanto numerose
condizioni di morbosità, disabilità e mortalità prematura possono essere prevenute
attraverso l’adozione di modelli comportamentali e stili
di vita positivi, socialmente
condivisi. In questo ambito è
stato identificato l’aumento
della attività fisica come
obiettivo specifico in particolare nella popolazione anziana.
La Regione Toscana ha promosso dal 2005 (DGR 595/
2005) percorsi AFA sperimentali per le sindromi algiche da
ipomobilità, prevenzione delle fratture da fragilità ossea
ed osteoporosi e per le sindromi croniche stabilizzate
negli esiti con limitazione
della capacità motoria. Al
termine della fase sperimentale durata 2 anni, costatata
l’efficacia e sicurezza dei programmi(6-10), sono state date alle AUSL toscane più chiare indicazioni per la sua implementazione sul territorio
(DGR 459/2009).
Differenti programmi di AFA,
specifici per differenti condizioni croniche, sono svolti in
palestre non sanitarie o in
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spazi adatti presenti sul territorio. Non essendo compresi nei livelli essenziali di assistenza assicurati dal Servizio sanitario, il cittadino
contribuisce ai costi del programma di prevenzione per
la propria salute con una
quota modesta. I programmi
AFA hanno avuto un rapido
sviluppo in tutte le AUSL
della Toscana utilizzando sinergie con le professioni ed
associazioni vocate alla promozione della salute ed alla
attività sportiva.
Nella AUSL11 di Empoli il
programma AFA ha avuto inizio nel dicembre 2003. Sono
attualmente attivi 193 per
mal di schiena cronico, 52
corsi in piscina per gravi alterazioni degli arti inferiori, e
35 per soggetti per cittadini
con alta disabilità. Annualmente i partecipanti regolari
sono oltre 6000.
Il progetto CLEAR
Il progetto CLEAR (Clinical
Leading Environment for the
Assessment and Validation of
Rehabilitation Protocols in
Homecare), finanziato dall’Unione europea, prevede la
realizzazione di un servizio di
teleriabilitazione in quattro
stati membri (Italia, Spagna,
Polonia, Olanda) per diversi
tipi di affezioni (neurologiche, cognitive, ortopediche e
polmonari). L’obiettivo di
CLEAR è fornire criteri e linee
guida per la teleriabilitazione
sperimentando modelli clinici
di intervento estendibili su
scala europea.
Lo studio toscano, condotto
da AUSL11, è focalizzato sulla sperimentazione del servizio su soggetti con menomazioni motorie dell’arto supe-
riore per esiti di ictus per
contrastare gli effetti deleteri
del “non uso” nella fase cronica della malattia.
Esso prevede l’integrazione
dei seguenti aspetti:
1. La valutazione e la definizione di un programma
personalizzato di riabilitazione e l’addestramento
del paziente in ambiente
sanitario.
2. La pratica a domicilio con
programmi di esercizio terapeutico ed ausili forniti
dalla AUSL11 nella cosiddetta “valigia riabilitativa”.
Essa contiene oggetti di
differente forma e dimensione da manipolare (puzzle, percorsi stampati da seguire con penne con differenti caratteristiche, ecc.)
di basso costo e facilmente
reperibili. Gli esercizi terapeutici previsti dal protocollo riabilitativo hanno
differente complessità per
coprire un’ampia gamma di
necessità per pazienti con
differente gravità e tipo
delle menomazioni dell’arto superiore.
3. Un momento di riabilitazione intermedio in ambienti non sanitari (chiosco riabilitativo) dove continuare il programma con
la supervisione di un fisioterapista tramite la piattaforma Habilis.
La piattaforma Habilis è costituita dalle unità “dottore”
e “paziente”, installate rispettivamente presso l’ospedale e presso i chioschi. Tramite l’unità “dottore” i terapisti preparano dei tutorial
(librerie video) che mostrano
la corretta esecuzione degli
esercizi riabilitativi. Questi
vengono inviati ai pazienti
che, connettendosi alle unità
installate presso i chioschi,
visionano i tutorial, eseguono e registrano gli esercizi in
file video. I video degli esercizi svolti dal paziente sono
inviati al terapista che valuta
i progressi e, se necessario,
aggiorna il programma di
esercizio. Data l’estensione
del territorio della AUSL11,
le unità “dottore” e “paziente” sono state istallate presso l’ospedale di Castelfiorentino per servire l’EmpoleseValdelsa e presso l’ospedale
di San Miniato per il Valdarno Inferiore.
Durante il progetto sono stati
installati 8 chioschi riabilitativi in ambienti facilmente
accessibili e ben distribuiti
sul territorio della AUSL11.
Sono equipaggiati con almeno due piattaforme “paziente”, con il materiale disponibile nelle valige riabilitative e
con altre opportunità di esercizio basate sull’uso di tecnologie di maggior costo.
I pazienti, quando capaci di
eseguire i compiti previsti dal
programma riabilitativo per
domicilio e di utilizzare l’unità “paziente” della piattaforma Habilis, sono dimessi
dal servizio sanitario con la
richiesta di ripetere gli esercizi appresi ogni giorno a casa e due volte la settimana
nel chiosco. Nel chiosco il paziente esegue gli esercizi utilizzando l’unità “paziente”
della piattaforma Habilis.
Tramite il sistema di videoconferenza un fisioterapista
può mettersi in comunicazione con il paziente, per consigli o valutazione. Se il programma di esercizio necessita
di modificazioni il paziente
può essere richiamato per un
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ulteriore ciclo terapeutico
presso il servizio di riabilitazione della AUSL.
Nel primo anno di attività so-
no stati trattati oltre 180 pazienti con paresi dell’arto superiore. I risultati mostrano
che il programma riabilitati-
sta valutando la possibilità di
estendere dal chiosco al domicilio il posizionamento
della piattaforma.
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Bibliografia
(1) Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano (1998), Linee guida del ministro
della sanità per le attività di riabilitazione; www.statoregioni.it.
(2) Consiglio Sanitario Regionale (2010), Percorsi Riabilitativi. Documento regionale di indirizzo.
(3) Conferenza permanente per i rapporti tra Stato e Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano (2011), Piano di indirizzo per la
Riabilitazione; www.statoregioni.it.
(4) Basaglia N. (2000), Trattato di Medicina Riabilitativa, Medicina Fisica e Riabilitazione, Idelson-Gnocchi, Napoli.
(5) Melis R.J., Olde Rikkert M.G., Parker S.G., van Eijken M.I. (2004).
What is intermediate care?, Bmj, 329, pp. 360-1.
(6) Stuart M., Benvenuti F., Macko R. et al. (2009), Community-based
adaptive physical activity program for chronic stroke: feasibility, safety, and efficacy of the Empoli model, Neurorehabil Neural Repair, 23,
pp. 726-34.
vo è efficace nel migliorare
l’uso funzionale dell’arto superiore paretico e ben accettato dai partecipanti (11). Si
(7) Stuart M., Chard S., Benvenuti F., Steinwachs S. (2009), Community
exercise: a vital component to healthy aging, Healthc Pap, 10, pp. 23-8.
(8) Macko R.F., Benvenuti F., Stanhope et al. (2009), Adaptive physical activity improves mobility function and quality of life in chronic hemiparesis, J Rehabil Res Dev, 45, pp. 323-8.
(9) Hicks G.E., Benvenuti F., Fiaschi V. et al. (2011), Adaptive physical
activity program for back pain in older adults: factors associated with
improvement and adherence, Clin J Pain, in stampa.
(10) Sofi F., Molino Lova R., Nucida V. et al. (2011), Adaptive physical
activity and back pain: a non-randomised community-based intervention trial, Eur J Phys Rehabil Med, in stampa.
(11) Benvenuti F., Taviani A., Nesi B. et al. (2010), Extending Upper
Limb Rehabilitation for Stroke Survivors by the Habilis Platform, in P.
Cunningham, M. Cunningham (eds.), eChallenges e-2010 Conference
Proceedings, IIMC International Information Management Corporation, London 2010.
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Luigi Cataliotti
Rocco Domenico Mediati
Dipartimento Attività integrate
di oncologia - AOU Careggi
Firenze
[email protected]
G
arantire un’assistenza
continuativa alle persone colpite da una malattia oncologica, vuol dire
offrire un approccio globale
caratterizzato da continuità
ed omogeneità assistenziale
in tutte le fasi della malattia.
Lo scopo di questo modello
organizzativo è un’assistenza
centrata sui bisogni e sull’autonomia della persona che,
oltre a garantire l’efficienza
nell’erogazione di singole
prestazioni, possa offrire percorsi assistenziali integrati
tra i diversi professionisti e
tra le diverse componenti
della società.
Il percorso terapeutico (Fig.
1) al giorno d’oggi può essere
molto lungo e articolato, gestito da diversi specialisti, è
ancora generalmente caratterizzato da diverse discontinuità e disomogeneità nella
gestione delle diverse fasi
della malattia.
La presa in carico globale del
malato fin dall’inizio del percorso prevede un approccio
multidisciplinare e multidimensionale, caratterizzato da
un miglior trattamento antitumorale e da un precoce riconoscimento di eventuali altri bisogni (fisici, funzionali,
psicologici, spirituali, sociali
e riabilitativi) del malato.
Questo modello assistenziale
ha come ulteriore obiettivo il
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La continuità della cura
nel paziente oncologico
miglioramento dell’umanizzazione delle cure realizzato
anche attraverso una collaborazione profonda tra operatori di diverse discipline e con
la partecipazione, nelle scelte
terapeutiche, del malato e dei
familiari.
Gli obiettivi e gli strumenti
operativi per la realizzazione
della “continuità della cura
nel paziente oncologico“ si
trovano nel Piano oncologico
nazionale 2010/2012 nel
quale si “cerca di affrontare
tutti i problemi connessi all’oncologia, dalla prevenzione
alla cure palliative, dando
ampio risvolto sia alla prevenzione (universale,secondaria e terziaria) che alla
continuità di cura in fase diagnostica e terapeutica così
come all’assistenza domiciliare e alle cure palliative”.
Nel Piano oncologico si identifica un percorso del malato
oncologico nel SSN nel quale
sono messe in evidenza le figure del medico di medicina
generale e del pediatra di libera scelta cui viene attribuito un ruolo chiave in tutte
le fasi della malattia tumorale. Costoro devono essere
protagonisti nella realizzazione delle azioni programmatiche tra le quali viene
data importanza “all’implementazione dell’assistenza
domiciliare integrata con la
Gli interventi terapeutici e assistenziali
da attivare nel percorso dall’ospedale al territorio
partecipazione del MMG nella gestione delle patologie
che non richiedano l’impegno dello specialista e alla
partecipazione del MMG alla
elaborazione di percorsi diagnostico terapeutici”.
Il percorso si articola nell’assistenza ambulatoriale e nell’ospedale. In queste strutture, tra le altre cose, viene
realizzato un piano “di cura
personalizzato e si contribuisce anche ad erogare cure domiciliari integrate di terzo livello (ospedalizzazione domiciliare), per pazienti anche
terminali”.
L’importanza della continuità assistenziale sul territorio
“L’approccio integrato vede
come obiettivo la cura del malato e non solo del tumore, oltre a garantire il miglior trattamento antitumorale (attraverso ambulatori multidisciplinari per i vari tipi di tumori
e linee guida condivise), permette un inserimento precoce
delle cure palliative e la riabilitazione per la prevenzione
ed il controllo dei sintomi legati alla malattia e/o alle terapie (dolore, supporto nutrizionale, supporto psicologico,
Fig. 1. Il percorso terapeutico dei pazienti oncologici.
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spirituale, sociale, ecc.).
L’organizzazione dell’attività
di oncologia deve prevedere,
pertanto, momenti strutturati di condivisione e di confronto che sono indispensabili per realizzare un progetto
assistenziale condiviso: i Dipartimenti oncologici potrebbero essere attivati, a tal fine, in ciascuna azienda ospedaliera.
Sarebbe altresì opportuno individuare e, laddove già presenti, valorizzare le risorse
del territorio, più facilmente
e rapidamente raggiungibili
(es. centri di ascolto telefonici e sportelli oncologici) destinate a:
– informare sull’organizzazione e l’accesso ai servizi;
– accogliere il bisogno
espresso dall’utente ed attivare professionisti ed
operatori preposti alla problematica rilevata;
– consentire il monitoraggio
delle criticità riscontrate
dagli utenti e dagli operatori, al fine di attivare processi di miglioramento dei
servizi.
In questo modo si può assicurare alla persona malata e alla
sua famiglia una migliore qualità di vita durante tutte le fasi delle cure e dell’assistenza,
valorizzando gli interventi domiciliari e territoriali alla pari
di quelli ospedalieri.
Il mantenimento della migliore qualità di vita possibile
costituisce infatti una priorità sia medica sia sociale”.
Le cure palliative
Nella legge 38/2010 le cure
palliative vengono definite
come “l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici
e assistenziali, rivolti sia alla
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persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla
cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base,
caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde
più a trattamenti specifici”.
Lo scopo delle cure palliative
è il mantenimento di una buona qualità di vita del malato
oncologico il più a lungo possibile, offrendo la possibilità
di mantenere i contatti con il
proprio mondo relazionale e il
proprio contesto sociale.
Per attuare un sistema efficiente e in grado di rispondere ai bisogni del malato e della famiglia, le cure palliative
devono far parte del bagaglio
culturale di tutti i medici che
prendono in cura il malato
oncologico, è necessaria una
formazione specifica sull’argomento diretta sia ai medici
di medicina generale che a
tutti gli specialisti che curano i malati oncologici.
“La rete di assistenza ai pazienti in fase terminale deve
essere costituita da un insieme funzionale ed integrato di
servizi distrettuali ed ospedalieri, sanitari e sociali, che
si articolano in linee organizzative distinte ma anche concorrenti e specifiche strutture dedicate”.
L’Hospice opera nel rispetto di
principi di unitarietà e continuità con l’assistenza domiciliare e costituisce un’alternativa alla casa quando questa
non è, temporaneamente o
definitivamente, idonea ad
accogliere la persona malata.
I soggetti coinvolti nella
funzionalità del sistema sono: le aziende sanitarie e
ospedaliere, la cooperazione
sociale, le associazioni di vo-
tazione sociale, in considerazione del numero crescente di
malati lungo sopravviventi
(nel 2008 in Italia 1.800.000
le persone che hanno avuto
nel passato un cancro) e della
cronicizzazione della malattia. Il processo riabilitativo
deve riguardare, come indicato nelle linee guida del 7
maggio 1998, oltre che aspetti strettamente clinici, anche
aspetti psicologici e sociali
per cui è necessario distinguere tra interventi riabilitativi prevalentemente di tipo
sanitario ed interventi riabilitativi prevalentemente di tipo sociale, facenti capo a specifiche reti integrate di servizi e di presidi riabilitativi, a
loro volta necessariamente
interconnesse”.
lontariato e gli enti locali;
questi configurano un sistema nel quale la persona malata e la sua famiglia possono
essere guidati e coadiuvati
nel percorso assistenziale.
La riabilitazione
La sopravvivenza a cinque
anni dalla diagnosi di una
malattia tumorale è del
45,7% negli uomini e del
57,5% nelle donne. I dati italiani mostrano un aumento
della sopravvivenza al cancro
a cinque anni di circa il 15%
rispetto al 1985, mentre a
dieci anni il miglioramento è
di circa il 6%.
Dalla letteratura internazionale si rileva, che un gran numero di lungo sopravviventi
presentano dolore e neuropatie indotti dal cancro o dalle
sue terapie. A volte queste
condizioni scompaiono con il
tempo, ma i danni irreversibili di nervi e di tessuti possono causare dolore e sofferenza persistenti, nella maggior
parte dei casi alle sequele fisiche, fanno seguito alterazioni psico-cognitive e sociali
che determinano un grave
peggioramento della qualità
della vita.
“La riabilitazione, intesa come ripristino di tutte le funzioni che il tumore e le terapie possono aver alterato,
non solo da un punto di vista
fisico, ha come obiettivo la
qualità della vita del malato
guarito o non guarito di cancro, al fine di riprendere il
più possibile le condizioni di
vita normali, limitando il deficit fisico, cognitivo e psicologico e potenziandone le capacità funzionali residue. La
riabilitazione in oncologia assume una importante conno-
Il modello simultaneous care (presa in carico del malato oncologico) (Fig. 2)
Il modello delle simultaneous
care è quello oggi più accreditato per garantire il migliore
risultato terapeutico sia in
termini di aspettativa di vita,
che di qualità della vita.
In ambito oncologico il passaggio dalle cure attive alle
cure palliative costituisce un
momento di forte criticità,
sia per l’unità paziente-famiglia sia per gli operatori sanitari. Infatti in tale passaggio
emergono bisogni che spesso
trovano risposta in èquipe diverse con la conseguenza di
aumentare il senso di abbandono da parte del malato.
L’Organizzazione mondiale
della sanità, scrive: “L’approccio delle cure palliative è
applicabile in una fase precoce della malattia, in connessione con altre terapie intese
a prolungare la vita come la
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Fig. 2. Modello simultaneous care Piano oncologico nazionale 2010-2012.
chemioterapia e la radioterapia, includendo anche quelle
indagini volte a meglio comprendere e ad evitare complicazioni cliniche”.
In uno studio pubblicato nel
2010 sul New England Journal
of Medicine si dimostra come
un modello definito early palliative care applicato a pazienti affetti da carcinoma
polmonare porta ad un significativo miglioramento della
qualità della vita e dell’umore, una riduzione dell’aggressività delle cure nella fase
terminale con un allungamento della durata della vita.
Dal momento che i malati di
tumore costituiscono oltre il
90% dei malati che usufruiscono oggi delle cure palliative, e per evitare l’abbandono al momento della sospensione delle terapie antitumorali, è necessaria una integrazione tra i percorsi di cura
oncologici ospedalieri e i servizi ospedalieri e/o territoriali di cure palliative (UO
cure palliative-Hospice-assistenza domiciliare). È necessario garantire livelli essenziali di assistenza uniformi
su tutto il territorio nazionale nel quadro del programma
di sviluppo nazionale delle
cure palliative.
La rete oncologica
Lo strumento individuato per
realizzare quanto descritto
fin’ora è la rete oncologica,
all’interno della quale si realizza il coordinamento di tutte le azioni che intervengono
nella diagnosi, cura e assistenza al malato oncologico,
sia in ospedale che nel territorio, mirando al raggiungimento di livelli standardizzati di qualità, corretta allocazione di risorse e per consentire equità nell’accesso alle
cure a tutti i cittadini.
“Il collegamento in rete realizza il sistema tramite il quale il malato di cancro può ricevere le cure più appropriate
organizzate a livello multidisciplinare. La rete è organizzata sulla base delle esigenze
delle singole Regioni, in Dipartimenti oncologici, organizzati territorialmente, in
base a bacini di utenza mediamente di 500 mila - 1 milione
di abitanti. Scopo generale del
dipartimento è quello di prendere in carico e indirizzare il
paziente oncologico, individuando il percorso di cura.
La struttura di accesso al Dipartimento oncologico è preferibilmente collocata nel
territorio ma è costituita da
tutte le strutture (presidi
ospedalieri, aziende ospedaliere, aziende universitarie,
IRCCS, assistenza domiciliare, Hospice) dell’area geografica di pertinenza coinvolte
nel processo di cura, assistenza e riabilitazione, nonché dai servizi di prevenzione primaria e secondaria e
con il collegamento con i medici di medicina generale. Il
Dipartimento oncologico è
dunque una struttura funzionale interaziendale e
transmurale che integra tutte le attività ospedaliere e
territoriali che assistono il
paziente oncologico, individua e garantisce l’implementazione dei percorsi diagnostico-terapeutici per ogni paziente in accordo con le linee
guida regionali.
La Rete oncologica regionale
già attivata in Toscana (Istituto toscano tumori), Piemonte (Rete oncologica Piemonte e Valle d’Aosta) e Lombardia (Rete oncologica Lombarda) e in corso di attuazione in altre Regioni italiane, è
a tutt’oggi il modello organizzativo ritenuto più efficace ed efficiente. Attraverso la
Rete regionale è possibile
coordinare non solo il percorso strettamente oncologico,
ma anche il coordinamento
con i servizi territoriali deputati alle cure palliative e i
percorsi riabilitativi”.
L’esperienza toscana
In Toscana già nel Piano sanitario regionale 1999-2001 veniva evidenziata la “necessità di migliorare la qualità
della vita del malato terminale, attraverso la terapia del
dolore, ma anche con le cure
palliative e l’accompagnamento del morente”.
Nel 2000 è stata promulgata
una legge regionale (996 26/9/2000) nella quale si
stabilivano linee guida assistenziali e indirizzi organizzativi per lo sviluppo della
rete di cure palliative.
Venivano date le indicazioni
specifiche delle cure palliative:
“L’ambito di applicazione
delle cure palliative riguarda
di norma il controllo del dolore e degli altri sintomi nella fase terminale di patologie evolutive e irreversibili,
definibile secondo i seguenti
criteri:
– criterio terapeutico: assenza, esaurimento, non opportunità di trattamenti
curativi specifici;
– criterio sintomatico: presenza di sintomi invalidanti che condizionano la
riduzione di performance
al di sotto del 50% della
scala di Karnofsky;
– criterio evolutivo temporale: da determinarsi in fase di valutazione specifica
del quadro evolutivo temporale della malattia”.
– Si definivano i criteri generali per l’organizzazione
di una rete di assistenza ai
pazienti terminali (rete integrata di servizi distrettuali e ospedalieri).
– Si specificavano i diversi
livelli assistenziali che devono essere garantiti (residenziali, day-hospital, ambulatoriale e domiciliare)
privilegiando, quando possibile, l’assistenza domiciliare integrata.
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– Si sottolineava il ruolo
fondamentale attribuito
alle organizzazioni di volontariato.
– Si descrivevano gli elementi costitutivi delle
Unità di cure palliative
(UCP), specificandone la
composizione, i compiti e
l’assetto organizzativo.
– Si definivano i Centri residenziali di cure palliative
(Hospice).
Già da molti anni i medici e gli
infermieri del Servizio di cure
palliative dell’Azienda sanita-
ria di Firenze sono presenti
nei day hospital oncologici per
attuare il concetto delle simulatneous care, questa presenza
è stata ora formalizzata grazie
alla collaborazione con la Fondazione italiana di leniterapia
che con il Progetto “Oltre il
ponte” garantisce la presenza
regolare di un medico palliativista presso le sedi di oncologia medica con gli obiettivi di
implementare la continuità
del servizio sia in termini di
continuità di cura che continuità operativa tra i due
i loro familiari possono rivolgersi ad operatori specializzati per avere non solo informazioni sul percorso assistenziale, ma anche sostegno
per le difficoltà psicologiche
che possono incontrare nella
malattia.
La realtà clinica dell’oncologia ci impone di continuare a
lavorare per omogeneizzare e
migliorare la qualità dell’assistenza su tutto il territorio
nazionale in tutte le fasi della vita delle persone ammalate di tumore.
162
Riferimenti bibliografici e normativi
Early palliative care for patients with metastatic non-small-cell lung
cancer, N Engl J Med, Aug 2010, 19, 363 (8), pp. 733-42.
Legge 38/2010 G.U. n. 65 19 marzo 2010.
DGR 996 Regione Toscana 26 settembre 2000.
team, di ridurre la sensazione
di abbandono nel paziente e
nei familiari durante e dopo il
passaggio da Oncologia medica e Unità di cure palliative e
di migliorare la tollerabilità
delle cure attive.
Gli Hospice sono distribuiti in
tutto il territorio regionale
anche se ancora i modelli organizzativi di integrazione
con il territorio e l’ospedale
non sono omogenei.
L’Istituto toscano tumori ha
realizzato un call center oncologico al quale i pazienti e
Piano oncologico nazionale - http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/piano_oncologico_2010_2012/sintesi.pdf.
Progetto Oltre il ponte - www.leniterapia.it.
Linee-guida del Ministro della sanità per le attività di riabilitazione,
GU n. 124, Serie generale del 30 maggio 1998.
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N. 186 - 2011
Rocco Domenico Mediati
SOD Cure palliative e terapia
del dolore - Dipartimento
di Oncologia - AOU Careggi,
Firenze
[email protected]
D
a alcuni anni la sofferenza dei malati di tumore e la terapia del dolore sono diventate argomenti
sempre più presenti sui mezzi
di comunicazione di massa e
nei consessi scientifici, grande
attenzione viene posta anche
nei confronti del dolore cronico di malati affetti da malattie degenerative (artrosi,
ecc.). Questa maggiore attenzione della popolazione, ha
messo i medici e la classe dirigente del paese di fronte ad
un problema fino a poco tempo fa trascurato: la sofferenza
delle persone ammalate ed in
particolare la sofferenza determinata dal dolore. La società sta facendo molti passi
avanti, la richiesta di una
buona qualità della vita e del
mantenimento delle capacità
funzionali più a lungo possibile si sono fatte sempre più
pressanti. Il problema è stato
affrontato con una legge dalla
classe politica mentre, paradossalmente, l’unica categoria
che dà l’impressione di essere
ancora restia ad affrontare
adeguatamente il problema è
quella dei medici.
La dimensione del problema
I dati epidemiologici evidenziano un’incidenza del dolore
cronico nella popolazione
mondiale tale da farne un
problema sociale.
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La gestione della continuità
Territorio 163
La gestione
del dolore cronico
In Europa il dolore rappresenta uno dei principali problemi
sanitari in quanto interessa
tutte le età, incide sulla qualità della vita delle persone e,
in particolare nella forma
cronica, si stima che abbia
un’incidenza nella popolazione di circa il 25-30%, con relativi costi sociali in disabilità e perdita di produttività
con relativi costi stimati negli Stati Uniti intorno ai 100
miliardi di dollari l’anno.
Il dolore è tra tutti i sintomi
quello che più mina l’integrità fisica e psichica del paziente e maggiormente angoscia e preoccupa i familiari,
con un notevole impatto sulla qualità della vita.
Uno studio italiano, condotto
su un’ampia popolazione di
soggetti anziani assistiti a
domicilio in più di 25 ASL distribuite su tutto il territorio
nazionale, dimostra come anche nel nostro paese il problema del dolore sia molto
diffuso. Infatti, più del 40%
degli ultra sessantacinquenni
valutati ha lamentato un dolore che interferisce con le
comuni attività quotidiane.
Di queste persone soltanto il
27% riceveva analgesici: gli
analgesici non oppioidi erano
utilizzati nel 25% dei casi, gli
oppioidi deboli e gli oppioidi
forti erano somministrati rispettivamente solo nel 6% e
Quando il MMG deve indirizzare il paziente
al centro di terapia del dolore?
3% dei pazienti sintomatici. È
da segnalare l’alta percentuale di pazienti che non riceveva alcun trattamento.
Inoltre, un dato che emerge
dallo studio è lo scarso utilizzo di farmaci analgesici nei
soggetti con deterioramento
cognitivo che riferiscono dolore. In particolare, si può osservare come il deficit cognitivo sia un fattore che interferisce negativamente con il
trattamento antidolorifico.
Non bisogna dimenticare che
il dolore è una delle principali
cause per le quali i malati attuano l’automedicazione e si
rivolgono a metodiche alternative non sempre validate
scientificamente e talvolta
inefficaci se non pericolose.
Aspetti normativi
La legge 38 del marzo 2010
sancisce “il diritto del cittadino ad accedere alle cure
palliative e alla terapia del
dolore … al fine di assicurare
il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona
umana, il bisogno di salute,
l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e
la loro appropriatezza riguardo le specifiche esigenze…”,
definisce la terapia del dolore
come “l’insieme di interventi
diagnostici e terapeutici volti
a individuare e applicare alle
forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche,
strumentali, psicologiche e
riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di
elaborare idonei percorsi diagnostico-terapeutici per la
soppressione e il controllo del
dolore”.
La legge stabilisce i mezzi atti
a garantire i seguenti diritti:
– Campagne d’informazione.
– Obbligo di riportare la rilevazione del dolore all’interno della cartella clinica.
– Semplificazione delle procedure di accesso ai medicinali impiegati nella terapia del dolore.
– Formazione e aggiornamento del personale medico e sanitario in materia di
cure palliative e terapia
del dolore.
Nell’ottica di omogeneizzare
sul territorio l’accesso alla terapia del dolore:
– Stabilisce l’istituzione di
reti nazionali per le cure
palliative e la terapia del
dolore.
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Territorio
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– Istituisce l’obbligo del monitoraggio ministeriale per
le cure palliative e la terapia del dolore.
– Rilancia il progetto “Ospedale senza dolore” trasformandolo in “Ospedale e
territorio senza dolore”.
“Il passaggio al nuovo progetto ‘Ospedale - territorio
senza dolore’, cosi come indicato nell’art. 6 e nell’art. 8,
oltre a rafforzare l’attività dei
‘Comitati ospedale senza dolore’ favorisce l’integrazione
ospedale-territorio, demandando alla struttura ospedaliera la gestione dei casi complessi e coinvolgendo nel processo assistenziale la figura
del medico di medicina generale (MMG), introduce il concetto di rete assistenziale anche nel campo della lotta al
dolore”.
Il modello organizzativo
La suddetta legge prevede, tra
le altre iniziative, “la realizzazione di una rete nazionale
per le cure palliative e di una
rete nazionale per la terapia
del dolore, volte a garantire la
continuità assistenziale del
malato dalla struttura ospedaliera al suo domicilio e costituita dall’insieme delle
strutture sanitarie, ospedaliere, territoriali e assistenziali,
delle figure professionali e
degli interventi diagnostici e
terapeutici disponibili nelle
Regioni e nelle Province autonome, dedicati all’erogazione
delle cure palliative e al controllo del dolore in tutte le fasi della malattia”.
È previsto lo sviluppo di un
modello assistenziale uniforme, che abbia come riferimento normativo quanto è
esplicitato dall’intesa sotto-
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La gestione della continuità
N. 186 - 2011
scritta in sede di Conferenza
Stato-Regioni come indicato
dall’art. 5, comma 3 in termini di requisiti minimi e di criteri di accreditamento, gestiti con appositi provvedimenti
regionali e aziendali da una
struttura specificamente dedicata al coordinamento della
rete.
Lo scopo è definire una nuova
modalità assistenziale, volta
alla presa in carico globale
del paziente affetto da dolore
cronico; il mezzo individuato
è, quindi, la costituzione di
una rete, di cui il medico di
medicina generale è parte integrante, all’interno della
quale venga gestita la presa
in carico della persona con
dolore, qualunque ne sia l’eziologia, con un approccio
diagnostico-terapeutico appropriato, basato sulle evidenze scientifiche e nel rispetto dell’equità di accesso.
Il 16 dicembre 2010 sono state emanate dalla Conferenza
Stato-Regioni le linee guida
che identificano le caratteristiche del modello organizzativo della rete integrata nel
territorio. Il livello assistenziale è scomposto in tre nodi
complementari: i centri di terapia del dolore (hub) nei
quali è presente un’èquipe
multidisciplinare che fa capo
a un direttore specialista del
settore, gli ambulatori di terapia antalgica (spoke) presenti in tutti i presidi ospedalieri con almeno un medico
dedicato a tempo pieno e i
presidi ambulatoriali territoriali con competenze di terapia antalgica (gestiti da un
team di medici di medicina
generale).
Questo modello è stato sperimentato dal 2009, grazie ad
Affinché il modello possa diventare realtà, è necessario
agire sul piano della formazione e dell’integrazione culturale dei professionisti della
rete di terapia del dolore, si
impone la necessità di fornire
un’adeguata informazione alla cittadinanza sul percorso
assistenziale, di sensibilizzare tutti gli operatori sanitari
all’uso dei farmaci oppiacei,
di effettuare una formazione
specifica indirizzata a MMG,
pediatri e altri specialisti sui
temi della terapia del dolore;
questo sarà possibile attraverso opportune campagne di
informazione-formazione circa l’appropriatezza prescrittiva in funzione della patologia
clinica dolorosa.
un progetto ministeriale realizzato in quattro Regioni pilota, Lazio, Emilia Romagna,
Veneto e Sicilia, per lo sviluppo del progetto di reti assistenziali per le cure palliative
e la terapia del dolore.
Alla base del sistema un’équipe
dedicata (MMG) è in grado di
fornire una prima risposta
concreta alle esigenze dei cittadini fungendo da triage per
i centri di terapia del dolore e
per gli ambulatori di terapia
antalgica.
Questo modello organizzativo, che dovrebbe essere progressivamente applicato su
tutto il territorio nazionale,
può essere realizzato solo se
si crea una rete di MMG in
grado di diventare il primo riferimento per i cittadini con
dolore, di garantire una prima risposta ai loro bisogni, di
indirizzarli verso i centri di
riferimento o i centri ambulatoriali in relazione alla complessità del caso. Il sistema
così organizzato, oltre a fornire una risposta assistenziale appropriata nei suoi tre nodi, dovrebbe avere come ricaduta un abbattimento degli
accessi al Pronto soccorso per
patologie dolorose.
In ambito pediatrico, il problema presenta criticità e peculiarità tali da rendere necessari assetti organizzativi
specifici; è prevista la realizzazione di centri di riferimento di terapia del dolore
pediatrici (hub) negli ospedali pediatrici, cui far riferimento in caso di necessità di
competenze specialistiche e
l’acquisizione delle competenze per la gestione di
un’ampia quota di situazioni
dolorose da parte di pediatri
ospedalieri e di famiglia.
La persona ammalata nella
rete di terapia del dolore
Il malato che potrà fare riferimento alla “rete” integrata
è in genere affetto da dolore
cronico, cioè quel dolore che
non rappresenta solo una
estensione temporale del dolore acuto, ma assume caratteristiche qualitative completamente diverse, che necessitano di un approccio mentale, culturale e professionale
mirato alla riduzione della
sofferenza e al miglioramento
della qualità della vita. Ciò si
verifica generalmente quando
la condizione patologica che
provoca il dolore è nota e in
buona parte non aggredibile
o quando il dolore è persistente nel tempo o ancora
quando la causa non è nota.
In questi casi si instaura un
circolo vizioso di depressione,
ansia e altri disturbi emotivi,
e il dolore diviene sindrome
autonoma con pesante impatto sulla vita di relazione e su-
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gli aspetti psicologici e sociali
caratteristici della persona.
“Il trattamento deve essere
tempestivo ed efficace, basato
sulla appropriata conoscenza
tecnico-professionale di quelle che sono le linee guida culturali ed i vincoli normativi e
organizzativi per l’erogazione
di terapia del dolore. Senza
tale conoscenza approfondita,
fatta di nozioni, professionalità ed esperienza, l’approccio
sintomatico e palliativo corre
il rischio di rimanere empirico, inefficiente e, se permeato
dei diffusi pregiudizi sulla terapia con antalgici, perfino
dannoso”.
Per realizzare un sistema efficiente nella gestione del dolore e per migliorare lo stato
attuale d’integrazione professionale è indispensabile consolidare i Centri di terapia del
dolore e le Unità di medicina
generale, e fare in modo che
queste strutture si integrino
adottando alcune regole operative comuni:
– Formazione continua rivolta a tutto il personale sanitario che costituisce la rete.
– Adozione di un protocollo
diagnostico-terapeutico
condiviso.
– Identificazione dei pazienti con dolore cronico da
avviare alla gestione integrata secondo criteri di appropriatezza.
– Coinvolgimento attivo dei
pazienti nel percorso di cura (patient empowerment).
– Attivazione di un sistema
informativo per la valutazione del processo e degli
esiti basato su indicatori
identificati e condivisi dai
professionisti coinvolti.
I pazienti potranno essere gestiti dai MMG, possibilmente
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La gestione della continuità
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associati nelle AFT, dove saranno presenti medici formati
appositamente. Si potrà decidere di curare alcuni pazienti
e/o indirizzarli correttamente all’interno della rete.
Il MMG si potrà appoggiare
alle èquipe specialistiche per
pazienti con dolore acuto o
cronico la cui sindrome dolorosa è caratterizzata dalla
complessità della patologia o
dalla difficoltà di inquadramento del tipo di dolore o
dalla difficoltà nella selezione del trattamento elettivo
con necessità di procedure
specialistiche sia di routine
sia innovative.
Quindi il MMG dopo aver effettuato una diagnostica clinica
e strumentale semplice, un
tempestivo trattamento farmacologico, una eventuale gestione domiciliare di pazienti
affetti da disabilità in collaborazione con l’ADI, deciderà se
avviare il paziente ad un centro specialistico scegliendo tra
hub e spoke in relazione alla
complessità del caso (Fig. 1).
In particolare i casi che con
maggior probabilità avranno
bisogno di una consulenza
specialistica sono quelli
caratterizzati da:
– Dolore cronico senza una
diagnosi di malattia causale.
– Dolore cronico con diagnosi causale ma che non risponde alle terapie più
semplici.
– Dolore cronico con diagnosi di malattia inguaribile.
– Necessità di identificare il
tipo di dolore in atto (nocicettivo, neuropatico periferico o centrale).
– Necessità di un approccio
multispecialistico o multiprofessionale.
– Necessità di una valutazione del profilo psicologico.
– Necessità di attuare tecniche neuromodulative o
neurolesive.
– Necessità di somministrare
farmaci per vie alternative.
– Necessità di monitoraggio
dei processi di cura adottati.
– Necessità di controllo dei
fattori critici.
– Gestione integrata di schemi problematici (elevate
dosi di oppiacei, necessità
di cicliche variazioni di
molecola, sospensione della cura ecc.).
Fig. 1. Modello organizzativo della rete di terapia del dolore.
– Necessità di ricorrere a
strumentazioni specialistiche (indagini neurofisiologiche, radioterapia, ecc.).
È possibile prevedere ricoveri
presso i centri hub per esecuzione di indagini specialistiche allo scopo di identificare
e trattare disfunzioni del sistema sensoriale e nocicettivo mediante:
– Test specialistici invasivi
quali lo studio del sistema
nervoso simpatico o del sistema nocicettivo.
– Indagini laboratoristiche
particolari.
– Terapie adeguate alla complessità del caso.
Il ruolo degli hub nella rete
sarà anche quello di punti di
riferimento per la ricerca clinica e per la formazione del
personale sanitario in collaborazione con le università.
Grazie ad una legge illuminata e innovativa avremo i
mezzi e la possibilità di migliorare l’assistenza di una
grossa fetta dei nostri malati, quelli affetti da dolore.
Questo avrà una notevole ricaduta sulla qualità della vita di molte persone e delle
loro famiglie, incidendo positivamente sui costi sociali di
una malattia molto diffusa e
spesso invalidante.
A questo punto il compito di
noi medici è quello di essere
scientificamente preparati e
ben organizzati per sfruttare
al meglio le potenzialità della
rete di terapia del dolore indirizzando verso scelte terapeutiche scientificamente
corrette molti nostri pazienti
che attualmente vagano tra
diverse figure professionali
nell’infruttuosa ricerca di
una soluzione per il loro stato di sofferenza.
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La gestione della continuità
Riferimenti bibliografici e normativi
Landi F., Onder G., Cesari M. et al. (2001), Pain management in frail,
community-living elderly patients, Archives of Internal Medicine, 161,
pp. 2721-4.
SIAARTI recommendations for chronic noncancer pain (2006), SIAARTI Chronic Non-Cancer Pain, Study Group Minerva Anestesiol., Nov, 72
(11), pp. 859-80. Review.
N. 186 - 2011
Indagine epidemiologica PAIN IN EUROPE - http://www.painineurope.
com
Pubblicazione del Ministero della Salute (2010), Il dolore cronico in
Medicina Generale, Value Relations International.
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1257_allegato.pdf
Legge 38/2010 GU n. 65 19 marzo 2010.
Linee guida per la promozione, lo sviluppo e il ordinamento degli interventi regionali, legge 15 marzo 2010, n. 38 art. 3, Conferenza stato-Regioni Rep. Atti n. 239/csr, 16 dicembre 2010.
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La cardiologia in rete
F. Bandini1, G. Banchi2, I. Berni1, F. Cellerini1, A. Fumarulo1, M. Guarnieri2, P. Petrone1, M. Vannucci3, S. Vignini4,
A. Zuppiroli5
1
SS Cardiologia - Ospedale del Mugello - Azienda sanitaria di Firenze
Medici di Medicina generale del Mugello
3 Dir. sanitario PA Bouturlin Barberino di Mugello
4 SC Cardiologia - Ospedale di Volterra - Azienda sanitaria USL 5 di Pisa
5 Dipartimento di Cardiologia - Azienda sanitaria di Firenze
2
G
ià l’articolo 1 del D.lgs
229/1999 poneva l’appropriatezza delle cure
a fondamento della nostra sanità: “Sono esclusi dai livelli
di assistenza erogati a carico
del SSN nazionale le tipologie
di assistenza, i servizi e le
prestazioni sanitarie che…
non soddisfano il principio
dell’efficacia e dell’appropriatezza, ovvero… sono utilizzati per soggetti le cui condizioni cliniche non corrispondono alle indicazioni raccomandate”.
Il Piano sanitario della Regione Toscana 2008-2010
confermando i valori ed i
principi del Piano precedente, tra cui uguaglianza ed
umanizzazione della salute
intesa come un diritto/dovere e la continuità assistenziale li integrava con ulteriori elementi ispirati ai principi dell’appropriatezza e della
qualità, della produttività,
dell’iniziativa e della responsabilizzazione verso il cittadino e l’utente.
L’integrazione ospedale-territorio e il conseguente coinvolgimento sinergico di tutto
il sistema nella risposta ai bi-
sogni sanitari dei cittadini
sono uno degli strumenti
strategici per ottenere risultati di efficacia ed efficienza
ed un serio bilanciamento fra
domanda ed offerta.
Il vertice dei ministri europei
della salute tenutosi a Budapest nell’aprile scorso ribadisce questo principio come
una della priorità della politica sanitaria europea; le dichiarazioni del Ministero della salute italiano e dell’Assessorato al diritto alla salute
della Regione Toscana, anticipando le linee di programma
del piano 2011-2015, consolidano ancor più questa impostazione.
Il programma
Dall’agosto 2008 il Dipartimento cardiologico e la struttura di Cardiologia dell’Ospedale del Mugello – dell’Azienda sanitaria di Firenze (ASF)
hanno attivato un programma di razionalizzazione del
percorso clinico terapeutico
del cittadino con malattia di
cuore.
Il progetto è stato elaborato e
condiviso con tutti gli attori
del sistema sanitario locale e
Obiettivi e risultati del progetto
“Mugello nel cuore”
coinvolge tutta la zona del
Mugello. L’interazione tra i
professionisti, la promozione
dell’appropriatezza della risposta professionale e lo sviluppo della continuità assistenziale sono gli elementi
fondanti del programma, approvato dalla Direzione dell’ASF nel febbraio 2009.
Caratteristiche della zona di
sviluppo del programma
Il Mugello è un’area montuosa, decentrata, di confine; ha
70mila residenti, pari al 9%
della popolazione dell’ASF e
ne rappresenta circa metà del
territorio; ha un solo ospedale con una struttura di Cardiologia con 5 specialisti, e
una struttura di diagnostica
cardiologica privata convenzionata; vi operano 60 medici di medicina generale e dispone di un servizio di assistenza infermieristica domiciliare attivo tutti i giorni
della settimana.
È un contesto vasto ma circo-
scrivibile, con un tessuto sociale e professionale che tende a favorire la fiducia fra le
parti del sistema e tra questo
e i cittadini.
Condizioni di partenza
In questo scenario, siamo
partiti nel 2008 dalla constatazione che il rapporto fra
domanda e risposta specialistica si caratterizzava per
scarsa appropriatezza, elevato numero di richieste e di
prestazioni, lunga lista di attesa e un rapporto fra MMG e
specialisti frammentato e incostante.
Azioni
Delimitazione dell’area di intervento
Un primo passo per la riorganizzazione è stato quello di
delimitare l’area di intervento
ai soli residenti del Mugello,
per essere in grado di conoscere bene tutte le variabili
in gioco.
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Pieno riconoscimento del medico di famiglia
Cardine essenziale del programma è il pieno riconoscimento del ruolo del MMG, il
cui esame clinico è condizione necessaria e sufficiente ad
avviare il percorso ulteriore
secondo un triage diagnostico che segue codici di priorità clinica.
“Triage” diagnostico e valutazione integrata clinico strumentale specialistica
Il cardiologo, dal canto suo,
non si limita più alla ripetizione di una semplice visita,
ma offre una valutazione clinico strumentale integrata in
un’unica seduta e, quando la
ritenga necessaria, condivide
con il MMG ed effettua la presa in carico del paziente,occupandosi di tutto l’iter diagnostico e terapeutico.
In concreto, si configurano
quattro diversi scenari (Fig. 1):
1. Il paziente si rivolge al
MMG, questi lo visita e attraverso un numero telefonico dedicato si consulta
immediatamente con il cardiologo dell’ospedale (codice giallo); se la condizione
è ritenuta urgente (indipendentemente dai casi in
cui è appropriato l’accesso
al DEA) lo specialista valuterà il paziente entro le
24/36 ore successive.
2. Il MMG giudica il consulto
del cardiologo differibile,
richiede e motiva una “consulenza cardiologica” che il
paziente prenoterà attraverso un’agenda dedicata
del CUP (codice verde).
3. Il MMG visita il cittadino e
ritiene sufficiente un approfondimento strumentale con solo Ecg (codice
9:54
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La gestione della continuità
bianco): in questo caso, il
giorno successivo e senza
bisogno di prenotazione, il
paziente effettua l’esame
in uno dei poliambulatori
del territorio, con refertazione nel giorno stesso da
parte del cardiologo dell’ospedale. La Società della
salute ha provveduto ad
allestire, per i distretti
delle zone montane, una
rete telematica di esecuzione, trasmissione e archiviazione digitale degli
Ecg, il sistema sarà a regime dall’autunno del 2011.
4. Il paziente è affetto da
malattia cardiovascolare
cronica che richiede una
valutazione periodica ravvicinata (continuità assistenziale): il cardiologo
ospedaliero programma di-
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rettamente la consulenza
alla data prevista.
Presa in carico totale e “dinamica”
Ogni indagine di secondo livello che si renda necessaria
viene organizzata completamente dalla Cardiologia del
Mugello ed il paziente viene
ripreso in carico al termine
del percorso di cura.
Alla fine dell’iter clinico, soprattutto nei casi complessi,
lo specialista informa discute
e concorda telefonicamente
con il MMG la strategia clinica. Il contatto diretto, attivo,
professionale ed umano permette la tessitura ed il consolidamento del rapporto fiduciario fra specialista e medico
di famiglia.
Fig. 1
Appropriatezza
Particolare attenzione è stata
data alla ricerca e alla verifica della appropriatezza: attraverso incontri di aggiornamento organizzati congiuntamente ai MMG, al richiamo
costante e diretto alle linee
condivise in precedenza e al
controllo della autoreferenzialità dello specialista.
Controllo del “bisogno indotto”
L’induzione del bisogno da
parte dello specialista verso il
curante ed il cittadino stesso
è uno degli aspetti più critici
e delicati: l’uso proprio delle
risorse deve essere ricercato
in prima istanza all’interno del
sistema e promosso dal sistema stesso. È necessario porre
la massima attenzione affinché l’organizzazione degli
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N. 186 - 2011
Fig. 2
ambulatori di follow up e le
conseguenti indicazioni sulla
tempistica e la modalità dei
controlli clinico strumentali
siano improntati all’appropriatezza.
Sinergia con le altre risorse
specialistiche disponibili
Nel 2010 il programma si è
arricchito di una convenzione con una struttura privata
accreditata di diagnostica
cardiologica (la Pubblica Assistenza di Barberino di Mugello Bouturlin di Barberino
di Mugello): l’atto ha stabilito
non solo i termini quantitativi dell’accordo ma soprattutto ha sancito la piena sinergia fra l’ASF e un privato che
aderisce completamente al
programma, adottandone le
modalità di programmazione
e di risposta professionale.
Risultati
Appropriatezza
Al termine del 2009 e stato
raggiunto l’80% di appropriatezza delle richieste per consulenza cardiologica, partendo dal 50% dell’ultimo trimestre 2008 (Fig. 2).
La valutazione dell’appro-
priatezza è avvenuta attraverso l’analisi retrospettiva di
oltre 1500 referti, il giudizio
di appropriatezza è stato dato seguendo una revisione
sintetica delle indicazioni di
“valutazione cardiologica”
segnalate dalle linee guida
per patologia; la valutazione
non si è limitata solo all’appropriatezza della richiesta
ma anche alla validità “per
esito” della consulenza.
Il monitoraggio dell’appropriatezza nel tempo ha dimostrato quello che è ampiamente conosciuto: ovvero
che alla maggiore disponibilità di risorse che si è avuta
nei primi mesi di inserimento
nel sistema della risorsa convenzionata si è registrato
una netta riduzione dell’appropriatezza delle richieste
passando dall’80% al 64% di
media e che scorporando i
dati per Comuni di richiesta
il dato era ancora minore laddove la richiesta era stata
maggiore (Fig. 3).
Codici gialli
Il numero delle richieste di
valutazione “urgente” dopo i
primi mesi di sperimentazio-
ne è rimasto costante nel
tempo con un numero medio
di 31 al mese.
La disponibilità di un consulto telefonico specialistico diretto per i casi complessi ed
urgenti è risultato uno strumento di massima integrazione professionale in cui non si
è rilevato over use ed estremamente efficace nel rafforzare la solidarietà professionale ed il rapporto fiduciario
con i cittadini. Il fast track
diretto per le urgenze differibili incide altresì sul funzionamento e la qualità complessiva del sistema, riduce il
ricorso improprio alla risorsa
specialistica ed al DEA e ha
un’azione assai benefica sulle
liste di attesa.
I tempi di attesa e la conversione delle prestazioni in presa in carico
Come indicato nella Fig. 4, è
stato ottenuto un annullamento dei tempi di risposta ai
cittadini in quanto, se la richiesta è urgente la risposta è
pressochè immediata, mentre
ciò che dal MMG viene ritenu-
to differibile seguendo i canali tradizionali di prenotazione
via CUP per una valutazione
“integrata” (consulenza cardiologica) ha un tempo di attesa medio/anno di 20 giorni
rispetto ai 5 mesi dell’inizio
della sperimentazione.
L’altro dato fondamentale da
sottolineare è il passare dall’erogare delle prestazioni
(6000 prestazioni dei primi 6
mesi del 2007) al fornire consulenze (1000 consulenze del
2009).
Riflessioni e considerazioni
riguardo a quest’esperienza
La difficoltà ed una strada per
superarla
Per parlare di interazione fra
le parti di un sistema si rende
necessario delinearne gli
aspetti costitutivi e individuarne i metodi con cui relazionarvisi: il sistema delle
cure rientra nei sistemi complessi. I Sistemi ad alta complessità sono caratterizzati
da moltissime variabili, poco
definite, da molte relazioni
dirette, indirette e non lineari, da regole autodefinite dal
Fig. 3
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La gestione della continuità
Fig. 4
sistema stesso, dalla scarsa
prevedibilità dell’esito delle
azioni che esplica, da un’alta
discrezionalità e da un contesto fortemente adattativo
che richiede flessibilità ed
adattamento alle molteplici
ed imprevedibili modulazioni. L’analisi e l’interazione
con un sistema complesso
esige un approccio sistemico
in cui vengano considerati
non gli elementi singoli ma
l’insieme delle parti, intese
come un tutto unico, e in cui
massima sia l’attenzione sulle relazioni tra gli elementi
piuttosto che sui singoli elementi presi separatamente.
La complessità, la non linearità, la multidimensionalità,
una visione sistemica e l’approccio adattativo oltre a caratterizzare un tale sistema
forniscono anche i motivi per
comprendere come sia spesso
difficile dare concretezza ad
affermazioni di principio che
risultano invece immediatamente comprensibili e condi-
vise da tutti quali la necessità di interazione fra ospedale e territorio, l’invito a lavorare in appropriatezza, il
passaggio dalla prestazione
alla presa in carico del paziente e l’offerta di una continuità assistenziale.
Si può comprendere anche
che la chiave per aprire la
scatola della complessità si
gioca sul tavolo del metodo:
gli strumenti principali sono
l’adattabilità dei paradigmi
mentali e di conseguenza dei
setting organizzativi.
Piani, modelli, progetti devono essere considerati canovacci da interpretare modificare ed arricchire costantemente seguendo la traccia
maestra della priorità e della
responsabilità clinica; ciò esige un’intelligenza “umile”
che abbia il coraggio di verificare costantemente gli effetti
delle azioni intraprese sugli
esiti previsti e cambiare, se
necessario, l’impalcatura ipotizzata smontando e rimon-
tando anche dalle fondamenta la costruzione ipotizzata.
L’obiettivo alto
Riprendendo come postulato
una famosa frase di Antonio
Gramsci: “nella vita bisogna
avere il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà” e soprattutto se l’ottimismo della volontà non abdica al pessimismo della ragione
possiamo affermare che si
possono ottenere alcuni risultati tangibili anche in un terreno organizzativo difficile.
Occorre, nel nostro caso, puntare oltre la logica consumistica di un prodotto che qualcuno compra e altri vende, e
promuovere invece la relazione tra il paziente e i medici
che in diversi ruoli si prendono cura della sua salute, collaborare strettamente con il
MMG per riaffermare il suo
ruolo centrale che deve responsabilmente spingerlo ad
effettuare quella valutazione
clinica in base alla quale la richiesta diventa o no appropriata. E il cardiologo non può
limitarsi alla mera ripetizione
di una visita, ma deve responsabilizzarsi, se del caso, con la
presa in carico. L’incontro tra
MMG e cardiologo deve avvenire anche “prima” del caso
specifico, per tracciare insieme percorsi condivisi da attivare di volta in volta a seconda del contesto, separando le
urgenze dalle altre condizioni. Se il MMG dovrà riconoscere il beneficio di un lavoro
quotidiano più consapevole e
partecipato, i cardiologi dovranno controllare il bisogno
indotto e ridimensionare le
N. 186 - 2011
indicazioni autoreferenziali,
come in certi ambulatori di
follow-up. Una particolare attenzione alla gestione del bisogno emotivo può rendere
appropriata una valutazione
cardiologica qualora l’intervento del MMG non riesca ad
acquietare l’ansia (non i capricci) del paziente. Ma tutto
ciò non basta senza una capillare educazione dei cittadini,
ai quali non va demagogicamente promesso l’abbattimento delle liste d’attesa, ma l’impegno a responsabilizzare chi
chiede e chi offre prestazioni
affinché queste siano riservate solo a chi ne ha veramente
bisogno e nei tempi giusti per
la specifica condizione clinica. La sfida, è evidente, si gioca prevalentemente sul piano
delle relazioni umane: promuovere l’appropriatezza significa anche contribuire a
sconfiggere quella logica che
vede la salute come una merce e le relazioni al suo interno
come prodotti. Ne beneficeranno in primis i cittadini, ma
anche quelle risorse economiche, non sempre scarse, ma
disperse nel finanziare l’inappropriatezza.
Conclusione
“Mugello nel cuore” è quindi
il tentativo di passare da una
sanità burocratica, fatta di
richieste e di risposte cartacee e di incomunicabilità, ad
una potente integrazione tra
cittadino e strutture sanitarie, un patto di solidarietà
concreto che si realizzi nei
fatti oltre che dichiarato nelle intenzioni.
Il cammino è appena iniziato.
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N. 186 - 2011
Laura Rasero1
Sergio Bruni2
1 Università degli studi
di Firenze, Dipartimento
di Sanità pubblica
2 Azienda USL 11 - Empoli
L
e lesioni cutanee croniche sono definibili come lesioni che provocano la perdita dei tessuti e dei
loro annessi (1), sono rappresentate dalle ulcere diabetiche, arteriose e venose,
ulcere da pressione e causate
da tumore.
La cronicità è dovuta al fatto
che la guarigione è difficile o
spesso impossibile da raggiungere e che l’andamento
della lesione non attraversa
le fasi tipiche necessarie per
arrivare ad una riparazione
tessutale (infiammazione,
proliferazione e rimodellamento) (2). Sia l’incidenza
che la prevalenza delle ulcere
croniche sono difficili da determinare a causa delle barriere metodologiche che impediscono di formulare generalizzazioni dai dati disponibili. Il fenomeno è però rilevante sia per numero di persone affette da ulcere, sia per
l’onere economico globale derivante dal trattamento e dal
tempo assistenziale richiesto.
Le ulcere procurano disabilità, dolore e un peggioramento della qualità di vita.
Si stima che l’incidenza annuale della presenza di ulcere
del piede nella popolazione
diabetica è compresa tra il 2.5
e il 10.7% (3-5) In Italia il
30% di chi soffre di diabete da
almeno 10 anni ha una forma
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La gestione della continuità
Territorio 171
Le ulcere cutanee
croniche
neuropatica distale, il 15%
delle persone ospedalizzate
hanno una ulcera distale (6).
Le ulcere degli arti inferiori
colpiscono circa il 1-2% della
popolazione adulta (7) e il
3,6% delle persone con più di
65 anni (8). Il 75-90% delle
ulcere degli arti inferiori sono dovute a patologia venosa
cronica. Tra le ulcere croniche rivestono una notevole
rilevanza le ulcere da pressione, caratterizzate da un’area
localizzata di danno della cute e dei tessuti sottocutanei,
causata da pressione, frizione
o da una combinazione di
questi fattori (9). Si formano
normalmente in corrispondenza di prominenze ossee e
la loro gravità è classificata
in gradi (I-IV - NPUAP 1998).
È ormai consolidata la consapevolezza che le lesioni da
pressione tendono a formarsi
prevalentemente nei soggetti
affetti da patologie che ne
compromettono la funzionalità neuromotoria e nei soggetti anziani allettati, alla
luce di ciò è facile dedurre
che tale problema è destinato
a crescere in ragione dell’invecchiamento della popolazione (10).
La prevalenza delle lesioni da
pressione varia in rapporto
all’ambiente in cui il soggetto
vive o viene assistito ed alla
concomitanza di particolari
Un importante problema
sociale
patologie o morbilità. Da studi epidemiologici condotti si
evince che l’incidenza e la
prevalenza (dato molto più
frequente) delle lesioni da
pressione variano a seconda
delle popolazioni osservate
(11). Le ulcere da pressione
sono molto frequenti nelle
strutture preposte alle cure
sanitarie, così come tra le
persone che ricevono cure a
domicilio procurando disabilità, dolore, alterazione della
qualità di vita e richiedendo
un notevole impegno gestionale in termini di risorse
umane, materiali e tecnologiche (12-17). In Italia la prevalenza delle persone con
presenza di ulcere da pressione è compresa tra l’8% e il
13,2% (18). In ambito domiciliare e nei reparti di cure intensive (Rianimazioni, Unità
spinali ecc) la percentuale sale al 20%-66% (19).
Le ulcere cutanee tumorali
rappresentano un angoscioso
problema per alcune persone
affette da cancro. Possono
svilupparsi nelle ultime fasi
della vita o possono manifestarsi e accompagnare la persona per molti anni; alcuni
pazienti traggono vantaggio
dalla chemioterapia, dalla radioterapia o dall’escissione
chirurgica, altri subiscono il
continuo deterioramento della lesione (20). La fungating
wound è un’ulcera che nasce
dall’infiltrazione e dalla proliferazione di cellule maligne
attraverso l’epidermide che
originano da un tumore locale, da una lesione primaria distante o da metastasi (21,
22). Queste lesioni possono
svilupparsi anche molto rapidamente (talvolta in 24 ore)
possono assumere l’aspetto “a
cavolfiore” (23) o causare
tratti sottominati e fistole
(24) essendo interessati i vasi
ematici e linfatici, i linfedemi
e sanguinamenti massivi sono complicanze frequenti
(25, 26). Una ulteriore importante complicanza è rappresentata dalla colonizzazione batterica dei tessuti
necrotici che produce ristagno ed iperproduzione di essudato che si accompagna a
cattivo odore (27-29). Il dolore, vista l’eziopatogenesi
multifattoriale, risulta difficilmente gestibile. Queste ulcere procurano degli effetti
sulla vita di relazione devastanti (30-34).
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La gestione della continuità
N. 186 - 2011
Le lesioni croniche rappresentano un’importante problematica sociale: oltre a colpire, nelle sue varie forme, un
numero importante di soggetti, esse determinano costi
diretti, indiretti ed intangibili molto elevati a questi spesso devono essere aggiunti
quelli di gestione delle complicanze associate (infezione,
dolore, discomfort, ecc.) (35).
I costi diretti per le ulcere cutanee croniche ed una frazione attribuibile a patologie
correlate (es. infezioni dell’ulcera) includono test diagnostici, servizi ospedalieri e
territoriali, servizi ambulatoriali, farmaci e presidi.
I costi indiretti riguardano il
valore dei guadagni persi a
causa della presenza di ulcera
e delle complicanze correlate,
del tempo speso dalla persona, da amici, da membri familiari e caregivers in genere
per la gestione del soggetto
affetto.
I costi intangibili, sempre di
difficile quantificazione, riguardano la stima monetaria
del dolore e della sofferenza
risultanti dalle lesioni cutanee, dolore ecc.
La gran parte delle valutazioni sulle risorse assorbite dalla
patologia riguarda generalmente i costi sanitari diretti,
ossia quelli sostenuti per trattare o mitigare gli effetti delle ulcere. In Germania è stato
stimato che per la gestione
delle ulcere solo in termini di
medicazione si spenda ogni
anno 5 miliardi di euro (36).
Ulteriori studi confermano
l’importanza del problema dal
punto di vista economico (3739). I costi sono destinati ad
aumentare nei prossimi anni
anche per il progressivo in-
vecchiamento della popolazione. A tali cifre devono essere aggiunti alti costi, non
solo materiali (ausili e materiale per medicazioni), ma anche quelli determinati dall’impiego di risorse umane dedicate (ore lavoro perse dai
familiari, impegno orario dei
badanti al domicilio e negli
istituti, impegno infermieristico e del personale di supporto nei reparti ospedalieri,
ecc.). La presunta spesa per la
gestione da parte del personale infermieristico di una lesione cutanea deve essere calcolata considerando la frequenza del cambio della stessa (mediamente 7 volte al mese per le lesioni superficiali e
15 volte per quelle profonde,
più volte al giorno per le ulcere tumorali), il tempo speso
per medicazione da parte del
personale infermieristico (10
minuti per la medicazione superficiale e 20 per quella
profonda). La prevenzione
delle ulcere, in particolare per
quelle da pressione riveste un
ruolo importante, sono molti
gli studi che hanno dimostrato il ruolo determinante nell’evitare la comparsa o la progressione delle lesioni (4046). Nelle ulcere da pressione
è fondamentale ridurre l’immobilità, mobilizzando/posizionando la persona, quando
possibile, ogni due ore, garantendo l’alternanza dei decubiti, agendo sulla riduzione dei
punti di appoggio, sullo scivolamento e frizione. Tra i
presidi utilizzati per la prevenzione delle ulcere da pressione una notevole importanza hanno i materassi.
I materassi si possono suddividere in statici (senza motore) che sono costituiti in po-
tunnellizzazione, odore, letto
dell’ulcera, condizioni della
cute perilesionale e bordi dell’ulcera, essudato, tessuto necrotico e presenza o assenza
di tessuto di granulazione ed
epitelizzazione e la presenza
/assenza di dolore), infatti
una singola caratteristica non
è in grado di fornire dati sufficienti per comprenderne l’eziologia, l’adeguatezza del
trattamento e la sua evoluzione. La precoce identificazione
delle lesioni che non rispondono al trattamento garantisce la possibilità di orientarsi
verso una modalità di gestione diversa, ottenendo così risultati migliori. In letteratura
sono ormai presenti molti dati
clinici a sostegno dell’ipotesi
che un’accurata valutazione
della riduzione percentuale
dell’area della lesione è un parametro fondamentale nelle
prime settimane di trattamento. In particolare, una riduzione dell’area della lesione
inferiore al 20-40% nel corso
delle prime due-quattro settimane è un dato che fa ragionevolmente supporre che la
lesione stia mostrando una
scarsa risposta al trattamento.
La corretta applicazione di
protocolli di gestione e cura
delle ulcere e l’introduzione
di presidi di nuova generazione come le medicazioni avanzate (in Italia sono presenti
circa 3000 prodotti che rientrano in varie categorie (idrocolloidi, schiume in poliretano, idrogeli, idrofibre medicazioni biodegradabili come il
collageno e l’acido ialuronico
ecc) hanno permesso di ridurre le criticità della problematica attraverso: controllo
del dolore con il mantenimento di umidità/bassa ade-
172
liuretano a lento rilascio con
memoria lunga della massa
corporea o dinamici (movimentazione motorizzata) che
si possono classificare in più
categorie: a bassa pressione
continua, a pressione alternata, questi riducono la pressione tramite il gonfiaggio-sgonfiaggio alternato delle celle/
cuscini, garantendo che vi sia
un cambiamento della zona di
appoggio del corpo, a cessione d’aria continua, tali presidi
riducono la pressione distribuendo il peso corporeo sulla
superficie di supporto evitando la compressione del tessuto, il materasso è formato da
celle/cuscini gonfiati da un
flusso costante, e cedenti aria
al fine di ridistribuire i punti
di contatto corporeo e letti
fluidizzati che presentano microsfere in silicio (usati ad
esempio nei centri ustione).
La tipologia dei materassi viene scelta per ogni singolo
utente in base alla valutazione del rischio di contrarre ulcere (valutato con apposite
scale di valutazione del rischio ad es. Braden). In caso
di comparsa di ulcera l’obiettivo del trattamento talvolta
dovrà mirare al solo miglioramento della qualità della vita
e non necessariamente alla
guarigione. Per garantire un
piano di trattamento realistico ed efficace la lesione deve
essere monitorizzata e valutata costantemente. La raccolta
dati regolare sullo stato della
lesione è uno degli strumenti
più importanti per ottimizzare le possibilità di guarigione
dell’ulcera. La valutazione
delle ulcere comprende molti
aspetti (localizzazione, stadio
di gravità, dimensione, tratti
cavi, tessuto sottominato,
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sività e atraumaticità al cambio di medicazione, assorbimento dell’essudato (schiume
di poliuretano), riduzione
dell’odore (antibiotici e medicazioni al carbone), miglioramento dell’estetica attraverso
il ripristino della simmetria
corporea con presidi cavitari
e sostituzione di medicazioni
secondarie voluminose, contenzione dei sanguinamenti
(medicazioni emostatiche come gli alginati) (47).
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Il soggetto con ulcera, per
tutte le caratteristiche precedentemente descritte, è un
utente “fragile” il cui percorso diagnostico terapeutico è
frequentemente intervallato
da riacutizzazioni di malattia
o ricoveri ospedalieri. Questo
richiede, pertanto una precisa integrazione tra ospedale e
territorio e viceversa, che garantisca una presa in carico
multidiscipinare da parte di
professionisti esperti.
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La gestione della continuità
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Stefano Bianchi1
Roberto Bigazzi2
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Territorio 175
L’insufficienza renale
1
Direttore UOC Nefrologia
e dialisi, ASL 6 di Livorno
2 Direttore Dipartimento
di Medicina clinica e specialistica,
ASL 8 di Livorno
[email protected]
[email protected]
L’
approccio diagnosticoterapeutico e la stessa
visione globale della
malattia renale cronica (MRC)
sono profondamente cambiate nella pratica clinica nefrologica degli ultimi anni. Il
nefrologo, figura professionale tradizionalmente “iperspecialistica” e tipicamente
ospedaliera, ha sempre “atteso” che la MRC si presentasse
alla sua osservazione e questa quasi invariabilmente si
manifestava con il quadro
dell’insufficienza renale evoluta, da trattare con la terapia sostitutiva (dialisi e trapianto renale) oppure con
quello di una glomerulonefrite acuta o cronica, da diagnosticare con biopsia renale e
complessi esami immunologici e da curare con protocolli
terapeutici tanto complicati
quanto spesso non troppo efficaci e ricchi di effetti collaterali. Nella visione nefrologica classica si era quindi
profondamente convinti, pur
consapevoli che la MRC nasceva al di fuori dell’ospedale,
su un territorio poco o per
niente conosciuto (quando
questa esordisse e vivesse le
sue fasi iniziali non era dato
quasi mai di sapere), che essa
sviluppasse tutto il suo quadro clinico e le sue complicanze in ospedale, in strutture ad alta componente tecno-
logica, sostanzialmente impenetrabili da quel mondo
esterno che iniziava e terminava alla porta d’ingresso del
reparto.
Questa visione della MRC negli ultimi anni è profondamente cambiata per motivazioni diverse. In primo luogo,
l’adozione sempre più diffusa
di metodiche di misurazione
della funzione renale e dell’escrezione urinaria di proteine, effettuate mediante l’utilizzo di formule matematiche
della velocità della filtrazione
glomerulare stimata e la determinazione del rapporto tra
escrezione urinaria di proteine e di creatinina su campione urinario del mattino, senza ricorrere alla raccolta urinaria delle 24 ore, metodiche
ambedue di semplice esecuzione, alta affidabilità e basso costo e routinariamente
utilizzabili in ogni setting clinico, ha svelato che la prevalenza della MRC nella popolazione generale non è cosi
bassa come si riteneva. Infatti, data-base epidemiologici
realizzati in tutto il mondo
hanno dimostrato che la prevalenza della MRC si attesta
intorno al 10% della popolazione generale e raggiunge
valori ancora più elevati se si
considerano popolazioni ad
alto rischio di sviluppare un
danno renale (diabetici di ti-
Insidia spesso sottovalutata:
il messaggio al territorio
po II, ipertesi, obesi ecc.) (1).
La consapevolezza della reale
prevalenza della MRC, fenomeno che molti studiosi definiscono con forse eccessiva
enfasi “epidemico”, ci ha fatto capire che fino ad oggi
avevamo posto la nostra attenzione solo alla piccola
parte emersa dell’iceberg
MRC, nelle sue fasi evolute e
sintomatiche, ignorando l’esistenza di quella parte sommersa, ben più ampia e forse
ancor più importante, per i
possibili interventi sanitari
da mettere in atto, preventivi, diagnostici e terapeutici.
In secondo luogo, un’attenta
analisi dell’epidemiologia
della MRC ci ha indicato che
le cause primitivamente responsabili della sua comparsa, dagli stadi iniziali a quelli
evoluti della sua fase terminale, non sono più tanto le
poco frequenti malattie nefrologiche “tradizionali”, a
genesi immunologica o ereditaria, bensì condizioni cliniche non primitivamente nefrologiche, quali il diabete
mellito, l’ipertensione arteriosa e l’obesità, ad alta prevalenza nella popolazione e
che, per l’allungamento della
vita media e per la migliore
sopravvivenza dei soggetti
che ne sono affetti, hanno la
possibilità di manifestare
complicanze renali un tempo
ritenute infrequenti.
La terza grande sorpresa che i
nefrologi, e più in generale i
medici che si occupano di
medicina interna, hanno potuto osservare negli ultimi
anni è l’impressionante aumento dell’incidenza di eventi cardiovascolari (CV), fatali
e non, che caratterizza la intera storia naturale della malattia renale (2). Infatti, se
da decenni era noto che i pazienti in terapia sostitutiva
dialitica hanno un’elevatissima probabilità di presentare
eventi CV che da sempre rappresentano la principale causa di morte in questi pazienti, negli ultimi anni è emerso
inequivocabilmente che anche negli stadi più precoci di
nefropatia, ed in misura tanto maggiore quanto più questa si associa o è conseguenza di condizioni patologiche
di per sé ad alto rischio di
complicanze CV, il paziente
nefropatico ha una probabilità di morire per eventi di
questa natura maggiore di
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quanta sia la probabilità di
raggiungere gli stadi terminali della malattia renale. La
consapevolezza che la MRC
rappresenta un importante
fattore di comorbidità ed un
marcatore di rischio CV, per il
suo associarsi e coesistere
con numerosissimi fattori di
rischio sia tradizionali sia peculiari della malattia renale,
ha avuto importanti conseguenze per quanto riguarda
l’approccio globale a questi
pazienti (3) (Tab 1.). La prima di queste è la necessità di
considerare la diagnosi precoce di una malattia renale un
momento fondamentale per
stratificare il rischio cardio e
cerebrovascolare di pazienti
diabetici, ipertesi o anche apparentemente privi d’altre
comorbidità e che questo momento diagnostico deve coinvolgere figure professionali
diverse (medico di medicina
generale in primo luogo e
quindi specialisti nefrologi,
cardiologi, diabetologi ecc.)
che utilizzando percorsi diagnostico-terapeutici concordati e condivisi modulano anche temporalmente i diversi
momenti d’intervento (chi facosa-quando); in secondo
luogo che l’attuale “dispersione” di questi pazienti in
setting clinici diversi rende
auspicabile che, ovunque il
paziente venga valutato, il livello non solo diagnostico ma
l’approccio terapeutico ed il
follow-up clinico possa risultare omogeneo, con chiarezza
sui rispettivi compiti e sui
momenti nei quali il referral
allo specialista di turno possa
essere opportuno, o al contrario differibile perché non
necessario in quella situazione clinica.
L’approccio diagnostico terapeutico al paziente con diabete mellito di tipo II rappresenta probabilmente il modello clinico paradigmatico
per mettere in atto un protocollo d’intervento multidisciplinare. La nefropatia che si
manifesta nel diabete mellito
di tipo II (causa in alcuni
paesi di oltre il 50% della insufficienza renale cronica che
giunge alla terapia sostitutiva, dialisi e trapianto renale,
20% nel nostro paese ed in
rapida crescita) costituisce
probabilmente la situazione
che meglio descrive questa
fase di transizione epidemiologica delle malattie renali.
Non più di trenta anni fà si
riteneva che il diabete mellito di tipo II non determinasse, contrariamente al diabete
mellito di tipo I, complicanze
renali. Oggi sappiamo che
questa convinzione derivava
dal fatto che questi pazienti
non vivevano tanto a lungo
da sviluppare complicanze
renali, andando incontro a
morte sopratutto per eventi
CV acuti. Il miglioramento
della gestione dei fattori di
rischio CV e delle complicanze acute dei pazienti diabetici ha permesso oggi di osservare, in un numero sempre
crescente di questi pazienti,
lo sviluppo di un danno renale clinicamente rilevante e
che costituisce oggi uno dei
più frequenti motivi di ricorso alla consulenza nefrologica (per fortuna, a compensare in parte questo aspetto,
quasi più nessun paziente
con diabete mellito di tipo I
giunge all’uremia terminale!). L’evoluzione del danno
renale, al pari delle altre
complicanze micro e macro-
ca afferisce a figure professionali diverse che il più delle
volte lavorano secondo criteri
clinici e protocolli diagnostici
e terapeutici diversi, talvolta
in contrasto fra loro, spesso
causa d’inutili ripetizioni d’esami diagnostici non necessari e costosi per il sistema sanitario. Nelle prime fasi di
malattia del diabete l’impegno renale è praticamente
inesistente. In seguito, come
segno di sofferenza renale,
compaiono la microalbinuria
e la proteinuria che continueranno a caratterizzare, assieme alla presenza di ipertensione arteriosa e dislipidemia, il decorso della malattia
fino alle forme più gravi di
insufficienza renale. Parallelamente allo svilupparsi del
danno renale, il paziente diabetico presenterà in maniera
sempre più clinicamente evidente le altre complicanze
micro e macrovascolari della
malattia. Il medico di medicina generale è il primo a vedere
176
vascolari evolve in un lungo
periodo di tempo, mediamente due decenni, ed offre
quindi numerose opportunità
di diagnosi e d’intervento terapeutico, attuabili attraverso modifiche degli stili di vita
ed adeguati trattamenti farmacologici. Inoltre, per fortuna, la diagnosi di coinvolgimento renale e la sorveglianza clinica nel tempo di
questi soggetti può essere
realizzata in tutti i presidi sanitari, anche i più periferici
del territorio e con costi
usualmente molto limitati.
Anche il laboratorio più periferico è in grado, infatti, di
fornire risposte rapide, economicamente sostenibili ed
esaurienti che ci consentono
di studiare le varie fasi dell’evoluzione clinica del danno
renale e di verificare la correttezza delle nostre misure
terapeutiche. Il paziente diabetico nelle varie fasi che caratterizzano la storia naturale della sua condizione clini-
Tab. 1. Fattori di rischio cardiovascolare tradizionali e peculiari
del paziente con malattia renale cronica.
MCV = malattia cardiovascolare; RAAS = sistema renina-angiotensina-aldosterone; LDL = lipoproteine a bassa densità; HDL = lipoproteine ad alta densità.
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il paziente al momento della
diagnosi, spesso quando ancora nessuna complicanza è
in atto, ed è il solo in grado
di prendere in questo momento quelle decisioni che
condizioneranno nel bene e
nel male la prognosi del paziente. Questa è la fase nella
quale (i nefrologi, i cardiologi
ed i diabetologi sono ancora
lontani, in ospedale) il trattamento adeguato ed intensivo dei fattori di rischio delle
complicanze del diabete
(trattamento dell’ipertensione arteriosa e della dislipidemia, controllo metabolico del
diabete, attuazione di programmi di modifica di stili di
vita non virtuosi ecc.) è in
grado di ottenere i migliori
risultati. Questa è la fase nella quale l’attuazione di misure terapeutiche efficaci è in
grado di prevenire o almeno
rallentare il rendersi evidente
delle complicanze della malattia; più tardi il rendersi
evidente delle complicanze
richiederà l’intervento dello
specialista. Purtroppo il trattamento del paziente in queste fasi, seppure opportuno e
con possibilità ancora efficaci
di intervento, permette solo
un “contenimento” clinico
della complicanza ormai presente e non una sua prevenzione. Risulta evidente quindi che chi vede per primo il
paziente a rischio di sviluppare una MRC o addirittura
prima che questa si manifesti
è colui che ha le maggiori
possibilità di essere efficace;
al contrario chi gestirà la
complicanza clinica, renale o
cardiovascolare che sia, potrà
solo limitare danni che comunque lasceranno un segno
importante. Se il nefrologo si
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ostina caparbiamente a mantenere la sua posizione ospedaliera d’attesa è destinato a
vedere probabilmente l’1% di
questi pazienti, e solo nelle
fasi evolute, mentre il restante 99% della storia clinica
precedente del paziente si
svilupperà e verrà gestita sul
territorio. Quindi stadiare
con precisione il danno renale, utilizzando gli strumenti
più semplici ed affidabili,
suddividere i compiti d’intervento terapeutico in base alla
fase di malattia e definire con
esattezza i tempi del followup rappresentano un possibile modello di approccio multidisciplinare ad una patologia cronica quale il diabete
mellito (Fig. 1). Inoltre, solo
chi opera sul territorio, quindi soprattutto il medico di
medicina generale, è in grado
di fare diagnosi precoce di
nefropatia in queste condizioni, trattare i fattori di rischio cardiovascolare e di
progressione del danno renale ed impedire l’instaurarsi di
condizioni di danno evolute
nelle quali il margine terapeutico risulta notevolmente
ridotto.
Le stesse considerazione valgono per altre condizioni cliniche, ad esempio per l’ipertensione arteriosa, dove la
comparsa di una nefropatia
evolutiva diviene sempre più
frequente (4).
È sul territorio quindi che deve nascere una strategia d’in-
tervento attivo; sul territorio
devono venire messe in pratica tutte quelle iniziative di
prevenzione e diagnosi precoce, concordate tra il nefrologo ed il medico di medicina
generale, a costituire un
fronte unito nella diagnosi ed
assistenza a malati con cronicità di lunga e talvolta lunghissima durata. Per ridurre
al minimo possibile il numero
di casi d’insufficienza renale
grave o gravissima, è necessario quindi intervenire sulla
malattia renale fin dalle sue
fasi più precoci, all’interno di
un percorso strutturato e
condiviso fra specialisti diversi (nefrologi, cardiologi,
diabetologi, ecc.)e medici di
medicina generale.
Fig. 1. Storia naturale della nefropatia diabetica e possibili interventi diagnostico-terapeutici concordati
fra ospedale (specialisti nefrologi) e territorio (medici di medicina generale) nelle varie fasi d’evoluzione
del danno renale.
VGF = velocità della filtrazione glomerulare; CV = cardiovascolare; PA = pressione arteriosa; MMG = medico di medicina
generale; microalb = microalbuminuria.
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La sempre più frequente attuazione di programmi condivisi d’intervento multidisciplinare, rappresenta il paradigma di come le cose possano andare nella giusta direzione quando l’ospedale ed il
territorio concordano sull’esistenza di una domanda (la
MRC è una condizione ad alta
prevalenza ed un importante
e facilmente diagnosticabile
fattore di rischio CV) e decidono congiuntamente di lavorare insieme per offrire risposte efficaci ed adeguate
(5).
Questa esigenza non è sentita
solo dalla medicina specialistica. Da tempo infatti anche
la medicina generale ha avvertito l’esigenza di affrontare in modo integrato l’approccio alla malattia renale cronica rispondendo in maniera
positiva alla richiesta dei nefrologi di costruire insieme
percorsi diagnostici e terapeutici condivisi.
Un ulteriore impulso è stato
offerto dall’attività dei medici di medicina generale che
seguendo le istanze del Chronic Care Model, secondo i criteri previsti dalla Regione Toscana, hanno iniziato a seguire in maniera strutturata
coorti di pazienti ben definite come ipertesi, diabetici e
scompensati di cuore, rendendosi conto della reale importanza che riveste in questi
pazienti una diagnosi precoce
di danno renale.
Si sono quindi identificati
percorsi, centrati essenzialmente sul paziente, che delineano con precisione i compiti del medico di medicina
generale e dello specialista,
partendo dall’identificazione
sul territorio di soggetti a rischio di sviluppare un danno
renale. All’interno di questi si
dovranno identificare liste di
pazienti arruolabili e la loro
collocazione all’interno di
percorsi ben definiti, con il
ricorso alla consulenza specialistica del nefrologo, in casi selezionati secondo le
istanze dei “Consensus” internazionali, ma nella maggior parte dei casi gestibili
re, possano farsi carico della
gestione diretta di un numero
di pazienti cosi elevato qual è
quello, ad esempio, dei pazienti diabetici e degli ipertesi non complicati. La strada
da percorrere è una sola: definire protocolli diagnostici e
terapeutici condivisi fra tutti
i professionisti coinvolti, in
misura diversa a seconda delle diverse fasi della malattia,
nella gestione del paziente
con malattia renale che permettano di attuare in sedi e
realtà diverse (gli specialisti
in ospedale ed i medici di
medicina generale sul territorio) gli interventi più opportuni e maggiormente sostenibili. Il nefrologo illuminato collaborerà con entusiasmo a queste iniziative continuando ad occuparsi della
malattia renale nella fase
della cronicità evoluta e della acuzie (sperando che questa si riduca sempre di più!)
ma sapendo che altri professionisti stanno lavorando assieme a lui nell’interesse del
paziente nefropatico.
178
Bibliografia
(1) Coresh J., Selvin E., Stevens L.A. et al. (2011), Prevalence of chronic kidney disease in the United States, JAMA, 298, pp. 2038-47; US
Renal Data System 2010 Annual Data Report, Am J Kidney Dis, 57
(Suppl 1), pp. 1-526.
(2) Go A.S., Chertow G.M., Fan D., McCulloch C.E., Hsu C.Y. (2005), Chronic kidney disease and the risks of death, cardiovascular events, and
hospitalization, N Engl J Med, 351, pp. 1296-305.
(3) Sarnak M.J., Levey A.S., Schoolwerth A.C. et al. (2003), Kidney disease as a risk factor for development of cardiovascular disease: a sta-
dal medico di medicina generale per una lunghissima parte della storia naturale della
MRC.
Il ruolo del territorio
Per ultimo, quale messaggio
può inviare un nefrologo al
territorio? Io credo un messaggio allo stesso tempo
d’aiuto e collaborazione. Di
aiuto, perché la strategia dell’attesa della MRC nei suoi
stadi evoluti risulta sempre
meno sostenibile; l’aumento
della cronicità che giunge all’ospedale, infatti, sempre più
difficilmente gestibile da un
punto di vista sia clinico sia
in termini di politica sanitaria che deve allocare ingenti
risorse economiche a terapie
costose ed impegnative. Nello
stesso tempo non è neppure
ipotizzabile che gli specialisti
delle malattie renali, pochi
numericamente ed impegnati
nella gestione ospedaliera
complessa della patologia nefrologica grave, nella realtà
dell’ospedale per acuti ed organizzato per intensità di cu-
tement from the American Heart Association Councils on Kidney in Cardiovascular Disease, High Blood Pressure Research, Clinical Cardiology,
and Epidemiology and Prevention. Circulation, 108 (17), pp. 2154-69.
(4) Guidelines for the Management of Arterial Hypertension (2007),
The Task Force for the Management of Arterial Hypertension of the European Society of Hypertension (ESH) and of the EuropeanSociety of
Cardiology (ESC), Journal of Hypertension, 25, pp. 1105-87.
(5) Van der Velde M., Matsushita K., Coresh J. et al. (2011), Lower estimated glomerular filtration rate and higher albuminuria are associated
with all-cause and cardiovascular mortality. A collaborative metaanalysis of high-risk population cohorts, Kidney Int, 79, pp. 1341-52.
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Massimiliano Zonza
Dottorando di ricerca presso
l’insegnamento di Storia
della medicina, Università
degli studi di Firenze
L
a continuità delle cure è
un argomento affrontato da diversi punti di vista nelle riflessioni sull’umanizzazione della medicina1 ed
è un tema che investe direttamente l’articolazione dei
servizi sanitari, in quanto va
ad inserirsi in quel delicato
punto di congiunzione che è
il rapporto tra ospedale e territorio, o meglio, tra servizi
sanitari ospedalieri, servizi
sanitari territoriali e servizi
sociali, variamente articolati.
Il focus principale delle discussioni sull’argomento, tuttavia, si concentra in gran
parte sulle comunicazioni
che esistono, in una prospettiva di continuità clinica, tra
i vari attori delle cure, sui loro complessi rapporti, sui miglioramenti ottenibili. Si
tratta di contributi notevoli,
assai importanti e dei quali,
in ogni caso, bisogna tener
conto nell’inquadramento del
problema.
Il punto di vista che tuttavia
vorrei tematizzare, la lente
attraverso la quale guardare il
problema, è quello delle Medical Humanties, in particolar
modo della medicina narrativa
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La prospettiva delle
Medical Humanities
e dell’Educazione terapeutica
del paziente (ETP).
La medicina narrativa permette, infatti, di focalizzare la
centralità del paziente all’interno del percorso di cura, come riferimento assoluto attorno al quale dovrebbero ruotare i diversi interessi, ma, allo
stesso tempo, valuta l’apporto
fornito dai diversi attori che
contribuiscono a realizzare il
percorso di cura, autori di narrazioni (della cura) e, spesso,
di contro-narrazioni2.
In questa prospettiva, è stato
più volte sottolineato il carente o scarso collegamento
informativo esistente tra la
rete dei servizi ospedalieri e
quella dei servizi territoriali.
Lo scambio informativo è
spesso limitato nel contenuto
(poche le informazioni trasmesse alla rete territoriale e
a volte non della qualità auspicata) e nella forma (quasi
sempre condensata, specialmente nei casi di malattie
croniche in una lettera/relazione che presenta molti elementi predefiniti). Al di là dei
limiti dello strumento, è tuttavia da rimarcare come il
problema rimandi anche ad
La ricostruzione del percorso di malattia
del paziente attraverso strategie
e competenze diverse
una differenza sostanziale di
impostazione professionale,
che rende il dialogo difficile.
Il personale ospedaliero, infatti, è abituato a lavorare in
situazioni di acuzie, con tempi ristretti ma con un’abitudine più spiccata al lavoro multidisciplinare e d’équipe, concentrando i propri interventi
nella struttura ospedaliera.
Anche il personale delle reti
territoriali, in particolar modo
la medicina generale, sta riorganizzando il proprio lavoro,
da individuale a medicina di
gruppo (équipe territoriale),
al fine di rispondere in maniera più appropriata ai bisogni
dei pazienti, in particolare di
quelli cronici, sia in condizioni di routine che dopo una dimissione ospedaliera.
Inoltre, sempre di più, anche
in virtù di scelte non provenienti dal mondo sanitario,
ma di stretta derivazione politica, la struttura ospedalie-
ra tende a contrarre la durata
dei ricoveri, aumentando il
carico di lavoro e di problemi
per i servizi territoriali.
Il secondo grande gruppo di
criticità è dato dal non ancora
ottimale funzionamento delle
attività di assistenza domiciliare integrata. Le attività di
assistenza domiciliare non risultano infatti di attivazione
omogenea e sono inoltre presenti molteplici differenze
nella composizione dei gruppi
di lavoro. Spesso, inoltre, le
competenze di carattere medico sono nuovamente rimandate alla medicina generale
che, già oberata di lavoro e
costretta a dotarsi di sempre
nuove competenze, anche di
tipo giuridico/normativo,
non può che andare in affanno di fronte al carico di lavoro
che la dimensione odierna
della continuità delle cure
propone. Non sono inoltre
previste, o solo occasional-
Per un sintetico panorama si può vedere l’agile libretto di Simeoni, De Santi, Comunicazione in Medicina, Torino 2009.
Per una definizione del concetto di contro-narrazione, ovvero di come in una relazione narrativa non condivisa gli interlocutori producano narrazioni divergenti che, di fatto, influiscono negativamente sull’accordo e sull’agire cooperativo si veda G. Bert, Medicina narrativa.
1
2
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mente, figure professionali
che operino nelle attività di
supporto e collegamento e
che possano contribuire alla
“presa in carico globale”. Il risultato che spesso si osserva è
che il paziente, all’atto della
dimissione, si trova di fronte
ad un vero e proprio percorso
ad ostacoli, che rende la dimensione esistenziale della
malattia ancora più dolorosa.
Un altro problema è, talvolta,
lo scollamento degli interventi, tra il ramo sanitario e
quello dei servizi sociali, con
una sottovalutazione ed una
sottoutilizzazione delle stesse possibilità offerte dal territorio. Gli operatori sanitari,
infatti, tendono a conoscere
poco le realtà non immediatamente riconducibili al proprio ambito, anche quando si
tratta di risorse importanti
per la costruzione di un progetto di cura in continuità.
In alcuni casi sarebbe possibile attivare dei servizi di assistenza domiciliare o di supporto, ad integrazione delle
risorse della rete sanitaria, o
coinvolgere attivamente il
volontariato e il terzo settore. Spesso, inoltre, alla malattia si accompagnano, o addirittura è la stessa malattia
a crearli, molteplici fattori di
disagio sociale, che non riguardano solo l’ambito clinico, ma che, tuttavia, ad esso
sono profondamente legati.
Queste possibilità e queste risorse, tuttavia, andrebbero,
invece, attivate e coordinate
in un unico progetto di cura,
là dove la competenza è e de-
ve rimanere di stretto ambito
sanitario, ma con ampia
apertura ai servizi sociali del
territorio.
Terzo gruppo di problematiche è quello rappresentato
dalle risorse, materiali ed immateriali, dei protocolli e delle procedure insistenti nell’ambito della continuità delle cure. Se è evidente che un
lavoro, che risulti efficace
sulla continuità delle cure,
porta con sé anche la necessità di reperire nuove risorse
materiali, mi preme rimarcare
gli aspetti relativi alle risorse
immateriali, quelli, cioè, legati all’attivazione di procedure e protocolli, che rendano possibile e favoriscano lo
scambio comunicativo, l’interazione e la collaborazione
multidisciplinare tra diversi
gruppi di lavoro.
Rispetto a questa galassia di
problemi, che risposte possono offrire le Medical Humanities, la medicina umanistica?
Un possibile contributo delle
Humantities si può articolare
attraverso tre percorsi, intimamente legati.
La medicina narrativa, col
suo approccio peculiare, che
pone attenzione al vissuto di
malattia del paziente, è una
strada importante. La parcellizzazione e separatezza degli
interventi, che, come abbiamo visto, costituiscono uno
dei nodi problematici della
continuità clinica, producono
infatti sicuramente una prima vittima: la storia, il vissuto di malattia del paziente.
Affidato e condiviso con il
generando una serie di problemi ben noti.
L’ambizione è, però, ancora
più alta, nel momento in cui
la compliance dovesse essere
sostituita dalla concordance,
dalla condivisione, cioè, dell’intero percorso di cura, come massimo segno della continuità.
La medicina narrativa diventa, quindi, un ponte che permette di costruire, di ricostruire, quell’alleanza nella fiducia, che deve rimanere la
pietra angolare di ogni rapporto terapeutico. Una narrazione può diventare anche
una narrazione collettiva, con
uno sforzo ermeneutico che
coinvolge, oltre al paziente, i
diversi operatori della cura
(ospedalieri, territoriali, di
supporto) che, a vario titolo,
si trovano ad interagire con la
sua cura e ad entrare con forza dentro la sua vita.
Ma la medicina narrativa offre anche la possibilità di rinsaldare un’altra relazione significante: quella tra i curanti, tra questi e gli altri operatori sanitari. Anche loro, infatti, nella loro interazione
relazionale, costruiscono narrazioni. La loro relazione professionale è anche e soprattutto un intrecciarsi di narrazioni. Come abbiamo visto, la
continuità delle cure ci pone
di fronte, soprattutto, a narrazioni che non si intrecciano, che non si co-costruiscono, che non si interpretano
reciprocamente. Questo causa, anche nelle relazioni professionali, la costruzione di
180
medico di famiglia, rinarrato
con difficoltà, quando è possibile, con le équipe ospedaliere, questo vissuto si frantuma, si parcellizza e viene
persa di vista la Illness3, come oggetto principale.
Indifferenti alla Illness, faticosa da comprendere e co-costruire, gli operatori si concentrano spesso sulle determinazioni del Disease, che
meglio si presta ad una frantumazione degli interventi
clinici. Recuperare o attivare,
quando questo non fosse stato attivato precedentemente,
un approccio e una attitudine
narrativa negli operatori indica, innanzitutto, la strada
verso la comprensione. Comprensione del paziente, della
sua storia, di come convive
con la malattia e di come la
malattia vive con lui, di come, quindi, il progetto di cura può costruirsi con lui, con
la sua storia, con la storia dei
suoi familiari e del suo contesto di vita. Questa comprensione è il ponte che creiamo,
narrativamente, tra le varie
determinazioni della malattia
e della cura che, sebbene
molteplici e differenti, debbono e possono trovare una
sintesi, che prima è narrativa
e, in quanto narrativa, diventa anche clinica. Per ogni
narrazione non co-costruita,
non co-narrata, non compresa, scaturisce il fiorire di contro-narrazioni, divergenti dal
punto di incontro dato dalla
cura, contro-narrazioni che
portano il paziente a sottrarsi
alla compliance con i curanti,
Illness è il termine usato per indicare il “vissuto di malattia” del paziente, contrapposta al Disease, che indica la malattia intesa unicamente come
evento biologico.
3
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contro-narrazioni, che generano disconoscimento, collaborazioni complicate e frustranti, isolamento. La costituzione di un approccio narrativo comune, attraverso una
prassi di supervisione4 condivisa dai vari gruppi di lavoro,
prima al loro interno e poi,
successivamente, tra gruppi
di lavoro diversi, è sicuramente un buon viatico per il superamento delle divisioni,
delle fratture e delle azioni
monadiche oggi presenti nell’orizzonte delle cure.
Questo approccio, che si riflette anche nella metodologia educativa del team learning, potrà e dovrà, a sua
volta, sostanziarsi in modalità processuali e metodologiche per permettere la comprensione e condivisione tra
curanti, spesso impegnati in
momenti clinici diversi tra di
loro, ma che possono trovare
un terreno comune di confronto e scambio.
Il secondo percorso, proposto
dalla medicina umanistica,
strettamente conseguente da
quanto appena richiamato,
risiede nel concetto di “presa
in carico globale”: è, questo,
un concetto guida, un “ideale
regolativo”, che orienta le
azioni dei diversi operatori e
che ha quindi anche una valenza etica, deontologica. Il
concetto di “presa in carico
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globale” ricorda la lezione
della medicina narrativa, che,
sebbene le azioni e gli attori
terapeutici possano essere diversi, il paziente, con la sua
storia di malattia, con il suo
vissuto, con i suoi bisogni, è
unico. Vi è quindi la necessità di disegnare un unico
percorso, un’unica via terapeutica nella quale raccogliere i contributi di tutti. È auspicabile che il paziente, al di
là della diversità degli interventi e degli operatori, senta
costruirsi attorno a sé un’unica presa in carico, sintetica e
sistematica, che si sostanzi
poi nei vari interventi specifici che vengono effettuati.
Questa sistematicità, questa
unitarietà di intenti permette di superare la parcellizzazione degli interventi, la suddivisione tra ospedale e territorio, tra le aree di cronicità e
di intervento intensivo. Gli
atti clinici, nei loro aspetti
necessariamente diversi, per
approccio e intensità, sono
tutti parte di un’unica “presa
in carico”. La “presa in carico
globale” è quindi un concetto, un’idea regolativa, che,
però, ha anche bisogno di
operatività: protocolli, procedure, momenti di incontro e
condivisione rappresentano
sicuramente la cornice necessaria, il contesto nel quale va
a realizzarsi il momento di
sintesi. Sarebbe inoltre interessante che la presa in carico
globale trovasse, dentro le
varie unità operative, personale specificatamente formato, che presidiasse la presa in
carico del paziente e che, all’interno dei vari processi e
protocolli, agisse come collante tra i vari gruppi e momenti di cura, capace di porsi, attraverso il dialogo, come
punto di riferimento nell’accoglienza e nell’orientamento
per i pazienti stessi 5. Il realizzarsi di questi due momenti, la parte procedurale e organizzativa e quella delle risorse umane specificatamente formate e dedicate, significa sicuramente fare un passo
avanti significativo nel garantire una continuità di cure
in linea con le aspettative di
adeguatezza clinica e attenzione umana che i pazienti
richiedono.
Infine, ma non ultima, la terza via, quella dell’Educazione
terapeutica del paziente6, che
dà concretezza all’idea di
ponte tra le diverse anime
della cura, in quanto rappresenta un legame ideale tra il
momento di cura critico e l’area della cronicità. Principio
ispiratore dell’Educazione terapeutica è il paziente competente, competente soprattutto nelle sue capacità di
prendersi cura della sua ma-
lattia, di effettuare operazioni terapeutiche essenziali, di
regolare stili di vita e abitudini in funzione della malattia,
di riconoscere adeguatamente
i segnali di allarme. L’ETP ci
dà quindi la possibilità di avere un paziente che ricorre in
maniera adeguata ai servizi
sanitari, esercitando la dovuta vigilanza sulla sua salute.
L’ETP permette quindi di avere paziente cronici7 in grado
di “pesare” meno sul sistema
sanitario, garantendo, nel
contempo, livelli elevati nella
qualità di vita. Recenti studi
hanno inoltre evidenziato come i pazienti sottoposti a programmi formali di ETP mostrino una aderenza decisamente
più elevata rispetto alla norma. Condizione essenziale
perché questo accada è dunque la realizzazione di programmi specifici e formali di
ETP, che non possono però
prescindere da una forte alleanza terapeutica tra curanti
e pazienti, alleanza che può
essere garantita dall’approccio narrativo.
In questa prospettiva, le strategie offerte dalle Medical
Humanities rappresentano sicuramente una possibilità da
percorrere, una chance di
umanizzazione dell’efficienza
che, negli attuali contesti di
crisi, non può non essere
sfruttata.
Per supervisione in questa sede non si intende un momento di controllo, di coordinamento, ma una pratica costante e sistematica di confronto e
condivisione dei vissuti clinici e delle narrazioni. Questo momento, oltre ad avere una indubbia valenza relazionale e di costruzione del gruppo negli intendimenti della medicina narrativa, ha anche una valenza epistemica e cognitiva non indifferente.
5 Sto qui pensando alla lunga tradizione di orientamento del counseling, che infatti tanto ha dato al patrimonio esperienziale della medicina narrativa.
6 Per una trattazione essenziale dell’Educazione terapeutica del paziente si può vedere M.G. Albano (a cura di), Educazione terapeutica del paziente. Riflessioni modelli e ricerca, Milano 2010.
7 L’ETP è nata con l’esperienza maturata con alcune malattie croniche quali il diabete.
4
13Coletta-Novelli 182:Layout 1
Sae l ute
Territorio
182
David Coletta1
Benedetta Novelli2
Giulia Vannini1
Roberto Tarquini1
1 Dipartimento interaziendale
di formazione per la continuità
nell’assistenza - Area vasta
centro
2 Dipartimento Agenzia per
la formazione AUSL11 di Empoli
N
el corso degli ultimi
anni la continuità assistenziale ha cessato di
essere un’opzione, un’idea
progettuale ed è diventata
una necessità.
Alla base di questo ci sono
stati cambiamenti epidemiologici, sociali, culturali ed
economici che hanno aumentato la complessità dell’assistenza e le correlate situazioni di intervento a fronte di
un cambiamento della struttura delle famiglie che con
sempre più difficoltà sono in
grado di prendersi carico dell’assistito.
Si tratta di bisogni il cui carattere principale frequentemente non è sanitario (o
schiettamente sanitario), ma
una somma di esigenze personali e ambientali di fronte
alle quali cresce la difficoltà
di trovare modalità adeguate
di risposta da parte del sistema sanitario.
Diventa quindi indispensabile
pensare ad una riorganizzazione dei servizi adeguata ai
nuovi bisogni di salute, più
orientata alla presa in carico
della persona, all’ascolto del
problema e all’accompagnamento, utilizzando percorsi
che coinvolgano i vari professionisti e i vari livelli assistenziali, finalizzati al mi-
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La gestione della continuità
N. 186 - 2011
Modelli, percorsi,
esperienze
glioramento dello stato di salute e non solo alla risoluzione dello specifico problema
clinico espresso, che rimane
comunque fondamentale e la
cui gestione deve essere fatta
con i criteri della continuità.
In definitiva, si tratta di passare dal concetto di sanità a
quello di salute.
Una delle modalità per rispondere alle esigenze descritte è stata l’organizzazione a due poli ospedale e territorio, dando al territorio
compiti e funzioni sempre
crescenti: medici di medicina
generale, medici di comunità,
specialisti, infermieri del territorio, assistenza domiciliare
integrata, assistenza domiciliare programmata, residenze
sanitarie assistite.
Questo modello organizzativo
ha dimostrato ampie zone di
carenza anche perché il concetto di integrazione, su cui
si basa questa modalità organizzativa, porta in sé un errore di fondo: possono essere
integrate le procedure ed i
progetti ma le azioni non sono integrabili pertanto questo concetto deve essere associato a quello di cooperazione. Ospedale e territorio
sulla base di progetti condivisi devono mettere in atto
azioni cooperanti e coerenti
La continuità: moda, utopia
o inevitabile strumento per il futuro?
come risposta ai bisogni di
salute del cittadino.
In ambito ospedaliero questo
quadro evolve attraverso due
fasi:
– La nascita di un polo ospedaliero ad alto livello interventistico e la scelta di
aggregare e rafforzare funzioni quali il Pronto soccorso, la medicina critica,
le competenze chirurgiche, ed altre che necessitano di alti livelli tecnologici per i momenti di acuzie della patologia.
– L’evoluzione dei presidi
periferici in strutture finalizzate a funzioni specifiche, più correlate con il
territorio e più rispondenti
ai problemi della cronicità
come del resto previsto dal
nuovo PSSIR. Questi ospedali possono svolgere un
ruolo molto importante
operando con i criteri della
continuità; la mancanza
dell’assillo di un turn over
esasperato può permettere
una maggiore stabilizzazione del paziente che, come la letteratura ci insegna, è anche generalmente
più duratura permettendo
di ridurre il numero dei
nuovi ricoveri. Queste
strutture, grazie al rapporto privilegiato e costante
con il territorio, possono
garantire una maggiore attenzione e sorveglianza
sull’aderenza terapeutica e
una ottimizzazione della
presa in carico dei bisogni
sanitari e sociali.
Al momento l’unica struttura
nata con questa mission è l’Ospedale di continuità Santa
Verdiana di Castelfiorentino
inserito nel Dipartimento interaziendale di formazione
per la continuità dell’assistenza dell’Area vasta centro.
In questa sede sono già operativi gli elementi sopra citati
e, seppure in fase di crescita
e di miglioramento, si possono già toccare con mano i benefici apportati dalla stretta
cooperazione tra chi opera
nell’ospedale di continuità e
chi opera nel territorio dove
si integrano gli approcci
ospedalieri e quelli territoriali, con l’indispensabile supporto dell’Università degli
studi di Firenze per quanto
13Coletta-Novelli 182:Layout 1
20-07-2011
N. 186 - 2011
attiene ricerca e formazione.
Questo tipo di struttura costituisce un livello di assistenza ospedaliera con maggior peso assistenziale e minor intensità clinica, più adeguata al target dei malati cronici, attraverso la definizione
di moduli specifici con una
maggior presenza infermieristica, un collegamento preferenziale con il territorio
(punto unico ADI) e uno
stretto legame con il servizio
sociale.
Le nuove strutture dovrebbero prevedere la possibilità di
ricovero ordinario, laddove
siano possibili moduli di lungodegenza per pazienti in coma o con ventilazione assistita e servizi ambulatoriali e di
day service, ricercando una
sempre maggiore cooperazione in sinergia di azioni tra i
diversi attori dei percorsi assistenziali. Sarebbe auspicabile che i pazienti oncologici
in palliazione potessero essere accolti in strutture dedicate (hospice) preferibilmente
situate nella stessa sede o in
prossimità dell’Ospedale di
continuità.
Questo nuovo modello diventa elemento centrale dell’e-
10:00
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Sae l ute
La gestione della continuità
Territorio 183
quilibrio della continuità dell’assistenza perché a questa
affluiscono direttamente diverse figure professionali del
territorio allo scopo di portare esperienze, conoscenza
delle specifiche situazioni e
vivere sul campo il lavoro
multiprofessionale condiviso.
In questo modo si realizza
una sorta di linea di confine
che prende atto con maggiore
conoscenza di certe realtà, le
studia e le rende adattabili
all’utilizzo nel territorio in
senso stretto. Un sistema,
quindi, che si prende carico e
risolve problemi reali, li studia, li elabora e standardizza.
La capacità di ricerca dell’ospedale di continuità sta nell’individuare e produrre modelli, percorsi e protocolli appropriati di assistenza sul
territorio, incrementando al
massimo i rapporti interprofessionali e creando “intranet” multiprofessionali.
Un altro aspetto importante è
che questa struttura ospedaliera può direttamente affrontare, da un punto di vista
diagnostico-terapeutico, problemi e patologie che il medico di medicina generale, anche se organizzato in struttu-
re avanzate, non è in grado di
risolvere.
L’affrontare il problema della
cronicità necessita la condivisione, la cooperazione e la
sinergia di azioni avendo a
disposizione una serie di opzioni importanti e indispensabili, patrimonio dell’ospedale di continuità, che sono
più difficili da realizzare nell’ospedale organizzato per intensità di cura.
Ne conseguono, quindi, molteplici cambiamenti nelle modalità con cui i professionisti
svolgono la loro attività e in
particolare nella presa in carico dei pazienti e dei rapporti con i loro familiari; si passa
da una relazione bidirezionale a una interattiva tra gli attori del sistema.
L’aderenza alla terapia è un
esempio del percorso ininterrotto della continuità in
quanto la stessa rappresenta
un importante indicatore di
qualità di assistenza.
Conclusioni
Considerati i cambiamenti in
atto, non abbiamo esigenza
di nuove riforme del sistema
sociosanitario ma di rafforzare la cooperazione tra gli at-
tori dell’assistenza e la sinergia tra le diverse strutture.
La sperimentazione regionale
dell’Ospedale di formazione
per la continuità Santa Verdiana di Castelfiorentino ha anticipato e realizzato il cambiamento e rappresenta senz’altro un punto di partenza e di
riferimento per i professionisti
che vogliono intraprendere
questo tipo di percorso. La
forza e la novità di questa sperimentazione sono sostenute
anche dalla compartecipazione istituzionale dell’Università
degli studi di Firenze, dell’Azienda ospedaliero-universitaria Careggi e dell’Azienda USL
11 di Empoli.
Come scrive Yokai Benkler
nel libro The wealth of
networks “le condizioni materiali della produzione in
un’economia dell’informazione in rete sono cambiate in
modo da favorire l’importanza del social sharing e dello
scambio come modalità di
produzioni economiche…”.
La continuità diventa spazio
dello scambio dei saperi per
accelerare i processi innovativi a tutti i livelli e migliorare la qualità di cura per il paziente e i familiari.
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La gestione della continuità
N. 186 - 2011
L’ospedale di continuità
Roberto Tarquini1, David Coletta1, Silvia Dolenti1, Alice Valoriani1, Nedo Mennuti2, Gian Franco Gensini3
1
Dipartimento interaziendale di formazione per la continuità assistenziale
Direzione AUSL 11 Empoli
3 Dipartimento Cuore e vasi - Università degli studi di Firenze
2
T
re sono le motivazioni,
strettamente connesse
l’una alle altre, per le
quali è nato l’ospedale di
continuità, quale concreta e
innovativa risposta ai modificati bisogni di salute.
Innanzitutto i dati epidemiologici toscani (analogamente
a quanto si verifica in tutta
Italia) evidenziano un progressivo aumento della durata della vita media, accompagnato da un invecchiamento
della popolazione, sempre
più colpita da patologie correlate con l’età. La Toscana
presenta l’indice di vecchiaia
tra i più elevati del mondo
con 192 ultrasessantacinquenni ogni 100 giovani di
età inferiore ai 15 anni. Questo fenomeno si associa ad un
aumento della prevalenza
delle malattie croniche: è stato infatti stimato che, in Toscana, i pazienti con più di
65 anni affetti da BPCO siano
circa 100.000, quelli con
scompenso cardiaco cronico
circa 55.000 e i pazienti anziani con multimorbidità affetti da più di 3 patologie sono circa il 9% (cioè circa
70000 persone). Una popolazione costituita prevalentemente da anziani con pluripatologia presenta bisogni di
salute il cui carattere principale frequentemente non è
solo sanitario (o schiettamente sanitario), ma la somma di esigenze personali e familiari, di assistenza e di collocazione ambientale di fronte alle quali cresce la difficoltà di trovare modalità adeguate di risposta da parte dei
servizi.
Mentre il modello assistenziale ospedaliero è sempre più rivolto alla gestione delle acuzie, il territorio si trova a lavorare nelle fasi di post-acuzie e di cronicità che rappresentano la parte più consistente del bisogno di salute
dei cittadini e che fa del territorio stesso l’obbiettivo di un
potenziamento di risorse da
parte del Piano sanitario in
vigore e soprattutto, probabilmente, di quello in corso di
stesura. La collaborazione tra
questi due modelli rimane
tuttora scarsa (o addirittura
inesistente) tanto che i pazienti cronici presentano
troppo spesso un numero elevato (crescente!) di accessi al
Pronto soccorso e riammissioni in ospedale maturando
progressivamente la percezione/convinzione di “sentirsi
non curati”(1) o perlomeno
“malcurati “. L’analisi di questa mancanza di integrazione
tra ospedale e territorio si appalesa particolarmente in certi passaggi critici che gli an-
Le ragioni e i risultati di un’esperienza
innovativa che collega ospedale e territorio
glosassoni definiscono transition, un piccolo transito di
cui il più importante è
senz’altro il passaggio tra la
degenza in ospedale e il rientro a casa; tuttavia il termine
si riferisce a moltissime altre
situazioni in cui il paziente è
oggetto di qualche cambiamento.
Più specificatamente il passaggio del paziente da un medico all’altro, da un reparto
ad un altro dello stesso ospedale (ad esempio terapia intensiva-degenza ordinaria) o
tra ospedali diversi (es medicina interna-struttura di riabilitazione) (2). Tutti questi
momenti possono rappresentare delle criticità, qualora si
verifichino in assenza di un
adeguato trasferimento di
informazioni tra i sanitari e
tra sanitari e malati e loro familiari. Se non adeguatamente informato sulle caratteristiche di una struttura, le sue
dotazioni di personale e di
tecnologia, un paziente che
viene trasferito ad esempio
dalla terapia intensiva ad una
degenza ordinaria, può percepire l’assistenza medica e
infermieristica di quella
struttura come inadeguata,
in quanto di intensità inferiore al reparto di provenienza. In un certo senso vengono deluse delle aspettative e
questo non contribuisce alla
costruzione di quell’alleanza
medico-paziente-famiglia,
che è condizione essenziale
per un buon percorso assistenziale e la soddisfazione di
utenti e operatori.
La criticità della dimissione
ospedaliera tuttavia è una
problematica che non riguarda soltanto il sistema sanitario italiano. Negli Stati Uniti
vi sono ogni anno più di 40
milioni di dimissioni dall’ospedale senza informazioni
tempestive ed affidabili (relazione di degenza), con conseguente sensibile incremento
dei rischi di scarsa aderenza
alla terapia, complicanze da
inopportuna sospensione dei
farmaci, precoci ed evitabili
riammissioni (2). Difatti, negli Stati Uniti ben il 19.6%
dei pazienti viene nuovamente ricoverato nei primi 30
giorni dalla dimissione e tra
le varie cause di riammissioni
evitabili vi è la mancanza di
follow-up. Questo fenomeno
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N. 186 - 2011
ha assunto proporzioni tali
che a partire dell’ottobre
2012 l’USA’s Federal Medicare
System penalizzerà gli ospedali con una percentuale di
riammissioni a 30 giorni superiore a quella attesa. La
lettera di dimissione costituisce nella pratica clinica lo
strumento che dovrebbe “istituire, consolidare” il legame
ospedale-territorio potendo
influenzare, in modo positivo
o negativo, l’aderenza alla terapia e, conseguentemente, il
numero di nuovi ricoveri per
la stessa diagnosi. Sebbene la
letteratura disponibile a proposito è scarsa e frammentaria, sostenuta da studi effettuati per lo più in realtà organizzativo-sanitarie diverse
dall’Italia, da una recente revisione delle evidenze è
emerso che la comunicazione
diretta tra medico ospedaliero e medico di famiglia si verifica poco frequentemente
(3%-20%) e il medico di famiglia si trova a “proseguire” le
cure, senza aver ricevuto tutti gli elementi potenzialmente utili. Inoltre le lettere di
dimissione sono spesso prive
di informazioni importanti ai
fini clinici, quali i risultati di
test diagnostici (che mancano dal 33 al 63% dei casi), la
terapia somministrata o note
sul decorso ospedaliero (carenti dal 7 al 22%) e la terapia alla dimissione (dal 2 al
40%). Il follow-up consigliato
manca in una elevata percentuale di casi (dal 2 al 43%).
Evidenze più recenti hanno
documentato che all’incompletezza della lettera di dimissione si associano una più
bassa qualità di cure e sfavorevoli eventi clinici. Difatti,
in uno studio di Moore et al.
11:35
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La gestione della continuità
Territorio 185
(3) è emerso che errori nel
“trasferimento delle informazioni” al momento della dimissione si verificavano in
una elevata percentuale di
pazienti (fino al 50% dei casi)
e si associavano ad una aumentata incidenza di riammissioni.Van Walraven et al
(4) hanno documentato che il
rischio di riammissione era
molto più elevato per quei
pazienti che venivano seguiti
da medici ai quali non era
stata consegnata una lettera
di dimissione. Roy et al (5)
hanno osservato come il 40%
dei pazienti, al momento della dimissione, devono ancora
ricevere i risultati di esami
effettuati durante il ricovero,
risultati che spesso non vengono comunicati ma che, nel
10% dei casi, richiederebbe
un provvedimento successivo. Infine, come recentemente descritto, i pazienti sono
particolarmente esposti ad
errori medici nei giorni immediatamente successivi alla
dimissione. Il 49% dei pazienti dimessi da ospedali è
vittima di almeno un errore
nei giorni successivi alla dimissione stessa, errore che riguarda più spesso la terapia.
Circa il 19-23% dei pazienti
presenta dopo la dimissione
effetti collaterali dei farmaci,
effetti che potevano essere
prevenuti da una più accurata e corretta comunicazione.
Sulla base di queste evidenze,
il Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations (JCAHO) (6) ha stabilito che la lettera di dimissione deve essere completata
entro 30 giorni dalla dimissione e che deve comprendere
“la causa del ricovero, gli elementi significativi emersi du-
rante la degenza, le procedure e i test diagnostici effettuati, la terapia somministrata, la descrizione delle condizioni del paziente alla dimissione, la terapia consigliata e
le informazioni fornite al paziente e alla famiglia”.
L’ospedale per la continuità
L’ospedale per la continuità
nasce nel gennaio 2010 al
Santa Verdiana di Castelfiorentino dall’intesa tra la Regione Toscana, l’Università di
Firenze e l’AUSL 11 con la
precisa volontà/esigenza di
colmare una frattura tra il
momento ospedaliero specialistico e quello della medicina
generale, in una realtà territoriale in cui questo ospedale
sarebbe stato destinato alla
chiusura con l’inizio dell’attività del nuovo Ospedale San
Giuseppe di Empoli. Le istituzioni in questione, hanno così formalizzato un progetto
che ha consentito non solo di
non chiudere la struttura, ma
di rilanciarla, arricchendola
di nuove professionalità e facendone un modello di lavoro
da esportare in caso di un
buon esito dei risultati.
Il principio informatore dell’organizzazione del lavoro al
Santa Verdiana è che la medicina moderna non può più basarsi sul lavoro del singolo
professionista, che, in scienza
e coscienza, è l’unico responsabile della salute del proprio
assistito: sia in ospedale che
sul territorio i problemi sanitari della popolazione possono essere efficacemente affrontati e gestiti solo da un
team che unisca competenze
professionali diverse.
Il Santa Verdiana rappresenta
nei fatti un’unica struttura in
cui i due modelli di medicina
(quello della medicina generale e quello della medicina
specialistico-ospedaliera) si
fondono in modo da utilizzare gli elementi più funzionali
di ambedue.
Il lavoro dell’ospedale di continuità è coordinato dal sinergismo tra il docente universitario ed il medico della medicina generale, sinergismo grazie al quale è possibile esprimere la continuità assistenziale nei suoi principali aspetti:
a) mediante l’instaurazione e
quindi l’implementazione
di un dialogo costruttivo
tra il medico della struttura e il MMG;
b) facilitando la comunicazione tra ospedale e territorio (soprattutto nei momenti critici dell’ammissione e della dimissione);
c) mediante la condivisione
dei percorsi diagnosticoassistenziali (con la possibilità di ricovero diretto
dal territorio);
costituendo un centro formativo per le figure professionali coinvolte nel processo assistenziale (medici e infermieri, studenti per le lauree di I e
II livello di area sociosanitaria, medici specializzandi e
tirocinanti per la medicina
generale). L’Università degli
studi di Firenze coordina
questo nuovo modello formativo aprendosi, da un lato, alla medicina generale e, dall’altro, riaffermando il ruolo
centrale della medicina interna. Il ruolo dell’università è,
nella pratica quotidiana,
quello di organizzare i momenti formativi per il personale sanitario del Santa Verdiana, per gli operatori delle
altre aziende (nell’ambito
14Tarquini… 184:Layout 1
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Territorio
186
della “continuità di cure”) e
nell’organizzare l’ attività di
ricerca. Quest’ultima ha come
finalità primaria quella della
raccolta e di sistematizzare
tutti gli elementi che permettano di esportare l’ospedale
per la continuità in altre
realtà sanitarie.
Dal punto di vista assistenziale l’attività del Santa Verdiana è così organizzata:
– Medicina di continuità (38
posti letto): per i malati
con problemi cronici riacutizzati o anche acuti, e
complessi ma con basso
grado di criticità.
– Long term care (10 posti
letto): per malati con gravi
problemi neurologici, con
o senza tracheotomia e
ventilazione assistita.
Nel marzo 2010 è iniziata anche l’attività del day service,
con l’obiettivo di organizzare
in percorsi le prestazioni specialistiche e diagnostiche indispensabili a chiarire un
dubbio diagnostico complesso, riducendo al minimo gli
accessi dell’ammalato ai servizi e garantendo la relazione
fra il medico curante e gli
specialisti coinvolti. Ad oggi
il day service è attivo 2 volte
alla settimana. Al day service
si accede su richiesta del
MMG che contatta tramite
mail o telefonicamente il medico al momento responsabile
del DS, che provvede a fissare
la prima visita.
Tutti i medici dell’organico
ruotano in day service, con
turni di 2 mesi, in modo da
non rendere troppo frammentaria la loro presenza e facendo sì che lo stesso medico
chiuda i casi che ha preso in
carico la prima volta, nei limiti delle possibilità.
10:02
Pagina 186
La gestione della continuità
L’accesso dei pazienti alla
struttura di degenza avviene
attraverso contatto diretto
fra medico curante e medici
dell’ospedale, oppure per trasferimento diretto dal Pronto
soccorso o da altri reparti
ospedalieri (Fig. 1). Le caratteristiche dei pazienti che
possono essere ricoverati al
Santa Verdiana sono quelle di
pazienti complessi, ma con
criticità medio-bassa; questa
viene identificata applicando
uno score internazionale validato che è il Modified Early
Worning Score, MEWS. I pazienti che possono essere ricoverati nella nostra struttura devono avere un MEWS
score < 3, livello che identifica una bassa probabilità di
deterioramento del paziente
nelle 48 ore successive.
Nella Tab. 1 è stata brevemente indicata l’attività di ri-
N. 186 - 2011
Fig. 1
covero, con alcuni elementi
di confronto con l’attività
dello stesso ospedale nell’anno 2009.
Dai dati riportati in Tab. 1
possiamo fare alcune considerazioni:
a) il numero di pazienti ricoverati è stato sovrapponibile a quello dell’anno precedente nonostante la riduzione dei posti letto nel
mese di giugno da 52 a 48,
ma si è osservata una sen-
Tab. 1
Media giorni di degenza
Riepilogo anno 2009
Riepilogo anno 2010
17
13.11
Media età
78
78.7
Degenze < 3 gg
116
19
Numero ingressi continuità
691
697
Ingressi dal domicilio continuità
186
Ingressi Empolese
184
Ingressi Valdarno
107
Ingressi Valdelsa
406
Dimessi a domicilio con ventilazione assistita
1
Lungodegenza ingressi
78
Lungodegenza dimessi a casa
30
Lungodegenza dimessi Ospedale San Miniato
10
Lungodegenza dimessi verso RSA/RSD H24
6
Dimessi continuità verso RSA
21
Dimessi verso “Le Vele” modulo riabilitativo o Alzheimer
19
Segnalazione di fragilità sociale e/o sanitaria (Punto unico ADI)
101
Pazienti in attesa di RSA
0
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sibile riduzione della degenza media e un incremento importante dell’indice di occupazione media
che è passato dal 61,9% del
2009 al 75,3% del 2010.
Anche la provenienza dei
pazienti ricoverati si è modificata, infatti a differenza dell’anno precedente solo il 10,3% si ricovera per
trasferimento dagli altri reparti ospedalieri;
b) è interessante osservare come, nell’ambito di una più
stretta comunicazione
ospedale territorio, circa
un terzo dei pazienti
(186/697, 26.6%) proveniva direttamente dal proprio
domicilio, evitando un passaggio in DEA, che spesso
rappresenta un disagio soprattutto per pazienti anziani nonché un impegno
dei medici che viene sottratto ai pazienti acuti. Si
tratta dei ricoveri su indicazione del MMG, con
MEWS < 3, che in più occasioni sono venuti nella nostra struttura per avere/dare notizie sui propri assistiti e condividere il processo
di cura e di dimissione.
Tuttavia, i contatti tra i
medici dell’ospedale e i colleghi della MG sono stati
garantiti soprattutto dalle
mail (4-5 al giorno) e dai
contatti telefonici (una
media di 8 al giorno). Il sistema è risultato sicuro ed
appropriato, in quanto abbiamo avuto un solo caso di
under-triage tra i pazienti
provenienti dal domicilio,
che è stato prontamente
inviato in DEA, e nessun
caso di over-triage, confermando appunto l’appropriatezza dei ricoveri;
10:02
Pagina 187
Sae l ute
La gestione della continuità
Territorio 187
c) le strutture di lungodegenza dovrebbero avere
uno stretto collegamento
con il territorio, interfacciandosi con i medici di
famiglia e con l’attività distrettuale in grado di organizzare/erogare l’assistenza domiciliare integrata e la presa in carico
presso le residenze socioassistenziali (RSA), in
quanto il ricovero in lungodegenza non dovrebbe
essere un ricovero “a vita”, ma rappresentare un
momento assistenziale
nell’ambito di una malattia cronica. In quest’ottica
sono stati raggiunti buoni
risultati riuscendo a dimettere verso il domicilio
o verso altre strutture il
59% dei ricoverati.
Tipologia di pazienti ricoverati
Vengono ricoverati pazienti
sia nell’immediata fase acuta
che post-acuta per patologie
complesse, multiorgano e/o
con problematiche sociali,
conseguenti ad una fase di
scompenso di una patologia
spesso cronica, al fine di infuenzare positivamente i processi biologici che sottendono il recupero riducendo l’entità della disabilità.
La totalità dei pazienti è stata dimessa con più di due
diagnosi a dimostrazione della multiproblematicità dell’utenza che impone sempre più
una collaborazione tra diverse figure professionali: infermieri, assistenti sociali, medici ospedalieri, medici di
medicina generale, medici di
comunità.
Complessivamente la ricorrenza delle più frequenti pa-
tologie sono state: le malattie cerebro vascolari (222 casi), le malattie cardiovascolari (246 casi), la riacutizzazione di BPCO (70 casi), le infezioni (357 casi), la sindrome
da allettamento (122 casi) e
le neoplasie (133 casi).
Per quanto riguarda l’attività
formativa possiamo così sintetizzare.
Attività formativa su studenti
di Medicina e di Scienze infermieristiche:
Hanno svolto il tirocinio pratico del V anno presso la nostra struttura 15 studenti di
Medicina, uno dei quali ha
poi effettuato anche la settimana opzionale.
Tra gli studenti delle Scienze
infermieristiche il tirocinio è
stato svolto da 24 allievi, 10
invece sono stati gli OSS.L’attività di tesi: 2 studenti del
CdL in Medicina e chirurgia si
sono laureati con tesi sperimentali su argomenti inerenti
la continuità assistenziale,
con dati raccolti presso la nostra struttura. In questo momento, altri 2 studenti del
CdL in Medicina e chirurgia e
1 delle Scienze infermieristiche stanno lavorando alla loro tesi di laurea, sempre con
il Prof. Tarquini come relatore
e il Dr Coletta come controrelatore su argomenti inerenti
il progetto del Dipartimento
interaziendale per la continuità dell’assistenza.
Attività formativa per il personale della struttura:
Abbiamo organizzato per il
personale del Santa Verdiana
tre corsi su argomenti quali:
1. Il lavaggio delle mani e la
prevenzione delle infezioni.
2. Le indicazioni alla ventilazione assistita e la gestione dei ventilatori domiciliari.
3. La prevenzione e il trattamento delle lesioni da
pressione, tutti argomenti
che hanno un forte impatto nella quotidianità lavorativa.
Per quanto riguarda la collaborazione con i MMG, punto
nodale e qualificante del progetto, sono stati fatti molti
incontri con le équipe territoriali e con il gruppo dei referenti di équipe della ASL11.
Nel maggio 2011 abbiamo organizzato il primo Congresso
sulla continuità assistenziale,
al teatro di Castelfiorentino,
con molti relatori provenienti
da fuori azienda (qualcuno
anche internazionale) e soprattutto dall’Azienda ospedaliero-universitaria Careggi.
Il Congresso ha visto un notevole numero di iscritti, sia
tra i medici che tra gli infermieri ed è stato molto ricco
di spunti interessanti e di
scambi di opinione tra i vari
partecipanti, in fase di discussione, che ci ha confermato quanto l’argomento
trattato fosse sentito e di attualità per la maggior parte
degli intervenuti.
In conclusione, il bilancio di
questo primo anno di attività ci appare positivo, anche se molti sono gli aspetti
migliorabili, soprattutto il
coinvolgimento partecipe,
anche con periodi di lavoro
in ospedale, dei medici del
territorio e l’ottimizzazione
dei percorsi di trasferimento
dalle altre strutture, mediante la stesura di protocolli “ad hoc” che riducano al
minimo la carenza di infor-
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La gestione della continuità
mazione tra le strutture e, in
ultima analisi, i rischi per il
paziente.
Nelle conclusioni a noi piacerebbe sottolineare questo: la
medicina che è stata fatta in
quest’anno al Santa Verdiana
è senza dubbio una medicina
nuova che, al di là delle difficoltà intrinseche e dei tanti
aspetti ancora migliorabili,
sembra aver dato risultati
soddisfacenti in termini più
strettamente assistenziali
(degenza media, possibilità
di creare un percorso territoriale per i malati cronici) che
di comunicazione tra i vari
operatori (“in primis” il
MMG, con miglioramento della continuità e della condivisione terapeutica). Il Santa
Verdiana non ha unicamente
caratteristiche di ospedale di
continuità ma è risultato essere in grado di porsi anche
188
Bibliografia
(1) Tarquini R. et al. (2010), La continuità: un nuovo modello, Recenti
Progressi in Medicina, 101 (7-8), pp. 314-9.
(2) Ranjit S. et al. (2011), Improving transitions in inpatient and outpatient care using a paper or a web-based journal, J R Soc Med Sh Rep,
2, p. 6.
(3) Moore C. et al. (2003), Medical errors related to discontinuity of care from an inpatient to an outpatient setting, J Gen Intern Med., 18,
pp. 646-51.
N. 186 - 2011
come riferimento territoriale,
accogliendo e trattando pazienti provenienti dal DEA
con patologie acute/riacutizzate a bassa criticità ma elevata complessità, ma anche
direttamente dai MMG che
trovano nella struttura una
costante collaborazione e
una pronta risposta alle necessità di ricovero o di diagnostica complessa, mediante la degenza o il servizio di
day service. Infine è nostra
convinzione che, grazie ad
una attività formativa continua, che va sicuramente implementata, ma che ha rappresentato una costante della nostra attività e dei nostri
obbiettivi, con il contributo
costruttivo della gran parte
del personale, si siano delineati gli elementi essenziali
per poter esportare questo
modello in altre realtà.
(4) van Walraven C. et al. (2002), Effect of discharge summary availability during post-discharge visits on hospital readmission, J Gen Intern Med.,17, pp. 186-92.
(5) Roy C.L. et al. (2005), Patient safety concerns arising from test results that return after hospital discharge, Ann Intern Med., 143, pp.
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(6) Standard IM.6.10: Hospital Accreditation Standards, Oakbrook Terrace, Ill: Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations, 2006, pp. 338-40.
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Angela Ciarrocchi1
Adriana Tonini1
Paola Pedani1
Sara Marconi1
Fioretta Pratesi2
Monica Bontà2
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Esperienze dal territorio
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Imparare la salute
Promuovere la salute nelle scuole primarie
di primo grado. Un progetto sperimentale
1
UO Educazione alla salute
ASL 7 Siena
2 UO Educazione alla salute
ASL 6 Livorno
C
on l’entrata in vigore
della legge riguardante
l’autonomia scolastica,
la scuola è stata chiamata ad
un ripensamento profondo
delle finalità educative, dei
contenuti e delle modalità
del processo di insegnamento. Tale ripensamento ha riguardato anche gli interventi
per la promozione della salute, ambito di collaborazione
tra istituzioni scolastiche e
servizi di Educazione alla salute delle ASL Toscane.
Su input dell’OMS è stata
messa in atto una notevole
attività formativa sulla metodologia delle life skills, definite come “abilità del comportamento adattivo e positivo che consentono alle persone di rispondere efficacemente alle richieste ed alle sfide
della vita quotidiana”.
Nel tentativo di applicare
concretamente questo metodo, le ASL di Siena e di Livorno hanno collaborato con i
docenti per strutturare un
percorso rivolto agli alunni
della scuola primaria di primo
grado. Questa fascia di età,
infatti, è quella che maggiormente può avvantaggiarsi
delle nuove metodologie basate sul raggiungimento delle
“competenze di vita” prima
che patterns negativi di comportamento e di interazione
diventino stabili.
Uno dei nostri obiettivi è stato quello di aiutare le istituzioni scolastiche a passare da
interventi di promozione della salute centrati sulla figura
dell’esperto (spesso estemporanei, frammentari e non in
grado di fornire continuità
nella relazione) ad altri centrati sulla figura del docente.
L’efficacia dell’intervento preventivo non può prescindere
infatti dalla quotidianità e
dalla vicinanza emotiva tra
educatore ed educando.
La nostra progettazione ha
tenuto conto anche di una ulteriore notevole criticità,
cioè la difficoltà a valutare
l’efficacia degli interventi
realizzati. Per superare ciò il
progetto prevede che ogni
alunno, al termine dell’anno
o del ciclo scolastico, venga
valutato sul grado di acquisizione di ogni competenza
con strumenti facili da utilizzare, immediati e che favoriscano un’autovalutazione.
Tra quelli proposti, un esempio è “l’albero delle regole e
delle competenze”: un albero
di vario materiale costruito
dagli alunni con la collaborazione degli insegnanti, che
può rappresentare il singolo o
tutta la classe; ogni foglia è
una competenza raggiunta
e/o una regola discussa e
condivisa, e con l’aumentare
delle competenze nuove foglie verranno aggiunte.
Abbiamo posto alla base della
nostra progettazione le life
skills identificate dall’OMS
come fondamentali per il processo formativo e trasversali
a tutte le altre, quali: capacità di prendere decisioni, capacità di risolvere i problemi,
pensiero creativo, pensiero
critico, comunicare in modo
efficace, capacità di relazioni
interpersonali, autoconsapevolezza, empatia, gestione
delle emozioni, gestione dello
stress.
Oltre a queste, il gruppo di lavoro formato da operatori ASL
e insegnanti della scuola primaria ha cercato di individuare nel dettaglio quali competenze in tema di salute dovessero acquisire gli alunni al
termine della scuola elementare, intendendo per competenze la capacità di comprendere e trasformare in comportamenti corretti le informazioni ricevute con la finalità
di fare le scelte più giuste per
il proprio benessere.
Sono stati così selezionati
quattro campi di intervento.
Nel campo “come sono fatto”
vengono illustrati temi riguardanti l’igiene personale,
la conoscenza del funzionamento del corpo umano, l’importanza del movimento, la
corretta postura e la prevenzione delle abitudini dannose
per la salute (come fumo ed
alcol).
“Come mangio” approfondisce invece il tema di una corretta alimentazione e il rapporto tra movimento e alimentazione.
“Come gioco” tratta della sicurezza negli ambienti di vita, dell’educazione al rispetto
di sé, dell’altro e dell’ambiente, del rapporto con i “media”
e con gli animali di affezione.
Infine, “come mi sento” riguarda l’educazione affettiva
e la gestione positiva delle
emozioni.
Per ciascuno di questi campi
di intervento, il progetto prevede competenze da raggiungere per ogni anno della
scuola primaria. In totale, all’inizio dell’anno scolastico
2010/2011, è stata presentata una proposta contenente
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68 obiettivi con i relativi criteri di valutazione.
La sperimentazione ha coinvolto attivamente tutti gli insegnanti e il lavoro da affrontare è stato concordato e condiviso in modo da adattare la
proposta ad ogni classe secondo i bisogni rilevati dagli
insegnanti e le potenzialtà
degli alunni. La metodologia
adottata, condotta in modo
interdisciplinare, comprende
aspetti ludici, immaginativi e
produttivi, utilizzando tecniche e strumenti in grado di
sollecitare la creatività degli
alunni e di stimolare la curiosità di acquisire nuove cono-
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Esperienze dal territorio
scenze, la competizione positiva, l’abitudine al lavoro di
gruppo, la responsabilizzazione individuale, la spontaneità
e la comunicazione tra ragazzi e tra gli stessi e i docenti.
Sono stati coinvolti attivamente nel progetto anche i
genitori degli alunni al fine
di sensibilizzarli e informarli
su alcune tematiche (come ad
esempio l’alimentazione).
Non essendo possibile in questa sede, per limiti di spazio,
riportare l’intera proposta, ci
limitiamo ad alcuni obiettivi
specifici o comportamenti osservabili tra i 68 proposti:
– il bambino riconosce i vari
–
–
–
–
–
sapori: salato, dolce, aspro,
amaro, insipido;
il bambino impara ad avere
una dieta variata;
il bambino sa attraversare
la strada, conosce le regole
sui viaggi in auto (seggiolini e cinture) e quelle per
andare in bici;
il bambino conosce le principali caratteristiche di
comportamento degli animali domestici più conosciuti;
il bambino rispetta i tempi
di turnazione di un dialogo;
il bambino è capace di risolvere i conflitti, analizzando il problema e trovan-
Tabella percorso della classe
Classe V A Scuola …………………………………………………………
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do le possibili soluzioni;
– igiene personale: denti
(gestione dello spazzolino,
quando e come lavarsi i
denti, cosa succede ai denti non curati);
– il bambino conosce le principali modalità di contagio
delle malattie: virus, batteri e come si trasmettono.
Per ogni obiettivo specifico
sono riportate, nella progettazione, le azioni e gli strumenti consigliati. Ogni classe
avrà così il suo percorso scegliendo tra gli obiettivi proposti quelli più idonei alle
esigenze degli alunni (vedi
Tabelle seguenti).
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Scheda alunno ……………………………………………………………
Classe V A Scuola …………………………………………………………
Conclusioni
La scelta degli obiettivi e dei
comportamenti osservabili è
improntata su un concetto
olistico di salute intesa come
promozione di idee e comportamenti orientati al benessere individuale e collettivo; ne
deriva che il raggiungimento
della condizione di salute determina una valorizzazione
delle potenzialità di ogni individuo.
Determinante è stato, ovvia-
mente, il contributo degli insegnanti viste le loro specifiche competenze e la loro conoscenza del mondo dei bambini.
Il progetto è attualmente in
corso di realizzazione. Le
scuole che hanno aderito sono circa il 50% di quelle inizialmente selezionate tra le
due ASL, con un numero molto alto di insegnanti coinvolti. Il rispetto delle fasi e dei
tempi di realizzazione è stato
puntuale anche e soprattutto
perchè vi era la necessità di
integrarlo con i tempi dell’attività scolastica.
Si sono presentate delle difficoltà legate alle resistenze
degli operatori a cambiare
modalità operative per adattarsi ad una articolazione del
lavoro più pragmatica e meno referenziale. Anche l’idea
della valutazione individuale
di ogni alunno ha visto alcune perplessità degli inse-
gnanti, risolte poi dopo aver
verificato l’agibilità e la velocità di utilizzo dello strumento.
Proprio nel percorso di valutazione dell’intervento si può
individuare uno degli aspetti
più innovativi di questo progetto. La valutazione di esito, come noto, risulta infatti
particolarmente difficile da
definire al termine degli interventi di promozione della
salute nelle scuole.
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Bibliografia
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