PIER VINCENZO COVA LESBIA E ASPASIA: LE POESIE

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PIER VINCENZO COVA LESBIA E ASPASIA: LE POESIE
PIER VINCENZO COVA
LESBIA E ASPASIA: LE POESIE PARALLELE1
Lesbia e Aspasia sono nomi fittizi, entrati di forza nella storia della poesia. Il primo copre l'unico grande
amore di Catullo, il secondo nasconde Fanny Targioni Tozzetti, l'ultima e più grande illusione di
Leopardi. Tra il poeta latino e l'italiano corrono quasi diciannove secoli, ma la loro vicenda su questo
punto sembra quasi la stessa. L'analogia viene dalle ragioni di fondo e sale fino alle forme esterne, a
cominciare proprio dai nomi scelti. Lesbia richiama immediatamente Saffo, la poetessa dell'isola di
Lesbo, che fu patria della lirica in senso stretto: la leggenda le attribuiva una morte violenta per amore. Il
ricordo di Aspasia è legato a quello di Pericle, il capo politico del periodo d'oro di Atene: era una
cortigiana, ma fornita di doti intellettuali. I due nomi sono tratti dal mondo greco, perché greca è la prima
cultura di entrambi i poeti, i quali di quel mondo sembrano conservare la duplice e apparentemente
contraddittoria personalità, insieme sentimentale e razionalistica. Di Leopardi il De Sanctis diceva che “il
cuore non può liberarlo dalla ragione”. Per Catullo basterebbe ricordare la sua fama di poeta dotto, che
acclimata in Italia il razionalistico alessandrinismo greco. Questa duplicità è già uno dei tratti di fondo,
che accomunano i due poeti e si riflettono nella loro poesia. Vi si aggiunga che sono entrambi abbastanza
giovani per essere irrequieti e non conformisti. Così, quando si verifica un evento, che li impegna
fortemente e non rientra nei canoni consueti, non esitano a gettare in faccia a tutti la loro singolarità.
Scrive Leopardi nel Pensiero dominante: «A scherno / ho gli umani giudizi, e il vario volgo/ a’ bei
pensieri infesto / ... calpesto». E Catullo (V 2-3): «Valutiamo un soldo bucato tutti i brontolii dei vecchi
parrucconi». Le critiche, reali o presunte, riguardavano la relazione, che si era stabilita, platonicamente
tra Giacomo e Fanny, meno platonicamente tra Catullo e Lesbia. Le due donne erano signore di classe e
maritate, l'una soltanto gentile col contino di Recanati, l'altra disposta a considerare il corteggiatore
provinciale, più giovane di lei, un'occasione di divertimento, di cui stancarsi presto. Ma per Leopardi
come per Catullo si trattava invece di una cosa terribilmente seria, capace di assorbire tutto l' essere e i
suoi pensieri. Per esprimere il suo incantamento, Catullo non trova di meglio che parafrasare una celebre
ode di Saffo (di cui è nota la traduzione di Quasimodo). È l'ode LI, scritta in strofe appunto saffiche: «Mi
sembra simile a un dio, anzi, se è lecito, superiore a un dio, colui che, sedendoti di fronte, ti ascolta e ti
guarda sorridere dolcemente...».E Leopardi quasi di rimando: «Che mondo mai, che nova / immensità,
che paradiso è quello /là dove spesso il tuo stupendo incanto / parmi innalzare... Tali sono, credo, i sogni
/ degli immortali (Il pensiero dominante). E in Aspasia, ricordando: «Apparve / novo ciel, nova terra, e
quasi un raggio / divino al pensier mio». Ma già nel momento dell'infatuazione si insinua il tarlo
razionalistico. Ricordando in Aspasia quel suo periodo di passione, Leopardi afferma, rivolto alla donna,
di esser stato «già dal principio conoscente e chiaro / dell'esser tuo, dell'arti e delle frodi». Catullo, dopo
aver seguito per tre strofe il modello saffico, se ne distacca bruscamente con un salto di concetti, che ha
dato molto da fare ai filologi per la sua violenta diversità, ma che non è altro se non il momento della
riflessione, che si alterna al momento dell'estasi. Qui il poeta si fa la diagnosi del proprio stato
patologico: «La colpa è dell'ozio, o Catullo; è colpa dell'ozio, se ti esalti e ti ecciti così». La parola latina
otium si rende male con la corrispondente italiana «ozio», perché si carica di significati diversi. L'ozio
lamentato dal poeta è il vuoto interiore, la mancanza di impegni, il senso di vanità, che si cerca di
riempire con l'attivismo o il rumore o lo stordimento dei sensi. Meglio si renderebbe forse con la
leopardiana «noia». Del resto è lo stesso Pensiero dominante che accosta i due termini: «Che intollerabil
noia / gli ozi, i commerci usati...». La delusione che sopravviene inevitabile, se dà ragione del timore
razionale, provoca a sua volta un'esplosione di sentimenti in negativo. Catullo, più impetuoso e popolare,
non esita a inveire contro la donna fedifraga e caricarla di epiteti oltraggiosi. Leopardi è più controllato,
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Giornale di Brescia, 7.7.1999.
ma ancor più severo; come suole, allarga la sua vicenda a considerazioni generali. Non si accontenta di
ricordare «arti e frodi», ma ritiene che «donna non pensa / né comprender potria» la grandezza dell'
amore ideale, perché «non cape in quelle / anguste fronti ugual concetto...» (Aspasia). E’ un tentativo di
giustificare l'atteggiamento di una persona singola attraverso un sussulto ingeneroso di antifemminismo
generale. Ma anche Catullo, quando è colpito da una delusione nei suoi slanci affettivi (che non
comprendono solo Lesbia, ma anche gli amici), è portato a giudicare negativamente tutta l'esistenza. La
disperazione si concretizza nel carme LXXIII, che non nomina Lesbia. La poesia è stesa in distici
elegiaci (il metro delle epigrafi!) e rivolta a se stesso: «Smettila di illuderti che voler bene serva a
meritare qualche cosa da qualcuno o a farti ricambiare. Tutto è ingratitudine. A nulla vale aver fatto del
bene, anzi il peso morale diventa più grave». Con ugual mossa, in stile ancor più nudamente epigrafico,
Leopardi emette la sua sentenza esistenziale (A se stesso): “...Posa per sempre. / Assai / palpitasti. Non
val cosa nessuna / i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra”. Per nostra fortuna la disperazione in
entrambi si traduce in poesia, che è una forma di vita. Tuttavia Catullo cerca un conforto anche sul piano
esistenziale e scrive quella celebre preghiera agli dei, che è la richiesta di esser liberato dal male. La
questione della religiosità di Leopardi è più complessa; però anche nell' abbattimento sembra di risentire
un'eco dell'incipit dell'Ecclesiaste in quell'«infinita vanità del tutto».