Catullo - Enricia.org
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Catullo: qualche data 87 (secondo Girolamo, che deriva da Svetonio) 84 (secondo la maggior parte dei critici moderni) nasce a Verona 65-60 circa è a Roma: entra nella cerchia dei neòteroi ed inizia la storia con Lesbia gli muore il fratello; torna a Verona 60 59 muore il marito di Clodia (alias Lesbia), Quinto Metello Celere 58 è di nuovo a Roma; qui Publio Clodio Pulcro, fratello di Clodia, semina il panico con le sue bande armate, opposte a quelle di Milone; Cicerone viene esiliato; Clodia ha una relazione con Celio, in precedenza amico di Catullo 57 (secondo Girolamo, che deriva da Svetonio) fa un viaggio di un anno in Bitinia al seguito del propretore Memmio; visita la tomba del fratello nella Troade; muore (?!) (N.B.: la data è sicuramente sbagliata) 56 si trova a Sirmione; a Roma divampano le polemiche letterarie che coinvolgono lui ed i neòteroi; Celio finisce sotto processo per tentato avvelenamento di Clodia (lo difende Cicerone, rientrato dall’esilio nel 57) 55 tenta di riallacciare i rapporti con Lesbia; ha una storia con un ragazzo di nome Giovenzio (?); gli amici (in particolare Furio ed Aurelio) lo tradiscono muore per cause ignote. 54 (data proposta dai critici moderni) Gaio Valerio Catullo (Verona 87/84-Sirmione 57-54 a.C.) Giulio Aristide Sartorio, Catullo e Clodia La vita Catullo ebbe una vita breve ma molto intensa, perché trascorsa negli ambienti raffinati e decadenti dell'alta e colta società romana. Le notizie biografiche su di lui sono scarse e per lo più ricostruibili dai cenni contenuti nelle sue liriche. Nacque nella Gallia Cisalpina e sulla data esistono incertezze: san Girolamo, infatti, che si servì di Svetonio come fonte, riferisce che nacque nell'87 e che morì a trent'anni, nel 57 a.C.; questa data però non può essere accettata perché alcuni versi del poeta contengono allusioni indiscutibili a vicende degli anni 55-54; la sua morte avvenne pertanto intorno al 54 a.C. e la nascita va pertanto posticipata all'anno 84, se si vuole mantenere la notizia della morte a trent'anni, oppure la sua esistenza va ritenuta più lunga di tre anni, se si fa fede alla data di nascita tramandata da san Girolamo. Era di famiglia aristocratica e facoltosa, che possedeva una villa a Sirmione, una dimora a Roma, beni in Sabina e una villa a Tivoli, e che si poteva permettere di ospitare personaggi di primo piano della vita politica contemporanea, come Quinto Cecilio Metello Celere, governatore della Gallia Cisalpina o come lo stesso Cesare quando, proconsole nelle Gallie, sostava nella città dell'Adige. Ricevette un'ottima educazione letteraria, che approfondì in seguito nella capitale, e incominciò da giovanissimo a comporre poesie d'amore. Poco più che ventenne si trasferì a Roma, con ambizioni solo mondane e intellettuali, non politiche. Per la sua origine fu accettato facilmente dalle famiglie aristocratiche e trascorse una vita di agi, brillante e dissoluta. Si legò in amicizia con alcuni giovani poeti, i callimachei poëtae novi, definiti con disprezzo da Cicerone neóteroi (poeti "abbastanza" nuovi), come Elvio Cinna e Licinio Calvo, condividendo con loro una vita d'amore e di spensieratezza. Si tenne lontano dagli impegni politici e dall'oratoria forense, che pure erano sempre l'attività privilegiata dei ricchi intellettuali romani. Predilesse quindi la tranquillità degli studi e degli affetti, in sintonia con il clima di crisi dell'ultima età repubblicana, in cui si andavano sgretolando gli ideali austeri dei costumi degli antenati. Conobbe lo storico Cornelio Nepote, l'oratore Ortensio Ortalo, il politico Gaio Memmio. L'amore per Lesbia Introdotto nel salotto letterario di Clodia, moglie di Q. Cecilio Metello e sorella del tribuno della plebe P. Clodio Pulcro, s'innamorò perdutamente di lei. Clodia era una dama del gran mondo, affascinante, elegante e coltissima, ma di vita e costumi spregiudicati, che passava da un amante all'altro, e che Cicerone (peraltro tutt'altro che indifferente ai suoi celebri occhi neri) bollò con espressioni di sarcasmo nella sua orazione Pro Caelio. Per lei bruciò la sua breve esistenza e divenne il primo poeta d'amore della letteratura latina. Nelle sue liriche chiamò Lesbia la donna amata, in ricordo della poetessa Saffo, nata appunto nell'isola di Lesbo. Oltre alle vicende legate a questa lacerante passione tra odio e amore, che coinvolse interamente l'esistenza e la poesia di Catullo, poco altro si sa di lui. Si allontanò poco da Roma per andare nelle ville di Tivoli e di Sirmione; visse in modo drammatico la morte del fratello, al quale era molto legato, nel 60; di certo, tra il 58 e il 57, compì un viaggio in Bitinia, al seguito del propretore G. Memmio (a cui Lucrezio dedicò il suo poema), nel tentativo di risanare la propria situazione economica e per visitare, nella Troade, la tomba del fratello. Al ritorno, profondamente depresso, deluso dagli amici, disgustato dall'infedeltà di Lesbia, con la quale aveva invano tentato una riconciliazione dopo un brusco discidium, si rifugiò, cercando pace e riposo, nell'amata Sirmione, dove morì giovanissimo. Le cause della morte sono ignote. Il Liber catulliano Della produzione poetica di Catullo, uno dei maggiori poeti del mondo latino, sarebbero probabilmente rimasti solo pochi frammenti, come è avvenuto per gli altri "poeti nuovi", se nel Trecento non fosse stato ritrovato un manoscritto con le sue poesie. Il manoscritto, il cosiddetto "Codice Veronese", era rimasto ignorato per secoli. Nel X secolo, il belga Raterio, vescovo di Verona, esprimeva contrizione per la passione con la quale amava leggere opere licenziose quali i testi di Plauto e Catullo: si può pertanto ipotizzare che la copia manoscritta denominata V, ossia Veronensis, possa essere proprio il codice consultato dall’ecclesiastico, scomparso dopo la cacciata dello stesso Raterio da Verona per volere del clero veronese. Il manoscritto fu poi nuovamente ritrovato tra il 1303 e il 1307, come si rileva da un componimento poetico del notaio vicentino Benvenuto Campesani che si trova aggiunto alle poesie di Catullo in diversi manoscritti successivi: in questa lirica Campesani saluta con gioia il "ritorno" di Catullo a Verona. Il manoscritto fu quindi copiato e poi, inspiegabilmente, perduto di nuovo. Le liriche del manoscritto non furono quasi sicuramente pubblicate dall'autore nella forma a noi nota: egli pubblicò, verso il 60, soltanto una parte della raccolta, probabilmente quella corrispondente alle nugae (carmi 1-60): sarebbe questo il lepidum novum libellum (garbato nuovo libretto) che Catullo aveva dedicato all'amico Cornelio Nepote, come si legge nel primo carme. I componimenti nella loro totalità furono quindi raccolti dopo la sua morte in un Catulli Veronensis Liber (Libro di Catullo di Verona) che comprende 116 carmi per un complesso di circa 2300 versi. Gli ignoti compilatori della raccolta non seguirono un criterio cronologico o di affinità tematica, bensì metrico e stilistico: all'inizio e alla fine le poesie più brevi (in metri vari le prime, in distici elegiaci le ultime), al centro le più lunghe ed erudite. Le tre sezioni del Liber Il Liber catulliano è ripartito in tre sezioni: 1. alla prima (carmi 1-60) appartengono le cosiddette nugae (bagattelle, cose da nulla, con evidente rimando alla poetica della leptòtes callimachea), composizioni in genere brevi e in metri vari, come il trimetro giambico, lo scazonte, il saffico, il coliambo e, prevalentemente, l'endecasillabo falecio; nella raccolta vi sono ben 14 metri diversi, alcuni dei quali usati per la prima volta nella letteratura latina; il punto di riferimento principale sembra essere la lirica greca arcaica; 2. la seconda sezione (carmi 61-68) contiene quelli che gli studiosi hanno chiamato carmina docta ("poesie dotte"), sempre in metri diversi, ma di ampiezza e di impegno formale maggiori rispetto alle nugae. Qui il punto di riferimento letterario è senz'altro la poesia alessandrina, ed in particolare gli epilli di Callimaco; 3. nel terzo gruppo (carmi 69-116), infine, si trovano i cosiddetti epigrammi, brevi liriche in distici elegiaci (esametro + pentametro) di argomento prevalentemente erotico. Il punto di riferimento è ovviamente l'epigramma greco. I carmina docta Gli antichi consideravano Catullo un doctus, come tutti i poeti nuovi, cioè un poeta-filologo, e lo ritenevano grande soprattutto per i carmina docta. Il giudizio non è condiviso dalla critica postromantica, che ravvisa i momenti più alti della poesia catulliana nei componimenti più brevi ed intensi. I carmi 61 e 62 sono epitalàmi, cioè inni nuziali con cui si festeggiavano gli sposi la sera del matrimonio. Nel primo epitalamio un corteo di giovani e fanciulle, al bagliore delle fiaccole e con canti propiziatori al dio Imeneo, accompagna al tramonto Vinia Aurunculeia alla casa del marito Manlio Torquato. Nel secondo epitalamio, basato sulla stella Espero, la prima a sorgere dopo il tramonto, si svolge un allegro contrasto tra un gioioso coro di giovani, in favore dello sposo, e un coro di lamento di vergini, che paragonano la sposa a una rosa che sfiorisce se viene colta, mentre i giovani la paragonano alla vite che prospera se si appoggia al robusto olmo. Seguono poi due epilli (= poemetti brevi di argomento mitologico, genere inventato da Callimaco). Il primo (il carme 63), in galliambi, versi rari e difficilissimi, è dedicato al mito del giovane Attis che, per odio verso Venere, si reca in Frigia e nell'esaltazione orgiastica del culto di Cibele si evira, divenendo poi sacerdote della dea. Il secondo (carme 64) è un complesso e prezioso epillio ad incastro: la cornice principale canta della nave Argo che solca il mare verso la Colchide per la conquista del Vello d'Oro. Le Nereidi emergono a quella vista e uno degli Argonauti, il re tessalico Peleo, si innamora della bellissima ninfa del mare Teti; dal matrimonio fra i due nasce Achille. Quindi Peleo è costretto a fuggire a Farsàlo in Tessaglia, e nella reggia vede distesa una splendida coperta ricamata che raccontava la storia di Arianna abbandonata a Nasso da Tèseo. Con un procedimento alessandrino, detto èkphrasis, viene quindi introdotto il racconto della storia di Arianna, per poi tornare alle nozze fra Peleo e Teti. Il contrasto che Catullo crea è evidentemente quello tra fides coniugale e infidelitas. Il carme 65 è la dedica della traduzione all'amico oratore Q. Ortensio Ortalo. Il carme 66 è la traduzione della Chioma di Berenice del poeta Callimaco, che narra come la regina Berenice offra in voto agli dèi una ciocca dei suoi capelli per salvare il marito Tolomeo III Evèrgete, partito per la guerra e tornato sano e salvo; il ricciolo viene rubato, ma l'astronomo di corte Conone afferma che è stato trasformato dagli dèi nell'omonima costellazione celeste. Il carme 67 è un colloquio, piuttosto oscuro, tra un viandante e una porta di casa, che racconta le vicende piccanti e scandalose della famiglia che abita in quella casa: singolarissima deformazione catulliana del παρακλαυσίθυρον (paraklausìthyron), cioè del lamento dell'amante di fronte alla porta chiusa dell'amato. Il 68, di cui è stata contestata l'unità, associa elementi autobiografici, come l'amore per Lesbia, la gratitudine per un amico e il dolore straziante per la morte del fratello, al mito di Protesilào e Laodamìa, il cui amore finisce tristemente. Alcuni critici ravvisano qui le origini dell'elegia latina. Le liriche brevi delle nugae e degli epigrammi I componimenti della prima e terza sezione sono carmi brevi, schiette espressioni dei sentimenti di Catullo, che spesso mette a nudo il propro animo. Le tematiche sono la sua passione per Lesbia, il suo piccolo universo privato e la vita mondana di tutti i giorni, con le amicizie, i pettegolezzi, le invettive, gli scherzi e le polemiche letterarie, insomma un ritratto di grande vivacità di tutta l'alta società romana che il poeta frequentava. Le liriche per Lesbia Le liriche per Lesbia sono in tutto 25, e costituiscono un diario dell'impetuosa passione amorosa che travolge il poeta fin dal loro primo incontro. È un amore sensuale, delirante per una donna la cui bellezza vive nei versi di Catullo, anche se non vi è nessun accenno ai suoi tratti fisici. È gioia di stare insieme, è desiderio di intimità; tutti devono sapere di questa loro relazione, in modo che gli invidiosi si consumino per la rabbia e i benpensanti moralisti si turbino. Ma i momenti di felicità si alternano a quelli di sconforto: Lesbia è una donna volubile, infedele, che non si sottrae ad altri uomini; così la relazione più volte si rompe e nascono la gelosia, l'odio e le invettive contro i rivali in amore. Ma la separazione (discidium) non è solo materiale: l'animo del poeta, infatti, vive una lacerante contraddizione: più lei si allontana, più lui se ne sente attratto. Catullo si rende conto che altra cosa è amare, altra è bene velle, e che in un rapporto sano le due realtà non possono essere scisse. A poco a poco egli prende coscienza della morbosità di questo legame ed intraprende una durissima lotta con se stesso per liberarsene. Poi più volte avviene la riconciliazione, il ritorno ai momenti appassionati. Le liriche rispecchiano l'esaltante e dolorosa varietà di stati d'animo in cui si alternano tristezza e gioia, riso e pianto, speranza e delusione, esplosioni di giubilo e tristi pensieri sull'infedeltà della donna. Infine il distacco definitivo, la nostalgia e lo straziante rimpianto, segnalati in modo definitivo e irreversibile dai carmi 11 e 58, fino ad arrivare alla commovente preghiera agli dèi del carme 23, in cui Catullo supplica la divinità di venire in suo soccorso per liberarlo da quell'"orribile malattia" che lo sta conducendo alla morte. I carmi vari Gli altri carmi catulliani, che sono i più numerosi, sono poesie d'occasione e presentano le stesse caratteristiche formali dei modelli alessandrini adottati da tutti i "poeti nuovi". Compare sempre lo spirito arguto, malizioso, ma anche pensieroso e malinconico di Catullo, uomo passionale e impetuoso, che mette nelle proprie liriche tutto il complesso mondo dei suoi sentimenti, dall'amore all'odio, dalla delicatezza alla denigrazione. L'amicizia è uno dei temi principali del canzoniere catulliano, quella soprattutto per i neóteroi, un'amicizia alla quale si abbandona con fresca ingenuità e profondità: ne sono esempio le parole d'affetto per Elvio Cinna, Cornelio Nepote, Licinio Calvo; l'autoironico invito a una magnifica cena all'amico Fabullo, a cui il poeta chiede di portare tutte le vivande, perché "la borsa del tuo Catullo è piena solo di ragnatele"; la sua felicità per il ritorno di Veranio da un viaggio in terre lontane. Ma i suoi strali pungenti colpiscono Marrucino, il fratello di Asinio Pollione che gli ha rubato un tovagliolo, prendono di mira Mamurra, arricchito da Cesare, Cesare stesso e Pompeo; scherniscono spregevolmente poeti come Suffeno e Volusio, i cui manoscritti potrebbero servire solo ad avvolgere pesci o qualcosa di peggio; beffano il vanesio Egnazio, che ride perché vuole mettere in mostra i suoi bei denti. Anche Cicerone è oggetto di una garbata ed elegante canzonatura: "O eloquentissimo fra i nipoti di Romolo, quanti ce ne sono, quanti ce ne sono stati e quanti ce ne saranno in futuro, o Marco Tullio, ti ringrazia Catullo, il peggiore tra i poeti, tanto peggiore tra i poeti, quanto tu sei ottimo avvocato". Ci sono poi i pettegolezzi femminili, l'atmosfera delle taverne e delle orge, e altre vicende della sua vita, come l'avventura in Bitinia o i soggiorni a Sirmione. Non bisogna dimenticare che Catullo, pur avendo avuto un unico grande amore, si concesse anche delle avventure, e che negli ultimi anni della sua vita tentò di riemergere dalla depressione per l'infelice rapporto con Lesbia avviando un legame erotico con il ragazzo Giovenzio, al quale dedica ad esempio il carme 99: ma anche questo amore si rivelerà infelice per la volubilità del giovane. La poetica e il mondo spirituale I temi delle liriche catulliane e la loro estensione sono molto diversi: non si può assimilare la brevità incisiva e irridente di certe nugae alla complessità compositiva dei carmina docta o alla lancinante intensità emotiva delle liriche amorose; tuttavia l'opera catulliana corrisponde a una visione nuova della poesia. Tralasciata la concezione della letteratura come celebrazione dei valori collettivi della romanità, la lirica di Catullo dà voce all'espressione lirica e soggettiva. La spontaneità (pur in una forma artisticamente curatissima) delle sue poesie d'amore non trova eguali nella letteratura latina. E, soprattutto, l'amore è sentito con una valenza etica personalissima, che il poeta traduce in termini nuovi, eppure antichi, in un personalissimo rispetto della tradizione latina. L'amore è foedus ("patto"), fondato sulla pietas ("sentimento religioso") e sulla fides ("lealtà, fedeltà alla parola data). L'innamorato è legato alla donna amata dallo stesso vincolo di affetti che lega un padre ai suoi figli; il tradimento di questo vincolo porta il poeta ad amare di più eroticamente, ma a voler meno bene in senso affettivo. Tutto questo allontana profondamente Catullo da quello che vorrebbe essere il suo punto di riferimento: la poesia di Callimaco. Tanto infatti quest'ultimo si prefiggeva di essere ironico e distaccato, tanto invece Catullo appare emotivamente coinvolto dagli oggetti della sua espressione lirica. Lo stile e la fortuna Callimachea, invece, è senz'altro la cura stilistica: a tal punto Catullo è padrone degli strumenti formali, che il labor limae risulta completamente dissimulato e l'espressione appare incantevolmente spontanea. L'apparente semplicità di molti carmi catulliani non esclude mai quel gusto per l'eleganza che ne è anzi la cifra più caratteristica. Come gli altri neóteroi, Catullo si richiama agli alessandrini, della cui poetica condivide la raffinatezza e il senso elitario. Ma la sua lingua è del tutto originale nella commistione di elementi parlati (i diminutivi e i vezzeggiativi del sermo familiaris, il parlato familiare, e la crudezza di certi volgarismi) con termini volutamente raffinati. Le liriche di Catullo ebbero subito un grande successo, e non influenzarono solo i poeti elegiaci dell'età augustea, come Tibullo, Properzio e Ovidio, ma anche Orazio e Virgilio. Dopo il buio del Medioevo, l'opera catulliana, riscoperta nel Trecento, fu amata nella cultura italiana da Petrarca, dagli umanisti, dal Foscolo, che tradusse la "Chioma di Berenice" e si ispirò al carme 101 per il sonetto "In morte del fratello Giovanni"; ed anche in tempi più recenti Catullo è stato e resta uno degli autori più noti ad amati della letteratura latina e mondiale.