Schede spettacoli - Fondazione Molise Cultura

Transcript

Schede spettacoli - Fondazione Molise Cultura
–
–
Un film di Samuel Benchetrit. Con Isabelle Huppert,
Gustave Kervern, Valeria Bruni Tedeschi, Tassadit
Mandi, Jules Benchetrit. 100 Min.
Su un immobile grigio delle banlieue parigine precipita John
Mckenzie, un astronauta americano finito fuori rotta. Raccolto
sul tetto da madame Hamida, una donna marocchina che lo
ama come un figlio, Mckenzie attende che la NASA lo
riconduca a casa. Qualche piano sotto Charly, adolescente che
vive con una madre assente, soccorre la nuova vicina, Jeanne
Meyer, attrice degli anni Ottanta caduta dal piedistallo e
chiusa fuori dalla porta. Al primo piano crolla a terra
Sternkowtiz dopo cento chilometri di cyclette e una disastrosa
riunione condominiale. Tre cadute che troveranno nell'altro
una ragione: John infilerà la via di casa a colpi di affetto e di
cuscus, Sternkowtiz scoprirà l'amore con un'infermiera lunare,
Charly supplirà la madre con Jeanne e Jeanne comprenderà la
bellezza degli anni negli occhi di Charly.Ispirato a due racconti
di "Chroniques de l'asphalte", il quinto film di Samuel
Benchetrit è una commedia surreale e sociale che descrive la realtà nella sua desolazione e la
riscatta attraverso la mobilitazione di un'umanità inattesa. Scrittore e regista, Benchetrit pesca
nella sua autobiografia e mette in schermo le banlieue della sua infanzia, osservandone
l'impassibilità e facendone esplodere il contenuto emotivo. Con uno stile rigoroso, inquadrature
fisse e pochi movimenti di macchina, Il condominio dei cuori infranti unisce la pulizia delle
immagini alla semplicità della progressione narrativa, spogliata di qualsiasi sentimentalismo.
Seriamente ironica, la poetica dell'autore impiega il linguaggio della sconfitta per parlare di
speranza, della caduta per dire della risalita. In una cité in disarmo sotto un cielo coperto e
incolore, che amplifica il suono livido di uno sportello scambiato per pianto, grido, supplica,
l'autore innamora anime belle che nell'incontro con l'altro ritrovano il senso e la volontà. Le
loro traiettorie chiuse subiranno importanti variazioni aprendole ad altri ambienti e mettendole
in contatto con persone diverse ma con la stessa voglia di lasciarsi alle spalle memorie
dolorose. Trasognato e sotterraneamente politico, Il condominio dei cuori infranti combina
realismo sociale e scrittura tragicomica, affrontando poeticamente l'emarginazione. A creare la
sospensione e la fluidità sognante del racconto contribuiscono il luogo della vicenda, la
banlieue tenuta fuori campo e poi svelata nel piano finale che scioglierà il terrore sociale e
l'aneddotica sul gemito prodotto dal vento, e i vestiti, i personaggi sono abbigliati sempre allo
stesso modo, in fogge che li qualificano e identificano. Scoglio ostinato in un mare di
uniformità, il film di Benchetrit afferma la sua natura altra, intima e densa svolgendo una serie
di ritratti maschili e femminili che condividono un condominio e un'assenza, il sentimento forte
di una mancanza: il figlio per madame Harmida, la madre per Charly, la homeland per John, la
compagna per Sternkowtiz, un ruolo (nella vita) per Jeanne. I personaggi di Benchetrit
incarnano la solitudine contemporanea sfuggendo tuttavia lo stereotipo grazie alla frontalità
della messa in scena e a battute secche che li inchiodano al proprio ruolo o lo definiscono con
humour. Tra i piani, lungo i corridoi, dentro gli appartamenti, nell'ascensore, si muove
un'umanità spicciola che Benchetrit ama di sconfinato amore. La petites gens che diluisce la
malinconia e gli affanni nel fare, nel parlare, nel cucinare, nel regalare un gesto che ha come
premio il gusto irripetibile di un sorriso o di una lacrima. Se ancora una volta Isabelle Huppert
e Gustave Kervern hanno 'peso specifico', è Michael Pitt a stabilire la differenza che lo
distingue nei lunghi silenzi o nelle battute in inglese, lingua straniera che diventa risorsa
comica non verbale. Dandy caduto sulla terra con gli occhi acquosi davanti allo sguardo
materno di Tassadit Mandi, il suo astronauta è l'alieno precipitato sul lato oscuro del pianeta,
sul lato grigio di Parigi che diventa 'piattaforma' da cui ripartire. Parabola umanista, narrata
con irreale leggerezza, Il condominio dei cuori infranti trasforma in poesia la banalità del
quotidiano, sospendendo i suoi protagonisti tra prigione del reale e sogno di fuga. Struggenti
come le polaroid di Sternkowtiz, gli antieroi di Benchetrit escono dall'anonimato attraverso
l'amore perché è lo slancio verso l'altro a dare senso alla vita.
Un film di Ken Loach. Con Barry Ward, Simone Kirby, Jim
Norton, Andrew Scott, Francis Magee. 109 min.
Nel 1921 , un'Irlanda sull'orlo della guerra civile, Jimmy
Gralton aveva costruito nel suo paese di campagna un locale
dove si poteva danzare, fare pugilato, imparare il disegno e
partecipare ad altre attività culturali. Tacciato di comunismo
era stato costretto a lasciare la propria terra per raggiungere
gli Stati Uniti. Dieci anni dopo Jimmy vi fa ritorno e sono i
giovani a spingerlo a riaprire il locale. Gralton è inizialmente
indeciso ma ben presto cede alle richieste. Chi gli era stato
ostile in passato torna a contrastarlo.
Ken Loach torna nell'Irlanda che aveva messo al centro del suo
cinema ne Il vento che accarezza l'erba e lo fa in modo
apparentemente inusuale. Perché al centro di questa storia ci
sono uomini e donne che difendono quello che un tempo
avremmo definito un dancing. La musica che accompagna le
dure immagini della Depressione americana potrebbe aprire un
film di Woody Allen ma il contesto è e resta quello più amato
dal regista inglese: la vita di uomini e donne che cercano nella
condivisione di idee e di spazi quel senso della socialità che altri vorrebbero irregimentare per
poterlo controllare il più possibile. Quello che Jimmy Granton (attivista socialista realmente
esistito) edifica per due volte è di fatto un centro sociale ante litteram in cui si possono
condividere saperi ma anche la gioia dello stare insieme. Definire 'peccaminose' le danze che vi
si praticano è, per la chiesa locale e per gli esponenti della destra, solo un pretesto per
impedire la circolazione di idee ritenute pericolose. Chi frequenta la Pearse-Connolly Hall è
spesso anche un buon cristiano che partecipa alla messa domenicale. È proprio questo che va
colpito e debellato da quel potere ecclesiastico che però, a differenza dei reazionari più retrivi,
è ancora capace di comprendere l'onestà degli intenti dell'avversario. Il film esce in un tempo
in cui a Roma siede un pontefice che ha dichiarato di saper ballare la milonga e di non
sostenere ovviamente il comunismo ma anche di aver conosciuto tante brave persone che
erano comuniste. Jimmy's Hall potrebbe piacergli.
Un film di Pablo Larrain. Con Roberto Farías , Antonia
Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking.
98 min.
C'è una casa a La Boca dell'inferno sulla costa cilena , dove vivono
una suora e quattro preti sconsacrati. Perché ciascuno a suo modo
ha profanato la sacralità della vita. La vita degli altri, dei bambini
che hanno abusato, di quelli che hanno venduto, degli uomini e le
donne che hanno tradito e di Sandokan, un infelice senza tetto e
senza amore che accompagna gli spostamenti di padre Lazcano,
prete pedofilo appena arrivato a destinazione. Traslocato a La
Boca, Lazcano ha violato Sandokan da bambino, che adesso come
un tarlo lo consuma dentro e lo aspetta fuori dalla porta. Sfinito
dalla sua colpa, l'aguzzino si spara sotto gli occhi della vittima,
avviando l'indagine di padre Garcia, gesuita e psicologo deciso a
fare chiarezza sul suicidio e a interrompere presto il loro buen
retiro. C'è una falda che percorre la costa cilena e che suona come
un avvertimento nascosto. Sotto la superficie del Paese permane la ferita, la frattura che
separa vittime e carnefici. E in un punto preciso di quella falda è ubicata la casa del
pentimento, uno dei tanti ricoveri che la Chiesa riserva ai preti e alle sorelle colpevoli di
'crimini', altrimenti scontati in prigione. Preti pedofili, ladri di bambini, conniventi con l'esercito
e le gerarchie cattoliche durante la dittatura, confluiscono nel singolare club di Pablo Larraín,
che ancora una volta mette in relazione la Storia del suo paese con personaggi che coltivano il
male e il narcisismo delirante. Eludendo le trappole del cinema militante, attraverso la
trasfigurazione estetica e una rara proprietà del mezzo, Larraín smaschera lo spirito ordinario,
la morale misera e l'abiezione disinvolta di cinque presunti uomini di dio, prossimi ai fascisti
della sua trilogia (Tony Manero, Post Mortem, No). Pablo Larraín sbalordisce ancora col suo
approccio libero e il suo cinema frontale, fatto di piani che isolano i protagonisti costringendoli
a una relazione privilegiata con la propria pena. Perché un controcampo e un altro sguardo li
lascerebbe esistere, passare all'atto. Senza scrupoli
Un film di Thomas McCarthy. Con Mark Ruffalo, Michael
Keaton, Rachel McAdams, Liev Schreiber, John Slattery. 128
min.
Al "Boston Globe" nell’estate del 2001 arriva da Miami un nuovo
direttore, Marty Baron. E’ deciso a far sì che il giornale torni in
prima linea su tematiche anche scottanti, liberando dalla routine il
team di giornalisti investigativi che è aggregato sotto la sigla di
‘Spotlight’. Il primo argomento di cui vuole che il giornale si occupi
è quello relativo a un sacerdote che nel corso di trent’anni ha
abusato numerosi giovani senza che contro di lui venissero presi
provvedimenti drastici. Baron è convinto che il cardinale di Boston
fosse al corrente del problema ma che abbia fatto tutto quanto era
in suo potere perché la questione venisse insabbiata. Nasce così
un’inchiesta che ha portato letteralmente alla luce un numero
molto elevato di abusi di minori in ambito ecclesiale.Lo scandalo
che, a cavallo tra il 2001 e il 2002, travolse la diocesi di Boston diede il via a una
indispensabile, anche se comunque sempre troppo tardiva, presa di coscienza in ambito
cattolico della piaga degli abusi di minori ad opera di sacerdoti. Il film di Thomas McCarthy,
rispettando in pieno le regole del filone che ricostruisce attività di indagine giornalistiche che
hanno segnato la storia della professione, ha anche però il pregio di rivelarsi efficace nel
distaccarsene almeno in parte. Perché i giornalisti del team non sono eroi senza macchia che
combattono impavidi il Male ovunque si annidi. Qualcuno tra loro aveva avuto tra le mani
materiale che avrebbe potuto far scoppiare il caso anni prima (evitando così le sofferenze di
tanti piccoli) ma non lo ha fatto. Così come le alte sfere hanno taciuto e le vittime, in molti
casi, hanno (anche se comprensibilmente) preferito non esibire con denunce le ferite impresse
nel loro animo. Un film come Spotlight non è solo cinematograficamente efficace anche perché
sorretto da un cast di attori tutti aderenti al ruolo (con in prima fila un Michael Keaton che
sembra aver trovato una nuova giovinezza interpretativa) ma anche perché finisce con
l’affermare un dato di fatto incontrovertibile. La Chiesa Cattolica, grazie ad alcuni suoi
esponenti collocati ai livelli più alti della gerarchia, ha creduto di ‘salvare la fede dei molti’
nascondendo la perversione di pochi. Ha invece ottenuto l’effetto contrario finendo con il far
accomunare nel sospetto di un’opinione pubblica, spesso pronta alla semplificazione, un clero
che nella sua stragrande maggioranza ha tutt’altra linea di condotta. La forza con cui Papa
Francesco ha condannato, anche con la detenzione entro le mura vaticane, i colpevoli di questo
tipo di reati è prova di un’acquisita nuova consapevolezza in materia. Quell’inchiesta di poco
più di dieci anni fa ne è all’origine e quei giornalisti, anche se non ne erano del tutto
consapevoli, finivano con il ricordare a chi regalava loro copie del Catechismo di andare a
rileggere e fare proprie le parole di Gesù: “Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che
credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino
e fosse gettato negli abissi del mare” (Matteo 18, 6).
Un film di Sarah Gavron. Con Carey Mulligan, Helena
Bonham Carter, Brendan Gleeson, Anne-Marie Duff, Ben
Whishaw. 109 min.
Londra , 1912. Maud Watts è una giovane donna occupata nella
lavanderia industriale di Mr. Taylor, un uomo senza scrupoli che
abusa quotidianamente delle sue operaie. Alcune di loro
combattono da anni a fianco di Emmeline Pankhurst, fondatrice
carismatica e ricercata della Women's Social and Political Union.
Solidali e militanti, le suffragette combattono per i loro diritti e
per il loro diritto al voto. Ignorate dai giornali, che temono gli
strali della censura governativa, e dai politici, che le ritengono
instabili e inette fuori dai confini concessi, decidono unite di
passare alle maniere forti. Pietre contro le vetrine, boicottaggio
delle linee telegrafiche, bombe in edifici rappresentativi (ma
vuoti), scioperi della fame, tutto è lecito per avanzare la causa.
Mite e appartata, Maud diventa presto una militante
appassionata e decisa a vendicare le violenze in fabbrica e a
riscattare una vita che la costringe alle dipendenze degli uomini.
Arrestata più volte, perde il lavoro e viene 'ripudiata' dal marito che la caccia di casa e adotta a
una famiglia borghese il loro bambino. Rimasta sola trova ragione e forza nella lotta politica,
attirando con le sue sorelle l'attenzione del mondo che adesso dovrà starle a sentire.
Un film di Jaco Van Dormael. Con Pili Groyne, Benoît
Poelvoorde, Catherine Deneuve, François Damiens,
Yolande Moreau. 113 min.
Dio esiste e vive a Bruxelles con una moglie timorosa e una
figlia ribelle. Il figlio, più celebre di lui, è fuggito molti anni
prima per conoscere gli uomini più da vicino, morire per loro e
lasciare testimonianza e testamento ai suoi dodici apostoli.
Egoista e bisbetico, Dio governa il mondo da un personal
computer facendo letteralmente il bello e il cattivo tempo sugli
uomini. Ostacolato da Ea, decisa a seguire le orme del fratello e
a fuggire il 'suo regno', la bambina si 'confronta' con JC (Jesus
Christ) ed evade dall'oblò della lavatrice. Espulsa dentro una
lavanderia self-service infila la via del mondo, recluta sei
apostoli e si prepara a combattere l'ira di Dio, a cui ha
manomesso il computer e di cui ha denunciato il sadismo,
spedendo agli uomini via sms la data del loro decesso. Sei anni
dopo Mr. Nobody, che gettava un dubbio sul punto di vista
assunto dal film (è quello di un bambino che anticipa un vecchio
o quello di un vecchio che (in)segue il bambino che è stato?), Jaco Van Dormael ci mostra il
punto di vista onnipotente di chi governa il mondo e il destino degli uomini. Rispolverando la
voce off (e infantile) di Toto le héros, il regista belga realizza una commedia surreale in cui
riconosciamo il suo sguardo singolare e visionario. Furbo e didascalico, Le Tout Nouveau
Testament galleggia su un immaginario di riporto che oscilla tra la legge di Dio e quella di
Murphy, tra sentenza e motto, tra autocitazione e citazione ammiccante, su tutte quella
'bestiale' che innamora Catherine Deneuve di un gorilla, omaggio evidente a Max amore mio di
Nagisa Oshima. Nondimeno, come tutti i film di Van Dormael, Le Tout Nouveau Testament
muove al riso e al pianto e ha gli strumenti emozionali per diventare oggetto di inesauribile
passione, fosse solo per quel dio 'umano troppo umano' che osserva il mondo in cattività e
dentro un'orizzontalità assunta come asse espressivo della messa in scena.
Un film di László Nemes. Con Géza Röhrig, Levente
Molnar, Urs Rechn, Todd Charmont, Sandor Zsoter. 107
min.
Saul Ausländer è un ebreo ungherese deportato ad AuschwitzBirkenau. Reclutato come sonderkommando, Saul è costretto
ad assistere allo sterminio della sua gente che 'accompagna'
nell'ultimo
viaggio.
Isolati
dal
resto
del
campo
i
sonderkommando sono assoldati per rimuovere i corpi dalle
camere a gas e poi cremarli. Testimoni dell'orrore e decisi a
sopravvivervi, il gruppo si prepara alla rivolta prima che una
nuova lista di sonderkommando venga stilata condannandoli a
morte. Perduto ai suoi pensieri e ai compagni che lo circondano,
Saul riconosce nel cadavere di un ragazzino suo figlio. La sua
missione adesso è quella di dare una degna sepoltura al suo
ragazzo. Alla ricerca della pace e di un rabbino che reciti il
Kaddish, Saul farà la sua rivoluzione. László Nemes, regista
ungherese al suo esordio, prova a rispondere prendendosi il rischio e la responsabilità formale
e morale attraverso un film che sceglie il 4:3 come luogo di composizione e di 'ricomposizione'
di un corpo. Perché al centro di Son of Saul c'è il cadavere di un ragazzino che un padre vuole
sottrarre alla voracità dei forni crematori, un corpo morto tra milioni di corpi morti che Nemes
lascia sullo sfondo sfocato e infuocato dalla furia nazista. Le proporzioni del formato, che
limitano lo sguardo e fugano la spettacolarità delle immagini, rimarcano il punto di vista del
protagonista. Ma Saul è anche il bersaglio per il fucile delle SS e per la macchina da presa.
Sulla giacca che indossa è verniciata una ics rossa che lo rende immediatamente distinguibile e
vulnerabile dentro l'inferno della soluzione finale. A un passo dalla rivolta armata messa in atto
dai sonderkommando ad Auschwitz nel 1944, la macchina da presa converge sullo sguardo di
Saul che ha scelto un'altra forma di resistenza: preservare l'integrità e la sacralità del corpo di
suo figlio. L'ossessione con cui Saul persegue quella volontà lo tiene ostinatamente in vita e
colma istericamente il trauma di cui è stato complice obbligato e incolpevole.
Un film di Jacques Audiard. Con Vincent Rottiers, Marc
Zinga, Jesuthasan Antonythasan, Kalieaswari Srinivasan.
109 min.
Dheepan deve fuggire dalla guerra civile dello Sri Lanka e per farlo
si associa con una donna e una bambina. I tre si fingono una
famiglia e riescono così a scappare e rifugiarsi nella periferia di
Parigi. Anche se non parlano francese nè hanno contatti. Trovati
due lavori molto semplici (guardiano tuttofare e badante) i due
scopriranno la vita da periferia, le bande e le regole criminali che
vigono nel posto che abitano. Quando arriverà inevitabile lo
scoppio della violenza e degli spari occorrerà prendere una
decisione, se rimanere insieme o separarsi.
Qualsiasi storia nel cinema di Audiard per raggiungere il paradiso
del sentimentalismo, quella punta emotiva che suscita nello
spettatore l'irrazionale sensazione di partecipazione alle vicende
dei personaggi, deve passare per l'inferno della violenza. Come se
le due forze fossero inscindibili nei suoi film si attraggono a vicenda: gli atti violenti o criminali
chiamano amore e ogni amore per concretizzarsi prima o poi richiede di essere legittimato
dalla violenza, altrimenti sembra non poter essere davvero tale.Destinato a mettere a
confronto e a sovrapporre questi due estremi, questa volta Audiard decide di eliminare ancora
più del suo solito il primo livello di comunicazione. I protagonisti di Dheepan fanno molta fatica
a parlarsi, non solo spesso non si capiscono per problemi di lingua ma anche quando parlano lo
stesso idioma è come se non riuscissero ad essere chiari gli uni con gli altri. In un cinema in
cui l'unica legge che conta è quella dei corpi, strusciati o impattati, non sarà mai con le parole
che si potrà risolvere qualcosa, in storie in cui l'unica verità è quella espressa dagli istinti non è
con il ragionamento che si può cambiare la propria vita.I protagonisti di Dheepan hanno solo i
fatti e le azioni per spiegarsi ma per Audiard bastano e avanzano. Il regista non teme di
scrivere una scena di dialogo, forse la più bella ed intensa del film, tra due persone che
parlano ognuno una lingua che l'altro non conosce, eppure sembrano stranamente sulla stessa
lunghezza d'onda. Nell'inferno del palazzone grigio e indifferente in cui si svolge il film si
consumano sparatorie e guerre fra bande nelle quali striscia la possibilità di tramutare una
famiglia finta in famiglia vera. L'ultima possibile eredità del cuore pulsante del noir (inseguire
un amore nei luoghi e nelle situazioni che rendono più difficile rimanere vivi) è forse davvero
questa.