Capitolo 5 INTEGRALI DOPPI Ci proponiamo di estendere alle

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Capitolo 5 INTEGRALI DOPPI Ci proponiamo di estendere alle
Capitolo 5
INTEGRALI DOPPI
Ci proponiamo di estendere alle funzioni reali di due variabili la nozione di integrale di
Riemann nel caso dei domini normali.
Vedremo che, in opportune ipotesi, il calcolo di tali integrali si riconduce al calcolo
successivo di due integrali di funzioni di una variabile. Per tale motivo gli integrali delle
funzioni di due variabili si chiamano integrali doppi.
DOMINI NORMALI
Definizione 1
Siano α(x) e β(x) due funzioni reali continue
nell’intervallo compatto [a,b] e tali che
α(x) ≤ β (x) ∀x ∈ [a,b].
Il sottoinsieme di R2
D = { (x,y) ∈ [a,b] x R : α (x) ≤ y ≤ β (x) }
si chiama dominio normale (rispetto) all’asse x
definito dalle limitazioni
(*)
a≤x≤b
α(x) ≤ y ≤ β(x)
Osservazione 1
Si noti dalla teoria dell’integrale di Riemann che un dominio D normale all’asse x è un
insieme dotato di area (insieme misurabile) e la sua area che denoteremo col simbolo
m(D) è espressa dall’intergale definito (vedi figura)
m(D) = ∫ β(x)dx – ∫ α(x)dx = ∫ (β(x) – α(x))dx
Osservazione 2
Si noti che un dominio D normale all’asse x è
effettivamente un dominio e cioè la chiusura
di un aperto solo quando risulta α(x) < β(x) ∀x ∈ [a,b].
Se α(x) = β(x) in un sottoinsieme di [a,b], D non
è un dominio. Tuttavia si conviene di utilizzare
il termine dominio normale all’asse x per l’insieme D
anche quando D non è un dominio perché
ciò non è una differenza nella teoria dell’integrale doppio.
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Osservazione 3
Si noti che il dominio D normale rispetto all’asse x definito dalle limitazioni (*) gode della
seguente proprietà. Ogni retta perpendicolare all’asse x e passante per un punto
dell’intervallo [a,b] intercetta su D un segmento che può anche ridursi ad un punto
(segmento degenere).
******************
In maniera del tutto analoga si definiscono i domini normali all’asse y:
Definizione 2
Siano γ(y) e δ(y) due funzioni reali continue
nell’intervallo compatto [c, d] e tali che
γ(y) ≤ δ(y)
∀y ∈ [c,d].
Il sottoinsieme di R2
D = { (x, y) ∈ [c, d] x R : γ(y) ≤ x ≤ δ(y) }
si chiama il dominio normale (rispetto) all’asse y
definito dalle limitazioni:
c ≤ y ≤ d ; γ(y) ≤ x ≤ δ(y)
Osservazione 4
Per i domini normali all’asse y valgono, con le ovvie modifiche, le considerazioni fatte
nelle osservazioni 1, 2 e 3.
Definizione 3
Un dominio normale all’asse x (all’asse y) si dice un dominio regolare normale all’asse x
(all’asse y) quando la sua frontiera è una curva semplice chiusa regolare a tratti.
Osservazione 5
Si noti che D dominio normale all’asse x definito dalle limitazioni (*) è dominio regolare
normale all’asse x se e solo se le funzioni α(x) e β(x) sono di classe C(1) in [a, b].
Analogamente per i domini normali all’asse y.
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INTEGRALI DOPPI SU DOMINI NORMALI
Premettiamo una definizione
Definizione 1
Sia D ⊆ R2 un dominio limitato (non
necessariamente dominio normale) e
D1, D2, … , Dn (n > 1), i domini contenuti in D.
Si dice che i domini D1, D2, … Dn
costituiscono una partizione o anche una
decomposizione di D quando risulta:
1) D1, D2, …, Dn sono due a due domini privi di punti interni comuni.
2) D1 ∪ D2 ∪ … ∪ Dn = D.
Una partizione del dominio D negli n domini D1, D2, … Dn si denota col simbolo
{ D1, D2, … Dn } e i domini D1, D2, … Dn si chiamano gli elementi della partizione.
Osservazione 1
Si noti che in se D è un dominio decomponibile in un numero finito di domini misurabili
(cioè dotati di area) i quali costituiscono una partizione di D, per la proprietà additiva della
misura, risulta che D è a sua volta misurabile e
m(D) = m(D1) + m(D2) +… + m(Dn)
Definizione 2 (di integrale doppio)
Sia ƒ(P) = ƒ(x, y) una funzione reale limitata in D ⊆ in R2 dominio normale (all’asse x,
all’asse y, oppure anche normale ad entrambi gli assi x, y). Per ogni partizione
P = {D1, D2, … , Dn} di D in domini normali porremo:
mi = inf ƒ(P); Mi = sup ƒ(P)
Di
Di
∀ i ∈ {1,2, ..n}
e considereremo le due somme integrali
s(P ) = Σ mi · m(Di)
; S(P ) = Σ Mi · m(Di)
dove m(Di) denota la misura o anche l’area del dominio normale Di ∀ i = 1,2, … n.
Al variare della partizione P di D in domini normali, tali somme integrali descrivono due
insiemi numerici
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A = {s(P )}
;
B = {S(P )}.
Si dimostra che, analogamente al caso delle funzioni di una variabile, tali insiemi numerici
sono separati. Conseguentemente A e B ammettono elementi separatori. Se A e B sono
anche contigui l’unico elemento separatore si chiama l’integrale doppio di ƒ(P) = ƒ(x,y)
esteso al dominio D e si denota con uno dei simboli:
∬ƒ(P)dxdy
;
∬ƒ(x, y)dxdy.
Osservazione 2
Analogamente al caso delle funzioni di una variabile si dimostra che se ƒ(P) = ƒ(x,y) è
continua in D, ƒ(P) = ƒ(x,y) è integrabile in D.
L’integrale doppio gode di tutte le proprietà dell’integrale. In particolare valgono le
seguenti proprietà:
1) Proprietà distributiva
Se ƒ, g sono funzioni integrabili nel dominio normale D e c1 e c2 sono costanti reali,
risulta:
∬ [c1ƒ(x, y) + c2g(x, y) ]dxdy = c1∬ƒ(x, y)dxdy + c2∬g(x, y)dxdy
2) Proprietà additiva
Se { D1, D2, … , Dn } è una partizione del dominio normale D in domini normali e ƒ(x,y) è
una funzione integrabile in D, risulta:
∬ ƒ(x, y)dxdy = ∬ƒ(x, y)dxdy + ∬ƒ(x, y)dxdy + ... + ∬ ƒ(x, y)dxdy
SIGNIFICATO GEOMETRICO DELL’INTEGRALE DOPPIO
Premettiamo che se ƒ(x,y) è una funzione continua in un dominio connesso e limitato D
(non necessariamente normale) il sottoinsieme di R3:
S = { (x, y, z) ∈ R3 : (x, y) ∈ D e z = ƒ(x, y) }
è, come vedremo, una superficie che si chiama il diagramma della funzione ƒ(x,y).
L’equazione z = ƒ(x,y) si chiama l’equazione cartesiana del diagramma di ƒ(x,y).
Definizione
Sia ƒ(x, y) una funzione reale di due variabili continua e non negativa in un dominio
normale D. L’insieme:
C = { (x, y, z) ∈ R3: (x, y) ∈ D e 0 ≤ z ≤ ƒ(x,y) }
si chiama cilindroide di base D relativo alla funzione ƒ(x, y).
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Osservazione
Il cilindroide C è un insieme compatto di R3 che
ha per frontiera la superficie diagramma
z = ƒ(x,y), il dominio normale D e i segmenti
paralleli all’asse z passanti per i punti della
frontiera ∂D del dominio D. Se ƒ(x,y) = h > 0
( cioè se ƒ è costante) il cilindroide si riduce
al cilindro di base D e altezza h.
Premesso tutto ciò, si dimostra che il cilindroide C di base D relativo alla funzione ƒ è un
solido misurabile ( cioè dotato di volume) e risulta
vol. C = ∫∫ ƒ(x,y)dxdy
Conseguentemente: se ƒ è continua e non negativa nel dominio normale D l’integrale
doppio di ƒ esteso a D rappresenta il volume del cilindroide C di base D relativo alla
funzione ƒ.
FORMULE DI RIDUZIONE DEGLI INTEGRALI DOPPI
È fondamentale per le applicazioni il seguente risultato che consente di calcolare un
integrale doppio mediante il calcolo successivo di due integrali semplici e cioè integrali di
funzioni di una sola variabile.
Teorema ( che contiene le formule di riduzione)
Sia ƒ(x,y) una funzione reale continua nel dominio normale D. Se il dominio D è definito
dalle limitazioni:
a ≤ x ≤ b ; α(x) ≤ y ≤ β(x)
e cioè è un dominio normale all’asse x, vale la formula di riduzione
(*)
∫∫ ƒ(x,y) dxdy = ∫ dx ∫ ƒ(x,y) dy
se, invece, D e definito dalle limitazioni:
c ≤ y ≤ d ; γ(y) ≤ x ≤ δ(y)
e cioè è un dominio normale all’asse y, vale la formula di riduzione
(**)
∫∫ ƒ(x,y) dxdy = ∫ dy ∫ ƒ(x,y) dx
Rimandiamo, per motivi di brevità, alla dimostrazione di questo teorema.
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Osservazione 1
Le uguaglianze (*), (**) contenute in questo teorema si chiamano le formule di riduzione
degli integrali doppi.
Si noti che, se poniamo:
g(x) = ∫ ƒ(x, y)dy
∀x ∈ [a, b]
allora il simbolo a secondo membro della formula (*) si interpreta nel seguente modo:
∫dx ∫ ƒ(x,y)dy = ∫ ( ∫ ƒ(x,y)dy )dx = ∫ g(x)dx
e cioè è un simbolo che compendia due integrazioni successive di funzioni di una sola
variabile. La prima integrazione va eseguita rispetto ad y e conduce alla determinazione
della funzione g(x), la seconda integrazione rispetto ad x della funzione g(x) conduce poi
al calcolo dell’integrale doppio. Un analogo ragionamento vale per la formula di riduzione
(**). È evidente in conclusione, l’utilità pratica delle formule di riduzione.
INTEGRALI DOPPI SU DOMINI REGOLARI
Premettiamo che, considerato nel piano cartesiano (O, x, y) un dominio limitato D, si dice
che D è un dominio regolare quando risulta decomponibile in un numero finito
D1,D2,…Dn di domini normali regolari a due a due privi di punti interni in comune.
Ad esempio è un dominio regolare la corona
circolare D di centro l’origine O (0,0) e raggi
r1 e r2 (vedi figura). Infatti mediante la retta di
equazione x = r1 e x = – r1, D si decompone nei
quattro domini normali regolari D1, D2, D3, D4.
Ciò posto, se ƒ(x,y) è una funzione continua
nel dominio regolare D e se D è decomponibile
nei domini normali regolari D1, D2, … , Dn, a due
a due privi di punti interni in comune, si pone per
definizione:
∫∫ ƒ(x,y)dxdy = ∫∫ ƒ(x,y)dxdy + ∫∫ƒ(x,y)dxdy +… + ∫∫ ƒ(x,y)dxdy
Si dimostra che l’integrale doppio a primo membro non dipende dalle partizioni
{ D1, D2, … , Dn } di D.
Osservazione1 (notevole)
Dalla definizione precedente si deduce che per calcolare l’integrale doppio di una funzione
continua in un dominio regolare D è necessario decomporre il dominio D in domini
normali D1, D2, … , Dn; calcolare con una formula di riduzione gli integrali doppi di ƒ
estesi ai domini D1, D2, ... , Dn e infine sommare.
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Nella pratica, la necessità di decomporre il dominio D in domini normali si può presentare
anche quando, pur essendo D un dominio normale, almeno una delle due curve frontiera
non si può esprimere mediante un’unica equazione cartesiana.
Osservazione2 (notevole)
Si noti che se D è il dominio normale all’asse x definito dalle limitazioni
a ≤ x ≤ b ; α(x) ≤ y ≤ β(x)
risulta:
∬ 1 · dxdy = ∫ dx ∫ 1 · dy = ∫ [β(x) – α(x)] dx = m(D)
Analogamente se D è un dominio normale all’asse y.
È facile a questo punto concludere che ogni dominio regolare D è numerabile (cioè è un
insieme dotato di area) e risulta:
m(D) = ∫∫ dxdy
FORMULE DI GAUSS E CONSEGUENZE
Ci proponiamo di dimostrare un teorema molto importante che fornisce delle formule,
dette di Gauss, le quali consentono di calcolare un integrale doppio mediante un integrale
curvilineo e viceversa.
Teorema
Se ƒ(x, y) è una funzione di classe C(1) in un dominio regolare D, valgono le seguenti
formule di Gauss:
∬ ∂ƒ
dxdy =
∫ ƒ dy
;
∂x
∬ ∂ƒ
dxdy = – ∫ ƒ dx
∂y
Dimostrazione
Premettiamo che, essendo un dominio regolare
unione di un numero finito di domini normali,
basta dimostrare il teorema per i domini normali.
Per ragioni di semplicità ci limitiamo a
dimostrare la prima delle formule di Gauss nel
caso che D sia un dominio normale rispetto
all’asse y definito dalle limitazioni :
c≤y≤d
;
γ(y) ≤ x ≤ δ(y)
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Osserviamo innanzitutto che in tal caso, per la formula di riduzione, risulta:
(*)
∬ ∂ƒ
dxdy =
∫ dy ∫
∂ƒ dx =
∂x
∫ [ƒ(x, y)]
dy = ∫ [ ƒ(δ(y), y) – ƒ(γ(y), y) ]dy
∂x
D’altra parte, se indichiamo con +Г1, +Г2, +Г3, +Г4, gli archi di curva semplici e regolari
che compongono la frontiera ∂D del domino D orientati nel verso che lascia alla sinistra i
punti interni, risulta (vedi figura):
∫ ƒ(x,y)dy = ∫ ƒ(x,y)dy + ∫ ƒ(x,y)dy + ∫ ƒ(x,y)dy + ∫ ƒ(x,y)dy
Il primo e il terzo degli integrali curvilinei a secondo membro di questa uguaglianza sono
nulli perché sui segmenti Г1, Г3 l’ordinata y è costante. D’altra parte Г2, Г4 ammettono
rispettivamente le rappresentazioni parametriche:
x = δ(t)
y=t
t ∈ [c, d]
;
x = γ(t)
t ∈ [c, d]
;
y=t
per cui, tenuto anche conto dell’orientamento di tali curve, si ha:
(**)
∫ ƒ(x, y)dy = ∫ ƒ(δ(t), t)dt – ∫ ƒ(γ(t), t)dt = ∫ [ ƒ(δ(t), t) – ƒ(γ(t), t) ]dt
Confrontando (**) con (*) si ha la tesi.
Una conseguenza immediata di questo teorema è il seguente risultato che lega gli integrali
doppi agli integrali curvilinei delle forme differenziali lineari.
Teorema di Stokes
Sia Xdx + Ydy una forma differenziale lineare di classe C(1) nel dominio regolare D ⊆ R2
In tale ipotesi risulta :
∫ Xdx + Ydy = ∬ (Yx – Xy )dxdy
Dimostrazione
Dalle formule di Gauss risulta
∬ ∂Y dxdy = ∫ Ydy ;
∂x
∬ ∂X dxdy = – ∫ Xdx
∂y
sottraendo membro a membro queste uguaglianze e applicando la proprietà distributiva
dell’integrale, si ha la tesi.
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Siamo ora in grado di dimostrare la condizione sufficiente affinché una forma
differenziale lineare di classe C(1) in un aperto A ivi chiusa, sia esatta.
Teorema
Sia Xdx + Ydy una forma differenziale lineare di classe C(1) in un aperto A semplicemente
connesso. Vale la seguente implicazione
(Xdx + Ydy chiusa in A)
⇒
( Xdx + Ydy esatta in A )
Dimostrazione
Sia Г una curva semplice chiusa regolare
a tratti contenuta in A e D ⊆ A il dominio
regolare avente per frontiera la curva Г.
Per il teorema di Stokes risulta
∫ Xdx + Ydy = ∫∫ (Yx – Xy)dxdy
Ne segue, essendo Xy = Yx in D, in forza dell’ipotesi,
∫ Xdx + Ydy = 0
Dal teorema che caratterizza le forme differenziali lineari esatte mediante una proprietà
dell’integrale curvilineo, segue l’asserto.
CALCOLO DI UN INTEGRALE DOPPIO MEDIANTE LE COORDINATE
POLARI
Premettiamo che, se P = (x, y) è un punto
del piano cartesiano (O, x, y) diverso
dall’origine O = (0,0), il numero
ρ = distanza di P da O e il
numero θ misura in radianti dell’angolo
formato dal segmento OP col semiasse
positivo delle x (vedi figura) si chiamano
le coordinate polari del punto P. Il legame
tra le coordinate cartesiane (x, y) di P e le coordinate polari (ρ, θ) è espresso dalle
uguaglianze
x = ρ cosθ
y = ρ senθ
le quali si chiamano le formule del passaggio dalle coordinate polari alle coordinate
cartesiane. Le formule di passaggio dalle coordinate polari alle coordinate cartesiane
consentono di trasformare insiemi del piano cartesiano (O, ρ, θ) (cioè di origine O e assi ρ
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e θ) in insiemi del piano cartesiano (O, x, y). Per tale motivo si dice che le (*)
costituiscono una trasformazione di equazioni x = ρ cosθ, y = ρ senθ.
Definizione
Siano φ(θ) e ψ(θ) funzioni reali di classe C(1)
nell’intervallo [α, β] con β – α ≤ 2π tali che
0 ≤ φ(θ) ≤ ψ(θ) per ogni θ ∈ [α, β].
L’insieme D dei punti (x, y) le cui coordinate
polari (ρ, θ) verificano le limitazioni
(**) α ≤ θ ≤ β ; 0 ≤ ρ ≤ ψ(θ)
si chiama il dominio polarmente normale
definito (mediante le coordinate polari)
dalle limitazioni (**).
In particolare l’insieme D dei punti (x, y) le cui coordinate polari verificano le limitazioni
α ≤ θ ≤β
;
0 ≤ ρ ≤ ψ(θ)
ρ = ψ(θ) ; θ ∈ [α, β].
si chiama il vettore di equazione polare
Osservazione1
Il motivo per cui il dominio D è detto polarmente
normale è che ogni semiretta uscente dall’origine
la quale formi con l’asse x un angolo θ ∈ [α, β]
intercetta su D un segmento. Ciò comporta che,
mediante le formule (*) D è il trasformato di un
dominio T del piano (O, ρ, θ) normale rispetto
all’asse θ, verificante le limitazioni (**) (vedi figura).
Ciò premesso, vale il seguente risultato che fornisce
una formula di cambiamento delle variabili per gli
integrali doppi.
Teorema
Sia D il dominio polarmente normale definito dalle limitazioni
α ≤ θ ≤β
;
φ(θ) ≤ ρ ≤ ψ(θ)
dove β – α ≤ 2π e 0 ≤ φ(θ) ≤ ψ(θ) sono funzioni di classe C(1) in [α, β]. Se ƒ(x, y) è una
funzione reale continua in D e se T è il dominio del piano (O, θ, ρ) di cui D è il
trasformato mediante le formule (*) risulta
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∬ ƒ(x, y)dxdy = ∬ ƒ(ρcosθ, ρsenθ) ·
∂(x, y)
∂(ρ, θ)
dρdθ
dove il determinante
∂(x, y)
=
∂(ρ, θ)
∂x
∂ρ
∂x
∂θ
∂y
∂ρ
∂y
∂θ
cosθ
-ρsenθ
=
=ρ
senθ
ρcosθ
si chiama lo jacobiano della trasformazione di equazioni (*).
Conseguentemente la formula di cambiamento delle variabili anzidetta si riscrive
∬ƒ(x, y)dxdy = ∬ƒ(ρcosθ, ρsenθ) · ρ dρdθ
Osservazione
Poiché T è un dominio normale rispetto all’asse θ, applicando la formula di riduzione
degli integrali doppi, si ha:
∬ƒ(x, y)dxdy = ∬ƒ(ρcosθ, ρsenθ) · ρ dρdθ = ∫ dθ ∫ ƒ(ρcosθ, ρsenθ)ρ·dρ
Conseguentemente le formule del passaggio alle coordinate polari sono particolarmente
utili quando D è un dominio polarmente normale.
In particolare se D è il vettore di equazione polare ρ = φ(θ) ; θ ∈ [α, β], si ha
(***)
m(D) = ∬ 1 · dxdy = ∫ dθ ∫ ρ ·dρ = ½ ∫ φ2(θ)dθ
e questa è la formula che fornisce l’area del vettore polarmente normale.
LA FORMULA DI CAMBIAMENTO DELLE VARIABILI PER GLI INTEGRALI
DOPPI
Il calcolo di un integrale doppio mediante il passaggio alle coordinate polari e cioè
mediante la trasformazione di equazioni
x = ρcosθ
y = ρsenθ
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è soltanto un caso particolare di una formula generale detta di cambiamento delle variabili
per gli integrali doppi.
Diamo un accenno a questa questione per non uscire dai limiti imposti dal corso compatto.
Sia T un dominio regolare del piano cartesiano (O, u, v) e consideriamo la funzione
vettoriale di classe C(1) in T:
Φ(u,v) = ( x(u,v), y(u,v) ) ∀(u,v) ∈ T.
osserviamo che questa funzione vettoriale ad ogni punto (u,v) ∈ T fa corrispondere il
punto (x,y) ∈ D con D = Φ(T), tali che
x = x(u,v)
(*)
y = y(u,v)
Per tale motivo la funzione Φ si chiama una trasformazione del dominio regolare T del
piano (O, u, v) nell’insieme D del piano (O, x, y).
Le equazioni (*) si chiamano le equazioni della trasformazione, l’insieme D = Φ(T) si
chiama il trasformato del dominio T mediante la trasformazione Φ. Il determinante
∂(x, y)
∂(u, v)
=
xu
xv
yu
yv
= xuyv
– xvyu
si chiama lo jacobiano della trasformazione Φ di equazioni (*).
Premesso tutto ciò si dà la seguente
Definizione
Una trasformazione Φ del dominio regolare T nell’insieme D di equazioni (*) si dice una
trasformazione regolare quando accade che:
1. La funzione Φ : T → D è biunivoca e cioè Φ è invertibile in T e inoltre ogni elemento di
D è immagine mediante Φ di un unico elemento di T
2.
∂(x, y)
∂(u, v)
≠ 0 ∀(u, v) ∈ T
Si può dimostrare che se Φ è una trasformazione regolare di T in D allora l’insieme
trasformato D = Φ(T) è a sua volta un dominio regolare.
Conseguentemente Φ trasforma domini regolari del piano (O, u, v) in domini regolari del
piano (O, x, y).
Una volta data questa definizione si dimostra il seguente
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Teorema di cambiamento della variabile per gli integrali doppi
Sia Φ la trasformazione regolare del dominio T nel dominio D, di equazioni
x = x(u,v)
(u, v) ∈ T
y = y(u,v)
e ƒ(x, y) una funzione reale continua nel dominio D.
In tali ipotesi risulta:
∂(x, y)
(*) ∬ ƒ(x, y)dxdy = ∬ ƒ(x(u,v), y(u,v) ) ·
∂(u, v)
dudv.
Osservazione
La formula (*) si chiama formula di cambiamento delle variabili per gli integrali doppi e
fornisce una regola di calcolo degli integrali doppi che è analoga alla regola di sostituzione
per gli integrali semplici.
Si dimostra che tale formula è applicabile anche quando la trasformazione Φ non è
biunivoca sulla frontiera dei
domini T e D (non è biunivoca tra To e Do) e anche quando lo jacobiano si annulla nei
punti di ∂D. Ciò può accadere, ad esempio, quando, si usano le formule di passaggio alle
coordinate polari.
DOMINI NORMALI DI R3
Definizione
Siano φ(x,y), ψ (x,y) due funzioni reali
continue nel dominio D del piano (O, x, y)
normale rispetto ad uno degli assi cartesiani x, y
e tali che φ(x, y) ≤ ψ (x, y) ∀(x, y) ∈ D.
Il sottoinsieme di R3
E = { (x, y, z) ∈ DxR : φ(x, y) ≤ z ≤ ψ(x, y) }
si chiama dominio normale rispetto al piano (O, x, y)
definito dalle limitazioni
(*) (x, y) ∈ D ; φ(x, y) ≤ z ≤ ψ(x, y).
Analogamente è possibile definire i domini di R3
normali rispetto ai piani(O,y,z) e (O,x,z).
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Osservazione
Dalla teoria delle funzioni di due variabili si deduce che un dominio E di R3 normale
rispetto ad uno dei piani coordinati è un insieme dotato di volume (cioè misurabile).
In particolare se E è il dominio normale definito dalle limitazioni (*) risulta:
vol. E = ∫∫ [ψ(x,y) – φ(x,y)] dxdy
INTEGRALI TRIPLI
La definizione di integrale triplo di una funzione ƒ(x, y, x) continua in E ⊆ R3 dominio
normale rispetto ad uno dei piani coordinati (O, x, y), (O, y, z), (O, x, z) è del tutto analoga
alla definizione di integrale doppio per cui non ce ne occupiamo.
L’integrale triplo di ƒ(x,y,z) esteso ad E si denota col simbolo
∫∫∫ ƒ(x,y,z)dxdydz
Contrariamente a quanto avviene per gli integrali doppi, l’integrale triplo non ha un
significato geometrico interessante perché i sottoinsiemi di R4 sono oggetti astratti.
L’unica eccezione è il caso ƒ(x,y,z) = 1
∀(x,y,z) ∈ E, in quanto, come vedremo in
seguito, risulta analogamente al caso delle funzioni di due variabili
vol E = ∫∫∫ 1dxdydz
FORMULE DI RIDUZIONE
Anche per gli integrali tripli si dimostrano le formule di riduzione. Per esempio sia E un
dominio normale rispetto al piano (O, x, y) definito dalle limitazioni:
(x,y) ∈ D; φ(x, y) ≤ z ≤ ψ(x,y)
Considerata una funzione reale di tre variabili ƒ(x,y,z) continua nel dominio E si dimostra
che vale la seguente formula di riduzione
∫∫∫ ƒ(x,y,z)dxdydz = ∫∫dxdy ∫ ƒ(x,y,z)dz
Ne segue che se D è, in particolare, un dominio normale rispetto all’asse x definito dalle
limitazioni
a ≤ x ≤ b ; α(x) ≤ y ≤ β(x)
per le formule di riduzione degli integrali doppi, risulta ancora
∫∫∫ ƒ(x,y,z)dxdydz = ∫dx ∫dy ∫ ƒ(x, y, z)dz
e, in conclusione, il calcolo dell’integrale triplo si riduce al calcolo successivo di tre
integrali semplici.
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Analogamente, se D è un dominio normale rispetto all’asse y definito dalle limitazioni:
c ≤ y ≤ d ; γ(y) ≤ x ≤ δ(y)
risulta
∫∫∫ ƒ(x,y,z)dxdydz = ∫dy ∫dx ∫ƒ(x,y,z)dz
CALCOLO DEL VOLUME DI UN SOLIDO DI ROTAZIONE
Dalle formule di riduzione degli integrali tripli si deduce che se E ⊆ R3 è il dominio
normale rispetto al piano (O, x, y) definito dalle limitazioni :
(x, y) ∈ D;
φ(x, y) ≤ z ≤ ψ(x, y)
Risulta:
∫∫∫ 1·dxdydz = ∫∫ dxdy ∫dz = ∫∫ [ψ(x,y) – φ(x,y)]dxdy = vol E
Conseguentemente, in generale, il calcolo del volume
di un solido il quale risulti essere un dominio
normale di R3 o, più in generale,decomponibile
in un numero finito di domini normali di R3 due
a due privi di punti interni comuni, è un problema
che riguarda la teoria degli integrali tripli.
Tuttavia è possibile dimostrare, ma su ciò non possiamo soffermarci, che se E è un
dominio di R3 verificante le seguenti ipotesi:
1. E si proietta ortogonalmente sull’asse x in un intervallo [a,b] ;
2. ∀x ∈ [a,b] la sezione S(x) di E col piano perpendicolare all’asse x e passante per il
punto (x,0,0) è un insieme misurabile (cioè dotato di area);
3. La funzione areaS(x) è continua in [a,b] ;
allora risulta :
vol E = ∫ [areaS(x)]dx
In altri termini per calcolare il volume di E basta integrare tra a e b l’area della sezione
piana S(x).
Un caso particolare notevole di applicazione di questo risultato è quello dei solidi di
rotazione.
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Più precisamente supponiamo che E ⊆ R3 sia
il solido ottenuto ruotando intorno all’asse x di
un angolo giro il rettangoloide del piano (O, x, y)
di base l’intervallo [a, b] relativo alla funzione
ƒ(x) continua e non negativa in [a,b].
È facile convincersi che E è un solido di rotazione
che verifica le seguenti ipotesi.
1. Si proietta ortogonalmente sull’asse x in [a,b] ;
2. la sezione S(x) è il cerchio di raggio ƒ(x) la cui area è π · (ƒ(x))²;
3. la funzione π · (ƒ(x))² è continua in [a, b] per le ipotesi poste su ƒ.
Ne segue allora che
vol E = π ∫(ƒ(x))²dx
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Capitolo 1
FUNZIONI REALI DI PIÙ VARIABILI
Ci proponiamo di studiare le funzioni reali di più variabili reali e cioè le funzioni
ƒ : Rk → R con k > 1. Per motivi di semplicità ci riferiremo esclusivamente alle
funzioni di due variabili estendendo poi i risultati ottenuti, quando è necessario alle
funzioni di tre o più variabili. A tale scopo è opportuno premettere le principali
proprietà topologiche dell’insieme R² {(x,y) : x ∈ R e y ∈ R² }e cioè dell’insieme R²
visto come oggetto geometrico. È noto che R² si rappresenta geometricamente sul piano
mediante un sistema di assi cartesiani ortogonali.
PROPRIETÀ TOPOLOGICHE DI R²
Definizione 1
Distanza: Siano P0 = (x0, y0) e P1 = (x1, y1) due elementi di R2 o anche due punti di R2.
Si chiama distanza di P1= (x1, y1) da P0 = (x0, y0) il numero reale non negativo:
δ =
La distanza fra due punti è uguale alla lunghezza del segmento di estremi P0 e P1.
Definizione 2
Intorno: Sia P0 = (x0,y0) un punto di R2 e δ un numero reale positivo. Si chiama intorno
(circolare) di centro P0 = (x0, y0) e raggio δ >0 l’insieme
Iδ(P0) = Iδ(x0, y0) = { (x,y) ∈ R2 :
<δ}
e cioè l’insieme dei punti P = (x,y) ∈ R2 che appartengono al cerchio di centro
P0 = (x0,y0) e raggio δ privato della circonferenza (cerchio aperto).
Definizione 3
Punto interno e interno di un insieme: Sia A ⊆ R2. Si dice che il punto P0 = (x0, y0) ∈
A è interno ad A se esiste un intorno Iδ(P0) di centro P0 e raggio δ tutto contenuto in A.
Si chiama interno di A e si denota con il simbolo Å l’insieme dei punti interni ad A.
Definizione 4
Punto esterno: Sia A ⊆ R2. Si dice che il punto P0 = (x0, y0) ∉ A è esterno ad A se
esiste un intorno Iδ(P0) che non contiene punti di A e cioè tale che Iδ(P0) ∩ A =∅.
Evidentemente P0 è esterno ad A se è interno al complementare di A rispetto a R2 e cioè
se è interno all’insieme R2 – A.
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Definizione 5
Punto frontiera e di frontiera: Sia A ⊆ R2. Si dice che il punto P0 = (x0,y0) ∈ R2 è un
punto frontiera di A se non è nè interno nè esterno ad A. Conseguentemente in ogni
intorno di P0 cadono sia punti di A sia punti che non appartengono ad A. L’insieme dei
punti frontiera si chiama frontiera di A e si denota con il simbolo ∂A.
Osservazione 1
Si noti che un punto frontiera non è tenuto ad appartenere all’insieme A. Ad esempio il
cerchio di centro il punto P0 = (x0, y0) e raggio r e lo stesso cerchio privato della
circonferenza (cerchio aperto) hanno entrambi per frontiera la circonferenza di centro
P0 e raggio r. Nel primo caso la frontiera appartiene al cerchio, nel secondo caso non
appartiene.
Definizione 6
Punto di accumulazione e insieme derivato: Sia A ⊆ R2 e P0 = (x0, y0) ∈ R2. Si dice
che P0 è un punto di accumulazione di A se in ogni intorno I(P0) = I(x0, y0) di centro P0
cadono infiniti punti di A diversi da P0. L’insieme dei punti di accumulazione di A si
chiama il derivato di A.
Definizione 7
Insieme limitato e non limitato: Un insieme A ⊆ R2 si dice limitato se è contenuto in
un intorno Iδ(O) di centro l’origine O = (0,0). Si dice non limitato se ciò non accade.
Definizione 8
Insieme aperto e chiuso: Un insieme A ⊆ R2 si dice aperto se A = Å e cioè se ogni
punto di A è un punto interno ad A; si dice chiuso se il suo complementare rispetto a R2
2
e cioè l’insieme R – A è aperto.
Osservazione 2
Si noti che un insieme aperto non contiene punti frontiera, mentre
un insieme chiuso contiene tutti i punti frontiera. Si noti ancora
che un insieme A ⊆ R2 che non sia aperto non è tenuto ad essere
chiuso. Ad esempio l’insieme:
A = {(x,y) : x ∈ [1,2[ e y ∈ [2,3[}
non è né aperto né chiuso.
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Definizione 9
Chiusura di un insieme: Sia A ⊆ R2. Si chiama chiusura di A e si denota con il
simbolo Ā, l’insieme unione di A e della frontiera di A. In simboli: Ā = A U ∂A. La
chiusura Ā di A è un insieme chiuso perché contiene tutti i punti frontiera.
Definizione 10
Dominio: Si chiama dominio ogni sottinsieme di R2 che risulti essere la chiusura di un
insieme aperto, e cioè anche l’unione di un insieme aperto e della sua frontiera.
Ad esempio un cerchio chiuso, un angolo chiuso sono domini. L’insieme ottenuto come
unione di un cerchio chiuso e di un segmento non è un dominio.
LA DEFINIZIONE DI LIMITE
La definizione di limite, già nota per le funzioni di una variabile, si estende facilmente
alle funzioni di due variabili. Sia ƒ(x,y) una funzione reale definita nell’insieme
A ⊆ R2 e P0 = (x0, y0) un punto di accumulazione per A. Si dice che ƒ ha limite l ∈ R in
P0 e si scrive
lim ƒ (x, y) = l oppure anche
lim ƒ(P) = l
(x, y)→(x0,y0)
P→P0
quando vale la seguente proprietà detta definizione di limite.
∀ Jε(l) ∃ Iδ(P0) : P ∈ A ∩ Iδ (P0) – {P0} ⇒ f(P) ∈ Jε (l)
la quale essendo Jε(l) un intervallo aperto di centro l e raggio ε e cioè Jε (l)=] l – ε; l +ε [
e Iδ(P0) un cerchio aperto di centro P0 e raggio δ e cioè
I δ(P0) = { (x,y) ∈ R2 :
< δ }, si esprime in maniera equivalente:
∀ ε > 0 ∃ δ > 0 : (x,y) ∈ A e 0 <
< δ ⇒ |ƒ(x,y) – l |< ε
I due casi l = + ∞ e l = - ∞ si trattano in maniera analoga.
Ad esempio lim ƒ(P) = +∞ significa che vale la proprietà:
P→P0
∀ J(+∞) ∃ Iδ(P0): x ∈ A ∩ I(P0) – {P0} ⇒ ƒ(P) ∈ J(+∞)
e cioè se: J(+∞) = ]M, +∞[ con M > 0.
∀ Μ > 0 ∃ δ > 0 : (x,y) ∈ A e 0 <
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< δ ⇒ ƒ(P) > Μ.
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Definizione di funzione continua
Sia f : A ⊆ R2 → R e P0 = (x0, y0) ∈ A. Si dice che ƒ è continua in P0 = (x0, y0) quando
risulta lim ƒ (x, y) = l oppure anche lim ƒ(P) = l .
(x, y)→(x0,y0)
P→P0
Si dice che ƒ è continua nell’insieme A quando è continua in ogni punto di A.
A proposito delle funzioni continue, si estende il teorema di Weiestrass nella maniera
seguente.
Teorema di Weiestrass
Se ƒ(x,y) è una funzione continua in un insieme A chiuso e limitato (cioè compatto)
allora ƒ assume in A il minimo ed il massimo e cioè esistono in A due punti (x, y) e
(x, y) tali che
ƒ(x, y) ≤ ƒ(x, y) ≤ ƒ(x, y)
∀ (x, y) ∈ A.
Osservazione
La definizione di limite, la continuità e il teorema di Weiestrass si estendono facilmente
alle funzioni reali di k variabili con k > 2. Di ciò la cura al lettore.
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DERIVATE PARZIALI
Sia ƒ(x,y) una funzione reale definita in un insieme A e P0 = (x0, y0) un punto interno
ad A. In tali ipotesi esiste un intorno Ir (P0) di centro P0 e raggio r tutto contenuto in A
ed ha senso considerare la funzione della sola variabile x:
(*)
ƒ(x, y0) – ƒ(x0, y0)
con x ∈ ] x0 – r , x0 + r [ – {x0}
x – x0
Si chiama derivata parziale di ƒ rispetto a x nel punto P0 e si denota con uno dei simboli
ƒx(P0), ∂ƒ(P0) il limite in x0 della funzione (*) sempre che tale limite esista e sia
∂x
finito. Riassumendo:
ƒx(P0) = ƒx(x0, y0) = ∂ƒ(P0) ≝ lim
∂x
x→x
ƒ(x, y0) – ƒ(x0, y0)
x – x0
0
Analogamente si chiama derivata parziale di ƒ rispetto a y nel punto P0 e si denota con
uno dei simboli ƒy(P0), ∂ƒ(P0) il limite in y0 della funzione
∂y
ƒ(x0, y) – ƒ(x0, y0)
con y ∈ ] y0 – r , y0 + r [ – {y0}
y – y0
quando tale limite esiste ed è finito. In simboli:
ƒy(P0) = ƒy(x0, y0) =
∂ƒ(P0)
≝ lim
∂y
ƒ(x0, y) – ƒ(x0, y0)
y – y0
y→y0
Si dice che ƒ(x,y) è derivabile nel punto P0=(x0, y0) quando esistono finite in P0
entrambe le derivate parziali.
Se A = Å e cioè se A è un aperto e se ƒ(x,y) è derivabile in ogni punto di A si dice
che ƒ è derivabile nell’insieme A.
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Osservazione notevole sulla continuità
Ricordando che per le funzioni di una variabile la derivabilità implica la continuità
risulta che:
lim
x→x0
ƒ(x, y0) – ƒ(x0, y0)
x – x0
∈R
lim ƒ (x, y0) = ƒ (x0, y0)
⇒
x→x0
e cioè se una funzione ƒ(x,y) è derivabile parzialmente rispetto a x nel punto
P0 = (x0, y0) allora tale funzione è continua rispetto a x nel punto P0.
Analogamente:
lim
y→y0
ƒ(x0, y) – ƒ(x0, y0)
y – y0
∈R
⇒
lim ƒ (x0, y) = ƒ (x0, y0)
y→y0
e cioè se una funzione ƒ(x,y) è derivabile parzialmente rispetto a y nel punto
P0 = (x0, y0) allora tale funzione è continua rispetto a y nel punto P0.
Tuttavia la continuità della funzione ƒ rispetto a x e rispetto a y nel punto P0 non
implica la continuità di ƒ in P0 e cioè:
lim ƒ(x, y0) = ƒ(x0, y0) e lim ƒ(x0, y ) = ƒ(x0, y0)
x→x0
⇏
lim ƒ(x, y) = ƒ(x0, y0)
x→x0
y→y0
y→y0
Si prenda ad esempio la funzione:
xy
se (x,y) ≠ (0, 0)
2
2
x +y
ƒ(x, y) =
0
se (x, y) = (0, 0)
tale funzione non risulta essere continua in (0,0) perché lungo la retta y = x si ha:
lim ƒ(x, y) = lim ƒ(x, x) = lim x2 = 1 ≠ ƒ(0,0)
x→0
x→0
y→0
x→0
2x2
2
Tuttavia è continua in (0,0) sia rispetto a x sia rispetto a y.
Infatti essendo ƒ(x,0) = 0 ∀ x ∈ R - {0} e ƒ(0,y) = 0 ∀ y ∈ R - {0} risulta:
lim ƒ(x, 0) = 0 = ƒ(0, 0)
e
x→ 0
lim ƒ(0,y) = 0 = ƒ(0, 0)
y→0
In conclusione:
( ƒ derivabile in P0 )
⇏ ( ƒ continua in P0 )
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DERIVATE PARZIALI DI ORDINE SUPERIORE
Sia ƒ(P) = ƒ(x,y) una funzione di due variabili definita in un aperto A. Supponiamo
che ƒ sia derivabile in A e cioè che ƒ sia derivabile parzialmente rispetto a x e y in
ogni punto P = (x,y) ∈ A.
Ha senso allora considerare le seguenti due funzioni:
(x,y) ∈ A → ƒx(x,y); (x,y) ∈ A → ƒy(x,y).
Tali funzioni si chiamano rispettivamente la (funzione) derivata parziale prima di ƒ
rispetto a x in A e la (funzione) derivata parziale prima di ƒ rispetto a y in A e si
denotano con uno dei seguenti simboli:
∂ƒ
∂ƒ
ƒx(x,y);
(x,y) ;
ƒy(x, y);
(x,y) ;
∂x
∂y
oppure anche:
∂ƒ
∂ƒ
ƒx(P);
(P) ;
ƒy(P);
(P) ;
∂x
∂y
Definizione
Se le funzioni derivate prime ƒx e ƒy sono a loro volta derivabili in ogni punto
dell'aperto A, le quattro funzioni:
∂ƒx
(P);
∂x
∂ƒx
(P);
∂y
∂ƒy
(P);
∂x
∂ƒy
(P)
∂y
si chiamano le derivate (parziali) seconde di ƒ in A e si denotano con i simboli:
ƒxx(P) ; ƒxy(P) ; ƒyx(P) ; ƒyy(P)
oppure anche con i simboli:
∂2ƒ
(P);
∂x2
∂2ƒ
(P);
∂x∂y
∂2ƒ
(P);
∂y∂x
∂2ƒ
(P)
∂y2
Teorema di Schwarz (di inversione dell’ordine di derivazione)
Sia ƒ(x,y) una funzione reale due volte derivabile in un aperto A. Vale la seguente
implicazione:
( ƒxy, ƒyx continue in (x0, y0) ∈ A) ⇒ (ƒxy (x0, y0) = ƒyx(x0, y0))
e cioè le derivate seconde miste di una funzione di due variabili sono uguali nei punti
in cui risultano continue.
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Osservazione
Il teorema di Schwarz consente di calcolare le derivate seconde miste senza
preoccuparsi dell’ordine delle derivazioni successive nei punti in cui le derivate
seconde sono continue.
****************
A partire dalle derivate seconde si definiscono, in maniera analoga, le derivate terze,
quarte, … , n-esime di ƒ(x, y).
Evidentemente se tali derivate successive sono continue allora le derivate miste, per il
teorema di Schwarz, non dipendono dall’ordine di derivazione.
LA NOZIONE DI DIFFERENZIABILITÀ
Abbiamo visto che contrariamente a quanto accade per le funzioni di una variabile, le
funzioni di due variabili che sono derivabili non sono necessariamente continue.
Vedremo subito che la nozione equivalente alla derivabilità delle funzioni di una
variabile è per le funzioni di più variabili la differenziabilità.
Definizione
Sia ƒ(x,y) una funzione definita in un aperto A e P = (x,y) ∈ A. Indicati con ∆x e ∆y
due numeri reali qualsiasi poniamo ∆P = (∆x, ∆y) e P+∆P = (x+∆x, y+∆y) (cioè
chiamiamo ∆P il punto di coordinate ∆x, ∆y e P+∆P il punto di coordinate x+∆x,
y+∆y). Se il punto P+∆P ∈ A è lecito considerare la differenza (detta incremento di ƒ
relativo ai punti P e P+∆P) tra i valori di ƒ nei punti P e P+∆P:
∆ƒ = ƒ(P+∆P) – ƒ(P) = ƒ(x+∆x, y+∆y) – ƒ(x,y)
e l'espressione
dƒ = ƒx(P)∆x + ƒy(P)∆y = ƒx(x,y)∆x + ƒy(x,y)∆y
che si suole chiamare (in analogia al caso della funzione di una variabile)
differenziale della funzione ƒ.
Si dice che la funzione ƒ è differenziabile nel punto P = (x,y) quando risulta:
∆ƒ – dƒ
lim
(∆x,∆y)→(0,0)
=0
√ ∆x2 + ∆y2
o anche, in maniera equivalente pensando ∆P = (∆x, ∆y) come il vettore di
componenti ∆x, ∆y e |∆P| = √ ∆x2 + ∆y2 come il modulo di ∆P, quando risulti:
lim
∆P→0
∆ƒ – dƒ
=0
|∆P|
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Osservazione notevole
Si noti che
(*)
⇒
∆ƒ – dƒ
=0
|∆P|
lim
∆P→0
infatti affinché il rapporto
lim
∆P→0
∆ƒ = 0
∆ƒ – ƒ sia infinitesimo per ∆P→ 0 è necessario che ∆ƒ - dƒ
|∆P|
sia infinitesimo per ∆P → 0 e poiché lim dƒ = 0 ciò sarà vero quando lim ∆ƒ = 0.
∆P → 0
∆P → 0
D’altra parte
(**)
lim
∆P→0
∆ƒ = 0
⇔
lim ƒ(P + ∆P) = ƒ(P)
∆P → 0
Da (*) e (**) si deduce allora l’implicazione
( ƒ differenziabile in P) ⇒ ( ƒ continua in P)
*****************
Vogliamo ora dimostrare un teorema che garantisce la differenziabilità di una funzione.
A tale scopo premettiamo un risultato che si ottiene facilmente mediante il teorema di
Lagrange per le funzioni di una variabile.
Proposizione
Sia ƒ(x,y) una funzione derivabile in un aperto A. Per ogni coppia P = (x,y),
P+∆P =(x+∆x, y+∆y) di punti di A esiste un punto P = (x, y) tale che
∆ƒ = ƒx( x, y+∆y)∆x + ƒy(x, y)∆y dove
x e y sono tali che
x < x < x+∆x; y < y < y+∆y
il che significa che P è “interno” al segmento
di estremi P e P+∆P.
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Teorema ( condizione sufficiente di differenziabilità)
Sia ƒ(x,y) una funzione derivabile in un aperto A e P = (x,y) ∈ A. V. s. i.
(ƒx, ƒy continue in P) ⇒ (ƒ differenziabile in P)
e cioè ƒ è differenziabile in ogni punto di A nel quale le derivate sono continue.
Dimostrazione:
In base alla definizione dobbiamo dimostrare che:
∆ƒ – dƒ
lim
(∆x,∆y)→(0,0)
√ ∆x + ∆y
2
=0
2
Per la proposizione precedente, tenuto conto dell’espressione di dƒ, si ha:
∆ƒ – dƒ = [ ƒx(x, y + ∆y) – ƒx(x, y)]∆x + [ ƒy(x, y) – ƒy(x, y)]∆y.
Conseguentemente :
0≤
∆ƒ – dƒ
≤ | ƒx(x, y + ∆y) – ƒx(x, y) | .
√ ∆x2 + ∆y2
+ | ƒy(x, y) – ƒy(x, y) | .
| ∆x |
+
√ ∆x2 + ∆y2
| ∆y |
≤ | ƒx(x, y + ∆y) – ƒx(x, y)| + |ƒy(x, y) – ƒy(x, y)|
√ ∆x2 + ∆y2
dove x < x < x + ∆x e y < y < y + ∆y.
Passando al limite per (∆x,∆y) → (0,0) si ha l’asserto per l’ipotesi di continuità in
(x,y) delle derivate parziali e per il criterio di convergenza per confronto (che
continua a valere per le funzioni di due variabili).
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LO SPAZIO VETTORIALE R²
Consideriamo un riferimento cartesiano (O,x,y) dei punti del piano e il punto P di
coordinate cartesiane x e y, cioè P = (x,y), il quale rappresenta geometricamente
l’elemento (x,y) ∈ R².
È comodo in certi casi interpretare l’elemento (x,y) in
questione come il vettore v = (x,y) applicato
nell’origine O degli assi, avente per estremo il punto
P = (x,y) e componenti i numeri x, y.
In tale analisi di idee, si chiama somma dei due vettori
v1 = (x1, y1) e v2 = (x2, y2) il vettore:
v1 + v2 = (x1 + x2, y1 + y2)
e si chiama prodotto del vettore v = (x, y) per lo scalare λ
(cioè per il numero reale λ) il vettore: λ·v = (λx, λy).
Lo spazio R2 con le operazioni di somma e prodotto sopra definite si chiama lo spazio
vettoriale R2.
Per ogni vettore v = (x, y) si chiama modulo di v il numero reale non negativo:
|v| =
Il modulo di v rappresenta la distanza del punto P = (x,y) dalle origini degli assi
O = (0,0) e si chiama anche la lunghezza del vettore v.
Si chiama prodotto scalare dei due vettori v1= (x1, y1), v2 = (x2, y2) il numero reale:
v1 · v2 = x1·x2 + y1·y2
Si dimostra che v1 · v2 = |v1|·|v2 | ·cos ω dove ω è l’angolo formato dai due vettori.
FUNZIONI VETTORIALI
Siano x = x(t) e y =y(t) funzioni reali di una variabile definita in un intervallo I ⊆ R.
La seguente legge:
t ∈ I → (x, y) = (x(t), y(t)) ∈ R2
è una funzione definita in I e a valori in R2. Ricordando che lo spazio R2 può essere
interpretato come spazio di vettori, tale funzione si può anche interpretare come la
legge che ad ogni numero reale t associ il vettore v(t) =( x(t), y(t)) dello spazio R2. Per
questo motivo tale funzione si suole chiamare funzione vettoriale della variabile t di
componenti x = x(t) e y = y(t).
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Naturalmente questa nozione si può generalizzare.
Consideriamo ad esempio tre funzioni reali di due variabili x=x(u,v), y=y(u,v), z=z(u,v)
definite in un insieme A ⊆ R2. La seguente legge
(u, v) ∈ A → (x, y, z) = ( x(u,v), y(u,v), z(u,v) ) ∈ R2
È una funzione di due variabili a valori nello spazio R3.
Interpretando i punti di R3 come vettori, tale funzione si può anche definire come la legge
che ad ogni punto (u,v) ∈ A associ il vettore dello spazio P (u,v) = ( x(u,v), y(u,v), z(u,v) )
di componenti le tre funzioni x(u,v), y(u,v), z(u,v).
In conclusione ogni funzione definita in un sottinsieme di R2 e a valori nello spazio R3 si
chiama una funzione vettoriale di due variabili a tre componenti.
Definizione funzione vettoriale continue derivabili
Una funzione vettoriale si dice continua o di classe C(0) se tali sono le sue componenti;
derivabile se tali sono le sue componenti; di classe C(1) se le componenti sono continue,
derivabili o con derivate continue. Ogni vettore di componenti le derivate delle
componenti di una funzione vettoriale si chiama un vettore derivato.
Ad esempio la funzione v(t) = (x(t), y(t)) è continua se x(t), y(t) sono funzioni continue,
derivabile se x(t), y(t) sono derivabili.
∀t ∈ I il vettore v'(t) = (x'(t), y'(t)) è il vettore derivato.
La funzione vettoriale P(u,v) = (x(u,v), y(u,v), z(u,v)) è continua se x(u,v), y(u,v), z(u,v)
sono continue, derivabile parzialmente rispetto ad u e v se tali sono le componenti
x(u,v), y(u,v), z(u,v).
I vettori
Pu(u,v) = (xu(u,v), yu(u,v), zu(u,v))
Pv(u,v) = (xv(u,v), yv(u,v), zv(u,v))
Sono i vettori derivati rispetto ad u e v. Se P(u,v) e i vettori Pu e Pv sono continui allora la
funzione P(u,v) è di classe C(1).
DERIVATE DELLE FUNIONI CONTINUE
Supponiamo che una funzione F(t) = ƒ(x(t)) composta mediante le funzioni x(t) e ƒ(x),
se le funzioni componenti sono derivabili, è derivabile e vale la regola di derivazione
delle funzioni composte:
F '(t) = Dƒ(x(t)) · x'(t).
Il seguente teorema generalizza questo risultato.
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Teorema di derivazione delle funzioni composte
Siano ƒ(x, y) una funzione reale definita in un aperto A e (x(t), y(t)) una funzione
vettoriale della variabile reale t definita nell’intervallo I e a valori in A. In tali ipotesi
ha senso considerare la funzione composta F(t) = ƒ(x(t), y(t)) la quale risulta definita
in I. Vale la seguente implicazione.
F derivabile in t0 e
1) (x(t), y(t)) derivabile in t0∈I
⇒
2) ƒ(x, y) differenziabile in P0=(x0,y0)=(x(t0),y(t0))
F'(t0)=ƒx(P0)x'(t0)+ƒy(P0)y'(t0)
Definizione - vettore gradiente
Se ƒ(x,y) è una funzione derivabile in un aperto A, il vettore
Dƒ = (ƒx, ƒy)
si chiama gradiente di ƒ. Evidentemente ƒ è dotata di gradiente in un punto P = (x,y)
se è derivabile in P = (x,y).
Ciò premesso la regola di derivazione delle funzioni composte contenuta nel teorema
precedente si può esprimere nel seguente prodotto scalare:
F'(t) = Dƒ(x(t), y(t)) · (x'(t), y'(t))
∀t ∈ I
dove (x'(t), y'(t)) è il vettore derivato di (x(t), y(t)).
DERIVATE DIREZIONALI
È noto dalla Geometria Analitica che le equazioni parametriche
(*)
x = x0 + αt
y = y0 + βt
con α, β ∈ R e tali che α2 + β2 = 1 rappresentano sul piano cartesiano, al variare di t in
R, la retta passante per il punto P0 = (x0, y0) di coseni direttori α e β. Tale retta è
parallela ed equiversa al versore λ = (α, β) che viene
chiamato versore dell’asse r (asse significa retta
orientata). Evidentemente, assegnato il versore
λ = (α, β) ed il punto P0 = (x0, y0) risulta univocamente
individuato l’asse r passante per P0 avente la
stessa direzione di λ: si tratta della retta di equazione
parametrica (*).
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Definizione
Sia ƒ(x, y) una funzione reale definita in un aperto A, P0 = (x0, y0) ∈ A. Consideriamo
la funzione di una variabile F(t) = ƒ(x0+αt, y0+βt) composta mediante la funzione
scalare ƒ (componente esterna) e la funzione vettoriale (x(t), y(t)) = (x0+αt, y0+βt)
(componente interna) definita in R. Indicato con λ = (α, β) il versore dell'asse r
passante per P0 e di coseni direttori α e β si chiama derivata della funzione ƒ secondo
la direzione del versore λ in P0 (brevemente derivata di ƒ secondo la direzione λ in P0)
o anche derivata direzionale di ƒ in P0 secondo la direzione λ e si indica con uno dei
simboli:
ƒλ(P0); ƒλ(x0, y0); ∂ƒ (P0) ;
∂λ
∂ƒ (x , y )
0
0
∂λ
la derivata della funzione F(t) calcolata nel punto t = 0. In conclusione
ƒλ(P0) ≝ F'(0) e cioè ƒλ(P0) ≝ lim F(t) – F(0) = lim ƒ(x0+αt, y0+βt) – ƒ(x0, y0)
t →0
t
t →0
t
Osservazione
Se λ = (1,0) oppure λ = (0,1) e cioè se λ è uno dei versori degli assi coordinanti, si ha
ƒλ(P0)=lim
ƒ(x0+ t, y0) – ƒ(x0, y0)
t
t →0
ƒλ(x0, y0)=lim
t →0
ƒ(x0, y0+ t) – ƒ(x0, y0)
t
=ƒx(P0)
=ƒy(x0, y0)
in cui (sempre naturalmente che questi limiti esistano e siano finiti) le derivate
direzionali nelle direzioni degli assi coordinanti coincidono con le derivate parziali.
**************
Ci proponiamo di dimostrare che le funzioni differenziabili non solo sono dotate di
derivate parziali ma hanno anche derivate secondo ogni direzione.
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Teorema sulle derivate direzionali di una funzione differenziale
Sia ƒ(x, y) una funzione definita in un aperto A, P0 = (x0, y0) ∈ A. Per ogni direzione
λ = (α, β) vale la seguente implicazione:
(ƒ differenziabile in P0) ⇒ ( ƒλ(P0) = ƒx(P0)·α + ƒy(P0) ·β).
Dimostrazione:
Per ogni versore λ = (α,β) consideriamo la funzione F(t) = ƒ(x0 + αt, y0 + βt).
F è funzione composta mediante la funzione ƒ(x, y) e la funzione vettoriale
(x(t), y(t)) = (x0 + αt, y0 + βt) con t ∈ R. Essendo (x0 + αt, y0 + βt) derivabile nel punto
t = 0 e ƒ(x, y) differenziabile nel punto P0 = (x0, y0) corrispondente di t = 0 mediante la
funzione vettoriale, per il teorema di derivazione delle funzioni composte F(t) è derivabile
in t = 0 e risulta:
F'(0) = ƒx(P0) · x'(t0) + ƒy(P0) · y'(t0) = ƒx(x0,y0) · α + ƒy(x0, y0) · β.
Ma ciò significa secondo definizione ƒλ(x0, y0) = F'(0), che risulta
ƒλ(x0, y0) = ƒx(x0, y0) · α + ƒy(x0, y0) · β.
Il teorema è dimostrato.
Osservazione notevole
Da questo teorema si deduce che, se ƒ(x,y) è differenziabile in P0 = (x0, y0), per ogni
direzione λ = (α, β) risulta:
ƒλ(P0) = Dƒ(P0) · λ
dove Dƒ (P0) denota il gradiente di ƒ in P0.
Ricordando che il prodotto scalare di due vettori è nullo se e solo se i due vettori sono
ortogonali, ne segue che la derivata direzionale di ƒ in P0 secondo la direzione λ è nulla
quando il gradiente Dƒ(P0) = (ƒx(P0), ƒy(P0)) è ortogonale alla direzione λ = (α, β).
Ricordando ancora che il prodotto scalare di due vettori è massimo quando i due vettori
sono paralleli ed equiversi, ne segue anche che ƒλ(P0) assume il massimo valore quando il
gradiente Dƒ(P0) è parallelo ed equiverso alla direzione λ = (α, β).
IL TEOREMA DI LAGRANGE
Premettiamo che dati due punti P0 = (x0, y0) e P1 = (x1, y1) nel piano cartesiano (O,x,y) i
punti P = (x,y) tali che:
x = x0 + t( x1 - x0) ; y = y0 + t(y1- y0) con t ∈ [0,1]
al variare di t nell’intervallo compatto [0,1] descrivono il segmento di estremi i punti
P0 e P1 che si denota con il simbolo P0P1.I punti di P0P1 distinti dagli estremi si dicono
punti interni al segmento.
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Ciò premesso ci proponiamo di dimostrare il seguente
Teorema di Lagrange
Sia ƒ(x,y) una funzione definita in un aperto A e differenziabile sul segmento P0P1∈A. In
tali ipotesi esiste un punto Q interno al segmento P0P1 tale che:
ƒ(P1) – ƒ(P0) = ƒx(Q) (x1-x0) + ƒy(Q)(y1-y0).
Dimostrazione:
Consideriamo la funzione:
F(t) = ƒ(x0 + t (x1-x0), y0 + t (y1-y0)) con t ∈ [0,1].
Osserviamo innanzitutto che tale funzione è composta mediante la funzione vettoriale
(x(t),y(t)) = (x0 + t (x1-x0), y0 + t (y1-y0)) (componente interna) derivabile in [0,1] e la
funzione ƒ(x,y) (componente esterna) la quale per ipotesi è differenziabile in ogni punto
del segmento P0P1. Ne segue, per il teorema di derivazione delle funzioni composte, che
F(t) è derivabile in [0,1] e inoltre:
F'(t) = ƒx(x(t), y(t))·(x1-x0) + ƒy(x(t),y(t))·(y1-y0) ∀t ∈ [0,1].
Ciò posto, applicando a F(t) il teorema di Lagrange relativo alle funzioni di una variabile,
si ha:
F(1) – F(0) = F'(t) · 1 con t ∈ ]0,1[
e di qui, osservato che F(1) = ƒ(P1), F(0) = ƒ(P0) e posto Q = (x0 + t (x1-x0), y0 + t (y1- y0)),
si ha la tesi.
Osservazione
Se denotiamo con Dƒ = (ƒx, ƒy) il gradiente di ƒ(x,y) e P1 - P0 = (x1-x0, y1-y0) il vettore
di componenti x1-x0, y1-y0, la formula di Lagrange per le funzioni di due variabili si
può esprimere mediante il prodotto scalare di due vettori Dƒ e P1 – P0 :
ƒ(P1) – ƒ(P0) = Dƒ(Q) · (P1 - P0)
FUNZIONI CON GRADIENTE NULLO IN UN CONNESSO
Premettiamo che un aperto A dello spazio R2 si dice
un aperto connesso quando per ogni coppia di punti
distinti P e Q di A esiste una poligonale semplice che
lì congiunge tutta contenuta in A.
Ciò posto, utilizzando il teorema di Lagrange per le
funzioni di due variabili, dimostriamo il seguente
teorema.
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Teorema sulle funzioni con gradiente nullo
Sia ƒ(x,y) una funzione reale definita in un aperto A ed ivi derivabile sicché è lecito
considerare il gradiente Dƒ di ƒ in ogni punto di A. Vale la seguente implicazione:
( Dƒ identicamente nullo in A e A aperto connesso ) ⇒ ( ƒ costante in A )
Dimostrazione:
Si tratta di dimostrare che (x', y') ≠ (x'', y'') Þ ƒ(x',y') = ƒ(x'',y'').
Poniamo P' = (x', y'), P''=(x'', y'') e consideriamo il segmento P'P''di estremi P' eP''. Si
distinguono i due casi:
1°) P'P'' ⊆ A. In tal caso, applicando il teorema di
Lagrange al segmento in questione si ha:
ƒ(P'') – ƒ(P') = Dƒ(Q) · P'' – P'= 0 · (P'' – P') = 0
(2°) P'P'' ⊈ A (vedi figura). Essendo A un aperto connesso esiste una poligonale contenuta
in A che congiunge P' con P''. Detti P1= P', P2, P3, …, Pn = P'' i vertici di tale poligonale,
applicando il teorema di Lagrange ai segmenti P1P2, P2P3, …, Pn-1Pn si ha successivamente:
ƒ(P') = ƒ(P1) = ƒ(P2)=…= ƒ(Pn-1) = ƒ(Pn) = ƒ(P'')
e di qui ancora la tesi.
MASSIMI E MINIMI RELATIVI
Definizione 1
Sia ƒ(P) = ƒ(x,y) una funzione definita in un insieme A e P0 = (x0, y0) ∈ A. Si dice che P0
è un punto di massimo (o minimo) relativo per la funzione ƒ in A se vale la seguente
proprietà:
∃ un intorno I(P0) di P0 : ƒ(P) ≤ ƒ(P0)
(ƒ(P) ≥ ƒ(P0))
∀P = (x, y) ∈ I(P0) ∩ A
Un punto di minimo o di massimo relativo si chiama un punto di estremo relativo.
Ci proponiamo, in analogia al caso delle funzioni di una variabile, di stabilire una
condizione necessaria di estremo relativo e cioè di stabilire un risultato analogo del
teorema di Fermat.
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Condizione necessaria di estremo relativo
Sia ƒ(P) = ƒ(x, y) una funzione di due variabili definita in un insieme A e P0 = (x0, y0) un
punto interno ad A nel quale risulti derivabile. Vale la seguente implicazione
(P0 punto di estremo relativo per ƒ in A) ⇒ ( Dƒ(P0) = 0 cioè ƒx(P0) = ƒy(P0) = 0 )
Dimostrazione:
Supponiamo per fissare le idee che P0 sia un punto di
massimo relativo. Essendo P0 ∈ Å esiste un intorno
Iδ(P0) di centro P0 e raggio δ tutto contenuto in A tale
che ƒ(x, y) ≤ ƒ(x0,y0) ∀(x,y) ∈ Iδ(P0).
Consideriamo la funzione di una variabile
F(x) = ƒ(x,y0)
che risulta essere (vedi figura) la restrizione di ƒ(x,y)
al diametro del cerchio Iδ(P0) parallelo all’asse x.
Evidentemente risulta
F(x) ≤ F(x0)
∀x ∈ ]x0 – δ; x0 +δ [
per cui x0 è un punto di massimo relativo per F interno ad un intervallo. Per il teorema di
Fermat risulta allora F'(x0) = ƒx(x0, y0) = 0.
In maniera analoga si dimostra anche che ƒy(x0, y0) = 0. Il teorema è dimostrato.
Definizione 2 (Punto stazionario)
Un punto P0 = (x0, y0) ∈ Å in cui risulta Dƒ(P0) = 0 si chiama un punto stazionario o
anche punto estremante per ƒ in A.
Vogliamo ora enunciare un teorema che fornisce una condizione sufficiente di estremo
relativo e che ha una certa analogia con la condizione sufficiente per le funzioni di una
variabile che si esprime nella seguente implicazione
(ƒ'(x0) = 0 ƒ ''(x0) < 0 (>0)) ⇒ (x0 punto di massimo (di minimo) relativo per ƒ).
A tale scopo premettiamo una definizione
Definizione 3
Sia ƒ(x,y) una funzione reale di classe C(2) in un aperto A (cioè continua con le
derivate prima e seconda in A). Il determinante
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ƒxx(x, y)
ƒxy(x, y)
H(x, y) = ƒ (x, y)
yx
ƒyy(x, y)
=ƒxx(x, y)ƒyy(x, y) – ƒxy2(x, y)
si chiama determinante hessiano di ƒ in A.
Ciò premesso si dimostra la seguente
Condizione sufficiente di estremo relativo
Sia ƒ(x,y) una funzione reale definita in un insieme A e P0 = (x0, y0) ∈ Å.
Supponiamo, inoltre, che esista un intorno I(P0) di P0 contenuto in A nel quale ƒ sia di
classe C (2). Vale la seguente implicazione.
1) Dƒ(P0) = 0
2) H(P0) > 0
3) ƒxx(P0) < 0 ( > 0)
Dƒ(P0) = 0 e H(P0) < 0
⇒
⇒
P0 è un punto di massimo relativo
(minimo relativo) per ƒ in A
P0 non è un punto di estremo relativo per ƒ in A
Osservazione
E’ utile per le applicazioni osservare che
(H(x, y) = ƒxx·ƒyy – ƒxy2 > 0 ) ⇒ ( ƒxx ·ƒyy > 0)
Conseguentemente
( ƒxx < 0 ) ⇒ ( ƒyy < 0)
(> 0)
( > 0)
********************
REGOLA PER DETERMINARE GLI ESTREMI RELATIVI
Sia ƒ(x,y) una funzione di due variabili definita in un insieme A e di classe C(2) in Å.
In tale ipotesi i punti (x,y) ∈ Å che sono di estremo relativo per ƒ in A vanno cercati
tra la soluzione del sistema:
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ƒx(x, y) = 0
ƒy(x, y) = 0
che risultano appartenere ad Å (cioè interne ad A).
Se (x0, y0) ∈ Å è una soluzione si calcola l’hessiano H(x0, y0). Possono presentarsi i
seguenti tre casi:
1. H(x0, y0) > 0. In tal caso (x0, y0) è un punto di estremo relativo per ƒ.
Precisamente è un punto di massimo relativo se ƒxx(x0, y0) = ƒyy(x0, y0) < 0; un punto di
minimo relativo se ƒxx(x0, y0) = ƒyy(x0, y0) > 0.
2. H(x0, y0) < 0. In tal caso (x0,y0) non è un punto di estremo relativo.
3. H(x0, y0) = 0. In tal caso (x0, y0) può essere come può non essere un punto di estremo
relativo e non si possono trarre considerazioni a meno che non si riesca a studiare il segno
di ƒ in un intorno di (x0,y0).
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Capitolo 2
EQUAZIONI DIFFERENZIALI LINEARI
Premessa
Ricordiamo che si chiama insieme dei numeri complessi in forma algebrica l’insieme
C = {a + ib : (a,b) ∈ R2}
Un elemento di C cioè il numero complesso a + ib è un’espressione nella quale
i≝
(sicché i² = -1), a si chiama parte reale di a + ib, ib parte immaginaria di a + ib.
L’insieme C è un ampliamento di R (cioè R ⊆ C ) perché se b = 0 risulta a+ib = a ∀a ∈ R.
Ciò posto, consideriamo le funzioni reali a(x) e b(x) definite in un intervallo I ⊆ R.
La legge di corrispondenza
F : x ∈ I → a(x) + ib(x) ∈ C
che si può anche denotare
F(x) = a(x) + ib(x)
∀x ∈ I
è una funzione definita in I e a valori in C che si chiama funzione complessa di variabile
reale.
Tale funzione si dice continua, derivabile in I se tali sono le funzioni reali a(x) e b(x).
Se ƒ è derivabile in I la funzione
DF(x) = Da(x) + i Db(x)
∀x ∈ R
si chiama la derivata di F. Le derivate successive si definiscono poi nel seguente modo:
D(2)F(x)= D(D F(x))= D(2)a(x)+ i D(2)b(x)
D(3)F(x)= D(D2 F(x)) = D(3)a(x)+ i D(3)b(x); ecc. ecc.
È chiaro a questo punto che cosa significhi che F è di classe C(1) in I e più in generale, che
cosa significhi che F è di classe C(n) in I con n ≥ 1.
Esempio notevole
Sia λ = a + ib un numero complesso, si pone per definizione
℮λx = ℮(a+ib)x = ℮ax(cosbx + isenbx)
∀x ∈ R
Tale espressione è una funzione complessa di variabile reale che ad ogni x ∈ R associa il
numero complesso F(x) = ℮ax(cosbx + isenbx), e si chiama funzione esponenziale nel
campo complesso, brevemente esponenziale complesso.
Si verifica facilmente che l’esponenziale complesso è continua e derivabile risultando
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D℮λx = λ℮λx
Pertanto continuano a valere per l’esponenziale complesso le formule di derivazione
dell’esponenziale.
Analogamente al caso reale le derivate successive di ℮λx risultano essere
D(2)℮λx = λ2℮λx ; D(3)℮λx = λ3℮λx ; ... ; D(n)℮λx = λn℮λx , ∀n ∈ N
Ciò premesso veniamo ora alle equazioni differenziali linaeri.
Definizione
Siano a1(x), a2(x),…, an(x), ƒ(x) n +1 funzioni reali continue in un intervallo I qualsiasi.
L’espressione:
(*)
y(n) + a1(x) · y(n-1) + … + an-1(x) · y ' + an(x) · y = ƒ(x)
si chiama equazione differenziale lineare di ordine n avente per coefficienti le n assegnate
funzioni a1(x), a2(x),…, an(x) e termine noto la funzione ƒ(x).
Ogni funzione y = y(x), reale o complessa, di classe C(n) in I che verifichi (*) si dice una
soluzione o anche, per un motivo che vediamo tra poco, un integrale dell’equazione
differenziale. Se il termine noto ƒ(x) è nullo in I, l’equazione differenziale si dice
omogenea.
Osservazione 1
L’equazione differenziale(*) si dice lineare perchè, considerata la legge di corrispondenza:
L : y ∈C(n)(I) → y(n) + a1(x)y(n-1) +... + an(x) y
la quale viene chiamata operatore differenziale, si verifica facilmente che L gode della
seguente proprietà di linearità :
L (c1y1 +c2y2) = c1 L (y1) + c2 L (y2)
per ogni coppia c1 , c2 di costanti reali o complesse.
Si noti ancora che, utilizzando l’operatore differenziale
L (y) = y(n) + a1(x) · y(n-1) +... + an(x) · y
l’equazione differenziale (*) si può scrivere sinteticamente nella forma
L(y) = ƒ
Osservazione 2
Si noti che, per la linearità dell’operatore L, se y1 e y2 sono soluzioni dell’equazione
omogenea L(y) = 0 anche ogni loro combinazione lineare c1y1 + c2y2 con le costanti c1 e c2
è soluzione dell’equazione differenziale. Cioè vale la seguente implicazione
(L(y1 ) = L(y2 ) = 0) ⇒ ( L(c1y1 + c2y2 ) = 0 )
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Osservazione 3
In generale è semplice verificare che una data funzione è soluzione di un’equazione
differenziale lineare; è meno facile invece stabilire quali sono le soluzioni e non è chiaro a
priori se le soluzioni trovate sono tutte le possibili soluzioni.
IL PROBLEMA DI CAUCHY
Consideriamo di nuovo l’equazione differenziale lineare del 1° ordine
y ' = ƒ(x)
Abbiamo visto che, se ƒ è continua nell’intervallo I, tutte le soluzione reali di tale
equazione differenziale si possono esprimere nella forma
(*)
y(x) = ∫ ƒ(t)dt + c
con x, x0 ∈ I
e
c∈R
Evidentemente ∀x0 ∈ I e ∀h0 ∈ R esiste un’unica soluzione di tale equazione
differenziale che verifica la condizione y(x0) = h0 e tale soluzione è la funzione
y(x) = ∫ ƒ(t)dt + h0
ottenuta da (*) ponendo c = h0
Conseguentemente possiamo affermare che l’equazione differenziale y ' = ƒ(x) ammette
infinite soluzioni mentre il problema
y ' = ƒ(x)
(**)
y (x0) = h0
ammette un’unica soluzione ∀x0 ∈ I e ∀h0 ∈ R.
Il problema sopra riportato si chiama un problema di Cauchy relativo all’equazione
differenziale y '= ƒ(x) di punto iniziale x0 e condizione iniziale y(x0) = h0.
Tutto ciò si generalizza come segue. Sia L(y) = ƒ un’equazione differenziale lineare di
ordine n a coefficienti e termine noto continui in un intervallo I. ∀x0 ∈ I e
∀(h0, h1, …., hn-1) ∈ Rn il problema di determinare le soluzioni di tali equazioni definite in
I e verificanti le n condizioni y(x0) = h0, y'(x0) = h1,….., y(n-1)(x0) = hn-1 si denota con il
simbolo
L(y) = ƒ
(***)
y(x0) = h0, y'(x0) = h1,….., y(n-1)(x0) = hn-1
e si chiama il problema di Cauchy di punto iniziale x0 e condizioni iniziali
y(x0) = h0, y'(x0) = h1,….., y(n-1)(x0) = hn-1 relativo all’equazione differenziale L(y) = ƒ.
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Nel caso particolare dell’equazione differenziale y'=ƒ(x) abbiamo visto che ogni problema
di Cauchy ammette un’unica soluzione reale.
Tale risultato sussiste in generale perchè si dimostra il seguente
Teorema di esistenza e di unicità
Se i coefficienti e il termine noto dell’equazione differenziale L(y) = ƒ sono funzioni
continue nell’intervallo I, ∀x0 ∈ I e ∀(h0, h1, …, h(n-1)) ∈ Rn esiste un’unica soluzione
reale del problema di Cauchy, e cioè un’unica soluzione reale y = y(x) definita in I e
verificante le n condizioni iniziali
y(x0) = h0, y'(x0) = h1,….., y(n-1)(x0) = hn-1
INTEGRALE GENERALE E INTEGRALI PARTICOLARI
Premettiamo che se L(y) = ƒ è un’equazione differenziale lineare di ordine n, l’equazione
L(y) = 0 si chiama equazione omogenea associata di L(y) = ƒ. Una volta data questa
definizione l’equazione L(y) = ƒ si chiama equazione completa.
Ciò posto, abbiamo visto che un’equazione differenziale lineare L(y) = ƒ di ordine n, per il
teorema di esistenza e di unicità, ammette infiniti integrali reali ciascuno dei quali è
soluzione di un problema di Cauchy. Conseguentemente ha senso la seguente
Definizione (di integrale generale)
Sia L(y) = ƒ un’equazione differenziale lineare di ordine n. Si chiama integrale generale di
tale equazione l’insieme di tutti gli integrali reali. Ogni soluzione dell’equazione stessa si
chiama un integrale particolare.
Vogliamo ora mettere in luce una proprietà molto importante degli integrali di
un’equazione lineare.
Teorema ( sull’integrale di un’equazione lineare completa)
Sia L(y) = ƒ un’equazione differenziale lineare completa di ordine n e y un suo integrale
particolare (prefissato una volta per tutte). Vale la seguente implicazione
( y: L(y) = ƒ ) ⇔ ( y = y0 + y
con y0 : L(y0 ) = 0)
In altri termini: ogni integrale di un’equazione completa si esprime come somma di un
integrale dell’omogenea associata e di un integrale della completa; viceversa la somma di
un integrale dell’omogenea associata e di un integrale dell’equazione completa è un
integrale dell’equazione completa.
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Dimostrazione ⇒
Se y è integrale di L(y) = ƒ, per la linearità dell’operatore L, y0= y – y è un integrale
dell’omogenea associata L(y) = 0 e dunque y = y0 + y con y0 integrale dell’omogenea L(y)
= 0.
Dimostrazione ⇐
Se y = y0 + y con y0 : L(y0) = 0, per la linearità dell’operatore L, risulta anche
L(y) = L(y0) + L(y) = 0 + ƒ = ƒ e dunque y è integrale della completa.
Il teorema è dimostrato.
Osservazione notevole
Da questo teorema si deduce che si se conoscono tutti gli integrali dell’omogenea
L(y) = 0 e un solo integrale particolare della completa L(y) = ƒ, allora si conoscono anche
tutti gli integrali della completa L(y) = ƒ.
Conseguentemente: l’integrale generale di un’equazione lineare si esprime come somma
dell’integrale generale dell’omogenea associata e l’integrale particolare (reale) della
completa.
L’EQUAZIONE LINEARE DEL 1° ORDINE
Ci proponiamo di determinare l’integrale generale dell’equazione differenziale
y ' + a(x)y = ƒ(x)
con coefficiente e termine noto continui in un intervallo I.
A tale scopo è bene osservare che, per il teorema di esistenza e di unicità dell’equazione
differenziale lineare, l’omogenea associata
(*)
y ' + a(x)y = 0
ammette in I, oltre all’integrale nullo, integrali reali che sono o sempre positivi in I oppure
sempre negativi.
Teorema
Considerata l’equazione lineare omogenea del 1° ordine (*) e indicata con A(x) una
primitiva della funzione a(x), l’espressione
(**)
y = c · ℮ -A(x)
al variare di c in R fornisce tutti gli integrali reali dell’equazione e cioè fornisce l’integrale
generale.
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Dimostrazione:
Sia y(x) un’integrale reale dell’equazione (*) diverso dall’integrale nullo y(x)=0 ∀x ∈ I.
Essendo y(x) una soluzione di (*) risulta:
y'(x) + a(x) y(x) = 0
da cui, ricordando che dy = y'(x)dx
1 dy = -a(x)dx
y(x)
e integrando si ha successivamente
∫
∫
1 dy = - a(x)dx ;
y(x)
log |y(x)| = -A(x) + k
con k ∈ R
|y(x)| = ℮-A(x)+k = ℮k · ℮-A(x)
y(x) = ±℮k · ℮-A(x)
dove va scelto il segno + se y(x) > 0 in I, il segno – se y(x) < 0. Posto, infine, c = ± ℮k si
ha l’asserto quando si osservi anche che per c = 0 l’espressione (**) fornisce l’integrale
nullo.
Viceversa, verifichiamo che l’espressione (**) ∀c ∈ R è intergale dell’equazione (*). Si
ha:
y(x) = c · ℮-A(x) ⇒
y ' (x) = – c · ℮-A(x) · a(x)
sostituendo nell’equazione y' + a(x)y = 0 si ha l’asserto.
Osservazione notevole
Dalla dimostrazione di questo teorema si deduce che per integrare un ‘equazione lineare
omogenea del primo ordine nella pratica conviene eseguire le seguenti due operazioni.
1) Considerata l’equazione (*) si pone dy/dx in luogo di y' e si scrive l’equazione
stessa nella forma
dy/y = -a(x)dx
Quando si effettua questa operazione si dice che nell’equazione (*) si separano le variabili
x e y.
2) si integra membro a membro quest’ultima eguaglianza.
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EQUAZIONE LINEARE OMOGENEA A COEFFICIENTI COSTANTI
Premettiamo che è noto dall’algebra che un’equazione di grado n
a0 xn + a1 xn-1, …, an-1 x + an = 0
a coefficienti a0, a1, ..., an reali se ammette una radice complessa ammette anche la radice
complessa coniugata e le due radici hanno lo stesso ordine di molteplicità.
Definizione
Consideriamo l’equazione lineare omogenea a coefficienti costanti a1, a2, …, an
(*) L(y) = y(n) + a1 y(n-1) + … an y = 0
L’equazione algebrica di grado n
p(λ) = λn + a1 λn-1 + ... + an
che si ottiene da (*) sostituendo la derivata y(k) con la potenza λk ( k = 0, 1, 2, ..., n) si
chiama equazione algebrica caratteristica dell’equazione differenziale omogenea (*).
Esempio
Consideriamo l’equazione differenziale
y(4) + y(3) + y =0
L’equazione algebrica caratteristica di questa equazione è
λ4 + λ3 + 1 = 0
Ciò posto, l’equazione algebrica caratteristica ha un ruolo fondamentale nella risoluzione
(cioè nella determinazione dell’integrale generale) dell’equazione lineare omogenea (*)
quando i coefficienti a1, a2, …, an sono costanti reali.
Sussiste infatti il seguente risultato.
Teorema1
Considerata l’equazione algebrica caratteristica dell’equazione differenziale (*) , vale la
seguente equivalenza
( λ radice dell’eq. p(λ) = 0 reale o complessa ) ⇔ ( y = eλx integrale dell’eq. diff.(*) )
e cioè la funzione y = eλx è integrale particolare dell’equazione differenziale (*) se e solo
se λ è radice della sua equazione algebrica caratteristica.
Dimostrazione:
Risulta, in forza di quanto premesso sull’esponenziale complesso,
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L(y) = L(eλx) = λn eλx + a1λn-1 eλx +…+ an-1λ eλx + an eλx = eλx · p(λ)
e conseguentemente
( L(eλx) = 0 ) ⇔ ( p(λ) = 0)
Osservazione 1
Se λ = a + ib è una radice complessa dell’equazione p(λ) = 0, per quanto premesso
all’inizio, l’equazione p(λ) = 0 ammette anche la radice complessa coniugata λ = a – ib.
Per il teorema 1 tali radici complesse coniugate determinano i due integrali particolari
complessi:
℮λx = ℮ax (cosbx + isenbx ) ; ℮λx = ℮ax (cosbx – isenbx )
i quali non si scrivono perchè noi cerchiamo gli integrali reali dell’equazione differenziale.
Tuttavia, per la linearità dell’operatore L(y) risulta:
L ( ℮(a±ib)x ) = L ( ℮ax cosbx + i ℮ax senbx ) = L(℮ax cosbx) ± iL(℮ax senbx)
Conseguentemente
( L(℮ (a±ib)x ) = 0 ) ⇔ ( L(℮ax cosbx) = 0, L(℮ax senbx) = 0 )
e cioè: l’equazione differenziale lineare omogenea L(y) = 0 ammette i due integrali
complessi coniugati ℮λx, ℮λx se e solo se ammette i due integrali reali ℮axcosbx, ℮axsenbx.
Si conclude che nella risoluzione di un’equazione lineare omogenea a coefficienti costanti
con il metodo dell’equazione algebrica caratteristica è lecito sostituire la coppia di
integrali complessi ℮λx ed ℮λx con la coppia di integrali reali ℮axcosbx, ℮axsenbx.
Osservazione 2
Nella risoluzione dell’equazione algebrica caratteristica p(λ) = 0 può capitare di
determinare delle radici (reali o complesse) multiple di ordine k (k > 1). In tal caso si
dimostra che se λ è una radice multipla di ordine k allora le k funzioni
℮λx;
x·℮λx;
x2 · ℮λx;
...
;
xk-1 · ℮λx
sono integrali (reali o complessi) dell’equazione differenziale lineare L(y) = 0 mentre tale
non è la funzione xk · ℮λx .
Conseguentemente, poiché la somma degli ordini di molteplicità delle radici di
un’equazione di grado n è n, è possibile in ogni caso (risolvendo l’equazione algebrica
caratteristica) determinare n integrali particolari distinti dell’equazione differenziale
L(y)=0. Naturalmente tra questi n integrali vi possono essere delle coppie di integrali
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complessi coniugati, però, come abbiamo visto, queste coppie di integrali complessi
possono essere sostituiti con le coppie di integrali reali.
In conclusione possiamo affermare che, risolvendo l’equazione algebrica caratteristica è
possibile in ogni caso trovare n integrali particolari reali e distinti dell’equazione
differenziale L(y) = 0.
Ciò posto si dimostra il seguente risultato.
Teorema 2
Considerata l’equazione differenziale lineare omogenea di ordine n L(y) = 0 e detti
y1(x), y2(x),…, yn(x) gli n integrali particolari reali e distinti determinati col metodo
dell’equazione algebrica caratteristica l’espressione
y = c1y1(x) + c2y2(x)+ … +cn yn(x)
dove c1, c2, …, cn sono n costanti reali arbitrarie, rappresenta l’integrale generale
dell’equazione differenziale L(y) = 0.
METODO DELLA VARIAZIONE DELLE COSTANTI
Consideriamo un’equazione differenziale lineare L(y) = ƒ(x) a coefficienti costanti e
completa. Sappiamo che l’integrale generale è somma dell’integrale generale
dell’omogenea associata L(y) = 0 e di un integrale particolare dell’equazione stessa. Ne
segue che è molto importante determinare un suo integrale particolare y(x).
Sussiste in proposito il seguente teorema.
Teorema della variazione delle costanti( di Lagrange)
Siano y1, y2,…, yn gli n integrali particolari dell’omogenea L(y) = 0 che si ottengono col
metodo dell’equazione caratteristica e γ1(x), γ2(x), …, γn(x) n funzioni reali di classe C(1).
Se le derivate γ1', γ2', …, γn' di tali funzioni soddisfano il sistema:
γ1'·y1 + γ2'·y2 + … + γn'·yn = 0
γ1'·y1' + γ2'·y2' + … + γn'·yn' = 0
...................................
γ1'·y1(n-2) + γ2'·y2(n-2) + … + γn'·yn(n-2) = 0
γ1'·y1(n-1) + γ2'·y2(n-1) + … + γn'·yn(n-1) = ƒ
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allora la funzione y = γ1(x)y1(x) + γ2(x)y2(x) +..+ γn(x)yn(x) è un integrale particolare
dell’equazione completa L(y) = ƒ.
Dimostrazione:
Per semplicità dimostriamo il teorema supponendo l’equazione L(y) = ƒ del secondo
ordine. Dobbiamo provare che la funzione y = γ1(x)y1(x) + γ2(x)y2(x) soddisfa tale
equazione nell’ipotesi che γ1' e γ2' soddisfano il sistema
γ1' y1 + γ2' y2 = 0
γ1' y1' + γ2' y2' = ƒ
Si tratta di una semplice verifica. Infatti, derivando y e tenuto conto della prima equazione
del sistema (*), si ha
y' = γ1y1' + γ2y2'
Derivando ancora e tenuto conto della seconda equazione del sistema (*) si ha
y '' = ƒ + γ1y1'' + γ2y2''
Sostituendo nell’equazione differenziale
L(y)=y '' + a1(x)y' + a2(x)y = ƒ + γ1y1'' + γ2 y2'' + a1(x)(γ1y1' + γ2y2') + a2(x)(γ1y1 + γ2 y2)= =
ƒ + γ1L(y1) + γ2L(y2) = ƒ + 0 + 0 = ƒ
Il teorema è dimostrato.
Osservazione 1
Si noti che l’integrale particolare dell’equazione completa fornito dal teorema di Lagrange
precedente si ottiene a partire dall’integrale generale
y = c1y1 + c2y2+ ... + cnyn
dell’omogenea associata sostituendo le costanti c1, c2, ..., cn con altrettanti funzioni
incognite γ1, γ2, ..., γn.
E’ questo il motivo per cui la ricerca di un integrale particolare dell’equazione completa
nella forma
y = γ1y1 + γ2y2 + ... + γnyn
indicata dal teorema si chiama metodo della “variazione” delle costanti.
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Osservazione 2
Abbiamo visto che per trovare un integrale particolare dell’equazione completa è
necessario risolvere il sistema di n equazioni lineari nelle n incognite γ1', γ2', ..., γn'
γ1'·y1 + γ2'·y2 + … + γn'·yn = 0
γ1'·y1' + γ2'·y2' + … + γn'·yn' = 0
...................................
γ1'·y1(n-2) + γ2'·y2(n-2) + … + γn'·yn(n-2) = 0
γ1'·y1(n-1) + γ2'·y2(n-1) + … + γn'·yn(n-1) = ƒ
Si noti che, una volta risolto questo sistema e cioè una volta determinate le funzioni
γ1', γ2', ..., γn', per trovare le funzioni incognite γ1, γ2, ..., γn occorre calcolare ancora n
integrali indefiniti. Precisamente
γ1 = ∫ γ1'dx;
γ2 = ∫ γ2'dx;
...;
γn = ∫ γn'dx
Naturalmente in tal modo le n funzioni γ1, γ2, ..., γn vengono determinate a meno di una
costante additiva la quale però non ci interessa e può essere trascurata.
EQUAZIONI LINEARI A COEFFICIENTI COSTANTI CON TERMINE
NOTO DI TIPO PARTICOLARE
Il metodo di Lagrange per la determinazione di un integrale particolare dell’equazione
completa L(y) = ƒ è molto laborioso perché richiede la risoluzione di un sistema di
equazioni lineari e il calcolo di integrali indefiniti. Per tale motivo è molto utile nella
pratica ogni procedimento che consente di evitare l’uso del metodo di Lagrange. Sussiste
in proposito il seguente risultato che per brevità non dimostriamo.
Proposizione
Sia L(y) = ƒ un’equazione lineare completa a coefficienti costanti e supponiamo che il
termine noto abbia l’espressione
(*)
ƒ(x) = ℮αx ( p(x)cosβx + q(x)senβx)
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con p(x) e q(x) polinomi a coefficienti reali e α e β costanti reali.
In tali ipotesi se il numero complesso α + iβ non è radice dell’equazione algebrica
caratteristica dell’omogenea associata L(y) = 0 allora l’equazione completa ammette
l’integrale particolare (dello stesso tipo):
(**) y(x) = ℮αx ( p1(x) cos βx + q1(x) sen βx )
essendo p1 e q1 due polinomi di grado uguale al maggiore dei gradi dei polinomi p e q.
Se, invece, α + iβ è radice dell’equazione caratteristica di molteplicità k (≥ 1) l’equazione
completa ammette l’integrale particolare
(**) y(x) = xk ℮αx (p1(x) cos βx + q1(x) sen βx)
Osservazione 1
Dalla proposizione precedente, i numeri reali α e β e i polinomi p(x) e q(x) si deduce che il
termine noto dell’equazione L(y) = ƒ e del tipo (*) anche quando:
1. ƒ(x) = p(x) e cioè ƒ è un polinomio; (α = 0 e β = 0)
2. ƒ(x) = ℮αx p(x) e cioè ƒ è il prodotto di un esponenziale per un polinomio (β = 0)
3. ƒ(x) = ℮αxp(x) cos βx ; ƒ(x) = ℮αxq(x) sen βx e cioè ƒ è il prodotto di un
esponenziale per un polinomio per un coseno o seno (q(x) identicamente nullo
oppure p(x) identicamente nullo).
Osservazione 2
Si noti che l’integrale particolare (**) fornito dalla proposizione precedente è della stessa
forma del termine noto dell’equazione differenziale.
Osservazione 3
Si noti che la proposizione precedente assicura l’esistenza e il grado dei due polinomi p1 ,
q1 ma non fornisce l’espressione di tali polinomi.
Conseguentemente nella pratica occorre determinare i polinomi p1 e q1 e cioè occorre
calcolare i loro coefficienti.
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Capitolo 3
CURVE PIANE
Definizione 1
Sia P(t) = (x(t), y(t)) una funzione vettoriale di classe C(0) in un intervallo compatto [a,b] e
cioè a componenti x(t), y(t) continue in [a,b]. Si chiama curva parametrica piana o
brevemente curva piana, l’insieme
Γ = { (x,y) ∈ R2 : x = x(t), y = y(t) ∀t ∈ [a, b] }
o anche, posto P = (x,y) e indicato con Π il piano cartesiano (O, x, y):
Γ = { P∈Π : P = P(t)
Le equazioni
(*)
∀t ∈ [a, b] }.
x = x(t)
y = y(t)
si chiamano equazioni parametriche della curva Γ mentre t si chiama parametro e [a,b]
intervallo base della rappresentazione parametrica. L’equazione: P = P(t); t ∈ [a,b] dove
P(t) = (x(t),y(t)) equazione parametrica vettoriale di Γ. I punti P' = P(a) e P'' = P(b) si
chiamano gli estremi di Γ, i punti di Γ diversi dagli estremi, punti interni a Γ.
È importante rilevare che con questa definizione esistono infinite rappresentazioni
parametriche di una stessa curva Γ. Infatti se P = P(t), t ∈[a,b] è una rappresentazione
parametrica di Γ e t = t(a) è una funzione continua definita nell’intervallo [c,d] e avente
per codominio nell’intervallo [a,b], l’equazione P = P(t(u)), u ∈ [c,d] è una nuova
rappresentazione parametrica di Γ. Essendo infinite le funzioni continue in un intervallo
compatto e aventi per codominio l’intervallo [a,b] è evidente che sono infinite le
rappresentazioni parametriche di una curva piana Γ.
Da questo discorso si deduce che, a rigore, sarebbe opportuno distinguere tra la nozione di
curva intesa come funzione vettoriale e quella di sostegno della curva e cioè come luogo
geometrico. Tuttavia non faremo questa distinzione, che riteniamo piuttosto astratta,
preferendo rimanere vicini all’idea intuitiva di una curva intesa come luogo geometrico.
Definizione 2
Una curva piana Γ si dice semplice se esiste una sua rappresentazione parametrica
P = P(t), t ∈ [a,b] tale che:
t' ≠ t'' ⇒ P(t') ≠ P(t'')
per ogni coppia t', t'' di valori del parametro t dei quali almeno uno è interno ad [a,b]. Una
tale rappresentazione parametrica si dice una rappresentazione parametrica semplice di Γ.
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In conclusione, una curva Γ si dice semplice quando ammette rappresentazioni
parametriche semplici.
Osservazione 1
Si noti che dal punto di vista geometrico, una curva Γ è semplice quando è possibile
descriverla, senza mai tornare indietro, passando una sola volta per ciascuno dei suoi
punti. Consideriamo, ad esempio, le seguenti curve.
Evidentemente le prime due curve sono semplici, mentre la terza non lo è perché
descrivendola è necessario passare due volte per il punto P.
Definizione 3
Una curva piana Γ si dice chiusa se esiste una sua rappresentazione parametrica P = P(t),
t ∈ [a,b] tale che P(a) = P(b). Ciò significa che, mediante una rappresentazione
parametrica gli estremi di Γ e cioè P' = P(a) e P'' = P(b) sono coincidenti.
Definizione 4
Una curva Γ si dice una curva regolare se esiste una sua rappresentazione parametrica
P = P(t), t ∈ [a,b] tale che la funzione vettoriale P(t) è di classe C(1) in [a,b] e inoltre risulta
P' (t) ≠ 0
∀t ∈ ]a,b[.
Posto P(t) = (x(t), y(t)) ciò significa anche che le funzioni scalari x(t), y(t) sono di classe
C(1) in [a, b] e tali che
> 0 ∀t∈]a,b[. Una rappresentazione parametrica di Γ
che verifichi le proprietà anzidette si dice una rappresentazione parametrica regolare.
ORIENTAMENTO DI UNA CURVA SEMPLICE
Sia Γ una curva semplice e
P = P(t), t ∈ [a, b]
una sua rappresentazione parametrica semplice.
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Tale rappresentazione parametrica induce su Γ un orientamento che viene detto il verso
delle t crescenti della rappresentazione parametrica considerata, per il quale
(t' < t'') ⇒ (il punto P' = P(t') precede il punto P'' = P(t''))
Il verso opposto si chiama verso delle t decrescenti della rappresentazione parametrica
considerata.
Si dice che Γ è una curva orientata, quando si sceglie in modo arbitrario uno dei versi
anzidetti e il verso prescelto si chiama verso positivo. Se scegliamo il verso delle t
crescenti diremo che Γ è orientata nel verso delle t crescenti della rappresentazione
parametrica (*).
È possibile orientare Γ, prescindendo dalle rappresentazioni parametriche, nella
maniera seguente.
1. Se Γ non è una curva chiusa ( in tal caso si suole dire che Γ è una curva aperta)
considerati su Γ due punti distinti (che possono
essere anche gli estremi) P'≠P'' restano
individuati su Γ due possibili versi di percorrenza.
Il verso che va da P' a P'' e il verso opposto.
Diremo che Γ è una curva orientata quando si
sceglie, ad arbitrio, uno di questi due versi e tale verso prescelto si chiama verso positivo
di Γ.
2. Se Γ è una curva chiusa denotiamo con D il dominio
limitato avente per frontiera la curva Γ. Restano allora
individuati due possibili versi di percorrenza: il verso che
lascia alla sinistra i punti interni a D (indicato in figura)
e il verso opposto. Diremo che Γ è una curva orientata
quando scegliamo, ad arbitrio, uno di questi due possibili
versi e il verso prescelto si chiamerà verso positivo di Γ.
Naturalmente quando la curva semplice Γ è orientata intrinsecamente e si considera una
sua rappresentazione parametrica semplice (*) il verso indotto su Γ da tale
rappresentazione parametrica cioè il verso delle t crescenti può essere concorde o discorde
col verso positivo prefissato intrinsecamente su Γ.
RETTA TANGENTE
Sia Γ una curva regolare, P = P(t), t ∈ [a,b] una
rappresentazione parametrica regolare di Γ. Posto
P(t) = ( x(t) , y(t)) consideriamo la retta detta
secante, passante per i punti
P0=(x0, y0) = (x(t0), y(t0) ) = P(t0) e
P1 = P(t0 + ∆t) = ( x(t0 + ∆t), y(t0 + ∆t) ).
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Tale retta ha equazione:
x – x0
y – y0
=
x(t0 – ∆t) – x(t0)
y(t0 + ∆t) – y(t0)
e cioè
( y(t0 + ∆t) – y(t0) ) ( x – x0) – ( x(t0 + ∆t) – x(t0) ) (y – y0) = 0
Dividendo questa espressione per ∆t e passando al limite per ∆t → 0, in forza dell'ipotesi
di regolarità di Γ, si ottiene la retta di equazione:
(*)
y'(t0) ( x –x0) – x'(t0) (y – y0) = 0
Definizione 1
La retta di equazione (*) si chiama retta tangente a Γ nel punto P0 = (x0, y0).
Osservazione 1
La condizione di regolarità P'(t0) = (x'(t0), y'(t0)) ≠ 0 ∀t ∈ ]a,b[ garantisce l’esistenza
della tangente a Γ in ogni punto interno. La curva è perciò una curva liscia e cioè
priva di cuspidi e punti angolari nei punti interni.
Ad esempio la curva di equazione y =
con x ∈ [-1, 1] non è regolare.
Definizione 2 (di vettore tangente e versore tangente)
Nelle ipotesi poste su Γ il vettore P'(t0) = (x'(t0), y'(t0)) si chiama vettore tangente a Γ
nel punto P0 = P(t0) = (x0, y0).
Tale vettore è parallelo alla tangente a Γ nel punto P0 = (x0, y0) ed è orientato nel
verso indotto su Γ dalla rappresentazione parametrica considerata.
Il vettore di modulo unitario
τ(t0) =
P't0)
P'(t0)
=
x'(t0)
y'(t0)
,
si chiama versore tangente a Γ nel punto P0 = (x0, y0) = ( x(t0), y(t0)).
Se la curva Γ è una curva orientata nel verso delle t crescenti della rappresentazione
parametrica considerata, il versore τ(t0) si chiama versore tangente positivo relativo alla
rappresentazione parametrica di Γ.
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Osservazione 2
Se Γ è il diagramma di equazione cartesiana y = ƒ(x) con ƒ di classe C(1) nell’intervallo
[a,b], sappiamo che Γ è una curva regolare e che una rappresentazione parametrica
regolare di Γ è
x=t
t ∈ [a, b]
y = ƒ(t)
Consideriamo il punto P0 = (x0, y0) = (t0,ƒ(t0)) = (x0,ƒ(x0)), essendo x'=1 e y' =ƒ'(t) =ƒ'(x)
∀x ∈ [a, b], l’equazione della tangente a Γ in P0 è
ƒ'(x0)(x – x0) – (y – ƒ(x0)) = 0
e cioè
y = ƒ(x0) + ƒ'(x0)(x – x0)
LUNGHEZZA DI UNA CURVA
Sia Γ una curva semplice di estremi P' e P'' e
consideriamo n+1 punti distinti
P0 = P', P1, P2, …, Pn = P'' di Γ scelti in modo
che P0 precede P1, P1 precede P2 … ,Pn-1 precede Pn
in uno dei due possibili orientamenti di Γ.
La poligonale π di vertici i punti P0, P1, …Pn si
chiama una poligonale inscritta nella curva Γ.
È evidente che di poligonali inscritte in Γ ne esistono infinite per cui se denotiamo con l(π)
la lunghezza della poligonale π, l’insieme {l(π)} delle lunghezze delle poligonali inscritte
in Γ è un insieme infinito.
Ciò posto si dà la seguente definizione.
Definizione 1
Si dice che la curva semplice Γ è rettificabile se l’insieme {l(π)} delle lunghezze delle
poligonali inscritte è limitato superiormente.
In tale ipotesi l'estremo superiore l(Γ)=sup{l(π)} delle lunghezze delle poligonali inscritte
si chiama lunghezza della curva Γ.
Si dimostra il seguente
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Teorema di rettificabilità
Sia Γ una curva semplice e P = P(t), t ∈ [a,b] una sua rappresentazione parametrica
semplice. Se la funzione vettoriale P(t) = ( x(t), y(t) ) è di classe C(1) in [a,b], la curva Γ è
rettificabile e risulta
(*) l(Г) = ∫ |P'(t)|dt = ∫
dt
Osservazione
Evidentemente se Г è una curva semplice e regolare e se P = P(t), t ∈ [a,b] è una sua
rappresentazione parametrica semplice e regolare allora Г è rettificabile e la sua
lunghezza è data dall’integrale (*).
CURVE REGOLARI A TRATTI
Definizione 1
Una curva Γ si dice regolare a tratti se risulta essere l'unione di un numero finito Γ1,
Γ2, …Γn di curve semplici e regolari, ognuna delle quali si salda alla successiva in un
punto. (vedi figura)
Ciò significa che esistono una rappresentazione parametrica P = P (t), t ∈ [a,b] e una
partizione {t0 = a, t1 , t2, …, tn = b} dell’intervallo [a,b] tali che in ciascuno
degli intervalli [t0, t1], [t1, t2], …, [tn-1, tn] la
P = P(t) è una rappresentazione
parametrica semplice e regolare.
Una tale rappresentazione parametrica si
dice una rappresentazione parametrica di Γ
regolare a tratti.
Osservazione 1
In base alla definizione una curva Γ regolare a tratti può essere pensata come somma di un
numero finito di curve Γ1, Γ2,…Γn di curve semplici e regolari. Se nessuno tra gli archi Γ1,
Γ2, …Γn incontra i rimanenti, Γ è anch’essa una curva semplice. Può benissimo però
accadere che uno degli archi Γi incontri uno o più altri archi Гj (i+j) perché la condizione
di semplicità vale per i singoli archi Γ1, Γ2,…Γn. (vedi figura)
In tal caso la curva Γ è intrecciata e presenta i cosiddetti punti multipli.
Si noti ancora che nei punti Pi = P(ti) (i = 0,1,2…n) le tangenti agli archi Γi (i = 0,1,2…n)
hanno, in generale, direzioni diverse e cioè, come si suol dire, i punti Pi sono in generale
punti angolari della curva Γ.
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Definizione 2
Sia Γ una curva regolare a tratti unione delle n curve Γ1, Γ2, …Γn semplici e regolari.
Si pone per definizione
l (Γ) = l (Γ1) + l (Γ2) + …+ l (Γn)
e cioè si chiama lunghezza di Γ la somma delle lunghezze degli archi semplici e regolari
Γ1, Γ2, …Γn che costituiscono Γ.
Osservazione 2 (notevole)
Sia Γ una curva regolare a tratti e
P = P (t)
t ∈ [a,b]
una rappresentazione parametrica regolare a tratti di Γ allora esiste una partizione
{ t0 = a, t1, t2, ... , tn = b} con t0 < t1 < ... < tn dell’intervallo base [a,b] tale che gli n archi in
cui Γ risulta suddivisa
Г1 = { P = P(t) : t∈[t0, t1]} ; Г2 = {P = P(t) : t∈[t1,t2]} ; ... ; Гn = { P = P(t) : t∈ [tn-1, tn]}
risultano essere curve semplici e regolari.
Dalla definizione precedente e dal teorema di rettificabilità si deduce che
l(Г) = ∑ ∫| P'(t)|dt
INTEGRALE CURVILINEO DI UNA FUNZIONE DI DUE VARIABILI
Sia ƒ(P) = ƒ(x, y) una funzione di due variabili limitata in un insieme A ⊆ R2 e Γ ⊆ A
una curva piana semplice e regolare di estremi P'
e P''. In tali ipotesi effettuiamo le seguenti
operazioni. Consideriamo n+1 punti distinti di Γ:
P0 = P', P1 , …, Pn = P'' scelti in modo che P0
precede P1, P1 precede P2,…, Pn-1 precede Pn in
uno dei due possibili versi in cui è possibile
descrivere Γ e denotiamo con D = {P0, P1, …, Pn}
la partizione di Γ mediante tali punti. Tale partizione suddivide la curva Γ in n archi
Γ1, Γ2, …, Γn (vedi figura). Poniamo
mi = inf ƒ(P); Mi = sup ƒ(P)
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(i = 1, 2, ... n)
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e consideriamo le due somme:
s(D) = ∑mi · l(Гi) ; S(D) = ∑Mi · l(Гi)
dove l(Γi) denota la lunghezza dell'arco Γi. Al variare della partizione D di Γ le due somme
considerate descrivono due insiemi numerici A = { s(D) }, B = { S(D) }. Se A e B sono
separati e contigui, l'unico elemento separatore di A e B si chiama integrale curvilineo
della funzione ƒ(x, y) esteso alla curva Γ e si denota con uno dei simboli
∫ ƒ(x,y) ds;
∫ ƒ(P)ds.
Si dimostra il seguente risultato che fornisce anche una formula per il calcolo
dell’integrale curvilineo.
Teorema sull'integrale curvilineo di una funzione continua
Se la funzione ƒ(x,y) è continua in A esiste l’integrale curvilineo di ƒ(x,y) esteso a Γ.
Considerata, inoltre, una rappresentazione parametrica
P = P(t)
t ∈ [a,b] semplice e
regolare della curva Γ, risulta:
∫ ƒ(P)ds = ∫ƒ(P(t)) · |P'(t)|dt
oppure anche, il che è lo stesso, se P(t) = (x(t), y(t))
∫ ƒ(x,y)ds = ∫ƒ(x(t),y(t)) ·
dt
Osservazione 1
L’integrale curvilineo di una funzione, essendo sostanzialmente un integrale di Riemann,
gode di tutte le proprietà dell’integrale.
In particolare:
1. Proprietà distributiva
Se esistono gli integrali curvilinei di ƒ e g estesi a una curva Γ semplice e regolare e c1, c2
sono due costanti reali, risulta:
∫[c1ƒ(P) + c2g(P)]ds = c1∫ƒ(P)ds + c2∫g(P)ds
2. Proprietà additiva
Se esiste l’integrale curvilineo di ƒ esteso ad una curva Γ semplice regolare e se si
decompone la curva Γ nelle due curve Γ1 e Γ2 risulta:
∫ƒ(P)ds = ∫ƒ(P)ds + ∫ƒ(P)ds
La definizione di integrale curvilineo si estende alle curve regolari a tratti.
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Sia Γ una curva regolare a tratti decomponibile nelle n curve semplici e regolari
Γ1, Γ2, …Γn si pone per definizione:
∫ƒ(P)ds = ∫ƒ(P)ds + ∫ƒ(P)ds + ... + ∫ƒ(P)ds
CURVE DELLO SPAZIO
In questo numero ci proponiamo di accennare all’espansione allo spazio R3 dei risultati
relativi alle curve piane. In effetti tutte le definizioni e i teoremi di cui ci siamo occupati si
estendono allo spazio quando con il simbolo P(t) si intende una funzione vettoriale a tre
componenti ((x(t),y(t),z(t)) definita in un intervallo compatto.
Ad esempio la definizione di curva si estende in maniera seguente.
Definizione
Sia P(t) = (x(t), y(t), z(t)) una funzione vettoriale di classe C(0) in un intervallo compatto
[a, b]. Si chiama curva dello spazio, l’insieme:
Γ = { (x, y, z) ∈ R3 : x = x(t), y = y(t), z = z(t) ∀t ∈ [a, b]}
o anche posto P = (x, y, z) l’insieme
Le equazioni
Γ = { P = P(t) ∀ t ∈ [a, b] }.
x = x(t)
y = y(t)
t ∈ [a, b]
z = z(t)
si chiamano equazioni parametriche e scalari della curva Γ.
L’equazione
P = P(t); t ∈ [a, b]
si chiama equazione parametrica vettoriale di Γ.
I punti P' = P(a), P'' = P(b) si chiamano gli estremi di Γ, i punti di Γ diversi dagli estremi
punti interni a Γ.
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Capitolo 4
INTEGRALE CURVILINEO DI UNA FORMA DIFFERENZIALE
Premettiamo che se X (x,y), Y (x,y) sono due funzioni reali definite in un insieme A ⊆ R2
e dx, dy denotano due variabili reali, l'espressione
(*)
X(x,y)dx + Y(x,y)dy
si chiama una forma differenziale lineare di coefficienti X e Y.
Tale espressione è funzione delle 4 variabili reali x, y, dx, dy, e per ogni punto (x,y)
fissato in A si identifica con un polinomio di 1° grado nelle due variabili dx e dy. Poiché
un tale polinomio si suole chiamare in algebra una forma lineare e poiché le variabili dx e
dy si possono interpretare come differenziali è valso l’uso di chiamare l’espressione in
oggetto forma differenziale lineare.
Nel seguito diremo che la forma differenziale lineare (*) è di classe C(0) in A se tali sono i
coefficienti X e Y; diremo che è di classe C(1) in A se tali sono X e Y.
Ciò posto è molto importante per il seguito la seguente definizione
Definizione 1(di integrale curvilineo)
Siano
(*)
X(x,y)dx + Y(x,y)dy
una forma differenziale lineare di classe C(0) in un insieme A ⊆ R2 e Γ una curva semplice
e regolare contenuta in A. Fissato su Γ uno dei due possibili orientamenti, denotiamo col
simbolo +Γ la curva Γ orientata sul verso positivo che abbiamo scelto.
Considerata una qualsiasi rappresentazione parametrica semplice e regolare di Γ
x = x(t)
t ∈ [a, b]
y = y(t)
si chiama integrale curvilineo della forma differenziale lineare (*) esteso alla curva
orientata +Γ e si denota con il simbolo
(**)
∫ X(x,y)dx + Y(x,y)dy
l’integrale definito
± ∫ [X(x(t),y(t)) · x'(t) + Y(x(t),y(t)) · y'(t)] dt
dove va scelto il segno + se il verso indotto su Γ della rappresentazione parametrica
considerata (verso delle t crescenti) è concorde con il verso della curva orientata +Γ,
altrimenti va scelto il segno – .
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Osservazione 1
Si noti esplicitamente che l’integrale curvilineo di una forma differenziale lineare dipende
dall’orientamento della curva Γ nel senso che, se denotiamo con – Γ la curva Γ orientata
nel verso opposto della curva orientata +Γ, risulta
∫ Xdx + Ydy = – ∫Xdx + Ydy
Osservazione 2
Se la curva Γ è chiusa il simbolo +Γ denota la curva
Г orientata nella maniera seguente. Indicato con D il
dominio limitato avente per frontiera la curva Γ, il
simbolo +Γ denota la curva Γ orientata nel verso che
lascia alla sinistra i punti interni a D.(vedi figura)
********************
Dalla definizione stessa segue che l’integrale curvilineo di una forma differenziale lineare
gode di tutte le proprietà dell’integrale definito.
In particolare vale la seguente proprietà
Proprietà additiva
Se la curva orientata +Γ si scompone, mediante un suo punto, in due curve orientate +Γ1 e
+Γ2 che hanno lo stesso orientamento di Γ, risulta:
∫ Xdx + Ydy = ∫ Xdx + Ydy + ∫ Xdx + Ydy
La proprietà additiva consente di estendere la definizione di integrale di una forma
differenziale lineare alle curve semplici e regolari a tratti.
Definizione 2
Sia Γ una curva semplice, regolare a tratti la quale sia unione delle n curve regolari
Γ1, Г2, …, Γn. Si pone per definizione
∫ Xdx + Ydy = ∫ Xdx + Ydy + ∫ Xdx + Ydy + ... + ∫ Xdx + Ydy
dove le curve +Γ1, +Г2, …, +Γn hanno lo stesso orientamento della curva orientata +Γ.
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Osservazione 3
Dalla proprietà additiva dell’integrale definito, tenuto conto della definizione precedente si
deduce che se
x = x(t)
t ∈ [a, b]
y = y(t)
è una rappresentazione parametrica semplice regolare a tratti di Γ risulta ancora
∫ Xdx + Ydy = ± ∫ [X(x(t),y(t)) · x'(t) + Y(x(t),y(t)) · y'(t)] dt
con lo stesso significato del + e del – dinanzi all’integrale.
CAMPI VETTORIALI. LAVORO E CIRCUITAZIONE DI UN CAMPO DI
VETTORI LUNGO UN CAMMINO
Definizione 1
Sia A ⊆ R2 e per ogni punto P = (x,y) ∈ A indichiamo con
V(x,y) = (X(x,y), Y(x,y))
oppure anche con
V(P) = (X(P), Y(P))
il vettore di R2 avente per componenti i coefficienti della forma differenziale lineare
Xdx + Ydy. Al variare del punto P (x,y) in A, V(x,y) descrive un insieme di vettori che in
Fisica viene chiamato un campo vettoriale o anche campo di forze.
Osservazione
Se indichiamo con dP = (dx,dy) il vettore di R2 avente per componenti i numeri reali dx e
dy, per la definizione stessa di prodotto scalare i due vettori risulta
Xdx + Ydy = V · dP
e cioè la forma differenziale lineare Xdx + Ydy si esprime come prodotto scalare del
vettore V(P) per il vettore dP in ogni punto P = (x,y) di A.
Definizione 2
Sia V = (X,Y) un campo vettoriale a componenti di classe C(0) in un insieme A ⊆ R2 e +Γ
una curva semplice, regolare a tratti, orientata contenuta in A.
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L'integrale curvilineo
∫ V · dP
si chiama il lavoro del campo di vettori V lungo il cammino +Γ, oppure, se Γ è chiusa, la
circuitazione del campo di vettori V lungo il cammino +Γ.
Osservazione
Si noti esplicitamente che risulta
∫ V · dP = ∫ Xdx + Ydy
STUDIO DELLE FORME DIFFERENZIALI LINEARI NEGLI APERTI
CONNESSI MEDIANTE GLI INTEGRALI CURVILINEI
È fondamentale per il seguito la seguente
Definizione 1 di forma differenziale lineare esatta
Sia Xdx + Ydy una forma differenziale lineare definita in un aperto A ⊆ R2. Si dice che
Xdx + Ydy è una forma differenziale lineare esatta in A se esiste una funzione di due
variabili U(x,y) differenziabile in A per la quale risulta
Ux(x,y) = X(x,y); Uy(x,y) = Y(x,y)
∀(x,y) ∈ A.
Una tale funzione U(x,y) si dice una primitiva della forma differenziale lineare considerata
sull'aperto A.
Osservazione
Ricordando che il differenziale dU della funzione U è l’espressione Uxdx + Uydy, dalla
definizione precedente si deduce che
( U primitiva di Xdx + Ydy) ⇔ (dU = Xdx + Ydy)
e quindi la forma differenziale lineare Xdx + Ydy è esatta se e solo se è uguale al
differenziale di una funzione U.
Chiaramente non sempre ciò accade e ciò lo vedremo in seguito con un esempio.
Ci proponiamo ora di stabilire dei risultati sulle forme differenziali esatte sfruttando la
nozione di integrale curvilineo che abbiamo dato nella definizione n. 1.
A tale scopo dimostriamo il seguente teorema.
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Teorema 1
Sia Xdx + Ydy una forma differenziale lineare definita in un aperto connesso A ⊆ R2.
Vale la seguente implicazione
( U e V primitive di Xdx + Ydy in A ) ⇒ ( U – V = c con c costante reale)
Dimostrazione
Essendo per ipotesi U e V entrambe primitive di Xdx+Ydy, risulta
∂(U – V)
=X–X=0;
∂x
∂(U – V)
= Y – Y = 0 ∀(x,y) ∈ A
∂y
ne segue, essendo A un aperto connesso (in forza del teorema sulle funzioni con gradiente
nullo in un connesso) che la funzione U – V è costante in A e cioè la tesi.
Osservazione 1 (notevole)
Da questo teorema si deduce immediatamente che se U è una primitiva di Xdx + Ydy in
un aperto connesso, tutte le primitive di Xdx + Ydy in A sono espresse dalla formula
V=U+c
al variare della costante reale c in R. Conseguentemente le primitive sono infinite.
Teorema 2 (condizione necessaria)
Sia Xdx + Ydy una forma differenziale lineare continua in un aperto connesso A ⊆ R2.
Essendo A connesso per ogni coppia P' e P'' di punti di A esistono curve semplici regolari
a tratti di estremi P' e P'' tutte contenute in A.
Denotiamo allora con +Γ una tale curva orientata sul verso che va da P' a P''. Vale la
seguente implicazione
( Xdx + Ydy esatta in A) ⇒ ( ∫ Xdx + Ydy = U(P'') – U(P') )
dove U(P) denota una qualsiasi primitiva di Xdx + Ydy.
Dimostrazione
Sia
x = x(t)
t ∈ [a, b]
y = y(t)
una rappresentazione parametrica di Γ semplice e regolare a tratti la quale induce su Γ il
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verso che va da P' in P'' sicché risulterà P' = (x(a), y(a)) e P'' = (x(b), y(b)). Dalla
definizione stessa, detta U una primitiva di Xdx+Ydy, si ha
∫ Xdx + Ydy = ∫ [X(x(t),y(t)) · x'(t) + Y(x(t),y(t)) · y'(t)]dt =
= ∫ [Ux(x(t),y(t)) · x'(t) + Uy(x(t),y(t)) · y'(t)]dt = ∫ d U(x(t),y(t))dt = [U(x(t),y(t))] =
dt
= U(x(b),y(b)) – U(x(a),y(a)) = U(P'') – U(P')
Il teorema è dimostrato.
Osservazione 2 (notevole)
Da questo teorema si deduce che l’integrale curvilineo di una forma differenziale lineare
esatta in un aperto connesso non dipende dalla curva semplice regolare a tratti che
congiunge due punti P' e P'' ma dipende
solo dai punti P' e P'' e naturalmente
dall’orientamento della curva stessa. Infatti
se indichiamo con +Γ1 e + Γ2 due tali curve
orientate entrambe nel verso che va
da P' e P'' risulta
∫ Xdx + Ydy = U(P'') – U(P') = ∫ Xdx + Ydy
Ne segue che se Γ è una curva chiusa, essendo gli estremi P' e P'' di Γ coincidenti risulta
∫ Xdx + Ydy = 0
***************
Supponiamo che ∫ Xdx + Ydy non dipende dalla curva Γ ma soltanto degli estremi di Γ.
Fissato allora un punto P0 = (x0, y0) ∈ A per ogni punto P = (x, y)∈A l’integrale curvilineo
in questione dipende soltanto dal punto P e cioè è una funzione dalle coordinate x, y di P.
Ha senso allora porre
(*)
W0(x, y) = ∫ Xdx + Ydy
dove naturalmente con +Γ si intende una curva semplice regolare a tratti che congiunge P0
con P orientata nel verso che va da P0 con P.
Ciò posto è importante rilevare che l’implicazione contenuta nel teorema 2 si può
invertire. Si dimostra infatti il seguente risultato.
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Teorema 3 condizione sufficiente
Sia Xdx+Ydy una forma differenziale lineare continua in un aperto connesso A ⊆ R2.
Vale la seguente implicazione
L’integrale curvilineo di Xdx + Ydy
non dipende dalla curva Г
⇒
W0(x, y) primitiva di Xdx + Ydy e
quindi Xdx + Ydy è esatta
dove con W0(x, y) si intende la funzione (*).
Dai teoremi 2 e 3 e dalla osservazione 2 si deduce immediatamente il seguente risultato.
Caratterizzazione delle forme differenziali lineari continue in un aperto connesso
Sia Xdx+Ydy una forma differenziale lineare continua in un aperto connesso A. V. s. e.
( Xdx + Ydy esatta in A ) ⇔ ( ∫ Xdx + Ydy = ∫ Xdx + Ydy )
dove +Γ1 e +Γ2 denotano due qualsiasi curve semplici regolari a tratti contenute in A
aventi gli stessi estremi e lo stesso orientamento.
( Xdx + Ydy esatta in A ) ⇔ ( ∫ Xdx + Ydy = 0 )
dove +Γ denota una qualunque curva orientata semplice chiusa regolare a tratti contenuta
in A.
******************
Terminiamo con una definizione, equivalente alla definizione di forma differenziale esatta,
che è molto utilizzata nelle scienze applicate.
Definizione
Sia V(x, y) = ( X(x, y), Y(x, y) ) un campo vettoriale definito in un aperto A. Si dice che
V(x, y) è conservativo quando esiste una funzione scalare U(x, y) differenziabile in A e
tale che DU(x,y) = ( Ux(x,y), Uy(x,y) ) = V(x,y) ∀(x,y) ∈ A.
Ogni funzione scalare U che gode della proprietà anzidetta si chiama un potenziale del
campo V.
Conseguentemente un campo vettoriale V(x, y) è conservativo quando ammette potenziali
U(x, y).
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STUDIO DELLE FORME DIFFERENZIALI A COEFFICIENTI DERIVABILI
Nel numero precedente abbiamo stabilito dei risultati che riguardano forme differenziali a
coefficienti continui e cioè di classe C(0) in un aperto connesso A. Supponiamo ora che i
coefficienti delle forme differenziali lineari siano in più regolari e precisamente di classe
C(1) (quindi derivabili) in un aperto A.
Premettiamo una definizione
Definizione 1
Sia Xdx + Ydy una forma differenziale lineare in due variabili di classe C(1) in un aperto
A ⊆ R2. Si dice che tale forma differenziale lineare è chiusa in A se risulta
Xy(x, y) = Yx(x, y)
∀(x, y) ∈A
Vale in proposito il seguente risultato
Teorema 1 (condizione necessaria)
Sia Xdx + Ydy una forma differenziale lineare di classe C(1) in un aperto A. Vale la
seguente implicazione
(Xdx + Ydy esatta in A) ⇒ (Xdx + Ydy chiusa in A)
Dimostrazione
Se U(x,y) è una primitiva allora, nelle ipotesi poste, risulta
∂
∂
Ux = Xy ;
Uyx =
Uy = Yx
∂x
∂y
D’altra parte, per il teorema di Schwarz, risulta Uxy = Uyx e quindi anche Xy = Yx. Dalla
definizione precedente segue l’asserto.
Uxy =
******************
Un caso, molto importante per le applicazioni, nel quale l’implicazione del teorema 1 si
inverte è quello degli aperti semplicemente connessi.
Definizione 2
Un aperto connesso A si dice semplicemente connesso se comunque si consideri una curva
Γ ⊆ A chiusa semplice regolare a tratti, il dominio limitato D di frontiera Γ è interamente
contenuto in A.
Esempi si aperti semplicemente connessi sono:
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A = { (x, y) : (x – x0)2 + (y – y0)2 < r2 } ;
A = { (x, y) : x ∈ ]a, b[ e y ∈ R }
i quali sono rispettivamente un cerchio di centro (x0,y0) e raggio r e una striscia di piano
delimitato dalle rette x = a e x = b .
Esempi di aperti connessi ma non semplicemente connessi sono:
A = {(x, y) : r1 <
< r2 } ;
A = R2 – { (x0, y0)}
i quali sono rispettivamente una corona circolare ci centro (x0, y0) e raggi 0 < r1 < r2 e il
piano R2 privato del punto (x0, y0).
Ciò posto, nel seguito dimostreremo il seguente risultato.
Teorema 2(condizione sufficiente)
Sia Xdx + Ydy una forma differenziale lineare di classe C(1) in un aperto A semplicemente
connesso del piano R2. Vale la seguente implicazione
(Xdx + Ydy chiusa in A)
⇒ (Xdx + Ydy esatta in A)
CALCOLO DI UNA PRIMITIVA DI UNA FORMA DIFFERENZIALE CHIUSA IN
UN RETTANGOLO
Nel capitolo 3 si è visto che se Xdx + Ydy è una forma differenziale lineare di classe C(1) e
chiusa in un aperto A semplicemente connesso allora Xdx + Ydy è esatta in A e quindi
ammette primitive.
Supponiamo ora, in particolare, che A ⊇ ]a,b[x]c,d[ con a,b,c,d ∈ R e cioè che A contenga
un rettangolo aperto avente eventualmente dimensioni infinite. In tal caso per determinare
una primitiva si possono seguire due metodi diversi. che andiamo ad esaminare mediante
un esempio.
Consideriamo la forma differenziale lineare
(2x + 5y3)dx + (15xy2 + 2y)dy
verifichiamo che tale forma differenziale è esatta e calcoliamone una primitiva.
Posto
X(x, y) = 2x + 5y3 ; Y(x, y) = 15xy2 + 2y
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osserviamo che X ed Y sono di classe C(1) in R2 = R x R che può essere interpretato come
un rettangolo aperto avente dimensioni infinite.
Essendo inoltre
Xy = Yx = 15y2
la forma differenziale è esatta in R2 e quindi ammette primitive.
Per determinare una primitiva possiamo seguire una delle due strade.
1° metodo
Osserviamo innanzitutto che, essendo la forma differenziale lineare esatta in un aperto
connesso, fissato in R2 un punto P0 = (x0, y0) e indicato con P = (x,y) un punto di R2, la
funzione
U (x, y) = ∫ Xdx + Ydy
dove +Γ denota una curva semplice regolare a tratti congiungente P0 con P orientata da P0
a P, non dipende dalla curva Γ. Essendo R2 un rettangolo possiamo allora scegliere una
curva Γ che sia unione di due segmenti paralleli agli assi coordinati.
Fissato P0 = O = (0,0) cerchiamo la primitiva.
U (x, y) = ∫ (2x + 5y3)dx + (15xy2 + 2y)dy
dove +Γ è unione del segmento +Γ1 di estremi O e Q e del segmento +Γ2 di estremi Q e P,
segmenti orientati allo stesso modo di +Г (vedi figura).
Si ha:
U (x, y) = ∫ Xdx + Ydy + ∫ Xdx + Ydy
Calcoliamo ora i due integrali curvilinei a secondo membro.
Una rappresentazione parametrica del segmento Γ1 è
x=0
;
t ∈ [0, y]
y=t
Conseguentemente
∫ Xdx + Ydy = ∫ 2tdt = [t2]
= y2
analogamente, una rappresentazione parametrica del segmento Γ2 è
x=t
;
t ∈ [0, x]
y=y
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e quindi
∫ Xdx + Ydy = ∫ (2t + 5y3)dt = [t2 + 5y3t] = x2 + 5y3x
si conclude che
U (x, y) = y2 + x2 + 5xy3
2° metodo
Indicata con U(x, y) la primitiva cercata, si ha:
U(x, y) =2x +5y3
e quindi, integrando rispetto a x
(*)
U(x, y) = ∫ (2x + 5y3)dx = x2 + 5xy3 + c(y)
dove c(y) denota una costante rispetto a x dipendente da y perchè la funzione integranda
dipende anche da y.
Per determinare l’incognita c(y) deriviamo ulteriormente rispetto a y l’uguaglianza così
ottenuta. Si ha:
Uy(x, y) = 15xy2 + c'(y)
e cioè essendo Uy(x, y) = Y(x,y) = 15xy2 + 2y , abbiamo:
15xy2 + 2y = 15xy2 + c'(y)
da cui semplificando
c'(y) = 2y ⇒ c(y) = ∫ 2ydy = y2
Sostituendo in (*) abbiamo in definitiva
U(x, y) = x2 + 5xy2 + y2
Osservazione
Si noti che essendo l’aperto R2 un aperto connesso, per il teorema 1 di pag. 8 tutte le
primitive della forma differenziale lineare considerata sono le infinite funzioni
x2 + 5xy2 + y2 + c
che si ottengono al variare della costante c in R.
FORME DIFFERENZIALI NELLO SPAZIO R3
Vogliamo ora accennare brevemente all’estensione della teoria delle forme differenziali
lineari allo spazio R3.
In maniera del tutto analoga, considerate tre funzioni X(x, y, z), Y(x, y, z), Z(x, y, z)
definite in un insieme A ∈ R3 e denotato con (dx, dy, dz) un punto qualsiasi di R3 (sicché
dx ∈R, dy ∈ R, dz ∈ R ) l’espressione
(*) X(x, y, z) dx + Y(x, y, z) dy + Z(x, y, z)dz
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si chiama una forma differenziale lineare di coefficienti le funzioni X, Y, Z.
La definizione di integrale curvilineo di una tale forma differenziale lineare è anch’essa
del tutto analoga.
Precisamente, supposto che i coefficienti X, Y, Z siano di classe C(0) in un aperto A ⊆ R3,
consideriamo una curva Γ (dello spazio R3) contenuta in A semplice e regolare avente per
estremi i punti P' e P'' orientata nel verso che va da P' a P''.
Supposto che
x = x(t)
(**)
y = y(t) ;
t ∈ [a, b]
z = z(t)
sia una rappresentazione parametrica semplice e regolare di Γ, si pone
∫ Xdx + Ydy + Zdz ≝ ± ∫[ X( x(t), y(t), z(t))·x'(t) + Y(...)·y'(t) + Z(...)·z'(t)]dt
dove va scelto il segno + se il verso indotto dalla rappresentazione parametrica (**) su Γ
coincide col verso che va da P' a P'', altrimenti va scelto il segno -.
La forma differenziale lineare (*) si dice esatta in A = Å se ammette una primitiva e cioè
una funzione differenziabile U(x,y,z) per la quale risulti
Ux = X, Uy = Y, Uz = Z
∀(x,y) ∈ A.
I teoremi relativi alle forme differenziali lineari continue in un connesso esposti nel n. 2 si
estendono senza alcuna difficoltà: basta sostituire negli enunciati l’espressione Xdx +Ydy
con Xdx +Ydy + Zdz e intendere le curve Г come curve dello spazio.
Una forma differenziale Xdx + Ydy + Zdz a coefficienti di classe C(1) in un aperto A ⊆ R3
si dice chiusa quando risulta
Xy = Yx;
Xz = Zx; Yz = Zy
∀(x, y) ∈ A
e cioè quando risultano eguali le derivate incrociate dei coefficienti.
Il teorema della condizione necessaria per una forma differenziale a coefficienti derivabili
continua a sussistere. Invece il teorema relativo alla condizione sufficiente si estende allo
spazio R3 ma non è utile per le applicazioni.
Per tale motivo si preferisce a questo risultato un altro risultato che suppone l’aperto A
stellato.
Un aperto A ⊆ R3 si dice stellato se esiste un punto P0 ∈ A tale che ∀P ∈ A il segmento
P0P è contenuto in A.
Ad esempio è un aperto stellato un rettangolo aperto di R3 e cioè un aperto
A = ]a,b[x ]c,d[x]p,q[ con a,b,c,d,p,q ∈ R. Invece l’insieme A = R3 – {(0, 0, 0)} non è un
aperto stellato perché ∀P0 ∈ A i segmenti P0P passanti per O = (0, 0, 0) non sono
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contenuti in A.
Ciò posto si dimostra la seguente implicazione.
(Xdx + Ydy + Zdz chiusa in A e A aperto stellato) ⇒ (Xdx + Ydy + Zdz esatta in A)
Terminiamo queste considerazioni sulle forme differenziali lineari nello spazio R3
osservando che, analogamente al caso delle due variabili, se l’aperto A di R3 è un
rettangolo aperto dello spazio allora A è un aperto stellato per cui se la forma differenziale
lineare è anche chiusa in A per determinare una primitiva si possono utilizzare ancora i
due metodi che abbiamo indicato nelle pagg. 10,11 (ovviamente opportunamente adattati
allo spazio R3).
I limiti imposti dal corso non ci consentono più di approfondire ulteriormente questa
questione.
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Capitolo 6
SUPERFICI REGOLARI
Sia P(u,v) = (x(u,v), y(u,v), z(u,v)) una funzione vettoriale di classe C(0) in un dominio
connesso B ⊆ R2.
L’insieme S = { (x,y,z) ∈ R³ : x = x(u,v), y = y(u,v), z = z(u,v); ∀(u,v)∈ B } si chiama
superficie di equazioni parametriche
x = x (u,v)
(*)
y = y(u,v)
(u,v) ∈ B
;
z = z(u,v)
o anche, posto P = (x,y,z), superficie di equazione parametrica vettoriale
P = P(u,v) ;
(u,v) ∈ B
si dice anche che le equazioni (*) costituiscono una rappresentazione parametrica scalare
della superficie S e che l’equazione (**) costituisce una rappresentazione parametrica
vettoriale di S.
Esistono infinite rappresentazioni parametriche di una superficie S. Infatti se
Φ(s,t) = ( u(s,t), v(s,t) ) è una funzione vettoriale continua nel dominio connesso D avente
per codominio il dominio connesso B, l’equazione
P = P ( Φ(s,t)) ; (s,t) ∈ D
costituisce una nuova rappresentazione parametrica della superficie S. Essendo infinite le
funzioni continue in un dominio connesso e avente per codominio B, infinite sono le
rappresentazioni parametriche di S.
Definizione 1
Si dice che una superficie S è una superficie regolare con bordo regolare, brevemente una
superficie regolare, quando esiste una sua rappresentazione parametrica:
P = P(u,v) ; (u,v) ∈ B
dove P(u,v) = (x(u,v), y(u,v), z(u,v)) è una funzione vettoriale di classe C(1) in B la quale
verifica le seguenti proprietà
1) Il dominio connesso B è un dominio regolare;
2) P(u,v) è invertibile nel dominio B e cioè:
( (u',v'), (u'',v'') ∈ B e (u',v') ≠ (u'',v'') ) ⇒ ( P(u',v') ≠ P(u'',v'') )
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3) La matrice jacobiana
∂(x, y, z)
(**)
∂(u, v)
=
xu
yu
zu
xv
yv
zv
ha rango 2 in B e cioè è tale che almeno uno dei suoi minori del secondo ordine è diverso
da zero.
Osservazione 1
Si chiama bordo di una superficie regolare S e si denota con il simbolo ∂S l’insieme dei
punti di S che sono immagine attraverso una sua rappresentazione parametrica regolare
P = P(u,v) ; (u,v) ∈ B dei punti della frontiera ∂B del dominio B.
Osservazione 2
Si noti che una superficie regolare S può ammettere rappresentazioni parametriche che
non godono delle proprietà 1),2) e 3) della definizione 1. Per tale motivo una
rappresentazione parametrica di S che gode di tali tre proprietà si dice una
rappresentazione parametrica regolare della superficie regolare S.
Osservazione 3
Posto
J1 =
yu
zu
yv
zv
;
J2 = –
xu
zu
xv
zv
;
J3 =
xu
yu
xv
yv
;
e cioè, indicate con J1(u,v), J2(u,v), J3(u,v) i minori del secondo ordine della matrice
jacobiana (**) presi a segni alterni, la condizione 3) della definizione 1 è equivalente alla
condizione
J12 (u,v) + J22 (u,v) + J32 (u,v) > 0
∀(u,v) ∈ B
SUPERFICI REGOLARI NOTEVOLI
Superficie diagramma
Sia ƒ(x,y) una funzione di due variabili definita in un insieme B. L’insieme
S = {x,y,z) ∈ R3 : (x,y) ∈ B e z = ƒ(x,y)}
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si chiama il diagramma della funzione ƒ e l’equazione z = ƒ(x,y) equazione cartesiana del
diagramma S.
È facile verificare che se ƒ(x,y) e una funzione di classe C(1) in B e se B è un dominio
regolare, il diagramma di ƒ è una superficie regolare. Infatti una rappresentazione
parametrica della superficie S è :
x = u;
(*)
y=v
;
(u,v) ∈ B
z = ƒ(u,v)
ed è evidente che tale rappresentazione parametrica verifica le proprietà 1) e 2) della
definizione di superficie regolare.
Essendo inoltre:
J12(u,v) + J22(u,v) + J32(u,v) = ƒu2 + ƒv2 + 1> 0
∀(u,v) ∈ B
risulta verificata anche la proprietà 3).
Ne segue che la rappresentazione parametrica (*) del diagramma S è regolare e quindi S è
una superficie regolare.
Superfici di rotazione
Consideriamo nello spazio (O, x, y, z) una curva Г contenuta nel semipiano (O, x, z) con
x ≥ 0 di equazione z = g(x), g essendo una funzione di classe C(1) nell’intervallo [a, b] con
a > 0. In tali ipotesi Г è una curva contenuta in (O, x, z), la quale è un diagramma rispetto
all’asse x semplice e regolare che non ha punti in comune con l’asse z. La superficie S
descritta dalla curva Г quando il semipiano che contiene Г ruota di un giro completo
intorno all’asse z si chiama una superficie di rotazione.
Considerata la rappresentazione parametrica (semplice e regolare)
x=t
t ∈ [a, b]
z = g(t)
della curva Г, osserviamo che ogni punto P
di Г descrive, sulla rotazione, una circonferenza
che ha centro nel punto P0, proiezione perpendicolare
di P sull’asse z, e raggio il segmento PP0.
Conseguentemente (vedi figura) il punto Q di tale
circonferenza che proviene da P = ( t, O, g(t)) in una
rotazione intorno all’asse z di un angolo θ ha coordinate
(*)
x = t cosθ
y = t senθ
z = g(t)
;
(t,θ) ∈ [a,b]x[0, 2π] = B
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Le equazioni (*) costituiscono una rappresentazione parametrica della superficie di
rotazione S. Eliminando il parametro t ( ricavando t dalle prime due equazioni e
sostituendo nella terza) si ottiene che S è la superficie di equazione cartesiana
z = g( √ x2 + y2 ) con (x,y) ∈ D = { (x,y) : a ≤ √ x2 + y2 ≤ b}
e cioè S è il diagramma della funzione ƒ(x, y) = g( √ x2 + y2) di classe C(1) sulla corona
circolare D di centro O e raggio a e b. In conclusione se Г è un diagramma regolare anche
la superficie di rotazione è un diagramma regolare.
Osservazione
Si noti che, nella pratica, assegnata l’equazione cartesiana z = g(x) della curva ruotante Г,
per determinare l’equazione cartesiana z = g(√ x2 + y2) della superficie di rotazione S basta
sostituire formalmente in z = g(x) x con √ x2 + y2 .
Superficie cilindriche
Consideriamo nello spazio (O, x, y, z) una
curva Г contenuta in un piano,
ad esempio il piano (O, x, y) e una retta r
perpendicolare a tale piano e passante per
un punto P di Г.
Il luogo geometrico S descritto dalla retta r
quando il punto P descrive la curva Г si chiama
superficie cilindrica di curva direttrice Г e generatrice
la retta r. Ciò permesso supponiamo (vedi figura)
che Г sia una curva semplice regolare aperta (cioè
non chiusa) e che
x = x(u);
(*)
y = y(v)
;
u ∈ [a, b]
sia una rappresentazione parametrica semplice regolare di Г.
E’ facile convincersi che le equazioni
x = x(u);
y = y(v)
;
(u,v) ∈ [a, b]x[c, d] ∈ B
z=v
Costituiscono una rappresentazione parametrica della porzione di superficie cilindrica, di
direttrice Г e generatrici le rette parallele all’asse z e passanti per i punti di Г, compresa tra
i piani di equazioni z = c e z = d.
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Infatti, fissato il parametro u il punto ( x(u), y(u), v) al variare di v nell’intervallo [c,d]
descrive il segmento di generatrice passante per il punto ( x(u), y(u) ) di Г e compreso tra i
piani z = c e z = d. Al variare poi del parametro u in [a, b] tale segmento descrive la
superficie.
È facile verificare che, essendo la curva direttrice Г semplice e regolare e la
rappresentazione parametrica (*) semplice e regolare, la superficie cilindrica S gode delle
proprietà 1) e 2) della definizione 1 di pagina 1.
Inoltre un semplice calcolo mostra che
J12(u,v) + J22(u,v) + J32 (u,v) = x'2(u) + y'2(u)
per cui se risulta x(u) + y(u) > 0 ∀u ∈ [a, b] S è una superficie regolare.
Ciò accade, in particolare, quando risulta che la curva direttrice Г è un diagramma regolare
di equazione cartesiana y = ƒ(x), x ∈ [a,b]. Infatti in tal caso risulta
J12(u,v) + J22(u,v) + J32(u,v) = 1 + ƒ ' 2 (u) > 0
∀u ∈ [a, b]
PIANO TANGENTE
Come le curve regolari sono caratterizzate dalla proprietà di essere dotate di retta tangente
(curve lisce) così pure la superfici regolari sono caratterizzate dalla proprietà di essere
dotate di piano tangente (superfici lisce).
Vogliamo accennare a questa proprietà senza dimostrare nulla.
Sia S una superficie regolare e
x = x(u,v)
y = y(u,v) ; (u,v) ∈ B
z = z(u,v)
una rappresentazione parametrica regolare di S.
È possibile verificare, ma ce ne asteniamo per brevità, che se γ è una curva semplice
regolare interna al dominio B e
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u =u(t)
t ∈ [a,b]
v = v(t)
una sua rappresentazione parametrica regolare, anche la curva Г contenuta nella superficie
S di equazioni parametriche
x = x( u(t), v(t) )
(*)
y = y( u(t), v(t) ) t ∈ [a,b]
z = z( u(t), v(t) )
è una curva semplice regolare. Tale curva si chiama una curva tracciata sulla superficie S.
Ne segue che se Q0 = (u0, v0) = (u(t0), v(t0)) è un punto interno a γ, la curva Г tracciata su S
corrispondente a γ dotata di retta tangente nel punto
P0 = (x0,y0,z0) = (x(u0,v0), y(u0,v0), z(u0,v0)) è immagine sulla superficie S del punto Q0 ∈ γ
mediante la rappresentazione parametrica (*).
Si dimostra allora il seguente risultato
Teorema sul significato geometrico della regolarità
Sia S una superficie regolare
(**)
x = x (u,v)
y = y (u,v) ; (u,v) ∈ B
z = z (u,v)
una sua rappresentazione parametrica regolare, P0 = (x0,y0,z0) = (x(u0,v0), y(u0,v0), z(u0,v0))
un punto interno a S (cioè immagine mediante la rappresentazione parametrica considerata
di un punto Q0 = (u0, v0) interno a B). In tali ipotesi tutte le rette tangenti in P0 alle curve
semplici regolari tracciate su S e passanti per il punto P0 si trovano nello stesso piano. Tale
piano ha equazione
J1(u0,v0)(x – x0) + J2(u0,v0)(y – y0) + J3(u0,v0)(z – z0) = 0
dove, al solito, J1,J2, J3 sono i minori del secondo ordine della matrice jacobiana relativa
alla rappresentazione parametrica considerata (**) della superficie S.
Questo teorema giustifica la seguente definizione.
Definizione
Nelle ipotesi del teorema precedente il piano di equazione
J1(u0,v0)(x – x0) + J2(u0,v0)(y – y0) + J3(u0,v0)(z – z0) = 0
si chiama piano tangente alla superficie S nel punto
P0 = ( x0,y0,z0 ) = ( x(u0,v0), y(u0,v0), z(u0,v0) ).
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Osservazione notevole
Se S è un diagramma regolare di equazione cartesiana z = ƒ(x,y),
visto che
x=u
(x,y) ∈ B abbiamo
(u,v) ∈ B
y=v
z = ƒ(u,v)
è una rappresentazione parametrica regolare di S e che risulta
J1(u,v) = –ƒu(u,v) ; J2(u,v) = –ƒv(u,v);
o anche, il che è lo stesso,
J1(x,y) = –ƒx(x,y) ;
J2(x,y) = –ƒy(x,y);
J3(u,v) = 1
J3(x,y) = 1
Ne consegue che, considerato il punto Q0 = (u0,v0) = (x0,y0) ∈ B0, l’equazione del piano
tangente a S nel punto P0 = ( x0, y0, ƒ(x0, y0) ) è :
z = ƒ(x0, y0) + ƒx(x0, y0)(x – x0) + ƒy(x0, y0)(y – y0)
AREA DI UNA SUPERFICIE
Premettiamo che definire l’area di una superficie regolare con considerazioni di natura
geometrica è un problema piuttosto complesso che, per tale motivo, esula dai limiti
imposti dal corso compatto. Ci limiteremo perciò a dare la definizione di area di una
superficie rinunciando alle giustificazioni di natura geometrica.
Definizione1
Sia S una superficie regolare e
x = x(u,v)
y = y(u,v)
;
(u,v) ∈ B
z = z(u,v)
una rappresentazione parametrica regolare di S.
Essendo B un dominio regolare ha senso considerare l’integrale doppio
∫∫
dudv
dove J1, J2, J3 sono i minori del secondo ordine della matrice jacobiana assoluta alla
rappresentazione parametrica (*).Tale integrale doppio si chiama area della superficie S e
si denota col simbolo m(S) oppure anche con areaS.
***************
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La definizione di area di una superficie regolare si estende in modo naturale alle superfici
S che risultano essere l’unione di un numero finito S1, S2, … , Sn di superfici regolari due a
due aventi in comune al più soltanto punti del bordo. Tali sono ad esempio la superficie
sferica, la frontiera di un cilindro circolare retto, la frontiera di un dominio regolare dello
spazio normale rispetto ad uno dei piani coordinati e, più in generale, la frontiera di un
dominio regolare dello spazio.
Definizione2
Sia S una superficie che risulti decomponibile in un numero finito di superfici regolari
S1, S2, … , Sn due a due aventi in comune al più soltanto punti del bordo. In tali ipotesi si
pone per definizione
m (S) = m(S1) + m(S2) + … + m(Sn)
è cioè si estende la definizione di area di una superficie a tali superfici S definendo l’area
m(S)come somma delle aree delle superfici regolari S1, S2, … , Sn che le costituiscono.
Osservazione 1
Sia S una superficie decomponibile nelle n superfici regolari S1, S2, … , Sn e supponiamo
che esista una rappresentazione parametrica P = P(u,v) ; (u,v) ∈ B di S verificante la
seguente proprietà.
Il dominio base B è decomponibile in n domini regolari B1, B2, ... , Bn tali che P = P(u,v)
con (u,v) ∈ Bi è una rappresentazione parametrica regolare della superficie regolare Si
(i = 1,2….n). In tali ipotesi per la definizione precedente, risulta
m(S) = ∬
dudv + ∬
+∬
dudv + ... +
dudv
Dalla proprietà additiva dell’integrale doppio, tenuto conto che B1 ∪ B2 ∪…∪ Bn = B, si
deduce che
m(S) = ∬
dudv
e cioè in conclusione, continua a valere la formula di calcolo dell’area di una superficie
contenuta nella definizione 1.
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Osservazione 2
Si noti che, se S è il diagramma regolare di equazione cartesiana z = ƒ(x, y) ; (x,y) ∈B,
essendo J1 = –ƒx; J2 = –ƒy; J3 = 1 risulta
m(S) = ∬
dxdy
INTEGRALE SUPERFICIALE
Definizione1
Sia ƒ(x,y,z) una funzione reale di tre variabili
continua in un insieme A ⊆ R3, S una superficie
regolare contenuta in A,
x = x(u,v)
y = y(u,v) ;
(u,v) ∈ B
z = z(u,v)
una rappresentazione parametrica regolare della
superficie S. Per ogni partizione P = {B1, B2, …, Bn} del dominio regolare B in domini
regolari indichiamo con {S1, S2, …, Sn} la partizione di S corrispondente a P e
consideriamo le somme integrali
s(P) = ∑ mi · areaSi
;
S(P) = ∑ Mi · areaSi
dove mi e Mi denotano il minimo e il massimo di ƒ(x, y, z) nella superficie Si (i = 1,2....n)
certamente esistenti per il teorema di Weiestrass.
Al variare della partizione P del dominio B tali somme integrali descrivono due insiemi
numerici {s(P)} e {S(P)}. Se tali insiemi numerici sono separati e contigui l’unico
elemento separatore si chiama integrale superficiale della funzione ƒ(x, y, z) esteso alla
superficie S e si denota col simbolo
∫ ƒ(x,y,z)dσ
Sussiste in proposito il seguente risultato che fornisce anche una formula per il calcolo
degli integrali superficiali.
Teorema
Nell’ipotesi poste su ƒ e S nella definizione precedente esiste l’integrale superficiale di ƒ
esteso ad S e considerata una rappresentazione parametrica regolare P = P(u,v) ;
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(u,v) ∈ B con P (u,v) = ( x(u,v), y(u,v), z(u,v) ) di S, risulta
∫ ƒ(x, y, z)dσ ≝ ∬ ƒ( x(u,v), y(u,v), z(u,v) ) ·
dudv
Definizione2
Se S è una superficie unione di n superfici regolari S1, S2, … , Sn aventi in comune a due a
due al più soltanto punti del bordo si pone
∫ ƒ(x, y, z)dσ ≝ ∫ ƒ( x, y, z)dσ + ∫ ƒ( x, y, z)dσ + ... + ∫ ƒ( x, y, z)dσ
Vogliamo ora occuparci di una applicazione importante della nozione di integrale
superficiale.
A tal scopo premettiamo che come è noto dalla Geometria Analitica, dato il piano di
equazione ax + by + cz + d = 0 e un suo punto P0 = (x0, y0, z0), l’equazione della retta
passante per P0 e perpendicolare a tale piano è
x – x0
a
=
y – y0
b
z –z0
=
c
Conseguentemente i coefficienti a, b, c che compaiono nell’equazione del piano sono
numeri direttori della retta perpendicolare al piano in P0.
Fissato sulla retta perpendicolare un orientamento, il vettore
±a
±b
,
,
±c
dove la scelta dei segni + o – dipende dall’orientamento della retta, si chiama il versore
normale nel punto P0, al piano ax + by + cz + d = 0.
Ciò posto consideriamo una superficie S regolare e una sua rappresentazione parametrica
regolare
x = x (u,v)
(*)
y = y(u,v)
;
(u,v) ∈ B
z = z(u,v)
Abbiamo visto che, in tali ipotesi, il piano di equazione
J1(u0,v0)(x – x0) + J2(u0,v0)(y – y0) + J3(u0,v0)(z – z0) = 0
è il piano tangente a S nel punto P0 = (x0, y0, z0) = ( x(u0,v0), y(u0,v0), z(u0,v0) ).
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Il versore dell’asse normale a tale piano nel punto P0:
J1(u0,v0)
J2(u0,v0)
n(P0) =
,
,
J3(u0,v0)
si chiama versore normale positivo in P0 alla superficie S relativo alla rappresentazione
parametrica di (*) S. Il versore opposto – n(P0) versore normale negativo relativo alla
rappresentazione parametrica (*) di S.
In particolare se S è un diagramma regolare di equazione cartesiana z = ƒ(x,y); (x,y) ∈ B il
versore normale positivo a S in P0 relativo alla rappresentazione parametrica usuale di S
(**)
x=u
y = v ; (u,v) ∈ B
z = ƒ(u,v)
è il vettore
n(P0) =
–ƒx(x0, y0)
,
–ƒy(x0, y0)
,
1
Essendo la terza componente di questo vettore positiva si tratta di un versore che forma un
angolo acuto con l’asse z.
Ciò posto, consideriamo una superficie regolare S e indichiamo con P = P (u,v) ; (u,v) ∈ B
una rappresentazione parametrica regolare di S. È possibile distinguere su S due facce o
pagine: la faccia che è rivolta verso i versori normali positivi relativi alla rappresentazione
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parametrica di S considerata e la faccia opposta. La prima di queste due facce si chiama la
pagina positiva di S relativa alla rappresentazione parametrica P = P(u,v), (u,v) ∈ B. Nel
caso della superficie diagramma di equazione z = ƒ(x, y); (x, y) ∈ B la pagina positiva
relativa alla rappresentazione parametrica (**) è quella rivolta verso l’alto. (vedi figura).
Una superficie regolare S si dice una superficie regolare orientata quando, considerata una
( qualsiasi ) rappresentazione parametrica regolare P = P (u,v) ; (u,v) ∈ B di S, si fissa ad
arbitrio una delle due pagine di S relative a tale rappresentazione parametrica. Tale pagina
prescelta si chiama pagina positiva della superficie orientata S e naturalmente non è tenuta
a coincidere con la pagina di S che risulta determinata dai versori normali positivi relativi
alla rappresentazione parametrica regolare di S considerata.
Premesse tutte queste nozioni è possibile dare la definizione (utile nelle scienze applicate)
di flesso di un campo di vettori attraverso una superficie orientata.
Definizione
Sia
V(x,y,z) = ( X(x,y,z), Y(x,y,z), Z(x,y,z) )
un campo vettoriale dello spazio R3 a componenti di classe C(0) in un insieme A ⊆ R3 e sia
S una superficie regolare orientata contenuta in A. L’integrale superficiale
∫ (V·n)dσ
dove (nel prodotto scalare V · n) n denota il versore normale che determina la pagina
positiva fissata sulla superficie S per orientarla, si chiama flesso del campo V attraverso S
nella direzione dei versori n.
Osservazione
Si noti che se
x = x(u,v)
y = y(u,v)
;
(u,v) ∈ B
z = z(u,v)
è una rappresentazione parametrica regolare della superficie S e se la pagina positiva
fissata su S per orientarla coincide con la pagina positiva relativa a tale rappresentazione
parametrica di S, risulta:
∫ (V · n)dσ = ∫∫ [X( x(u,v), y(u,v), z(u,v) )J1(u,v)+ Y( x(u,v), y(u,v), z(u,v) )J2(u,v) +
+ Z( x(u,v), y(u,v), z(u,v) )J3(u,v)]dudv
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IL TEOREMA DI STOKES NELLO SPAZIO
Vogliamo ora accennare all’estensione del teorema di Stokes allo spazio R3.
A tale scopo è opportuno premettere la nozione di orientamento del bordo ∂S di una
superficie regolare.
Osserviamo innanzitutto che il bordo ∂S di una superficie regolare S è costituito da un
numero finito di curve dello spazio R3 semplici, chiuse, regolari a tratti che risultano
immagine mediante una rappresentazione parametrica regolare di S
P = P(u,v)
;
(u,v) ∈ B
delle curve che costituiscono la frontiera ∂B del dominio regolare B base della
rappresentazione parametrica considerata. Ciò posto:
Definizione
Si chiama verso positivo del bordo ∂S della superficie regolare S, relativo alla
rappresentazione parametrica regolare di S
P = P(u,v) ; (u,v) ∈ B
il verso secondo il quale il punto P = P(u,v) descrive le curve del bordo ∂S di S quando il
punto (u,v) ∈ B descrive le curve della frontiera ∂B del dominio base B nel verso positivo
convenzionale (verso che lascia alla sinistra i punti interni a B). Il verso opposto si chiama
verso negativo del bordo ∂S di S relativo alla rappresentazione parametrica (*).
Ciò posto, diremo che il bordo ∂S di S è orientato quando fissiamo a piacere uno dei due
possibili versi di percorrenza di ∂S relativi ad una rappresentazione parametrica regolare
di S. Il verso prescelto si chiama verso positivo del bordo ∂S di S e si denota con il
simbolo +∂S. Naturalmente l’orientamento positivo +∂S del bordo ∂S della superficie S
non è tenuto a coincidere col verso positivo del bordo ∂S relativo alla rappresentazione
parametrica (*).
Osservazione
Si noti che, se in particolare, la superficie S è il diagramma regolare di equazione
cartesiana z = ƒ(x, y) ; (x, y) ∈ B (sicché ƒ è una funzione di classe C(1) nel dominio
regolare B) il verso positivo del bordo ∂S di S relativo alla rappresentazione parametrica
usuale di S
x=u
y = v ; (u,v) ∈ B
z = ƒ(u,v)
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e quello indicato alle pagine 11 e 12.
È opportuno, in secondo luogo, precisare che cosa si intende (nelle scienze applicate) per
rotore di un vettore V(x,y,z) = ( X(x,y,z), Y(x,y,z), Z(x,y,z) ) dello spazio R3.
Si chiama rotore del vettore V e si denota col simbolo rotV il vettore dello spazio R3 che
ha come componenti i minori del secondo ordine della matrice simbolica:
∂
∂x
∂
∂y
∂
∂z
X
Y
Z
e cioè i determinanti (presi a segni alterni)
∂
∂y
∂
∂z
Y
Z
;
–
∂
∂x
∂
∂z
X
Z
;
∂
∂x
∂
∂y
X
Y
In conclusione
rotV ≝ (Zy – Yz , Xz – Zx , Yx – Xy ).
Possiamo ora enunciare il seguente risultato
Teorema di Stokes nello spazio
Sia V = (X; Y; Z) un campo vettoriale dello spazio di classe C(1) in un aperto A ⊆ R3 ed S
una superficie regolare contenuta in A.
Considerata una rappresentazione parametrica regolare
P = P(u,v); (u,v) ∈ B
della superficie S, denotiamo con il versore n il versore normale positivo relativo a tale
rappresentazione parametrica e con +∂S il bordo di S orientato nel verso positivo relativo a
tale rappresentazione parametrica (si dice in tal caso che gli orientamenti di S e ∂S sono
coerenti).
In tali ipotesi vale la seguente formula di Stokes
(*)
∫(rotV · n)dσ = ∫V · dP
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o anche, il che è lo stesso, la seguente formula:
∫∫[(Zy – Yz)J1(u,v)+(Xz – Zx)J2(u,v)+(Yx – Xy)J3(u,v)]dudv = ∫ Xdx+Ydy+Zdz
La formula (*) esprime che, se gli orientamenti di S e ∂S sono coerenti, il flusso dei rotori
del campo V attraverso la superficie S nella direzione dei versori n è uguale alla
circuitazione del campo V lungo il bordo orientato +∂S della superficie.
Osservazione1 (notevole)
Allo scopo di comprendere meglio la formula di Stokes nello spazio, supponiamo che S
sia un diagramma regolare di equazione cartesiana
z = ƒ(x,y) ; (x,y) ∈ B
In tal caso risulta
J1 = –ƒx ; J2 = –ƒy ;
Con i quali
J3 = 1
∫ rotV · n dσ = ∫∫ [(Zy – Yz)(–ƒx) + (Xz – Zx)(–ƒy) + (Yx – Xy)]dxdy.
Se, in particolare, S è il diagramma di equazione z = 0 (cioè ƒ(x, y) = 0) allora risulta
S ≡ B, ∂S ≡ ∂B e quindi
∫ rotV · n dσ = ∬ (Yx – Xy)dxdy
∫V · dP = ∫ Xdx + Ydy
Si conclude che la formula di Stokes nello spazio (*) si può riscrivere nella formula
seguente:
∫∫ (Yx –Xy)dxdy = ∫ Xdx + Ydy
quindi coincide con la formula di Stokes nel piano.
Osservazione2
Si noti che l’utilità della formula di Stokes consiste nel fatto che consente di calcolare un
integrale superficiale mediante un integrale curvilineo e viceversa. Ciò può essere utile
nella pratica.
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