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Edward Glaeser Perché il grattacielo può salvare la città In un lungo estratto dal suo Triumph of the City (Penguin 2011) l’economista ripercorre la storia degli edifici a torre. Con parecchi dei pregiudizi e delle semplificazioni di una cultura disciplinare egemone, a mio parere. Anticipato da The Atlantic, febbraio 2011 Titolo originale: How Skyscrapers Can Save the City – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini Nel Libro della Genesi, i costruttori di Babilonia dicono: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Antenati di certi moderni imprenditori, capiscono perfettamente quanto le città possano unire gli uomini. Ma Dio li punisce per aver eretto un monumento alla gloria terrena anziché celeste. E per oltre duemila anni i costruttori di città occidentali hanno ben ricordato questo ammonimento, visto che tutte le strutture svettanti sono state guglie di chiese. Verso la fine del Medio Evo, gli edifici per la lavorazione della lana di Bruges divennero il primo caso in cui una struttura secolare – una torre campanaria che celebrava la produzione di stoffe – incombeva sopra le chiese circostanti. Ma altrove passarono ancora cinque o sei secoli prima che edifici civili potessero s uperare quelli religiosi. Con la sua guglia di oltre novanta metri, la Trinity Church è stata fino al 1890 l’edificio più alto di New York City. Forse quell’anno, quando la guglia della Trinity fu superata dal grattacielo del New York World di Joseph Pulitzer, deve essere considerato il primo del poco religioso XX secolo. Quasi contemporaneamente anche Parigi celebrava la sua crescente ricchezza con gli oltre trecento metri della Tour Eiffel, molto ma molto più alta della Cattedrale di Notre‐Dame. Sin dall’epoca di quella torre a Babilonia, l’altezza è considerata sia in quanto simbolo di potere, sia come metodo per realizzare più spazi su una certa superficie limitata di terreno. Il campanile della Trinity Church e la struttura di Gustave Eiffel non mettevano a disposizione spazi utilizzabili. Erano grandi monumenti, a Dio o all’ingegneria francese. L’edificio del World di Pulitzer, certo era un monumento allo stesso Pulitzer, ma era anche un modo piuttosto pratico per concentrare le attività in piano sviluppo dell’editoria in un solo edificio. Per secoli, fabbricati sempre più alti hanno reso possibile stipare un maggior sito diretto da fabrizio bottini -1/17 - http://mall.lampnet.org
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numero di persone su una certa superficie di terreno. Ma fino al XIX secolo questa corsa all’alto era un’evoluzione frenata, in cui molto gradualmente al fabbricato di due piani si aggiungeva quello di quattro, o magari di sei. Fino ad allora le altezze erano limitate dai costi di costruzione, nonché dalla nostra disponibilità a salire rampe di scale. Guglie di cattedrali e torri campanarie potevano anche bucare le nuvole, ma solo perché erano molto sottili, e nessuno doveva salirci tranne qualche volta il campanaro. Nel XIX secolo gli edifici alti divennero una possibilità dopo che alcuni innovativi americani risolsero il duplice problema, di spostare su e giù in sicurezza le persone, e di costruire edifici enormi senza pareti enormemente spesse alla base. Elisha Otis non ha certo inventato l’ascensore: si ritiene che il primo l’abbia costruito Archimede 2.200 anni fa. Si dice anche che Luigi XV ne avesse uno personale montato a Versailles, per raggiungere più comodamente le sue amanti. Ma prima di diventare un mezzo di comunicazione di massa, l’ascensore aveva bisogno di un’affidabile fonte di energia, e doveva essere sicuro. Matthew Boulton e James Watt realizzarono il primo motore a vapore per montacarichi industriali, mossi su cavi o da sistemi idraulici. Col perfezionamento del motore, miglioravano anche velocità e portata dei montacarichi, in grado di trasportare carbone nelle miniere o granaglie dalle navi da carico. Ma gli esseri umani diffidavano ancora di salire a certe altezze su macchine che potevano facilmente guastarsi e spedirli a rotolare giù. Otis, sperimentando in una segheria di Yonkers, riuscì a eliminare i rischi del trasporto verticale. Inventò un freno di sicurezza esposto nel 1854 a New York al Crystal Palace. Salì personalmente su una piattaforma che venne sollevata in alto, e poi con gesto teatrale fece tagliare con un’ascia il cavo di sospensione. La piattaforma ebbe un minuscolo cedimento, per bloccarsi sicura e stabile appena entrato in funzione il freno. L’ascensore di Otis ebbe un effetto straordinario. Già verso gli anni ’70 del XIX secolo aveva consentito il sorgere di strutture mozzafiato, come il Tribune Building di Richard Morris Hunt a New York, che raggiungeva i dieci piani. Al di là dell’Atlantico, a Londra coi suoi novanta metri la stazione di St. Pancras era anche un po’ più alta del Tribune Building. Ma è proprio l’aria da fortezza dell’edifico di St. Pancras a suggerire la presenza di un problema costruttivo. Manca ancora la componente chiave di riduzione dei costi dei grattacieli moderni: lo scheletro portante in acciaio. Le tecniche tradizionali, usate a St. Pancras o nel Tribune Building, avevano bisogno di pareti notevolmente spesse ai piani più bassi, per sostenerne il peso. Più su si andava, più larghe diventavano queste pareti, e più proibitivi i costi di costruzione, a meno di non limitarsi a un sottile guglia. La struttura portante in acciaio caratteristica del grattacielo, si basa sui medesimi principi delle case a balloon‐frame, essenziali per l’edilizia statunitense del XIX sito diretto da fabrizio bottini -2/17 - http://mall.lampnet.org
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secolo. Un fabbricato balloon‐frame ha uno scheletro portante composto di assi standardizzate. Tutte le pareti sostanzialmente stanno appese su quel telaio come fossero tende. Anche i grattacieli poggiano su una struttura a scheletro, che nel caso specifico è fatta di acciaio, sempre più disponibile verso la fine del secolo. C’è un acceso dibattito fra gli architetti su chi l’abbia inventato, il grattacielo: a dimostrazione del fatto che, come tanti altri doni della città, che non si materializzano nel vuoto sociale, anche questo non nasce all’improvviso. Lo Home Insurance Building di William Le Baron Jenney, 45 metri, costruito a Chicago nel 1885, viene spesso considerato il primo autentico grattacielo. Ma quello di Jenney non è dotato di telaio completo. Ci sono soltanto due pareti rinforzate in acciaio. L’acciaio era già stato usato per rinforzi anche due anni prima a Chicago, nel Montauk Building di Daniel Burnham e John Root. Telai metallici esistevano da decenni nelle strutture industriali, come la Shot and Lead Tower di McCullough a New York o il grande deposito portuale di St. Ouen vicino a Parigi. Il proto‐grattacielo di Jenney è un patchwork, che unisce le innovazioni del progettista con altre idee che a Chicago, città ricca di architetti, già erano nell’aria. Altri, come Burnham e Root, il loro strutturista George Fuller, e Louis Sullivan, ex collaboratore di Jenney, poi svilupparono ulteriormente l’idea. Il grande passo in avanti di Sullivan è del 1891, col Wainwright Building di St. Louis, grattacielo che si libera dagli eccessi murari ornamentali. Se gli edifici di Jenney evocano l’epoca vittoriana, il Wainwright Building apre la via alle torri dell’epoca moderna che compongono i nostri profili urbani. SI ritiene che il famoso romanzo di Ayn Rand La Fonte Meravigliosa si basi liberamente sulla biografia del collaboratore di studio di Sullivan, Frank Lloyd Wright. Sullivan e Wright sono presentati come lupi solitari, eroi alla Gary Cooper, campioni di individualismo. Cosa che non erano. Erano invece grandi architetti, profondamente coinvolti nel sistema di innovazione urbano. Wright riecheggia l’idea di Sullivan secondo cui la forma segue la funzione, così come Sullivan si ispirava ad alcune intuizioni di Jenney, e tutti attingevano alle sperimentazioni di Peter B. Wight, grande innovatore nei sistemi antincendio. La loro creatura collettiva— il grattacielo — consente alle città di aggiungere enormi quantità di superficie utile sfruttando il medesimo terreno. Data la grande richiesta di immobili localizzati in centro, il grattacielo fu considerato una vera manna. Il problema era che in quei centri c’erano già altri edifici. Salvo in posti come Chicago, dove un incendio aveva fatto tabula rasa, occorreva demolire prima di costruire in altezza. La domanda di spazio a New York era anche più forte di quella di Chicago, e presto a Manhattan. Sorsero i grattacieli. Nel 1890, il World Building di Pulitzer sito diretto da fabrizio bottini -3/17 - http://mall.lampnet.org
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aveva un telaio metallico, ma il peso era sostenuto da pareti in muratura spesse più di due metri. Nel 1899, il World Building era superato dal Park Row Building, 120 metri, con un telaio d’acciaio. Si spostò a est Daniel Burnham a costruire il suo simbolo, il Flatiron Building del 1902, e anni dopo la National Academy of Design di Wight fu demolita per far posto ai 130 metri della torre Metropolitan Life, per un po’ l’edificio più alto del mondo. Nel 1913, il Woolworth Building raggiungeva i 240 metri, e rimase l’edificio più alto del mondo sino al boom di fine anni ‘20. Quegli edifici tanto alti non erano solo monumenti. Consentivano anche a New York di crescere e alle sue attività di svilupparsi. Davano a imprese e dipendenti spazi di lavoro al tempo stesso più vivibili ed efficienti. Furono i grandi costruttori di Manhattan come A. E. Lefcourt a rendere possibile tutto questo. Come un personaggio dei romanzi popolari di Horatio Alger figure, Lefcourt era nato povero e aveva iniziato vendendo giornali e lucidando scarpe. Raggiunta l’adolescenza, aveva già risparmiato abbastanza per comprarsi 1000 buoni del Tesoro Usa che teneva spillati dentro la camicia. A 25 anni, Lefcourt rilevò l’attività di commercio all’ingrosso dove lavorava, e nei dieci anni successivi si impose come figura dominante del settore abbigliamento. Nel 1910 iniziò la nuova attività di costruttore, investendo l’intero capitale in un edifico da 12 piani sulla Venticinquesima Strada Ovest in cui sistemare la ditta. Poi ne costruì altri, spostando tutta l’attività di settore dalle vecchie botteghe verso il moderno Garment District. Fra i vantaggi goduti dalle imprese dell’abbigliamento in centro c’era la vicinanza del porto. Il Garment District di Lefcourt stava tra le stazioni ferroviarie Grand Central e Pennsylvania, con le linee che facevano di New York quello che era. Sono i trasporti a dar forma alle città, e Midtown Manhattan era organizzata attorno a due grandi stazioni in grado di muovere eserciti di persone. Nei vent’anni che seguono Lefcourt costruisce oltre 30 edifici, di cui molti grattacieli. Sfrutta gli ascensori Otis per enormi torri che coprono 60 ettari, racchiudono tre milioni di metri cubi, possono ospitare tanti lavoratori quanto l’intera Trenton. “Ha demolito più edifici storici a New York di quanti altri riescano a ricordare” scriveva il Wall Street Journal. Nei primi anni ‘20, la città degli slum, dei casermoni popolari in affitto, delle fastose dimore dell’Epoca d’Oro, si trasformava nella città dei grattacieli, con costruttori come Lefcourt che realizzavano ogni anno fino a 100.000 nuovi alloggi, consentendo di crescere ma di restare anche economicamente alla portata di molti. Nel 1928, gli immobili di Lefcourt ne facevano un miliardario in dollari di oggi. Festeggiò aprendo una banca nazionale che portava il suo nome. Il suo ottimismo rimase intatto nonostante il crollo della borsa, e mise in conto un investimento di 50 milioni di dollari per costruzioni nel 1930, sicuro che si sito diretto da fabrizio bottini -4/17 - http://mall.lampnet.org
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sarebbe trattato di “un anno grandioso per l’edilizia”. Ma insieme al collasso dell’economia di New York crollava anche il suo impero immobiliare, ceduto un pezzo per volta a ripagare gli investitori. Morì nel 1932, con 2.500 dollari, punito per la sua arroganza, come i costruttori di Babilonia. Sospetto che Lefcourt, come tanti altri nel settore, tenesse più a lasciare in eredità edifici che soldi. Strutture che contribuirono a dar spazio alle menti creative che ancora rendono New York tanto speciale. L’edificio più famoso, che non porta neppure il suo nome, è diventato il simbolo di uno stile musicale: il “Brill Building Sound”. A cavallo fra gli anni ’50 e i primi ’60, gli artisti legati al Brill Building ci hanno lasciato una scia di successi, da Twist and Shout, a You’ve Lost That Lovin’ Feelin’, e significativamente anche Up on the Roof. Le città in fondo mettono insieme le persone, e sono certe strutture — come quelle realizzate da Lefcourt — a rendere possibili i legami. Costruendo in altezza, Lefcourt ha reso molto più sopportabile la vita di tanti lavoratori del settore abbigliamento, e creato spazi per le menti creative.
Certo il percorso verso l’alto di New York non manca di detrattori. Nel 1913, l’esimio presidente della Fifth Avenue Commission, architetto, condusse una battaglia per “salvare la Quinta Strada dalla rovina”. All’epoca la via era ancora una strada di imponenti magioni, abitate dai Carnegie o dai Rockefeller. I militanti conservazionisti sostenevano che se non si conteneva lo sviluppo in altezza entro i trentacinque metri, la Fifth si sarebbe trasformata in una specie di canyon, con risultati disastrosi sui valori immobiliari e per la città nel suo insieme. In tutti i periodi storici argomentazioni simili sono state sostenute dai nemici del cambiamento. Ma quel presidente della commissione era di sicuro molto migliore come architetto che come profeta, visto quanto bene ha fatto poi la densità alla Fifth Avenue. Nel 1915, nel cuore del New York, fra Broadway la Nassau Street, l’Equitable Life Assurance Society realizzò un monolite che conteneva complessivamente una superficie di 93.000 metri quadrati di uffici, e dalla sua altezza di 165 metri gettava ombra su tre ettari di città. L’edificio diventò lo scandalo dei nemici delle altezze, che avrebbero voluto un po’ più di sole. Si formò un’alleanza politica e fu approvata la fondamentale ordinanza di zoning della città del 1916, che consentiva lo sviluppo in altezza solo dimagrando un po’. Le tante ziggurat di New York, che si assottigliano man mano salgono, furono realizzate adeguandosi alle norme sugli arretramenti di quella ordinanza. L’urbanistica cambiò la forma degli edifici, ma non fermò certo il boom edilizio degli anni ‘20. Gli edifici davvero alti in qualche modo sono la misura di una esuberanza irrazionale. Cinque fra i dieci più alti a New York City ancora nel 2009 — come l’Empire State Building — sono stati completati fra il 1930 e il 1933. In quella ruggente fine degli anni ‘20, quando appariva senza limiti il potenziale sito diretto da fabrizio bottini -5/17 - http://mall.lampnet.org
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della città, costruttori come Lefcourt erano sicuri di trovare inquilini per i propri spazi, e i banchieri ben lieti di finanziarli. Il Chrysler Building, 40 Wall Street, e l’Empire State Building fecero a gara per essere la struttura più alta del mondo. Cosa curiosa, il fatto che due dei grattacieli più alti di New York, e fra i più simbolici, siano stati realizzati coi proventi della vendita delle stesse automobili che avrebbero poi portato via l’America dalla città verticale, verso l’immenso suburbio. Accadde che il vincitore, Empire State Building, fu presto soprannominato Empty State Building: non si riuscì ad affittarlo completamente, né a guadagnarci, prima degli anni ‘40. Per fortuna di chi l’aveva finanziato, la costruzione era costata molto meno del previsto. La realizzazione di grattacieli a New York subì un rallentamento dopo il 1933, e le norme urbanistiche diventavano sempre più complesse. Fra il 1916 e il 1960 l’originaria ordinanza di zoning vene modificata più di 2.500 volte. E nel 1961, la City Planning Commission ne approvava una nuova che poneva nuovi limiti all’edificazione. Il documento di 420 pagine sostituiva quella che in origine era una semplice classificazione di ambiti — attività economiche, residenziale, senza vincoli funzionali — con una stupefacente quantità di zone omogenee, in ciascuna delle quali sono consentite solo pochissime varianti. 13 tipi di quartiere residenziale, 12 di zona produttiva, addirittura 41 tipi diversi di distretto commerciale. Per ciascuno si elencano poi la serie delle funzioni possibili. Nei quartieri residenziali sono proibite le gallerie d’arte commerciali, consentite invece in quelli produttivi, mentre altre gallerie d’arte senza scopo commerciale vengono vietate nelle zone industriali e consentite in quelle residenziali. I negozi di articoli per l’arte vengono esclusi dai distretti residenziali, ma ammessi in alcuni a destinazione commerciale. Diversi anche da caso a caso i criteri per i parcheggi. In una zona classificata R5, a un ospedale si impone una piazzola di sosta in area dedicata ogni cinque posti letto, mentre se l’area omogenea è R6, l’ospedale deve mettere a disposizione solo un posto ogni otto letti. La minuziosità incredibile delle indicazioni normative trova un ottimo esempio nelle prescrizioni su cartelli e indicazioni: Nel caso di fabbricati plurifamiliari, alberghi, edifici a scopo non residenziale o altre strutture, è consentita un’unica targa di superficie non superiore a 1.000 cmq che riporti esclusivamente denominazione, nome e indirizzo dell’edificio, oppure della gestione. Nella nuova versione del documento di zoning si elimina anche il sistema degli arretramenti progressivi, sostituito da un complesso sistema di indici di fabbricabilità [floor‐to‐area ratio / FAR] che calcolano il rapporto fra superficie occupata e superficie di pavimento. Una FAR massima pari a 2, ad esempio, significa che un costruttore può realizzare un edificio di due piani utilizzando sito diretto da fabrizio bottini -6/17 - http://mall.lampnet.org
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tutta la superficie del lotto, o uno di quattro piani usandone solo la metà. Nelle zone omogenee residenziali R1, R2, e R3, l’indice massimo è di 0,5. Nelle R9, il FAR Massimo arriva a 7,5, a seconda delle altezze. I limiti di altezza si possono eventualmente superare a patto di realizzare piazze o altri ambiti pubblici davanti all’edificio. Se il fabbricato tipo prodotto dalle norme del 1916 era una specie di torta nuziale che saliva dalla linea del marciapiede, quello del 1961 fu una lastra di vetro e acciaio con uno spazio davanti. Le ordinanze di zoning di New York diventavano più rigorose, e anche altri vincoli alle trasformazioni edilizie. Dopo la seconda guerra mondiale divenne molto più complicato costruire per i privati, anche a causa di una eccessiva regolamentazione degli affitti, mentre al contrario l’intervento pubblico realizzava opere immense come Stuyvesant Town o il Lincoln Center. E durante gli anni ’50 e ’60, progetti pubblici e privati iniziarono a incontrare una crescente resistenza da parte dei comitati di cittadini come quelli organizzati da Jane Jacobs, via via sempre più strutturati nell’opposizione ai grandi progetti. Nel 1961, la Jacobs pubblicava il suo capolavoro, La vita e la morte delle grandi città, che studia e celebra l’ambiente dei quartieri pedonali della New York di metà secolo. Sostenendo che è la loro composizione funzionale ad alimentare la vitalità della strada, l’essenza della vita urbana. Ma la Jacobs voleva tutelare i vecchi quartieri a causa di un suo ragionamento economico non chiarissimo. Era convinta che conservando fabbricati tradizionali e non troppo alti si potesse in qualche modo favorire la presenza di nuove piccole attività. Il che non è esattamente come funziona il sistema della domanda e dell’offerta. Tutelare un vecchio edificio da un piano invece di sostituirlo con un altro da quaranta piani, non serve certo a mantenere economicità. Al contrario, realizzare un edificio nuovo è esattamente il modo migliore per far aumentare i prezzi in quella che era una zona popolare. Aumentare l’offerta, di case o altro, quasi sempre fa abbassare i prezzi, mentre comprimerla li tiene alti. I rapporti fra offerta e case più o meno economiche non sono una questione di teoria economica. C’è abbondanza di riscontri pratici a legare disponibilità di spazi e prezzi immobiliari. Detto nel modo più semplice, là dove i costi sono alti non si costruisce molto, e dove si costruisce gli immobili sono più a buon mercato. Magari un nuovo edificio di quaranta piani non si riempirà di colpo di piccoli operatori, ma mettendo a disposizione nuovi spazi può allentare la pressione sul resto della città. I prezzi crescono nei quartieri tradizionali che subiscono gentrification, ma si riassestano se si costruisce di nuovo. É la crescita, non i limiti sulle altezze e un’offerta immobile di spazi, a mantenerli economici e a consentire alle famiglie a basso reddito e alle nuove piccole attività di contribuire a fare della città un luogo vitale e diversificato. Certo i limiti sulle sito diretto da fabrizio bottini -7/17 - http://mall.lampnet.org
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altezze lasciano più luce, la conservazione tutela l’eredità storica, ma non possiamo pensare che tutto questo non comporti dei costi. Nel 1962, nella scia delle proteste contro la demolizione del fabbricato originale della Pennsylvania Station, bellissimo e amato, il sindaco Robert Wagner istituisce la Landmarks Preservation Commission. Nel 1965, nonostante la decisa opposizione del mondo immobiliare, la commissione diventa permanente. In un primo tempo, la cosa appare di poco conto anche ai conservazionisti. La quantità degli edifici vincolati il primo anno, 1.634, è piuttosto modesta, e il potere della commissione è comunque condizionato dalla possibilità per il consiglio di porre il veto sulle sue decisioni. Ma come succede per l’entropia, anche il campo di azione degli enti pubblici spesso nel tempo si espande, e quello che era un piccolo organismo sostanzialmente simbolico a interessare zone sempre più vaste della città. Nel 2008, più del 15% della superficie di Manhattan al netto dei parchi, a sud della Novantaseiesima Strada, è classificato di interesse storico, e qualunque modifica dell’aspetto esterno deve essere approvata dalla Commissione. A fine 2010, la giurisdizione si estende su 27.000 edifici e 101 ambiti storici. Nel 2006, il costruttore Aby Rosen ha proposto di realizzare una torre di cristallo di oltre venti piani sopra l’edificio Sotheby Parke‐Bernet al 980 di Madison Avenue, nel distretto storico dell’Upper East Side. Rosen e il suo architetto, Lord Norman Foster, vincitore del premio Pritzker, volevano realizzare questa torre nello stesso modo in cui il MetLife Building (già Pan Am Building) sta sopra il Grand Central Terminal. L’edificio in questione non era in sé vincolato, ma alcuni cittadini con le conoscenze giuste non apprezzavano molto l’idea di cose alte, e presentano un ricorso alla commissione. Tom Wolfe, brillante scrittore che si è già occupato dei capricci di New York City e del suo mondo immobiliare, pubblica sul New York Times un intervento da 3.500 parole in cui chiede alla commissione di bocciare il progetto. La ditta Wolfe & Company ha partita vinta. Rispondendo ai suoi critici sul caso del civico 980 di Madison Avenue, fra cui c’ero anch’io, Wolfe spiega su The Village Voice: Se portassimo sino alle conclusioni logiche le sue teorie [di Glaeser] dovremmo cementificare tutto Central Park … Se si calcolano le migliaia e migliaia di persone che potrebbero andarci a abitare, a Central Park, se solo ci si potesse costruire, ragazzi, avremmo davvero cominciato a risolvere il problema! Ma uno dei vantaggi di svilupparsi verso l’alto nei quartieri già densi, è proprio la possibilità di non toccare le zone verdi, che si tratti di Central Park o di altri luoghi magari più lontani dal centro città. Dal punto di vista dei conservazionisti, fare edifici alti in una zona reduce la pressione a demolirne altri. Si potrebbe coerentemente sostenere che, quando i membri dell’ente per la tutela storica sito diretto da fabrizio bottini -8/17 - http://mall.lampnet.org
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autorizzano la demolizione di un edificio, dovrebbero espressamente chiedere che quello che lo sostituisce sia il più alto possibile. Limitare le costruzioni significa far sì che le aree tutelate diventino sempre più costose ed esclusive. Nel 2000, chi abitava nei quartieri storici di Manhattan era in media al 74% più ricco di chi stava al di fuori di quelle zone. Circa tre quarti degli adulti di quei quartieri avevano una istruzione da college, contro il 54% degli altri. Nelle zone storiche si ha il 20% di probabilità in più di essere di pelle bianca. Quegli agiati abitanti che hanno convinto la commissione di tutela a proibire gli edifici alti, sono un po’ come quegli abitanti del suburbio che pretendono di imporre lotti minimi da un ettaro per tener fuori il volgo. Certo non saranno di sicuro dei poveri a potersi permettere di stare al 980 di Madison Avenue, ma limitare l’offerta, ovunque, rende più difficile rispondere alla domanda e i prezzi salgono in tutta la città. Ancora una volta, essenzialmente l’economia dei prezzi delle case è abbastanza semplice: offerta e domanda. Da New York a Mumbai a Londra, cresce la domanda di case, ma il modo in cui questa domanda influisce sui prezzi dipende dall’offerta. Se si costruisce a sufficienza si contengono gli effetti della domanda crescente, e la città è più economica. É l’insegnamento che ci fornisce oggi Houston, e ci dava New York negli anni ‘20. Negli anni del dopoguerra e del boom fra il 1955 e il 1964, a Manhattan sono state rilasciate in media licenze per 11.000 nuovi alloggi l’anno. Fra il 1980 e il 1999, quando i prezzi lievitavano, Manhattan approvava in media 3.100 nuovi alloggi l’anno. Meno case, prezzi più alti: fra il 1970 e il 2000, un alloggio medio a Manhattan è aumentato del 284% a valori costanti. Altro elemento chiave nell’economia delle abitazioni è il costo di costruzione. Il sistema più semplice è quello della realizzazione di grandi quantità di case su due piani, costo medio di costruzione circa 900 dollari. É poco, e si spiega perché Atlanta o Dallas o Houston riescano ad offrire tante case a prezzi accessibili, comprate da tanti americani. Svilupparsi verso l’alto costa di più, specie perché ci sono di mezzo gli ascensori. E un grattacielo a New York City comporta costi aggiuntivi (preparare lo spazio, spese legali, un architetto di grido) in grado di far aumentare ancora il prezzo. Ma in molti casi si tratta di costi fissi, che non aumentano con l’aumentare del numero di piani. In realtà, oltre il settimo piano si inizia a poter spalmare i costi fissi aggiuntivi su più appartamenti. Nello stesso modo in cui si coprono le spese per una grande fabbrica producendo a sufficienza, quelli di organizzazione dello spazio e di un architetto alla moda si risolvono crescendo in altezza. Il costo marginale di ciascun metro quadro in più in cima a un grattacielo a New York è di norma inferiore a 4.300 dollari. I prezzi aumentano abbastanza negli sito diretto da fabrizio bottini -9/17 - http://mall.lampnet.org
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edifici super‐alti — diciamo oltre cinquanta piani — ma per i grattaceli più normali non costa più di 500.000 dollari comprarsi un bell’appartamento da 110 metri quadri. Il terreno è costoso, ma se dividiamo l’edificio in quaranta con un appartamento da cento metri quadri a piano, ogni alloggio si deve pagare poco più di due metri di terra di Manhattan. Con certe altezze il costo del terreno è molto ridotto. Se non ci fossero limiti ai nuovi edifici, i prezzi diminuirebbero avvicinandosi ai costi di costruzione, 500.000 dollari ad appartamento. Certo molto più dei 210.000 di una casa da circa 230 mq a Houston: ma anche molto meno del milione di dollari che può costare oggi a Manhattan uno spazio del genere. C’è poca disponibilità di terreni anche a Chicago nell’area Gold Coast, sulle sponde del Lago Michigan. Magari non c’è la domanda di Manhattan, e comunque è molto sostenuta. Si può costruire un condominio con una magnifica vista sul lago a circa la metà del costo di un complesso ad appartamenti simile a Manhattan. Chicago da questo punto di vista è più economica di New York, ma non certo la metà. La differenza è che l’amministrazione di Chicago sostiene molto più di quella di New York le nuove costruzioni (almeno prima dell’amministrazione Bloomberg). É quella selva di gru sul Lago Michigan a rendere Chicago tanto più economica. Gran parte delle persone che si oppongono alle trasformazioni edilizie si considerano degli eroi, non certo dei delinquenti. Dopo tutto, una nuova costruzione su Madison Avenue evidentemente disturba molti, e un solo caso non fa poi tanta differenza per la città nel suo complesso. Il problema è che ogni decisione negativa si somma all’altra. Le norme di zoning, i diritti di limitazione delle cubature, i limiti sulle altezze, i comitati di tutela, compongono una griglia di regolamentazione tale da rendere sempre più difficile costruire. La crescita di queste norme, almeno sino all’avvento dell’amministrazione Bloomberg, abbassando New York. Analizzando un campione di condomini, ho rilevato come oltre l’80% degli edifici residenziali di Manhattan costruiti negli anni ’70 aveva più di 20 piani. Ma negli anni ’90 solo il 40% era alto così. Ascensori e telai d’acciaio avevano reso possibile una grande superficie utile su poco terreno, ma le norme edilizie di New York contenevano questo potenziale. L’aumento dell’offerta di case nono solo determina i prezzi, ma anche la quantità di abitanti di una città. Il rapporto statistico fra nuove costruzioni a crescita di popolazione in una certa area è quasi perfetto, e a un aumento dello stock residenziale dell’1%, anche la popolazione aumenta quasi esattamente della stessa quota. Di conseguenza, quando a New York o a Boston o a Parigi si limitano le costruzioni, si avrà meno popolazione. Se questi vincoli sono forti a sufficienza, si può persino arrivare a una diminuzione degli abitanti, nonostante sito diretto da fabrizio bottini -10/17 - http://mall.lampnet.org
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una domanda in crescita, perché ci sono famiglie piccole e ricche che si sostituiscono ad altre più numerose e meno ricche. Le osservazioni di Jane Jacobs sulla qualità e caratteri dei quartieri urbani a edifici non molto alti sono giuste, ma credeva troppo poco nelle qualità di densità superiori. Sono nato un anno prima che la Jacobs si trasferisse da New York a Toronto, e ho abitato a Manhattan nei successivi 17 anni. Ma il mio quartiere non assomigliava affatto alle vie di edifici bassi del Greenwich Village. Ero circondato da torri a vetri bianche costruite dopo la seconda guerra mondiale come case economiche per famiglie a reddito medio come quella dei miei genitori. Magari non aveva il fascino del Greenwich Village, ma il quartiere era ricco di ristorantini, vezzosi negozietti e anche vezzosi pedoni. Le vie erano abbastanza sicure. Uno spazio urbano efficiente, vivace, certo pieno di grattacieli. Quando il barone Haussmann rifece completamente Parigi a metà del XIX secolo per conto di Napoleone III, usò metodi impensabili in un’epoca più democratica: sfrattò una quantità impressionante di poveri, realizzando dove c’erano state le loro case quegli ampi boulevard che rendono Parigi monumentale. Tagliò una grossa fetta dei Giardini del Lussemburgo per farci delle vie urbane. Demolì antichi edifici storici, fra cui gran parte dell’Île de la Cité. Per l’opera investì 2,5 miliardi di franchi, ovvero 44 volte il bilancio intero di Parigi del 1851. Dopotutte queste spese e sconvolgimenti, Parigi si era trasformata, da città molto povera e degradata a spazio urbano della borghesia trionfante. Fece anche di Parigi una città di edifici un po’ più alti, aumentando i limiti dell’epoca borbonica da un massimo di 16,5 metri fino a 19. Ma se la paragoniamo alle città costruite nell’epoca degli ascensori del XX secolo, la Parigi di Haussmann è bassa, dato che la gente era obbligata a salire le scale. I limiti di altezza furono eliminati nel 1967, e la realizzazione del primo vero e proprio grattacielo parigino, la torre di Montparnesse da 210 metri, iniziò solo nel 1969. Due anni dopo, furono demolite Les Halles, il grande mercato generale, per costruire il futuristico complesso museale del Centre Pompidou. Trasformazioni che disturbavano molto i parigini abituati a una città immobile. La torre di Montparnasse fu ampiamente avversata, e se ne dedusse che mai più un grattacielo avrebbe macchiato il centro di Parigi. Les Halles erano amaramente rimpiante, più o meno quanto a New York si piangeva la perdita della Penn Station. La Francia è un paese molto più propenso alla regolamentazione dell’America, e quando si decide che non si vuole cambiare, non si cambia. Nel 1974, su tutta l’area centrale di Parigi fu imposto un limite di altezza di 25 metri. Norme che limitavano le altezze nella vecchia Parigi, ma lasciavano che crescesse la periferia. Oggi la gran parte dei grattacieli parigini si trovano in zone dense ma sito diretto da fabrizio bottini -11/17 - http://mall.lampnet.org
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esterne, come la La Défense, cinque chilometri a nord‐ovest dell’Arco di Trionfo. Verticale, La Défense, tanto quanto il centro città è piatto. Ospita una superficie commerciale di 3,3 milioni di metri quadrati, in un’atmosfera da office park all’americana. Con il panorama lontano dell’Arco, e gli impiegati che si gustano un cappuccino da Starbucks, si potrebbe anche pensare di trovarsi in una versione un po’ più grande di Crystal City, Virginia. La Défense risponde alla necessità di unire conservazione e crescita concentrando i grattacieli. Da un certo punto di vista, è un’ottima soluzione. La gente che ci lavora può raggiungere in metropolitana il vecchio centro di Parigi in una ventina di minuti, in un’ora a piedi. La linea del Métro significa che le attività alla Défense sono collegate a tutte le principali funzioni burocratiche che si trovano ancora nella città vecchia. Si tratta di uno dei nodi più concentrate d’Europa, con tutti gli stimoli economici che ci si possono aspettare da una tale massa di lavoratori qualificati. Il quartiere consente di mantenere intatta la città vecchia e a Parigi di crescere. Però costruire alla Défense non sostituisce perfettamente le trasformazioni nelle più desiderabili zone parigine centrali, dove la scarsità dell’offerta mantiene astronomici i prezzi delle case. Parrebbe naturale avere edifici alti, in centro dove c’è più domanda, non fuori. Meno case in centro a Parigi vuol dire che un piccolo appartamento si vende anche a un milione di dollari o più. Le stanze d’albergo costano oltre 500 dollari a notte. Se si vuole stare in centro, si deve pagare. La gente è disponibile a questi prezzi, per il fascino di Parigi, ma non sarebbe obbligatorio se l’amministrazione non avesse deciso di contenere la quantità di case che si possono costruire nell’area. I redditi medi non possono abitare nei quartieri centrali, esattamente come se qualcuno avesse chiuso un cancello per impedire loro l’ingresso. Alle più antiche e belle città del mondo, La Défense offre un valido modello. Conservate la città storica, ma lasciate costruire centinaia di migliaia di metri quadrati abbastanza vicino. Se si lascia libertà sufficiente nell’area degli edifici a torre, ci sarà una valvola di sicurezza per tutta l’area regionale. Il problema della Défense è la sua distanza dal centro. Così si lascia intatta la città vecchia, ma si sottrae a troppi il piacere di farsi una passeggiata nella pausa pranzo sino a un caffè tradizionale. Purtroppo non esiste un modo semplice di trovare l’equilibrio fra il vantaggio di spazi a sufficienza e la conservazione della città vecchia. Vorrei che si fossero realizzati interventi simili a La Défense più vicino al centro di Parigi. Ma capisco anche chi ritiene la città troppo preziosa e che si debba mantenere una certa distanza fra i nuovi quartieri e i grandi viali di Haussmann. Però quello parigino è un caso estremo. In gran parte del mondo, le motivazioni per contenere lo sviluppo sono di gran lunga più deboli. E in nessun caso hanno fatto più danni che nella megacittà indiana di Mumbai. sito diretto da fabrizio bottini -12/17 - http://mall.lampnet.org
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Un vero peccato, che siano così in pochi i comuni cittadini che possono permettersi di abitare nelle zone centrali di Parigi o di Manhattan, ma sia la Francia che gli Usa se ne faranno una ragione. Assai più gravi sono invece i problemi generati da alcune restrizioni arbitrarie nei paesi in via di sviluppo, veri handicap per le metropoli che potrebbero contribuire a trasformare queste nazioni in paesi a reddito medio. Le stesse norme che rendono le città indiane troppo basse e costose, fanno sì che meno indiani possano entrare in contatto, l’uno con l’altro e col mondo esterno, negli spazi urbani che rendono più ricco quel povero paese. Dato che povertà spesso significa morte, nei paesi in via di sviluppo, e visto che limitare lo sviluppo urbano produce più povertà, non è certo esagerato sostenere che in India l’urbanistica è una questione di vita o di morte. Mumbai è una città di straordinaria energia umana e imprenditorialità, dalle fasce più alte della finanza e della produzione cinematografica, agli stipati spazi dello slum di Dharavi. Tutti questi talenti individuali si meritano un intervento pubblico in grado di svolgere le funzioni amministrative essenziali — come realizzare fogne e reti idriche — senza esagerare con un eccesso di regole. Una delle maledizioni dei paesi in via di sviluppo sono governi sin troppo presenti che però non svolgono il ruolo che dovrebbero. Un paese dovrebbe dare ai suoi cittadini acqua potabile, e non impicciarsi di regolamentare i dialoghi dei film. Le carenze dell’intervento pubblico a Mumbai sono evidenti tanto quanto i successi dell’attività privata. I turisti occidentali magari possono evitare la defecazione a cielo aperto degli slum di Mumbai, ma non la disastrata rete dei trasporti. Percorrere in macchina i circa 25 chilometri dall’aeroporto al vecchio centro, con la monumentale Porta dell’India, può facilmente richiedere anche 90 minuti. C’è un treno che potrebbe far prima, ma sono pochi gli occidentali che oserebbero affrontarne le folle all’ora di punta. Nel 2008, ogni giorno lavorativo sono stati in tre a non farcela, caduti dal treno e morti. La media degli spostamenti pendolari a Mumbai è di circa 50 minuti per andare e altrettanti per tornare, circa il doppio dei tempi americani. Il metodo più conveniente per liberare le strade intasate di una città è quello di imitare Singapore facendone pagare l’uso. Quando si concede una cosa gratis, la gente ne approfitta troppo. Le vie di Mumbai hanno troppo valore per potersi permettere di farsi intasare da carri tirati da buoi anche nell’ora di punta, e il modo più semplice per togliere dalla strada chi è più flessibile è di fargli pagare questo uso di uno spazio pubblico. La congestion charge non vale soltanto per le città ricche: va bene ovunque il traffico si blocca. Dopotutto, Singapore non era certo ricca nel 1975, quando si è iniziato a far pagare gli automobilisti che entravano in centro. E come Singapore, anche Mumbai potrebbe chiedere sito diretto da fabrizio bottini -13/17 - http://mall.lampnet.org
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l’acquisto di un abbonamento giornaliero per gli automobilisti, da esporre al finestrino. Non è un problema di difficoltà tecnica, ma di decisione politica. Il traffico a Mumbai deriva non solo da problemi di trasporto, ma dal più grave fallimento di politiche urbanistiche. Nel 1991, si sono fissati gli indici di fabbricabilità massimi a 1,33 in gran parte della città, il ch significa una altezza media teorica degli edifici di 1,33 piani: se avete un ettaro di terreno ci si può fare un edificio di due piani sfruttandone due terzi, o di tre usandone circa la metà, se si riesce a lasciare il resto vuoto. In quegli anni, in India restava un certo entusiasmo per la regolamentazione, e contenere le altezze degli edifice sembrava un modo per governare lo sviluppo urbano. Ma a Mumbai questi limiti sulle altezze hanno voluto dire, in una delle città più densamente popolate della terra, edifici a cui era consentita al massimo una altezza media di un piano e un terzo. La gente continuava ad arrivare, li attirava l’energia economica di Mumbai, nonostante le condizioni abitative spaventose. Bloccare le altezze non ferma la crescita urbana, semplicemente obbliga sempre più immigrati a stiparsi dentro gli squallidi slum illegali, anziché occupare normali edifici ad appartamenti. A Singapore non è proibito costruire edifici alti, e il centro funziona benissimo, denso e collegato. Si lavora gli uni vicino agli altri, si può andare a un convegno facilmente a piedi. Hong Kong è ancor più verticale e amica del pedone, ed è possibile spostarsi direttamente da un grattacielo all’altro attraverso delle passerelle con l’aria condizionata. A Manhattan ci vogliono pochi minuti per girare a Wall Street o a Midtown. Anche la grande Tokyo si può ampiamente percorrere a piedi. Grandi città che funzionano bene grazie alle altezze, che consentono di lavorare, talvolta anche abitare, a un enorme numero di persone su una minuscola fettina d superficie. Invece Mumbai è tozza, tutti bloccati nel traffico, e a pagarla cara per un po’ di spazio. Dentro un corridoio di grattacieli può trovar posto una città da 20 milioni anche su una piccolissima superficie. L’abbondanza di spazi organizzati in verticale prossimi e collegati, allenta la pressione sulle vie, facilitando quei collegamenti che rappresentano la linfa vitale del XXI secolo, e facendo diminuire gli esorbitanti costi dello spazio di Mumbai. Ma invece di sostenere un’edificazione compatta, Mumbai spinge la gente all’esterno. Ci sono solo sei edifici che superano il 150 metri, e tre sono stati realizzati l’anno scorso, mentre ne stanno crescendo altri grazie a un allentamento graduale dei limiti di altezza, specie fuori dal centro tradizionale. Ma il fatto che questi strumenti continuino ad esercitare il loro potere si legge ancora nelle dimensioni degli spazi aperti fra un grattacelo e l’altro. Torri in splendido isolamento, e così ci vuole ancora l’auto, e non bastano i piedi, per spostarsi. Se a Mumbai si vuole maggiore accessibilità economica agli spazi e allentamento della congestione, bisogna lasciare ai sito diretto da fabrizio bottini -14/17 - http://mall.lampnet.org
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costruttori più possibilità di sfruttare i terreni, fissando un requisito minimo per il centro di 40 piani per i nuovi edifici. Lasciando che si realizzino più superfici di
pavimento, e non di meno, l’amministrazione promuove più case, riduce lo
sprawl, abbassa i prezzi.
Di norma a Mumbai non si è mai abitato tanto in alto, ma oggi è possibile, e ci si abiterebbe in quegli edifici se ce ne fossero a sufficienza ed economici. I canyon di cemento, come quelli di New York sulla Quinta Strada, non sono un problema urbano, ma semplicemente il modo più logico di trovar posto a tanti abitanti e attività su una piccola superficie di terreno. Solo scelte sbagliate impediscono che sulla sponda del mare a Mumbai ci sia una schiera di edifici da 50 piani, così come accade a Chicago con le torri in riva al lago. La magia delle città sta nella loro gente, che deve però stare a suo agio negli spazi costruiti che la circondano. C’è bisogno di strade e case che consentano di abitare e comunicare gli uni con gli altri. I grattacieli, come succede col Renaissance Center a Detroit di Henry Ford II, non hanno gran senso là dove ci sono spazio in abbondanza e scarsa domanda. Ma nelle città dove questa esiste, che stiano lungo il fiume Hudson o sul mare d’Arabia, è l’altezza il modo migliore p
er contenere i prezzi e garantire la migliore abitabilità. Il successo delle città, motori economici del mondo, sempre più dipende da astruse decisioni prese da commissioni urbanistiche e comitati per la conservazione. Certo è del tutto ragionevole un controllo sulle trasformazioni negli spazi densi, ma vedrei sostituite all’attuale groviglio di norme che limitano oggi le costruzioni tre semplici regole. Primo, si dovrebbe sostituire al lungo e incerto processo di autorizzazione un semplice sistema tariffario. Se gli edifici alti comportano costi in termini di sottrazione di luce o vedute, si deve definire una adeguata valutazione di tali costi, e farseli pagare dal costruttore. Queste risorse vanno poi a indennizzo dei danneggiati, come ad esempio chi subisce l’ombra di una nuova costruzione. Non intendo sostenere che un sistema del genere sia facile da pensare. Si può certamente discutere a lungo su quali costi comportino gli edifici di varie altezze. Molti non sarebbero ad esempio d’accordo sulle dimensioni dell’area interessata dagli indennizzi. Ma si possono comunque individuare norme applicabili universalmente: ad esempio un nuovo edificio realizzato a New York paga una certa quota al metro quadro in indennizzi, per accelerare le autorizzazioni. Una parte di questi va alle casse comunali, il resto a tutti coloro che si trovano entro il raggio di un isolato. Di sicuro un sistema di pagamenti sarebbe più trasparente e mirato dell’attuale groviglio di norme. Oggi sono molti i costruttori che per muoversi nel sistema ingaggiano costosi avvocati e lobbisti, o cercano amicizie politiche. Per loro sarebbe assai meglio semplicemente firmare un assegno intestato a noi. E non si
pensi che costruire così sia solo una manna per i costruttori: un tipo di
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regolamentazione diretta e adeguata può far sì che le trasformazioni siano un
vantaggio per i quartieri e la città tutta.
Secondo punto, la conservazione storica deve essere contenuta e definita. Va benissimo vincolare capolavori come il Flatiron Building o la vecchia Penn Station. Farlo con un lustro edificio di mattoni del dopoguerra è assurdo. Ma dove tracciare la linea di separazione fra questi due stremi? Personalmente sono convinto che, ad esempio in una città come New York, la Landmarks Preservation Commission abbia una quantità fissa di edifici che può tutelare, diciamo 5.000. La commissione può anche cambiare la scelta di queste perle dell’architettura, ma deve farlo gradualmente. Non deve poter cambiare le regole da un momento all’altro per bloccare un progetto in una zona che fin lì non era tutelata. Se si vuole estendere il vincolo a una intera zona, dovrà farlo usando quei suoi 5.000 edifici a disposizione nell’area. Se 5.000 magari sono troppo pochi, si possono aumentare, ma ci deve essere un limite, perché qualunque ente di regolamentazione tenderà sempre ad allargare il proprio campo. Un problema che diventa più spinoso in situazioni come quella di Parigi, dove in pratica quasi tutto è famoso nel mondo. In casi del genere, la soluzione è di trovare un’area di dimensioni adeguate, abbastanza vicina al centro città, da poter utilizzare come zona di trasformazione super‐densa. Idealmente, un ambito del genere si dovrebbe trovare a una distanza tale per cui chi lo abita possa raggiungere a piedi le magnifiche vie della città vecchia. Terzo e ultimo punto, si dovrebbe dare ai quartieri la possibilità di tutelarsi da soli la propria identità. In alcuni isolati magari non si vogliono i bar. Mentre in altri si. Anziché regolamentare le zone solo dall’alto, lasciamo che si autogovernino, poche norme approvate da una maggioranza qualificata degli abitanti. In questo modo, la decisione su cosa succede vicino a casa la prende il cittadino, e non l’urbanista che sta in comune. Le grandi città non sono immobili: cambiano di continuo e trascinano il mondo. Quando New York o Chicago o Parigi hanno vissuto grandi momenti di creatività, hanno trasformato i propri spazi per poter ospitare nuovi talenti e idee. Certo il cambiamento non arriva coi nuovi edifici, come dimostra l’esperienza recente delle città in crisi industriali della Rust Belt. Ma là dove il cambiamento è in corso, nuovi edifici lo agevolano. Ma in molte città del mondo si sono accumulate sempre più regole che impediscono trasformazioni in grado di realizzare maggiori densità. Alcune di queste norme sono giustificate, come quelle che tutelano importanti opere di architettura. Talvolta sono solo atteggiamenti NIMBY, o mal concepiti tentativi di bloccare lo sviluppo urbano. In tutti i casi, i vincoli imprigionano la città nel suo passato, e ne limitano le possibilità per il futuro. Se non possono crescere in sito diretto da fabrizio bottini -16/17 - http://mall.lampnet.org
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altezza, le città si espandono. Se si congelano le costruzioni, la crescita avverrà altrove. L’urbanistica a volte appare un po’ misteriosa. Ma si tratta di cose che contano, perché danno forma agli spazi, danno forma alle città, spesso in modo non previsto. Pensiamo quante emissioni di anidride carbonica in meno vengano dalle grandi città, e coma ad esempio nel 2007 l’aspettativa di vita a New York City fosse di un anno e mezzo in più della media nazionale. L’America oggi è impegnata a riprendere il proprio ritmo economico, e faremmo bene a ricordarci che le città dense sono anche molto più produttive del suburbio, che offrono posti di lavoro molto meglio pagati. Anche globalizzazione e nuove tecnologie sembrano aver aumentato il valore della prossimità urbana: i giovani apprendono le capacità di cui hanno bisogno in un mercato globale competitivo guardandosi attorno. E quegli edifici tanto alti favoriscono l’interazione reciproca che sta al cuore dell’innovazione economica e del progresso. Edward Glaeser è titolare della cattedra di Economia Fred and Eleanor alla Harvard University. L’estratto è da Triumph of the City, Penguin 2011 sito diretto da fabrizio bottini -17/17 - http://mall.lampnet.org