Parte II - Dialetto e terra di Taranto

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Parte II - Dialetto e terra di Taranto
“Il dialetto Tarantino: una favola ancestrale …”
a cura di
Enrico Vetrò
Seconda puntata
TARANTINE! WE CAN! (’A lènghe de Tarde! Nnù’ ll’hama ’ngarrá’)
Tarde nuèstre d’ô satèllete. Máre Másce, Máre Pìcce e ll’ìsele de Sambíetre1
sòtte ô tàcche …
Il dialetto tarantino è forma palpitante e viva
che consente una comunicazione carnale. Esso
è la voce schietta del sangue che scorre nelle
nostre vene, il latte che abbiamo succhiato dal
petto della nostra mamma che si è fatto parola
e.v.
indelebile nel tempo e nello spazio …
1
“Másce” , dal latino “Majus” = “Grande”. “Pìcce”, da l’antico italiano “Picciolo”, vezzeggiativo di “piccolo”.
Persino il nostro grande poeta eroe Gabriele d’Annunzio, il vate della
parola aulica, utilizzò il dialetto per avvolgere i suoi pensieri in una
bambagia di sacralità. Egli usò il suo abruzzese, ma non disdegnò di
esprimersi in milanese, romanesco, veneto e napoletano. Ecco alcuni
versi di un sonetto dialettale dedicati alla sorella Anna:
Sant'Anne mè, tu a sta sposa belle
fàjjele scì senza che se n'addone,
falla fetà sotta 'na bona stelle
…
(Sant'Anna mia, tu a questa sposa bella/faglielo nascere senza che neppure se
ne accorga,/falla partorire sotto una buona stella)2
…
Ma quanti pregiudizi contro il dialetto …
…
La Repubblica.it Palermo 14 marzo 2007
Uno studio di Giovanni Ruffino sull´avversione per il siciliano
La lingua non è più madre
I ragazzini la associano a qualcosa di volgare o al codice della mafia
Una testimonianza-choc "Lo parlano i bambini sporchi maleducati e
poveri"
Al questionario hanno risposto 167 scuole per novemila elaborati
2
“Lingua, dialetto e letteratura” in: http://userhome.brooklyn.cuny.edu/bonaffini/DP/dialettoletteratura.pdf.
La percentuale di chi lo conosce è scesa del 40 per cento dal ´78 al
2005 Il dialetto è brutto, sporco, rozzo, malavitoso e «stradaiolo». I
bambini pensano tutto il male possibile della lingua dei padri. Lo
«certifica» una ricerca avviata nel 1995 dall’Istituto di Linguistica
della facoltà di Lettere di Palermo, le cui analisi appena concluse sono
oggetto del libro "L’in dialetto ha la faccia scura - Giudizi e pregiudizi
linguistici dei bambini italiani" di Giovanni Ruffino (Sellerio, 290
pagine, 18 euro).
Via via che si scende dalle Alpi verso il Mediterraneo gli epiteti
negativi sul vernacolo si incrementano. In Sicilia poi l´avversione
raggiunge il picco massimo. L´équipe di Ruffino, preside di Lettere e
coordinatore del progetto, ha inoltrato a trecento scuole elementari
italiane un questionario da sottoporre agli scolari senza alcun
condizionamento da parte dei maestri. Hanno risposto 167 istituti equamente distribuiti nel territorio nazionale - per un totale di quasi 9
mila elaborati. Un campionario molto rappresentativo per trarre
conclusioni con il crisma della scientificità. La prova che le risposte
siano esclusiva farina del sacco degli alunni è nel gran numero di
strafalcioni di cui sono farcite, compreso quello ostentato nel titolo del
libro.
Ecco le riflessioni degli studiosi che hanno analizzato il questionario:
l´erosione continua del dialetto a opera dell´italiano (ma questa non è
una novità); la trasformazione del vernacolo in chiave televisiva (caso
Camilleri docet); la dequalificazione del siciliano che trova il terreno
di coltura nella scuola e nelle famiglie; la scarsa capacità di invenzione
in quelle realtà che hanno perduto consistenza economica e sociale
(pensiamo alla cultura contadina ormai in via di estinzione). E a
dispetto di tutto ciò, la sorprendente tenuta - ovviamente relativa degli idiomi locali se si considera la pericolosa deriva durante il
fascismo e poi negli anni Sessanta.
«Le tante isole linguistiche del Paese per fortuna non si sono ancora
trasformate in ghetto», dice Ruffino. C´è un´altra considerazione che
attenua un po´ il pessimismo: i ragazzini quando ragionano fuori dagli
schemi del pregiudizio, riconoscono fino in fondo il valore del dialetto
(e questa è una novità). Lo definiscono la lingua della fantasia,
dell´allegria, una sorta di primo amore dell´espressività.
Un florilegio tratto dal pensiero dei ragazzini isolani (le frasi sono
trascritte con tutti gli errori), mette a nudo le tante contraddizioni
della questione. Il dialetto è mafioso: «Chi parla il dialetto non ha la
coscienza pulita», «Chi parla il dialetto è cattivo e delinquente», «Il
dialetto si parla coi mafiosi», «Il dialetto è una lingua sbagliata e
scorretta come i boss di Cosa nostra».
È una cosa da poveracci: «Il siciliano è più volgare e lo parlano i
bambini sporchi, maleducati, cattivi e poveri», «La lingua secondo me
e più adatta ai signori di lusso e invece il dialetto e più adatto ai
contadini insomma gente povera».
È «roba» da strada: «L´indialetto non mi piace perché è brutto e si
parla in mezzo alla strada, vorrei che in Sicilia tutti parlassero
italiano, compresi i delinquenti».
È meridionale: «Io volevo nascere a Firenze no a partinico ma il mio
destino è stato questo».
È di ieri: «Ormai si è perso il dialetto che si parlava a quei tempi e
invece ora si parla il dialetto "incarcariato"».
È diseducativo: «L´indialetto per i bambini non è il parlamento
giusto».
Non serve per i quiz: «Bisogna parlare anche in Italiano perché
dobbiamo saper rispondere bene alle domande di uno spettacolo
televisivo ad esempio: "Tutti per uno", "Ok il prezzo è giusto"».
E nemmeno per l´amore: «Se un maschio dice a una donna: "sei
bella", lei si emoziona invece se un maschio dice a una donna "chi sì
bedda" la donna si emoziona però non le piace come le è stato detto».
Sono in tanti i ragazzini che hanno chiaro il valore intrinseco del
dialetto e la sua ricchezza creativa. Per loro è un destino, ma anche un
piacere: «Il siciliano viene parlato per origine l´italiano per
educazione», «Secondo me con il dialetto ci si nasce», «L´italiano è
molto gentile è invece il dialetto è scortese, però a me mi piace il
dialetto, «Certe volte parliamo in siciliano perché questa è la nostra
lingua e ci score il sangue siciliano». E c´è, infine, chi chiosa con
ironia: «Io con i miei amici ci parlo, invece in dialetto i ci parru».
La chiave di volta è tutta in questa frase: «Non capisco perché oggi i
genitori non vogliono insegnare ai propri figli la lingua che parlavano
un tempo i loro nonni, i bis-nonni, i bis bis nonni, la lingua che si
parlava ai tempi di Salvatore Giuliano». Ovviamente il ragazzino in
questione è di Montelepre. La sua riflessione comunque rimanda al secolare
braccio di ferro tra lingua e dialetto e ai luoghi del conflitto. Intanto, vediamo
quando si inceppa la corsa del vernacolo. Con la costituzione dello Stato unitario
si pone il problema della creazione di una lingua nazionale per mettere in
collegamento le varie isole dell´arcipelago vernacolare. La scuola viene
investita della missione di sradicare la mala pianta degli idiomi locali.
Ma nella prima fase più che all´estirpazione del «volgare», l´intervento
mira alla diffusione dell´italiano. È con il fascismo che il dialetto
diventa tabù. Parlarlo è un peccato e poi un reato.
La scuola punisce chi non parla l´italiano e la famiglia investe grandi
energie per allontanare i figli dalla loro lingua naturale. Qualche
apertura nel dopoguerra (vedi l´esperienza di don Milani a Barbiana e
di altri docenti illuminati in giro per il Paese), non riesce a contrastare
l´andazzo. In aula bacchettate e voti bassi a chi non si piega. Nelle case
il dialetto è appena tollerato, ma fuori dalle mura diventa una sorta di
umiliazione per l´intero nucleo familiare. Così mentre l´italiano va via
via caricandosi di connotazioni positive, il dialetto diventa sinonimo di
turpiloquio, al di là del significato che esprime. I ragazzi diventano il
terminale di questo intervento a tenaglia, che finisce per fomentare
Còzze pelóse e nnúce càreche a ssajètte!
Enrico Vetrò
Foto scattata dall’autore – Natale 2008
una sorta di genocidio delle parole. La televisione fa il resto.
Contribuisce più della scolarizzazione alla creazione della lingua
condivisa, ma si fa artefice di un impoverimento espressivo,
comprovato dal fatto che prima dell´alfabetizzazione di massa il
cittadino siciliano medio si esprime con circa 1.500 parole, mentre oggi
parla con un frasario molto più ridotto. E quando la tv propone il
dialetto, lo fa nei modi caricaturali della comicità regionale
(romanesco, milanese, napoletano e siciliano, soprattutto) oppure
inscenando forme italianizzate del dialetto («Montalbano sono»,
«minchia» in tutte le salse e quasi in ogni programma di
intrattenimento), che forse è una ulteriore tappa del suo lento
assassinio.
In una forbice che racchiude trent´anni di storia, il senso profondo
dell´inarrestabile agonia: Maria Benenati e Concetta Agueci, madre e
figlia, entrambe laureate in Lettere con Ruffino, hanno condotto due
rilevamenti linguistici a quasi trent´anni di distanza, con la stessa
metodologia e negli stessi luoghi. Risultato: nel 1978, l´80 per cento dei
bambini parla in dialetto, nel 2005 appena il 40 per cento. In mezzo la
perdita di centinaia di parole: da «stuppagghiu» (turacciolo) a «iuzzu»
(tacchino), da «taddarita» (pipistrello) a «cannavazzu» (straccio).
Particolare curioso: nel 2005 contrariamente al 1978, nessuno sa
tradurre la parola «strummula» (trottola). Del resto, come fai a
conoscere un oggetto con il quale non giochi più e la cui funzione è
stata espropriata dall´impero della globalizzazione che l´ha messa in
vendita con il nome di "Bey blade"?
Tano Gullo3
3
http://www.trapanisiannu.it/repubblica150307.htm
Un errore imperdonabile …
’Nu smarróne ca no se capísce …
Non siamo che sogni
vestiti di bugie
che s’incontrano e parlano d’amore
in una casa senza indirizzo …
No ssíme ca suènne
vestúte de buscíe
ca se ’ngòndrene e chiacchiarèscene d’amóre
ijnd’a’ ’na cáse sènza ’nderìzze …
Quegli attimi che tutti
chiamano bacio
io li avevo ripudiato
dall’illusione del vivere
Chidd’àtteme ca tutte
chiàmene bàgge
ji’ l’avéve rennejáte
d’a’ tràpule d’u vívere
Un errore imperdonabile …
’Nu smarróne ca no se capísce …
La brezza di un mattino qualunque
me l’ha confermato più volte
raccontandomi la tua incredibile
storia di carne …
Mia! … Più che mai …
’U vendaríjedde de ’na ciongasíje matenáte
me l’à ddìtte … e mme l’à dìtte …
Ora come ora
cerco verità e conferme
nel ritmo ambrato del tuo respiro …
unicamente …
Osce a díje … móne
vóche spíerte pe’ vvére e ppe’ ccumbèrme
ind’o rìtme ambráte d’u refiáte túve …
sulamènde …
Enrico Vetrò
’u fatte túve sdrèuse m’háve cundáte a mméje
’na stòria de càrne …’a toje …
’A méje! … Asseje numùnne …
’Gglièlme Scespìrre, “l’attóre” (1564-1616)
“’U letràtte de Chandos ”- quáse 1610
Ai tempi di William Shakespeare Taranto era proprietà del re Filippo II di Spagna (regno
1556-1598), che impose tasse onerose ai nostri concittadini. Le cose non mutarono con
l’avvento del di lui successore Filippo III (regno 1598-1621).
Fortificazioni del borgo antico di Taranto in epoca Shakespeariana - autore anonimo4
4
In:
http://images.google.it/imgres?imgurl=http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/thumb/d/d2/Fortificazioni_Taranto_XVIsecolo.jpg/225pxFortificazioni_Taranto_XVIsecolo.jpg&imgrefurl=http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_di_Taranto&usg=__BKzBwfKgcnJk66Ge63ZEdFairfw=&h=13
0&w=224&sz=13&hl=it&start=62&um=1&tbnid=yyQL62L_HqW9lM:&tbnh=63&tbnw=108&prev=/images%3Fq%3DTaranto%2Bnel%2BXVI%2
Bsecolo%26start%3D60%26ndsp%3D20%26um%3D1%26hl%3Dit%26sa%3DN.
Filippo II (sin.) e Filippo III (des.) di Spagna padroni di Taranto ai tempi di Shakespeare
“La tragedia di Amleto, Principe di Danimarca ”(1600-1601)
Spazio rigorosamente riservato a…
CHI NE VOLESSE SAPERE DI PIÙ SU …
“Jéssere o nnò Jiéssere”
Ci òsce no ’nge tíene cápe … vvídete le fegúre e
zzúmbe ’stè tré’ pàggene …
************
Trama
L’opera è ambientata nella Danimarca feudale, e la quasi totalità delle scene
si svolge all’interno del castello di Elsinor, eccezion fatta per alcune di esse
ambientate rispettivamente nello spazio intorno al castello (I, i e iv), nella
casa di Polonio (I, iii; II, i), nella pianura danese (IV, iv) e all’interno di un
cimitero(V,i).
Il re di Danimarca (del quale Amleto porta il nome) è stato assassinato dal
fratello Claudio, che ha usurpato il trono e si è sposato senza rispettare le
convenienze con la vedova del morto, Geltrude. Uno spettro con le sembianze
del padre di Amleto appare due volte agli uomini di guardia (Bernardo e
Francesco) sugli spalti del castello di Elsinor senza proferire parola. Nella
stessa notte compare ancora altre due volte al cospetto del nobile amico di
Amleto, Orazio, venuto a constatare di persona quanto riferitogli dalle
sentinelle. Nemmeno a lui parla, e scompare definitivamente al canto del
gallo. La cosa viene ritenuta di cattivo auspicio per il regno di Danimarca,
giacché Fortebraccio, nipote del re di Novegia ucciso dal padre di Amleto, si
accinge ad invadere la Danimarca che si è annessa parte del regno di
Norvegia. Il giovane principe viene informato del sorprendente evento, e la
notte appresso decide di accertarsi personalmente se ciò che gli è stato
raccontato sia vero o meno. Il fantasma ricompare puntualmente e, in luogo
appartato, narra ad Amleto le circostanze dell’azione delittuosa commessa
nei suoi confronti mentre in giardino faceva la pennichella pomeridiana. Una
fiala di veleno – giusquiamo - versatagli in un orecchio dal fratello lo ha fatto
passare dal sonno alla morte, privandolo nel contempo della vita, della
corona e della sposa. E ciò che è peggio, non gli è stata data alcuna
possibilità di prendere i sacramenti per cancellare tutte le sue colpe. Per
tutto questo egli chiede vendetta. Il figlio promette d’ubbidire, ma la sua
natura malinconica lo rende irresoluto e gli fa differire l’azione. Frattanto egli
si finge pazzo per sviare ogni sospetto di minaccia della vita del re. La coppia
reale sembra convincersi (Claudio non del tutto) che a turbare la mente del
nobile rampollo sia l’amore per Ofelia, figlia del ciambellano di corte Polonio,
che egli ha già prima corteggiata, ma che ora tratta crudelmente. Per
appurare l’attendibilità della pazzia del nipote, suo zio manda a chiamare due
amici d’infanzia di Amleto: Rosencrantz e Guilderstern. (È proprio in tale
circostanza che Amleto recita il famoso soliloquio). Il giovane si mostra con
loro più ermetico e strano che mai. In seguito Amleto, volendo verificare che
il racconto dello spettro non sia opera del diavolo, fa recitare ad una
compagnia di teatranti ospitati nel castello un dramma, (l’Assassinio di
Gonzago), riproducente le circostanze del crimine abominevole (battute ad
hoc scritte da Amleto sono state abilmente inserite nella rappresentazione).
È inutile sottolineare che tutto ciò avviene alla presenza dei sovrani. Al
culmine della scena madre Claudio viene colto dal panico, che lo induce ad
abbandonare precipitosamente la sala per cercar rifugio nel privato delle sue
camere.
In una scena in cui Amleto inveisce contro la madre per essersi nuovamente
sposata con un essere così spregevole, egli suppone che lo zio stia ad
origliare dietro una tenda, sguaina la spada e uccide invece Polonio. Il re,
deciso a far scomparire Amleto, rivelatosi oramai un pericolo per la sua
incolumità personale, lo invia in missione in Inghilterra con Rosencrantz e
Guilderstern. Consegna loro una lettera destinata al sovrano di quella terra in
cui lo istiga ad uccidere suo nipote subito dopo essere giunti in territorio
inglese. Amleto, tuttavia, scopre l’inganno e sostituisce quella missiva con
un’altra che dice di fare la stessa cosa con i due galoppini del re. Il fatto
avviene prima che una nave di pirati lo catturi. I masnadieri lasciano,
comunque, che l’altra vascello prosegua per l’Inghilterra. Amleto, in seguito,
viene liberato dagli stessi predoni e rimandato in Danimarca dietro promessa
di un congruo pagamento di riscatto. Al suo ritorno trova che Ofelia, folle di
dolore, si è annegata. Il fratello di lei, Laerte, è tornato per vendicare la
morte del padre Polonio. Il re, determinato più che mai a volere eliminare
Amleto, coglie a volo l’occasione e dà a intendere al nipote che farà da
paciere tra lui e il figlio di Polonio. Per celebrare l’avvenimento Amleto e
Laerte si sfideranno lealmente non in un duello, ma in una partita d’armi che
suggellerà il perdono e la ritrovata amicizia. A Laerte, però, è dato un fioretto
appuntito e avvelenato. Amleto è trafitto nella prima ripresa; ma l’effetto
ritardato del veleno gli consente di effettuare la seconda. Ferisce, a sua volta,
mortalmente Laerte (sono state scambiate le armi dei duellanti, secondo
consuetudine). Poi tutto precipita. Muore Gertrude, dopo aver bevuto una
coppa di vino avvelenato destinata a suo figlio (un piano di riserva
approntato da Claudio nel caso in cui la progettata morte del nipote non
abbia a verificarsi durante il duello). Muore Claudio, trafitto dallo stesso
nipote, quando si rende conto del complotto ordito a suo danno dallo zio.
Muore Amleto, (il veleno ha fatto effetto). Il dramma si chiude con l’arrivo
del puro Fortinbras(Fortebraccio), principe di Norvegia, che diventa così
sovrano del regno.
Amleto e Polonio – Scena dal film “Amleto” (1948) con il mitico attore Lawrence Olivier.
Quando Shakespeare aveva 30 anni, una flotta turca di circa
100 galee, al comando di Bassà Assan Cicala, si parò davanti
al golfo di Taranto e subito dopo la cinse d’assedio per fare ciò
che per predoni di tal genere era naturale: metterla a sacco,
uccidere gli uomini validi e deportare come schiavi donne e
bambini. Il marchese di Pescara e di Vasto Don Carlo
D’Avalos e suo figlio Don Fernando raggrupparono in tutta
fretta una milizia di Tarentini, che dopo numerosi e accaniti
corpo a corpo riuscirono a dare una sonora lezione agli
invasori, costringendoli alla fuga. Tra i Tarentini ebbe a
distinguersi per valore Francesco Paolo Perez (combatté
valorosamente anche nella battaglia di Lepanto), figlio di
Giovanni, segretario di Carlo V, oltre che Marcantonio de
Raho, barone di Lizzano.5
5
Andrea Martini, Breve storia di Taranto narrata al popolo, Jonica editrice, Taranto, 1969, pagg. 81-82.
Costumi originali degli attori di teatro del XVI sec. - Londra
’Stù crestiáne aqquáne à scritte a sbuènne. Robba sdrèuse de
tiàtre … e jéve púre puéte! E ’u mestiére súve ù canuscéve
asseje numùnne bbuéne!
Ritratto di Shakespeare (sulla destra), 1604, intento a giocare a scacchi con il collega
drammaturgo Ben Jonson(1572-1637) – Pittura di Karel Van Mander(1548-1606)
A ben rifletterci … ?!
… e allora?! Che c’è di
male?! Tu non mangi?!
Ecco un altro
filosofo del cavolo …
Sai che allegria?!
“Noi ingrassiamo gli altri animali per ingrassare noi stessi e
ingrassiamo noi stessi per i vermi. Un re pingue e un accattone
magro non fanno che uno stesso servizio in due modi: sono due
pietanze diverse, ma per una medesima tavola ( … quella dei
vermi naturalmente!)”.
“Un uomo può pescare pesci con il verme che ha mangiato
carne di re, e mangiare il pesce che s’è nutrito di quel verme”.
“Amleto”, Atto IV, scena III.
William Shakespeare
Banconota da 20 sterline emessa dalla Banca d’Inghilterra (Corso legale 1970 -1991).
Con i suoi versi il poeta è disposto a regalare immortalità a una lei o a un lui che stima e ama.
«’U sunètte dečiótte»
de
’Gglièlme Scespìrre
T’hagghia cumbrundá’ cu ’na dí’ d’u ’státe?
Cchiú’ ddóče assèje sì’ ttúne e cchiú’ ’ngrazziáte:
šckattúne de Másce ’u víende tembèste,
e ’u passe d’a staggióne jé’ lluènghe e llèste:
l’Uècchie d’u Cíele abbàmbe ’nguàrche vvóte,
s’ascònne ’a fàccia d’ore quanne póte.
E ogne bbelle d’ô bbelle fúsce pure,
pe’ ssòrte o p’u crapíccie d’a natúre:
ma ’u ’státe túje ’tèrne nò sse n’à dda scé’,
e ’u belle súje ca é’ ’u túje nò ss’à dda perdé’,
ca ’a Mòrte cu ttéje nò ppóte grannésce’
c’ji’ cu ’a pènna méje a ttè’ t’ammurtalésce,
’nzìgne ch’une sté’ ca lésce e rrefiáte,
ca ’stù vèrse víve e jidde te dé’ ffiáte.
Il sonetto 18”
di
Guglielmo Shakespeare
Devo paragonarti a un giorno d’Estate?
Assai più dolce sei tu e più graziosa:
teneri bocci di Maggio il vento sferza,
e dell’Estate il passo è lungo e spedito:
l’Occhio del Cielo talora abbaglia e scotta,
si cela quando può il viso dorato.
E ogni bello pur dal bello s’allontana,
per sorte o per capriccio della natura:
ma l’Estate tua eterna non se ne dovrà andare,
e il suo bello che è il tuo non dovrà perdersi,
che la Morte su di te non può aver vanto,
s’io con la penna mia ti rendo immortale,
fino a che ci sia uno che legga e respiri,
che questo verso viva ed esso ti dia fiato.
(Mediazione linguistica di E. Vetrò)
Sonnet 18(1591-1598)
S
hall I compare thee to a summer's day?
Thou art more lovely and more temperate:
Rough winds do shake the darling buds of May,*
And summer's lease hath all too short a date:*
Sometime too hot the eye of heaven* shines,
And often is his gold complexion dimm’d,*
And every fair from fair* sometime declines,
By chance, or nature's changing course untrimm’d:
But thy eternal summer* shall not fade,
Nor lose possession of that fair thou ow'st,
Nor shall death brag thou wander'st in his shade,
When in eternal lines to time thou grow'st,*
So long as men can breathe, or eyes can see,
So long lives this,* and this gives life to thee.*
Inglese moderno (parafrasi)
If I compared you to a summer day
I'd have to say you are more beautiful and serene:
By comparison, summer is rough on budding roses in May,
And doesn't last long either:
At times the summer sun [heaven's eye] is too hot,
Or often goes behind the clouds
And everything fair in nature becomes less fair sooner or later,
By chance or by nature's planned out course;
However, your everlasting summer(your youth) will not fade,
Nor lose ownership of your fairness;
Not even death will claim you for his own,
If you grow as one with time forever because of my lines,
Your beauty will last as long as men breathe and see,
As Long as this sonnet lives and gives you life.
N. Hilliard - Giovane accostato ad un albero fra le rose
c. 1588 - acquerello su pergamena Victoria and Albert Museum, Londra
Con il permesso degli “uomini d’onore” cesaricidi, Antonio ricorda ai Romani radunati nel foro la
personalità dell’uomo scomparso. Il discorso funebre, denso di retorica sottile tesa a conquistare la folla, e
condita nel contempo di sarcasmo all’indirizzo del cospiratore Marco Giunio Bruto Cepione, rivela per
gradi lo spessore dialettico dell’oratore e da quale parte egli si sia schierato.
“Giúglie Cèsere” (1599), atte III, scéne, II, 73 – 107,
de ’Gglièlme Scespìrre.
Andònie: Amíce, Rumáne, paisáne, mettíte recchie e ddáteme adènzie;
ìj’ avègne cu ù ppróche a Ccèsere, e nóne cu ll’avànde.
Le mála ’zziúne ca l’uèmene fáčene càmbene cchiú’ dde lóre,
’u bbéne ’nu mùnne de vóte jé’ prucáte cu ll’ossere lóre;
’cussíne cu ’ssìje de Cèsere. ’U nòbbele Brúte
à dìtte a vvúje ca Cèsere jéve ambezziúse;
cc’éve ’cussíje, avev’a jéssere ’na cólpa granna-granne,
e granna-granne à státe ’a péna ca Cèsere háve scundáte.
Aqquáne, c’u ’ccussènze de Brúte e dde l’ôtre –
piccé Brúte jé ’nn’óme d’anóre;
e accussí’ sò’ ttutte, tutte uèmene d’anóre –
ìj’ stóche avègne a pparlá’ a’ sebburtúre de Cèsere.
Jìdde háve státe amíche mije, affezziunáte e gghiúste cu mméje;
e ppúre Brúte díče ca jìdde éve ambezziúse,
e Bbrúte jé ’nn’óme d’anóre.
N’háve annútte jìdde de preggiuniére a Rróme ... tande e qquande,
e ’u gòste d’a libberazzióna lóre háve anghiúte le càsce
d’u tresóre prùbbeche:
e qquesta à státe ’n’azzióna ambezzióse de Cèsere?
Quanne le puveríedde honne chiangiúte, Cèsere à cchiangiúte;
’a ’mbezzióne avèss’a jéssere fatte de ròbba assèje ’cchiú’ ffòrte:
e ppúre Brúte díče ca jìdde éve ambezziúse,
e Bbrúte jé ’nn’óme d’anóre.
Tutte vúje avíte vìste a ccume ô Lupercále
tré’ vvóte hagghie sciúte pe’ lle dáre ’a cróne de réje,
e jìdde pe’ ttré’ vvóte à ddìtte nóne. E jéve ambezzióne quèste?
E ppúre Brúte díče ca jìdde éve ambezziúse,
E jìdde, jé ’nn’óme d’anóre averamènde, nóne a cchiàcchiere.
No ’nge stóche a ppàrle pe’ sbruvegná’ quidde ca Brúte à ddìtte,
nóne probbie,
ìje stóche aqquá ppe’ ddíčere quidde ca ìj’ sàcce.
Tutte vúje ’na vóte l’avíte vulúte bbéne a jìdde, nnò ssènza raggióne;
peddènne, ccè jé’ ca ve sté’ ffréne c’ù cchiangíte?
Ah, giurízie nuèstre, te n’hé fusciúte ’mbrà lle vèstie sarvàgge,
e ll’uémene honne perdúte ’a meròdde. M’avít’a scusá;
’u core mije, addáne stéje, ’ndr’o chiaúte cu Ccèsere,
e ìj’ hagghia stá’ citte ’nzìgne a qquanne nnò ttórne da méje arréte.
W. Shakespeare, Giulio Cesare, atto III, scena II, 73 -107.
ANTONIO: Amici, Romani, compatrioti, prestatemi orecchio;
io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo.
Il male che gli uomini fanno sopravvive loro;
il bene è spesso sotterrato con le loro ossa;
e così sia di Cesare. Il nobile Bruto
ha detto a voi che Cesare era ambizioso:
se così era, fu difetto davvero grave:
e gravemente Cesare ne ha pagato il castigo.
Qui, con il consenso di Bruto e degli altri –
ché Bruto è uomo d'onore;
così sono tutti, tutti uomini d'onore –
io vengo a parlare al funerale di Cesare.
Egli fu amico mio, fedele e giusto verso di me:
ma Bruto dice che fu ambizioso;
e Bruto è uomo d'onore.
Molti prigionieri egli ha portato a Roma,
il prezzo del cui riscatto ha riempito il tesoro pubblico:
parve questo atto ambizioso in Cesare?
Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha versato lacrime:
l'ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa;
eppure Bruto dice ch'egli fu ambizioso;
e Bruto è uomo d'onore.
Tutti voi vedeste come al Lupercale6
tre volte gli presentai la corona di sovrano
ch'egli tre volte rigettò: fu questo atto di ambizione?
Eppure Bruto dice ch'egli fu ambizioso;
e invero Bruto è uomo d'onore.
Non parlo, no, per smentire ciò che Bruto disse,
G. Cesare - Museo Nazionale di Napoli
ma qui io sono per dire ciò che io so.
Tutti lo amaste una volta, né senza ragione:
qual ragione vi trattiene dunque dal piangerlo?
O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti
e gli uomini hanno perduto la ragione. Scusatemi;
il mio cuore giace là nella bara con Cesare
e debbo tacere sicché non ritorni a me.
6 Festività religiosa romana celebrata il 15 febbraio, in onore di Faunus Lupercus, protettore del bestiame ovino
e caprino dagli attacchi dei lupi. La festa sopravvisse sino al 494 A.D.
Cfr.:http://www.imperiumromanum.it/IR/cultura/mille%20e%20una%20favola%202.htm#lupercalia.
“Aureo” raffigurante Marco Giunio Bruto Cepione (85-42 a.C.), il Cesaricida.
Recto. IMP(ERATOR) BRUT(US) L.(UCIUS ) PLAET.(ORIUS) CEST(IANUS)
Verso. EID(IBUS).MAR(TIIS)
[(R..) Bruto Comandante vittorioso dell’esercito (repubblicano che operò in Illiria e Macedonia dal 43 al 42 a.C.).
Lucio Pletorio Cestiano (magistrato coniatore in carica della zecca mobile di Bruto). (V.) Idi di Marzo ].
A sinistra M. G. Bruto appare raffigurato di profilo con la barba, tratto distintivo di rispetto e dignità. A destra compaiono
due pugnali, la più che eloquente firma di Bruto e Cassio cesaricidi. Fra le armi si staglia
il pileo frigio, simbolo di libertà. Il berretto era di solito portato dagli schiavi affrancati.
Enri
Enrico Vetrò
William Shakespeare
Julius Caesar
Act 3, Scene 2,
Mark Antony:
Friends, Romans, countrymen, lend me your ears;
I come to bury Caesar, not to praise him;
The evil that men do lives after them,
The good is oft interréd with their bones,
So let it be with Caesar. The noble Brutus
Hath told you Caesar was ambitious:
If it were so, it was a grievous fault,
And grievously hath Caesar answered it.
Here, under leave of Brutus and the rest,
(For Brutus is an honourable man;
So are they all; all honourable men)
Come I to speak in Caesar's funeral.
He was my friend, faithful and just to me:
But Brutus says he was ambitious;
And Brutus is an honourable man.
He hath brought many captives home to Rome,
Whose ransoms did the general coffers fill:
Did this in Caesar seem ambitious?
When that the poor have cried, Caesar hath wept:
Ambition should be made of sterner stuff:
Yet Brutus says he was ambitious;
And Brutus is an honourable man.
You all did see that on the Lupercal
I thrice presented him a kingly crown,
Which he did thrice refuse: was this ambition?
Yet Brutus says he was ambitious;
And, sure, he is an honourable man.
I speak not to disprove what Brutus spoke,
But here I am to speak what I do know.
You all did love him once, not without cause:
What cause withholds you then to mourn for him?
O judgement, thou art fled to brutish beasts,
And men have lost their reason. Bear with me;
My heart is in the coffin there with Caesar,
And I must pause till it come back to me.
ESPRESSIONI IDIOMATICHE TARANTINE
Come ogni altro idioma nazionale o autoctono, anche il tarentino presenta un variegato ventaglio di
espressioni idiomatiche. Si tratta di arcipelaghi di parole che racchiudono significati del tutto
dissimili da ciò che la loro immediata lettura potrebbe comunicarci a livello puramente
interpretativo (quasi sempre oscura e/o assurda). Tanto per esemplificare, l’agglomerato verbale
“gràvete a mmúle”(De Cuia)7, rende letteralmente l’equivalente italiano di “gravida a mulo”, che
ci annuncia un concetto-immagine di primo acchito privo di senso. Il modismo, invece, serba
gelosamente l’intimo significato di “sterile”, ossia di donna in stato interessante ( “gràvete” ), la
stessa condizione in cui potenzialmente potrebbe ritrovarsi un mulo ( “a mmùle” ). Un assurdo. Di
qui la più che evidente impossibilità di avere un figlio da parte della creatura femminile. La
medesima locuzione idiomatica, infine, esprime nel caso specifico un immaginario “a latere”,
giacché dissimula anche l’idea discostata di “gravidanza isterica”. Ecco una serie di campioni
idiomatici:
• À ffatte ’nu casìne quanne osce e ccreje [Ha fatto un casino quanto oggi e domani]= Ha
fatto una grande putiferio.
• A sàcche e fuéche [A sacco e a fuoco] = Immediatamente.
• Á sendúte ’u fìezze d’u mìcce [Ha sentito la puzza di fumo della miccia (dell’esplosivo)
accesa] = Ha capito l’inganno che cela la situazione in cui è venuto a trovarsi.
• Bùss’a ccoppe e rresponne a spáde [(Nel gioco del tressette): bussa a coppe e risponde a
spada)] = Agire in maniera del tutto differente da quanto è stato chiesto. Fare lo gnorri.
• Ccè ppuèrte ’a cannàmele a strascenúne?=[Che porti la cravatta storta?]=Sei un
maleducato e cafone.
• Ccè ssì’tu’, ’u fìgghie d’a jaddìna viànghe? [Chi sei tu, il figlio della gallina bianca?] = 1)
Tu non devi costituire eccezione rispetto a un dato comportamento. 2) Sei il preferito e
più fortunato degli altri?
• Dàmme ’na bìrra pizzúte [Dammi una birra col pizzo appuntito]= Fammi bere una birra
fredda con la brina fuori il bicchiere a mo’ di pizzetto di barba.
• Fáre ’a fàccia laváte [Fare la faccia lavata] = Mostrarsi solo in apparenza amichevole e
disponibile nei confronti di qualcuno. Stare al gioco che non piace.
• Fare ’u pistìdde a’ lènghe [Lett.: Fare il “pistìdde” alla lingua. Ossia, Ridurre la propria
lingua come una castagna secca sbucciata] = Ripetere parola/e o concetto più volte sino
alla noia.
• Hònne chiatráte l’alije! [Si sono gelate le olive!] = È andato tutto storto! E non c’è
alcuna maniera per rimediare.
• Jé ’nna mènza cartùcce [È una mezza cartuccia(carica per armi)]=È una persona bassa di
statura o gode di poca stima].
• Jé ’nu faccijevèrde =[È una faccia verde. ( Forse per la credenza popolare che un viso color
bile sia sinonimo di falsità e cattiveria.)] = È poco affidabile e in più ipocrita.
• Jé ’nu muscemattéje=[(da mùsce/mogio+Matteo/personaggio popolare dell’Isola?!) È un
mogio Matteo]= È solo all’apparenza impacciato e lento nell’esprimersi e nel capire. In
realtà furbo e ben informato su tutti e su tutto
• Jé ’nu spáre màzze [È uno “sparo” rinsecchito. (Gli “spari” , ossia gli “scari”, sono pesci
marini schiacciati, ricchi di scaglie e spine - dal greco “skàrjein” = saltellare - molto
graditi al palato dei cataldiani. Quelli di Mar Piccolo si chiamano “surgetìjedde =
sorcetti”, mentre quelli di Mar Grande vengono denominati “sparetìjedde = piccoli scari”.
Gli esemplari grossi sono, infine, definiti con l’appellativo “varanguèdde” = “(?) dal collo
7
Bellissima accezione idiomatica carpita consensualmente per caso all’amico-maestro Claudio, mentre telefonicamente
si parlava del più e del meno. In tale circostanza egli ebbe a spiegarmene il significato arcano.
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grosso e variegato”. Quando sono pescati fuori stagione risultano magri e asciutti, quindi
poco appetibili)]. L’accezione definisce una persona tutt’altro che magnanima
nell’offrire o elargire al prossimo qualcosa di proprio.
Jé acque mbàcce a lle muèrte [È acqua in faccia ai morti]= È cosa inutile.
Jé frùsce de scópa nóve [È fruscio di scopa nuova] = Ora fa così, poi farà come tutti gli
altri. (Riferito a persona che all’inizio di qualunque attività si mostra zelante e laboriosa. Il
detto ha valore ironico, dato che in seguito lo stesso si comporterà come gli altri,
risparmiandosi in ogni azione intrapresa).
Jé quèdda l’ogna sóve [È quella la sua unghia]= Tanto vale e basta.
Jìdde vuléve pàgghie pe’ ccìende cavàdde [Egli voleva paglia per cento cavalli] = Egli
pretendeva grande soddisfazione in quella circostanza, perché fermamente convinto delle
proprie azioni, idee che altri, invece, avversavano, ritenevano errate o non valutavano
abbastanza. L’espressione sembra avere avuto origine dalla occupazione francese di Taranto
nel 1809. Nello specifico, essa dovrebbe alludere al fatto che gli arroganti ufficiali invasori senza andare tanto per il sottile - ingiungevano a benestanti e contadini locali l’immediata
consegna di considerevoli quantità di paglia per foraggiare i cavalli delle loro milizie8.
L’hè dáte ’ngápe/ Dalle ’ngápe! [Gli hai dato in testa / Dagli in testa!] = Le due
espressioni, pur avendo in comune il termine “dare ’ngápe”, presentano connotazioni
interpretative dissomiglianti. La prima, infatti, rende: hai indovinato, hai colpito nel segno.
La seconda, invece, esprime: usa tutte le tue energie per convincere chi ti sta di fronte ed
eventualmente controbattere a dovere le sue eventuali confutazioni. E ancora: Fai
quello che devi fare impegnandoti al massimo.
L’hè dáte ’u gràsse [Gli hai dato il grasso] = Gli hai dato soddisfazione, confidenza.
Luáre ’a pàgghie da nànde o’ ciùccie [Togliere la paglia davanti all’asino] = Eliminare la
causa di un determinato effetto (positivo o negativo che sia).
M’agghia accunzá’ a ccape a ttròcchele (devo conciarmi la testa a troccola)9 = Devo
prendermi una sonora sbornia.
Mená’ a’ rotte.[Gettare allo sfacelo]=Lanciarsi in qualche impresa in maniera scriteriata
e senza considerare le conseguenze negative che essa potrebbe comportare.
Mená’ càuce. [Gettare calci]= Mostrarsi ingrato nei confronti di chi con disinteresse si è
prodigato a nostro favore elargendo di persona o facendoci concedere benefici e
vantaggi di qualunque tipo.
Mená’ p’accògghiere [Gettare per raccogliere]= Dire qualcosa a qualcuno per verificare
la bontà di una teoria o opinione personale in merito al nostro interlocutore o ad altre
persone e/o eventi. Spesso la reazione o risposta di chi ci sta di fronte conferma quanto
supposto.
Mèttere ’a cápe ind’a le rècchie [Mettere la testa nelle orecchie] = Prendere a cazzotti
qualcuno. (La pittoresca espressione rende bene l’idea della conseguenza dell’azione
violenta … !).
Mèttere ’a mìcce ’ngúle a’ zòcchele [Mettere la miccia nell’ano del topo] = Gettare
benzina sul fuoco, stuzzicare qualcuno al fine di ottenere un’azione rabbiosa nei
confronti di chicchessia.
Mètterse ’a fàcce ìnd’a mmèrde [Mettersi il viso nella cacca] = Provare vergogna.
(L’espressione è usata per rampognare qualcuno che ha commesso un’azione riprovevole:
Míttete ’a facce ind’a mmerde pe’ qquidde ch’è ffatte! Vergognati per quello che hai fatto!).
Cosimo Acquaviva, op. cit. nella bibliografia del presente lavoro, pag. 112.
Tavoletta con maniglie mobili di ferro. Agitata ad arte dai “Perdoni” nel corso della processione dei Misteri durante la
Settimana Santa, produce suoni secchi e ritmati, che devono sostituire l’uso delle campane delle chiese essendone
vietato l’uso in quel periodo.
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N’hame sciúte a acqua a’ ppìppe [Ce ne siamo andati ad acqua alla pipa. (La pipa
gorgoglia quando il tabacco è finito.) = Siamo caduti in miseria; non abbiamo più mezzi
per sostentarci.
N’hé fritte vùrpe … e mmó’ pe’ ’na seccetèdde vué ccu ccànge l’uègghie a’ frezzóle?!
[Ne hai fritti di polpi … ed ora per una seppiolina vuoi cambiare l’olio alla padella
friggitrice?!] = ( espressione indirizzata a persone spregiudicate che vogliono farsi passare
per ingenue e inesperte). Ne hai combinate di tutti i colori … ed ora vuoi dare da vedere
che sei un santerello/una santerella, come se ti accingessi a fare questo per la prima
volta?!
Nnò mmànge pe’ nnò cacá’ [Non mangia per non liberarsi l’intestino] = Egli/ ella è molto
avaro/a, eccessivamente parsimonioso/a.
Nnò ttègne manghe l’uecchie pe’ cchiàngere. [Non ho nemmeno gli occhi per
piangere]=Sono al verde più che mai.
Nò ccòrrere a scappaceppúne [Non correre a scappa ceppi/cepponi (di vite o di quercia,
quando vengono fatti rotolare per essere poi raccolti e trasportati)] = Non correre senza
guardare dove metti i piedi, senza pensare. A latere: Non gettarti a capofitto in un’azione
o impresa se non l’hai prima pianificata.
Nò ssápe níende d’u fiàsche de l’uègghie [Non sa nulla del fiasco dell’olio] = È un
disinformato. Non è al corrente della situazione reale. Ignora cosa ci sia sotto.
Parlá’ c’u lìnge e squìnge [Parlare intercalando le parole - oscure per il popolino - “di
qui” e “ ecco di qui” (“Linge” e “squinge” sembrerebbero derivare dal latino“(ec)cu(m)”
“hince” = ecco di qui. Nicola Gigante, op. cit., pag. 448)] = La peculiare forma idiomatica è
usata per segnalare un individuo che ama parlare con ostentata ricercatezza.
Pe’ ssij’ le càche ’a mòschele [Mai sia una mosca abbia a fargli un microscopico
servizietto (sull’abito o sulla sua camicia bianca.)] = In senso figurato: commento di biasimo
su persona che ostenta un atteggiamento di altezzoso distacco nei confronti del
prossimo. In senso fisico: Commento di disapprovazione su individuo curato nell’aspetto,
che indossa abiti eleganti. Costui sembra tenere ad ambedue le cose quasi a livello
maniacale e fa di tutto per conservare il suo stato perfetto il più a lungo possibile. Nei
rapporti con il prossimo rinforza l’atteggiamento porgendosi con voce e modi di fare
affettati.
Quìdde fáče ’u cuggióne sott’a’ pètre [Quello fa il gobione sotto la pietra. ( Il “gobione”, è
un pesce della famiglia dei Ciprinidi. Il nome gli deriva dal greco “kobios” = “ lett.: piccolo
pesce di cui si fa un solo boccone”10. Molto apprezzato dai tarentini, anche se oggi è cosa
assai rara trovarlo ai mercati o nelle pescherie, è gustato fritto o appena lessato in acqua cu
’na cróce d’uègghie sùse, ca ’ccussì’ po’ t’azzùppe ’u pàne - con una croce di olio sopra
(ossia, olio di oliva in quantità bastante a disegnare una croce a X nell’atto di versarlo sul
cucinato), che così dopo puoi inzupparti il pane in quel brodetto. I pescatori cataldiani mi
hanno sempre insegnato che sostanzialmente esistono due tipi di questo pesce:’u
mugghiarúle (da mògghie = fango), che vive nel fango, in fondo al mare. E ’u varvarúle,
(da vàrve = barba. Sulla spina dorsale alta porta dei filamenti che lo fanno sembrare
barbuto), il quale si nasconde tra le alghe marine e gli scogli rimanendo immobile per non
farsi catturare.11 Di qui l’accezione che evidentemente proviene dal secondo tipo, indicando
N. Gigante, op. cit. nella bibliografia del presente lavoro, pag. 313.
Ho appreso poi che esistono altre varietà di gobioni: cuggiùne de pètre (anche questi contribuiscono probabilmente
alla definizione della espressione idiomatica), cuggiùne grivarùle (grivarùle = alga), cuggiùne muse russe, cuggiùne
muzzariedde (muzze/muzzariedde? = monco/monconcino?), cuggiùne spia paréte (spia paréte = spia muro. Forse
perché rimangono acquattati dietro qualche riparo immerso nell’acqua ad osservare i movimenti degli intrusi). Cfr.:
http://www.tarantonostra.com/index.php?option=com_smf&Itemid=177&topic=2594.msg48771.
Il
gobione
era
conosciuto e apprezzato sin dai tempi della Magna Grecia. Il poeta Archestrato di Gela (IV sec. a.C.) scrisse un
inconsueto poemetto intitolato “Hedypatheia” (Poema del buongustaio). Un frammento illustra la bontà del piccolo
11
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così una persona che apparentemente mostra di non essere al corrente di una particolare
situazione o di fare lo gnorri.
Quiste vè’ a ppètre d’aniedde [Questo va a pietre (preziose) per anelli]= Costui è molto
ambizioso.
Rombere ’u tíjembe [Rompere il tempo]=Piovere.
S’à ppegghiáte ’a máne cu le cìnghe dèscetere [Si è preso la mano con le cinque dita]= Ha
approfittato della situazione.
S’à ppèrse ’a lìste d’u naucáre [Si è perduta la carta del navigare /l’ordine del vogare]=Si è
creato disordine e anarchia.
Sciaqquàrse ’a vocche.[Sciacquarsi la bocca]=Fare commenti poco piacevoli nei
confronti di chicchessia.
Sciucá’ a scarecauaríle [Giocare a scaricabarile]= Fare in modo che si attribuiscano agli
altri le proprie responsabilità.
Senza fa tanda irre e orre [Senza fare tante irre e orre(etimi di derivazione oscura)] =
Senza perderti/si in chiacchiere.
Sènze cu ddíče nnò uzze e nnò azze [Senza che dica né uzze e né azze. Uzze =etimo incerto,
probabile gioco di parola. Azze= cotone/ filo greggio di canapa]= Improvvisamente! Tutto
ad un tratto.
Sté’ cchióve cu le zenzíne e ’a grangàsce [Sta piovendo con i piatti della banda e la gran
cassa]=Piove a catinelle e con lampi e tuoni fragorosi.
Sté’ ffáče ’u tàgghia-tàgghie. [Sta facendo il taglia-taglia]=Sta sparlando di qualcuno alle
sue spalle.
Sté’ parláte! [Sta parlato!]= Il terreno è stato già preparato (in merito ad una azione
importante da intraprendere).
Móne se ne stè avíene cu le vasce caitáne. [Ora se ne sta venendo con i bassi Gaetani/se ne
sta venendo con i coltelli bassi/ se ne sta venendo con i sotterfugi di Gaetani]. Una
espressione idiomatica molto dibattuta. Il prof. Nicola Gigante nel suo dizionario (op. cit.)
propende per la seconda interpretazione, ritenendo errata la prima. Egli, infatti, è dell’avviso
che il modismo si riferisca “al fare mellifluo e cerimonioso con cui uno si presenta per
aggraziarsi l’interlocutore”. Altri autorevoli conoscitori della nostra municipale sostengono
che trattasi di “un termine che nella nostra città si usa quando si vuole intendere di quelle
persone che, con sotterfugi, cercano di far cambiare opinione ad altri. Il termine nasce in
seguito alla venuta a Taranto (tanti anni fa) del vescovo Caetani che, con fare molto
diplomatico e con sotterfugi (vasce), riuscì a modificare il numero dei canonici, senza
suscitare polemiche.” (Sulle sponde del Galeso”, http://galeso.blogspot.com/2008/03/ancora-proverbitarantini.html).
• Téne ’na canna puttáne. [Tiene una gola puttana]= È estremamente goloso. (Notare: il
termine“puttáne”. Esso si usa in qualunque accezione tranne che nel senso di “prostituta”.
In questo caso è usata la parola “buttáne”, con la quale túne t’ìnghie ’a vòcche!
• Téne l’uècchie quanne ’na chiesije e nnò véte ’a sacrestije [Ha gli occhi quanto una
chiesa e non vede la sacrestia] = Non si accorge di avere qualcosa molto in vista.
• Víjste ceppóne ca páre baróne [Vesti (in modo elegante) un grosso ceppo di legno e avrà
l'aspetto di un barone] = L’abito fa (!) il monaco.
pesce quando è fritto o cucinato secondo una ricetta qui di seguito riportata: “Considera scadenti tutti i piccoli pesci da
friggere, tranne quelli ateniesi; intendo riferirmi ai gonos [gobbioni], che gli Ionici chiamano bavosa; e accettali solo se
pescati da poco nel mare della baia di Falero [in cui insisteva il porto principale di Atene nel V sec. a.C. prima che il
Pireo lo soppiantasse per imponenza e importanza strategica] (...). Se tu desideri gustarli appieno devi, al contempo al
mercato, acquistare delle urticanti anemoni di mare con tentacoli a foglia. Poi uniscili al pesce e rosola tutto in padella,
dopo aver preparato una crema di verdure scelte per ricoprire il tutto.”
(285; b,c; op. cit. in:
http://culturitalia.uibk.ac.at/LIBER_bibl_KO/biblioteca/c/carubia/autori_classici_greci_in_sicilia/html/ARCHESTR.HTM).
• Vogghie cu ssacce azze, file e pertosere [Voglio sapere cotone, filo e buchi]=Voglio sapere
tutto per filo e per segno.
’Na tajèdde de còzze a menza-scorze e arreganáte
Vúrpe de scuègghie a’ Lúčiáne e ssàrde ’mbanáte e ffritte …
’Na tièdde ô fúrne de ríse, patáne e ccòzze … e ccè tte mànge?! (continua …)