i modelli organizzativi nel d. lgs. n. 231/2001

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i modelli organizzativi nel d. lgs. n. 231/2001
I MODELLI ORGANIZZATIVI NEL D. LGS. N. 231/2001:
*
LE IMPLICAZIONI PER LA CORPORATE GOVERNANCE
SOMMARIO: 1. Modelli organizzativi e tendenze del diritto commerciale. – 2. Modelli
organizzativi e diritto dell’impresa. – 3. L’organismo di vigilanza nel sistema del
diritto societario. - 4. Modelli organizzativi e gruppi di società. – 5. La responsabilità
dei membri dell’OdV.
1. Modelli organizzativi e tendenze del diritto commerciale. – L’emanazione del
d. lgs. n. 231/2001 (nel prosieguo soltanto Decreto) è passata quasi inosservata ai
giuscommercialisti.
Le novità sono state infatti esaminate quasi esclusivamente sotto il profilo delle
valutazioni penalistiche; ma in realtà è evidente che il testo normativo in questione
assegna potenti incentivi affinché le società (1) assemblino i modelli organizzativi ivi
previsti, e che forti saranno le implicazioni per il diritto commerciale, insite nel fatto
che tali modelli si tradurranno in assetti facenti parte dell’organizzazione
dell’impresa, e dell’ente titolare di quest’ultima.
Sotto il primo aspetto, infatti, può seriamente prospettarsi l’eventualità che la
mancata adozione di un modello, specialmente nel quadro di un’organizzazione
imprenditoriale particolarmente esposta al rischio di incorrere nella stigmatizzazione
penalistica rilevante ai sensi del Decreto, possa concretizzare responsabilità
soprattutto per gli amministratori delegati, i quali sono onerati ex art. 2381, comma
5°, c.c. di curare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo ed amministrativo alla
natura ed alle dimensioni dell’impresa, ma anche per l’organo gestorio nel suo
complesso (2), chiamato a valutare in seconda battuta (3) tale adeguatezza ai sensi
dell’art. 2381, comma 3o.
Quanto alla seconda prospettiva, l’emanazione del Decreto si inserisce in realtà
in quadro sistematico coerente.
La comprensione di come le attività economiche organizzate possano produrre
effetti negativi che si materializzano nelle sfere giuridiche di soggetti formalmente
(*) Il presente lavoro riproduce e sistematizza le considerazioni esposte nel corso del convegno di Trento del 11 febbraio
2005, sul tema “La modellistica organizzativa nel d. lgs. n. 231/2001. Profili di corporate governance ed esperienze
aziendali”;
l’intero
evento
peraltro
è
accessibile
senza
costi
sul
sito
http://www.jus.unitn.it/services/arc/2005/0211/home.html.
(1) Il Decreto si applica infatti ex art. 1 solo agli enti, e quindi non alle imprese individuali: cfr. sul punto di recente
Cass., 3 marzo 2004, in Foro it., 2005, II, c. 22. Apparentemente la spiegazione parrebbe risiedere nel fatto che il testo
normativo riguarda l’estensione della responsabilità penale alle persone giuridiche; ma in realtà le esigenze di prevenire
la commissione di illeciti penali sussiste anche per le organizzazioni imprenditoriali in forma individuale, ove certe
funzioni possono essere delegate ad ausiliari; e l’art. 2049 c.c. potrebbe non esercitare una pressione sufficiente.
(2) Sarà trattato nella sedes opportuna, invece, il connesso problema dell’eventuale responsabilità della capogruppo, e
dei suoi amministratori, per l’omessa dotazione di un modello organizzativo idoneo nelle singole controllate.
(3) Tale dovere di controllo sembra limitato alle risultanze delle comunicazioni fornite dagli organi delegati; ma in realtà
sembra difficile che i deleganti possano sfuggire a censure se non si avvedano della carenza di un modello
organizzativo idoneo ad evitare l’irrogazione di sanzioni penali sulla base del Decreto; essi infatti hanno l’obbligo di
agire “in modo informato”, e può dedursi anche l’esistenza di un dovere di chiedere ai delegati spiegazioni circa
l’omessa attivazione nel senso dell’adozione del modello.
estranei all’organizzazione societaria, infatti, ha portato alla luce interessi che
l’ordinamento giuridico disciplina all’esterno del fenomeno societario, attraverso
tecniche normative sanzionanti l’organizzazione, che e-siste e si legittima all’esterno
come soggetto, quando entra in contatto e danneggia tali sfere soggettive “altre”.
Il paradigma normativo è allora quello della responsabilità, civile (4) od
amministrativa, e dunque ricostruttivo di una relazione intersoggettiva fra
danneggiante e danneggiato, ove la regola giuridica “preme” dall’esterno sul titolare
dei poteri di controllo, affinché ponga in essere gli accorgimenti precauzionali
necessari ad evitare il pregiudizio.
In termini economici, potrebbe dirsi che il diritto interviene a porre le condizioni
affinché un’esternalità negativa del processo produttivo venga internalizzata dal
soggetto economico.
Ma ben presto ci si accorge che la regola di responsabilità, da sola, non è
sufficiente: ci sono infatti situazioni pregiudizievoli che la riallocazione delle
conseguenze patrimoniali dannose in capo al danneggiante non può ristorare
efficacemente, a causa della prevedibile incapienza di quello (5).
Ciò provoca l’estensione degli scenari repressivi in capo ad altri soggetti terzi,
che abbiano svolto una qualche funzione di mediazione fra le sfere soggettive dei
danneggianti e dei danneggiati (6); e la rottura del paradigma classico, con la
moltiplicazione delle istanze di ristoro, e l’allontanamento progressivo della soglia
del danno conseguenza “immediata e diretta” (art. 1223 c.c.), rischia di
compromettere la tenuta del sistema, provocando un’ondata redistributiva non
mediata da scelte politiche consapevoli, e pertanto incapace di svolgere alcuna
funzione incentivante coerente.
Irrompe finalmente sulla scena del diritto societario, in una prospettiva
complementare e non più soltanto ancillare, il diritto della crisi e dell’insolvenza
dell’impresa, emancipatosi da una tradizione scientifica e letteraria che ne aveva
esaltato la vocazione processualistica e liquidativa, e quindi la prospettiva ex post,
piuttosto che quella ex ante.
L’ipocrisia del c.d. teorema di Kaldor- Hicks impedisce di affrontare tali
situazioni nella logica semplicistica della riallocazione dei diritti ex post, effettuata
attraverso la regola di responsabilità.
Non si tratta infatti soltanto di un problema di capienza patrimoniale: ci sono
valori fra di loro non confrontabili (7), tali per cui uno appaia incomprimibile, e
(4) Si pensi alla responsabilità per danno da prodotti difettosi.
(5) Il problema tocca quello della struttura legale del capitale della s.p.a., e non può qui essere approfondito: cfr. per
riferimenti ENRIQUES- MACEY, Raccolta di capitale di rischio e tutela dei creditori: una critica radicale alle regole
europee sul capitale sociale, in Riv. soc., 2002, 94 ss.; DENOZZA, A che serve il capitale ? (Piccole glosse a L.
Enriques- J.R. Macey, Creditors versus capital formation: the case against the european legal capital rules), in Giur.
comm., 2002, I, 593 ss.; CLERICO, Attività economica e rischio di danno, in Riv. crit. dir. priv., 2000, 71 ss.
(6) E si pensi ancora alla responsabilità della banca per “abusiva concessione del credito”: per tutti cfr. in argomento
INZITARI, Le responsabilità della banca nell’esercizio del credito: abuso nella concessione e rottura del credito, in
Banca borsa tit. cred., 2001, I, 265 ss.; e di recente, anche per riferimenti, BENEDETTO, Approfondimenti sul tema
dell’erogazione “abusiva” del credito, in questa Rivista., 2004, II, 344 ss.
(7) Ad es. la libertà: e cfr. sul punto SEN, La libertà individuale come impegno sociale, in AA.VV., La dimensione etica
nelle società contemporanee, Torino, Utet, 1990, 21 ss.; IDEM, Liberty and social choice, in Journal of philosophy,
1983, 80 ss.
dunque la compensazione successiva non abbia alcun senso; non tutto infatti può
essere spiegato con l’economia, né tantomeno trasformato in un equivalente
monetario, come talvolta nelle ricostruzioni law & economics più esasperate pare
dimenticarsi (8).
Il diritto si orienta allora progressivamente verso la prevenzione della
conseguenza pregiudizievole, ed il contesto ove vengono assunte le decisioni
economiche all’interno dell’impresa cessa di essere irrilevante per chi sta all’esterno
(9).
Il Decreto ipostatizza infine una “colpa organizzativa” di cui l’ente viene per ciò
chiamato a rispondere.
In tal modo l’innovazione normativa si ricollega ad una linea evolutiva
dell’ordinamento, ove gli enti vengono progressivamente obbligati ad internalizzare
le proprie inefficienze organizzative (10).
Si pensi alle più recenti interpretazioni dell’art. 2598 n. 3, c.c., ove la
“correttezza professionale” viene intesa ormai frequentemente in termini di
“finalismo obiettivo”, nel senso che l’idoneità della struttura organizzativa a
conseguire effetti concorrenziali non giustificabili in termini razionali, di conformità
a standards di agire imprenditoriale, prova la commissione dell’illecito (ad es. storno
di dipendenti, vendita sotto il costo marginale).
2. Modelli organizzativi e diritto dell’impresa. – L’adozione di procedure
interne atte a prevenire illeciti si sposa anche con il nuovo modo di intendere
l’impresa alla luce della riforma del diritto societario del 2003, in termini di
previsione degli scenari futuri e di programmazione dei risultati (11), ciò che favorisce
(e talvolta impone) l’organizzazione dell’impresa non solo attraverso l’adozione di
piani, ma anche mediante l’adozione di routines e procedure (12), che migliorano
l’efficienza, e favoriscono la verificabilità delle condotte gestorie.
L’altra faccia della medaglia è costituita dalla possibilità che un eccesso di
burocratizzazione produca fenomeni di stallo organizzativo, e paradossalmente di
disincentivazione ad attivarsi, per evitare di incorrere nella violazione degli obblighi
di trasparenza e di comportamento.
In tal modo possono essere compromessi proprio i fini della legislazione, se
l’eccessivo zelo imposto dal modello preventivo, o dal sistema sanzionatorio, induce
anche comportamenti di “copertura” rispetto alle violazioni altrui che siano
riscontrate (dovuti alla percezione dell’ingiustizia del sistema).
(8) E cfr. sul punto, quasi lapidariamente, DENOZZA, Norme efficienti, Milano, Giuffrè, 2002, 117 ss., spec. 125.
(9) Basti pensare alla recente Comunicazione della Commissione UE dal titolo Prévenir et combattre les malversations
financières et pratiques irrégulières des sociétés, del 6 novembre 2004.
(10) Per tali intendendosi tutte quelle strutture idonee ad arrecare danni a terzi: l’esempio dei negozi aventi “per oggetto
o per effetto” la lesione degli interessi tutelati, mediato dall’antitrust, sembra significativo.
(11) Ci si permette di rinviare a quanto già esposto in La trasformazione radicale dell’attività da parte dell’organo
amministrativo: appunti in tema di pianificazione strategica d’impresa, in Riv. dir. comm., 2003, I, 657 ss.
(12) Cfr., nella letteratura economica, NELSON- WINTER, An evolutionary theory of economic change, Cambridge
University Press, 1982, passim; in relazione alle novità in tema di “procedure” e routines di cui alla riforma Vietti v.
invece MONTALENTI, L’amministrazione sociale dal testo unico alla riforma del diritto societario, in questa Rivista,
2003, I, 422. Il termine “procedura” è adesso espressamente utilizzato ad es. dall’art. 2391bis c.c., introdotto dal d. lgs.
n. 310/2004.
Talvolta poi il diritto impone espressamente l’efficienza (in termini di capacità
economica di raggiungere gli obiettivi) dell’organizzazione come un fine, ed allora
gli assetti che possano comportare un eccessivo appesantimento burocratico possono
entrare in conflitto con tale scopo; nel settore bancario, ad es., il t.u. banc. impone un
trade off fra il principio della “sana e prudente gestione” (art. 5) e quello della
prevenzione degli illeciti penali di cui al Decreto.
Un aspetto fondamentale per la comprensione delle novità del Decreto pare
risiedere nel fatto che i modelli preventivi ivi sanciti attengono in realtà
all’organizzazione dell’impresa, e non già della società, anche se la normativa si
interessa apparentemente soltanto di enti, e dunque tralascia gli imprenditori
individuali.
I parametri che condizionano la riconoscibilità del modello, e che quindi
determinano la concessione dell’esimente nel caso in cui l’elusione fraudolenta dello
stesso conduca alla commissione di un reato, attengono infatti alla struttura
dell’impresa: la società deve infatti individuare le attività, ovviamente
imprenditoriali, nel cui ambito possono essere commessi reati; individuare le
“modalità di gestione delle attività finanziarie” (art. 6, comma 2°, Decreto), che non
implicano necessariamente problemi di corporate governance; lo stesso modello deve
prevedere misure idonee a prevenire, scoprire ed eliminare i pericoli di reato, “in
relazione alla natura e alla dimensione dell’organizzazione, nonché al tipo di attività
svolta” (art. 7, comma 3o)(13).
Lo stesso processo decisionale considerato dal Decreto prescinde dalla normale
sistematica organizzativa societaria, focalizzandosi su livelli “apicali” (art. 5, lett. a)
che possono evadere dalla sfera consueta degli amministratori e dei direttori generali
ex art. 2396 c.c.
Quanto poi alle persone che non rivestono funzioni apicali, la loro esistenza è
comune altresì alla struttura delle imprese individuali; tale conclusione risulterebbe
avvalorata da quelle letture per cui le persone sottoposte alla vigilanza degli apicali
(art. 5, lett. b), rispetto alle quali la commissione di un reato sarebbe rilevante,
potrebbero essere altresì soggetti, esterni all’organizzazione della società, titolari di
un rapporto contrattuale con la stessa (14).
(13) Si presuppone qui che i caratteri del modello sanciti dall’art. 7, relativamente alla prevenzione dei reati commessi
dai soggetti “subordinati”, siano in realtà omogenei a quelli relativi agli “apicali”; in tal senso del resto è l’orientamento
sinora espresso dalla giurisprudenza, che pare da condividere: v. Gip Trib. Roma, 14 aprile 2003, in Guida al dir., n.
31/2003, 66.
(14) Tali soggetti infatti sarebbero estranei alla struttura dell’impresa, ma non il contratto che li lega alla società, che
invece costituisce uno strumento di organizzazione della stessa (arg. ex art. 2558 c.c.). Quanto agli agenti cfr.
FRIGNANI- GROSSO- ROSSI, I modelli di organizzazione previsti dal d.lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti, in
Società, 2002, 153. L’estensione dell’efficacia del modello anche agli autonomi, fondata sulla apparente latitudine della
norma (che fa riferimento a “persone”, “direzione”, “vigilanza”) potrebbe in astratto sposarsi con una prospettiva di
prevenzione avanzata, anche se sanzionerebbe una discutibile volontà dell’ordinamento di “premere”
sull’organizzazione dell’impresa secondo modalità persino più aggressive di quelle di cui all’art. 2049 c.c. In realtà però
l’accusa dovrebbe qui dimostrare l’omissione della vigilanza, causalmente efficiente, ex art. 7 Decreto, e l’interesse
esclusivo del terzo escluderebbe la responsabilità (art. 5, comma 2°). In alcuni modelli concretamente realizzati si fa
riferimento in effetti a soggetti quali agenti, franchisees, quindi connotati da vincoli di c.d. parasubordinazione, ma
anche partners in joint ventures e simili; in un modello (quello di Ansaldo s.p.a.) addirittura ci si riferisce a tutti i
soggetti che agiscono “nell’interesse” della società. Tali estensioni, che non sono certo vietate, ed anzi sono
esplicitamente raccomandate ad es. dalle Guidelines for multinational enterprises OCSE (versione 2000, consultabili in
In breve, è l’assunzione di decisioni al livello delle scelte d’impresa ad
interessare il campo d’applicazione del Decreto.
Il Decreto insomma tenta di porre incentivi all’adozione di comportamenti
virtuosi, atti a prevenire la commissione di certi reati, attraverso la prospettiva della
concessione addirittura di un’esimente (15), se il modello organizzativo sia
riconosciuto idoneo ex post dal Giudice (16).
L’idoneità preventiva deve spingersi sino alla capacità di prevenire rischi di
reato “prevedibili” (17), alla luce delle conoscenze disponibili, non potendosi
l’ordinamento accontentare della mera esistenza di una frode (18) al fine di ritenere
adempiuto l’onere (19) di predisposizione di un efficace modello, al contrario di
quanto sostenuto nelle guidelines di un’importante associazione di categoria (20).
Al di là di tale considerazione, appare arduo stabilire i confini esatti dell’ambito
di esigibilità del livello di prevenzione (21): se la prevedibilità andasse intesa con
riferimento a tutte le conoscenze anche astrattamente disponibili, a prescindere dal
loro costo, ne risulterebbe incentivata altresì l’innovazione tecnologica, al fine di
reperire tecniche preventive più efficienti; viceversa, un eccesso di
responsabilizzazione potrebbe conseguire effetti di overdeterrence.
www.oecd.org), presuppongono l’inserimento di clausole risolutive espresse e di penali nei contratti con gli ausiliari.
Ciò forse aiuterebbe a dimostrare che in realtà si tratta di estensioni che fuoriescono dal campo applicativo del Decreto,
anche perché in relazione a terzi non sarebbe possibile addivenire in via negoziale ad un vero e proprio meccanismo
“disciplinare” (cfr. in argomento Le pene private, a cura di BUSNELLI e SCALFI, Milano, Giuffrè, 1985; MOSCATI, Pena
(dir. priv.), in Enc. del dir., XXXII, Milano, Giuffrè, 1982, 770; GALGANO, Alla ricerca delle sanzioni civili indirette,
in Contr. impr., 1987, 531; IRTI, La nullità come sanzione privata, ivi, 541; PONZANELLI, Pena privata, in Enc. Giur.
Treccani, XXII, Roma, 1990; utili riferimenti teorici anche in MONTUSCHI, Potere disciplinare e rapporto di lavoro,
Milano, Giuffrè, 1973, passim), e la qualificazione in termini “punitivi” degli istituti della clausola risolutiva espressa e
della stessa clausola penale è abbastanza negletta in dottrina. Resterebbe da domandarsi se l’adozione di un modello
così strutturato potrebbe poi condurre ad un’affermazione di responsabilità della società, e/o dei membri dell’organismo
di vigilanza, in caso di omessa vigilanza sull’operato del terzo, fondata sull’assunzione espressa dell’obbligo di
garanzia.
(15) I compliance programs statunitensi invece giungono al massimo alla concessione di una attenuante, e comunque
escludono l’ipotesi in cui ci sia coinvolgimento dei livelli “apicali”: e cfr. in senso giustamente critico FRIGNANIGROSSO- ROSSI, I modelli di organizzazione previsti dal d.lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti, (nt. 14), 144.
(16) L’efficacia dell’incentivo a predisporre ex ante un modello preventivo risulta tuttavia indebolita dall’ampiezza delle
soluzioni operative fondate sull’implementazione del modello ex post, che consentono di accedere a trattamenti premiali
per nulla insignificanti; per questo si ha l’impressione che l’incentivo risieda soprattutto nella prospettiva della
responsabilità dell’amministratore per omessa adozione del modello. Opportuna, a tal riguardo, sembra la presa di
posizione della giurisprudenza penale, che ha avuto sinora cura di affermare, almeno nelle dichiarazioni di principio,
che l’idoneità del modello assemblato ex post deve essere valutata comunque con maggior rigore rispetto a quella ex
ante: cfr. Gip Trib. Roma, 14 aprile 2003, cit.; ciò sembra vero non soltanto perché nella situazione implicata un reato si
è già verificato, ma piuttosto nell’ottica preventiva ed incentivante di cui sopra.
(17) Così NOCERINO, La responsabilità amministrativa dei soggetti in posizione di vertice e dei dirigenti: requisiti di
autonomia/subordinazione, comportamento delittuoso posto in essere a vantaggio dell’ente. Rapporti con la
responsabilità penale, relazione tenuta a Milano il 26 giugno 2001 al Convegno Paradigma.
(18) Peraltro il requisito della frode entrerebbe in urto con eventuali aggiornamenti del catalogo di reati rilevanti ai fini
del Decreto, tali da includervi illeciti a struttura colposa: devo quest’osservazione ad Alessandro MELCHIONDA, che l’ha
formulata intervenendo nel già ricordato convegno di Trento dell’11 febbraio 2005.
(19) Tale onere era divenuto un vero e proprio obbligo, a seguito dell’art. 1, comma 82°, della l. 30 dicembre 2004, n.
311 (c.d. Finanziaria per il 2005); la disposizione denunciava vistose carenze di formulazione, che ne rendevano assai
ardua l’applicazione; il comma 82 tuttavia è stato soppresso dall’art. 4 del d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (c.d. decreto sulla
“competitività”).
(20) Si fa riferimento alla Linee Guida emanate ex art. 6, comma 3°, da Confindustria.
(21) Fa riferimento ad una “ragionevole sicurezza” il Position paper dell’Associazione Italiana Internal Auditors,
dell’ottobre 2001, reperibile in www.aiaa.it.
Di certo alto è il rischio che le società assemblino modelli organizzativi in realtà
inidonei, al solo fine di beneficiare dell’effetto in termini di immagine legato alla
spontanea ottemperanza ad un precetto legale; così facendo, infatti, esse
aumenterebbero il proprio capitale “reputazionale”, senza tuttavia apportare alcun
beneficio in termini generali.
L’esame di taluni modelli concretamente predisposti, ed immediatamente
pubblicati sui siti web aziendali, sembrerebbe confermare l’impressione che molte
attuazioni “tempestive” abbiano in realtà soltanto una funzione “di facciata”.
Il problema, che discende e dall’assenza di un meccanismo attendibile di
“certificazione” (di per sé non proprio auspicabile)(22), e soprattutto dalla carenza di
meccanismi giuridici, antecedenti alla stigmatizzazione penale, che consentano di
sanzionare l’attuazione “fittizia” del Decreto, è comune del resto alle riflessioni
giuridiche sulla c.d. corporate social responsibility.
3. L’organismo di vigilanza nel sistema del diritto societario. – La
riconoscibilità del modello è condizionata dalla dotazione di un Organismo di
Vigilanza (di seguito OdV) efficiente, in grado di monitorare il funzionamento del
modello, ed il bisogno di aggiornamento.
L’istituzione di tale funzione è indispensabile (23), perché il modello non può
costituire, se davvero in grado di svolgere il suo ruolo preventivo, una struttura
astratta, che prescinda dal perenne mutare dell’organizzazione aziendale, soprattutto
nel modo con cui relazionarsi con l’ambiente esterno (24).
Si tratta tuttavia di una funzione, relativa all’organizzazione dell’impresa, e non
già di una struttura societaria; dunque non sarà in ogni caso necessario dare vita ad un
organo nuovo ed autonomo, ma è ben possibile che uno degli organi già noti
all’organigramma corporativo societario sia onerato di svolgere tale attività, in
(22) Si pensi alle possibili implicazioni negative, in tema di eccessiva standardizzazione (al fine di superare più
facilemente il vaglio), e di difficoltà nel rendere attendibile ed indipendente l’operato del “certificatore”. Discutibile del
resto era il ruolo dell’Isfol nell’abrogato comma 82 dell’art. 1 della legge finanziaria per il 2005.
(23) E’ corrente l’idea che tale organismo sia irresponsabile per la commissione dei reati, dato che non potrebbero essere
ritenuto correo; al riguardo, è il caso di evidenziare la differenza fra il coinvolgimento nella responsabilità penale e
l’imputazione di una responsabilità civile, nei confronti della società, per titolo contrattuale, relativa al danno
conseguente non già alla commissione del reato, ma all’irrogazione della sanzione amministrativa alla società (anche
tale profilo è emerso durante una conversazione privata con Alessandro MELCHIONDA). Si pone al riguardo il problema
della copertura assicurativa dei membri dell’OdV, che si sovrappone a quello più generale dell’assicurabilità delle
condotte rilevanti per la corporate governance, e potrebbe condurre ad un nuovo ruolo, di monitor “delegato”, per
l’assicuratore: cfr. TOMBARI, L'assicurazione della responsabilità civile degli amministratori di s.p.a., in Banca Borsa
tit. cred., 1999, I, 180 ss. Nei confronti dei terzi eventualmente l’OdV potrebbe invece rispondere forse ex art. 2395 c.c.,
qualora la funzione di vigilanza fosse affidata ad amministratori o direttori generali (arg. ex art. 2396 c.c.); in tal ultimo
caso, l’applicazione del CCNL dei dirigenti comporterebbe, com’è noto, l’assunzione dell’obbligazione da parte della
società, e solo in caso di insolvenza di quest’ultima si porrebbe il problema della responsabilità in concreto del
dirigente.
(24) L’esigenza di continuare ad adattare il modello al mutamento delle situazioni è esplicitamente contemplata solo
all’art. 7 Decreto, ma in realtà si può dedurre implicitamente da tutto il sistema normativo; diversamente verrebbe meno
l’efficienza preventiva. L’esigenza di adattamento si misura anche sul piano statico, in fase di adozione del modello,
quando occorrerà assemblare lo stesso, anche se mediato da un modello astratto fornito da un’associazione di categoria,
in modo da conformarlo alla natura ed alle caratteristiche della specifica organizzazione imprenditoriale.
aggiunta alle altre che lo connotano, a condizione che questa sovrapposizione di
compiti non ne snaturi la funzione tipica (25).
Escludendo ovviamente che si possa esternalizzare del tutto in outsourcing il
servizio (26), oppure attribuirlo semplicemente all’organo gestorio (ed a parte il caso
delle PMI [27], regolate dall’art. 6, comma 4°), radicalmente e strutturalmente
incompatibile con tale funzione, perplessità possono essere sollevate in relazione a
tutte le altre figure organiche familiari (28).
Persino il collegio sindacale infatti può divenire in taluni casi correo (art. 25ter
Decreto), e non è un organo sufficientemente “continuo”, espletando le sue funzioni
di controllo in modo “intermittente”.
Il consiglio di sorveglianza, nel modello dualistico, condivide i profili di
potenziale correità; risulta adesso inquinato dalla discutibile assegnazione di compiti
operativi (29); è caratterizzato da carenze di stabilità nella carica dei suoi membri (30),
e da vistose e poco perspicue deficienze nella predisposizione dei requisiti di
indipendenza (31).
Anche il comitato per il controllo sulla gestione, di cui al modello monistico (od
al Codice “Preda”), appare abbastanza poco funzionale allo scopo: si tratta di un
articolazione dell’organo amministrativo, e poi i suoi membri non godono di effettivi
requisiti di stabilità e di indipendenza; oltre a ciò, l’inspiegabile inesistenza di un
dovere di vigilare sulla correttezza dei comportamenti gestionali solleva perplessità
circa la sufficiente professionalità dei suoi membri.
D’altro canto tali problematiche non potrebbero neppure essere accantonate,
semplicisticamente, attraverso l’osservazione per cui nelle PMI il compito di vigilare
può essere assegnato allo stesso ”organo dirigente” (32); nelle strutture più semplici
(25) E’ ben noto del resto che l’emissione di titoli da negoziare su certi mercati internazionali richiede talvolta
adattamenti statutari, necessari a dotare gli organi classici di funzioni nuove e diverse da quelle tradizionali, al fine di
rendere l’emissione accettabile o più digeribile per tali mercati.
(26) Ad es. attribuendolo ad una società di revisione.
(27) Inutile aggiungere che il concetto di “ente di piccole dimensioni” risulta assai fumoso, e la disciplina assai poco
incentivante, salvo che nei gruppi, posto che l’esercizio della facoltà di concentrare nell’organo gestorio le funzioni
dell’OdV ha ben scarse possibilità di passare il vaglio ex post del Giudice Penale, e dunque potrebbe risultare assai
meno costoso “correre il rischio”; in un ordinamento poi che già sconosce i confini della nozione di piccolo
imprenditore ex art. 2083 c.c. (soggetto qualificato come piccolo, senza chiarire quale sia l’ordine di grandezze di
riferimento), ricorrere ad un’ulteriore nozione generica è di assai scarsa utilità; escluso che si possa individuare
semplicemente gli enti di cui all’art. 6, comma 4°, con le s.r.l. e le società di persone, resta assai poco sicuro anche il
ricorso ai criteri comunitari, ad es. di cui alla Raccomandazione UE n. 2003/361.
(28) Cfr., per un’analisi comparata, FARINA, I reati societari e la responsabilità penale delle persone giuridiche, in
Banca borsa tit. cred., 2004, I, 163 ss.
(29) Si pensi all’approvazione dei piani e delle operazioni “strategiche”: art. 2409terdecies, comma 1°, lett. f-bis, dopo il
d. lgs. n. 310/2004.
(30) A causa della mancanza, comune al modello della SE, di un meccanismo di resistenza alla revoca, sottoposto a
vaglio giudiziale preventivo (arg. ex art. 2400 c.c.).
(31) Inspiegabilmente diversi, ed attenuati, rispetto a quelli dei sindaci: cfr. art. 2409duodecies, comma 10o.
(32) Così invece BARTOLOMUCCI, Corporate governance e responsabilità delle persone giuridiche, Milano, Ipsoa, 2004,
253 ss., nel cui volume serpeggia anche un certo ottimismo sulla funzionalità dei nuovi modelli organizzativi istituiti
dalla riforma “Vietti”; ma si v. al riguardo le perplessità che traspaiono nel decreto CICR del 5 agosto 2004, il quale
contiene la prescrizione, rivolta alle banche che adottino il sistema dualistico, di “adottare idonee cautele, statutarie,
regolamentari e organizzative, volte a prevenire i possibili effetti pregiudizievoli per la correttezza e la regolarità della
gestione derivanti dalla presenza nello stesso organo delle funzioni gestorie e di controllo”, nonché di attribuire
ulteriori funzioni agli organi di controllo, e di assicurare un’idonea composizione dei medesimi organi, “per numero e
professionalità”.
ciò avviene solo per via di una diversa valutazione legislativa dei costi e dei benefici;
e del resto, seguendo tale suggestione, bisognerebbe arrivare persino ad affermare
l’idoneità astratta dell’organo amministrativo pur nelle strutture complesse.
In talune soluzioni operative già adottate, e variamente “sponsorizzate” dalle
associazioni di categoria (AIIA, ABI), si è deciso invece di ricorrere ai responsabili di
già collaudate funzioni aziendali: ad es. la funzione legale, oppure quella di internal
auditing; in realtà, al di là della necessità di relativizzare il discorso rispetto alla
singola situazione aziendale, pare che i titolari di queste funzioni possano manifestare
carenze di professionalità: l’attività della funzione legale è ancorata spesso a
parametri formali, ed opera in una logica “difensiva” scarsamente compatibile con le
finalità dell OdV; quanto all’internal auditing, poi, potrebbe dubitarsi della
sovrapponibilità fra controllo interno, pur sempre orientato da fini di economicità, e
vigilanza sulla prevenzione dei reati; ciò sarebbe da affermare sicuramente in quei
contesti ove tale ultima funzione è esternalizzata (33), posto che l’OdV deve essere
una struttura “interna” all’impresa.
Anche nel caso in cui si dia vita ad una struttura autonoma, monocratica o
collegiale (34), soluzione che per certi versi sembrerebbe la più idonea ed efficace,
posto che quasi tutti gli organi già esistenti presentano in misura diversa profili
disarmonici rispetto alle funzioni dell’OdV (35), non sembra pertanto che si debba
parlare di potenziale collisione con il principio di tipicità delle organizzazioni
collettive capitalistiche (36), posto che l’istituzione dell’organismo costituisce una
scelta conformativa dell’impresa, e non già della società.
Non sarebbe possibile delineare in modo astratto una soluzione unitaria ed
universale che descriva un modello sicuramente “riconoscibile”: proprio l’esigenza di
valutare l’idoneità preventiva del modello “in concreto” osta alle generalizzazioni;
ciò che è idoneo in una struttura, ove sussistono certi rischi, può non esserlo in
un’altra, oppure può risultare ridondante.
Ciò che è possibile fare però è delineare i profili organizzativi più “sensibili” del
modello, e stigmatizzare quelle soluzioni operative, e quelle lacune, che
maggiormente rischiano di creare problemi nella fase di validazione ex post.
La legge non adotta una scelta specifica nemmeno quanto alla competenza a
deliberare l’istituzione dell’OdV (come dello stesso modello organizzativo).
(33) Si pensi al modello in uso presso le BCC, che prevede una responsabilità interna, ma comunque la esternalizzazione
del servizio, volta ovviamente a realizzare economie di scala, oppure a quello predisposto per le SGR, le SICAV e le SIM.
(34) Nelle organizzazioni complesse, anche se di medie dimensioni, la composizione collegiale è sicuramente preferibile
a quella monocratica (c.d. compliance officer), in quanto meglio idonea ad assicurare l’indipendenza: conf. Gip Trib.
Roma, 14 aprile 2003, cit.
(35) L’altra faccia della medaglia ovviamente è costituita dal maggior costo di tale soluzione, anche in termini
transattivi, di predisposizione negoziale di regole di funzionamento interno. Per le strutture aziendali più semplici,
quindi, e/o meno esposte ai rischi di reato, la scelta di utilizzare un organo già noto non dovrebbe essere guardata con
eccessivi sospetti; in tal senso del resto si muovono quasi tutte le Guidelines di categoria note (Confindustria, ABI), e
parecchi dei modelli già adottati.
(36) V. però RORDORF, I criteri di attribuzione della responsabilità. I modelli organizzativi e gestionali idonei a
prevenire i reati, in Società, 2001, 1303. In letteratura il problema dell’esercizio della autonomia statutaria in tema di
costituzione di nuovi organi è poco esplorato: cfr. però COSTA, Il rappresentante comune degli azionisti di risparmio,
Milano, Giuffrè, 1984, 76.
Al riguardo sembra da escludere che occorra una modifica statutaria (37), anche
se l’inserimento formale nell’atto costitutivo non parrebbe a priori vietato, ma in
quest’ultimo caso la modifica del modello non richiederebbe più una delibera
dell’assemblea straordinaria, attenendo al contenuto formale e non già sostanziale
dell’atto (38). Diversamente, l’effetto di “ingessamento” del modello che ne
risulterebbe, ostativo rispetto all’esigenza del suo aggiornamento continuo, potrebbe
entrare in conflitto con i fini stessi del Decreto.
Non sembra vietato del resto che lo statuto preveda la competenza di fonti
substatutarie, sul modello dei regolamenti assembleari nelle cooperative (art. 2521,
ult. cpv.); in talune cooperative consortili che partecipano ai bandi per appalti
pubblici ad es. tale soluzione operativa potrebbe risultare particolarmente utile.
In caso di omessa previsione statutaria si imporrebbe la competenza del c.d.a.,
che del resto è inevitabilmente l’organismo “responsabile” per le scelte inerenti
all’istituzione ed al funzionamento del modello.
Una successiva ratifica assembleare non parrebbe poi dover entrare in conflitto
con l’art. 2380bis c.c., sicuramente nel caso in cui l’atto costitutivo richiedesse
espressamente l’autorizzazione del consesso dei soci ex art. 2364, n. 5. Sarebbe del
resto assurdo immaginare che la legge vietasse ai soci di partecipare ad una decisione
che attiene sì all’impresa, ma sotto lo specifico punto di vista della conformazione
dell’attività (anche) degli amministratori a determinati standards di comportamento.
Dubbi possono sorgere invece quanto alla eventuale delegabilità della
competenza all’interno del c.d.a. (39), soprattutto in fase di modifica.
E’ evidente che l’art. 2381 c.c. non riporta alcuna esclusione espressa;
ciononostante l’esigenza di rendere il modello riconoscibile consiglierebbe di
escludere la delega, quantomeno in relazione al momento, assai delicato,
dell’aggiornamento e della modifica del modello.
Non a caso, in uno dei pochi precedenti giudiziari editi, il Giudice ha addirittura
ritenuto opportuno, accogliendo un rilievo della Procura, elevare il quorum statutario
ex art. 2388 c.c. per l’adozione della delibera consiliare (40).
Profilo ancora nevralgico è quello dell’adozione di un regolamento interno
dell’OdV: l’esigenza che l’organismo sia indipendente consiglierebbe di rimettere
tale competenza allo stesso; tuttavia occorre soppesare anche la necessità di ottenere
il riconoscimento del modello, ove una regolamentazione insufficiente od idonea a
generare inefficienza in fase di vigilanza potrebbe creare ostacoli (41); pertanto,
sembrerebbe consigliabile provvedere alla predisposizione, da parte della stessa fonte
(37) In particolare non sembra che la competenza statutaria derivi dal fatto che si tratterebbe di parte delle “norme
relative al funzionamento della società” ex art. 2328, ult. cpv., c.c., proprio perché, come si è già detto, il modello e
l’OdV attengono all’organizzazione dell’impresa, e non già della società; il dubbio però è intercettato da RORDORF, I
criteri di attribuzione della responsabilità. I modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire i reati, (nt. 36), 1301.
(38) Cfr. per questa distinzione TANTINI, Le modificazioni dell’atto costitutivo nella società per azioni, Padova, Cedam,
1973, 23; MARASÀ, Modifiche del contratto sociale e modifiche dell’atto costitutivo, in Tratt. soc. per az. diretto da
Colombo e Portale, 6*, Torino, Utet, 1993, 9.
(39) Taluni modelli sanciscono espressamente la possibilità di delega (ad es. quello di SDA Express Courier s.p.a.,
quanto alla modifica).
(40) V. ancora Gip Trib. Roma, 14 aprile 2003.
(41) Vedi ancora Gip. Trib. Roma, 14 aprile 2003, che indugia sull’opportunità che siano previsti espressamente
controlli a sorpresa.
che istituisce il modello, di alcune norme essenziali, destinate ad essere recepite
dall’OdV in sede di azione del proprio regolamento.
L’esigenza di imparzialità poi si tradurrà nella concessione all’OdV di adeguata
autonomia finanziaria e di spesa (42); nella legittimazione espressa ad avvalersi di
ogni funzione aziendale (legale, controllo di qualità, internal auditing, gestione del
personale) senza dover richiedere autorizzazioni preventiva ai normali centri
decisionali societari ed aziendali; nella possibilità di interpellare parimenti tutti i
soggetti coinvolti nei processi aziendali, anche se esterni all’organizzazione
dell’impresa (consulenti, società di revisione, etc.); in particolare andrà riposta
particolare attenzione nei poteri istruttori ed ispettivi, risultando difficilmente
tollerabile che vi siano aree di “segretezza” opponibili all’OdV, pur magari potendosi
provvedere ad una adeguata tutela della riservatezza in sede di conservazione delle
tracce documentali dell’operato dell’OdV (con possibilità eventualmente di redigere
verbali dell’organo “riservati”).
Sembra poi che i membri dell’OdV, meglio se individualmente, debbano
necessariamente essere abilitati a partecipare alle riunioni di qualsiasi organo
aziendale, anche non corporativo.
In fase di reporting infine l’OdV dovrà relazionarsi direttamente con i massimi
vertici aziendali, senza gradi intermedi, meglio se con l’organo amministrativo in
composizione collegiale (od all’audit committee, ove istituito).
In alcuni modelli peraltro è sancito che l’OdV “riporti” al Presidente del c.d.a.,
oppure all’Amministratore Delegato; raramente è menzionato il collegio sindacale
(43), ed ancor più rarefatto è il ricorso all’assemblea.
Quanto a quest’ultima, potrebbero nascere sospetti di strumentalizzabilità delle
comunicazioni dell’OdV da parte delle minoranze, anche se non se ne può escludere
del tutto l’utilità, almeno nei casi clamorosi in cui l’intero organo amministrativo
risulti compromesso (44).
Sembra pertanto utile che il modello lasci l’OdV libero di valutare a chi
riportare, quantomeno per le comunicazioni eccezionali, in relazione alla gravità dei
fatti acclarati; quanto invece ai flussi periodici (da ritenersi indispensabili, e con una
cadenza congrua, ad es. trimestrale), l’inoltro ai soli membri delegati sembra
sconsigliabile.
Rispetto invece al Presidente del c.d.a., il nuovo ruolo assunto da quest’ultimo
con l’emanazione del testo novellato dell’art. 2381 c.c., di coordinatore dell’attività
(42) Le esperienze giurisprudenziali e poi legislative in tema di “delega” delle funzioni in tema di reati a tutela del lavoro
e dell’ambiente potranno al riguardo fornire utili linee di indirizzo; come il delegato, infatti, l’OdV deve godere di
autonomia operativa; deve ad es. essere libero, nei limiti del ragionevole, di impegnare le risorse finanziarie della
società ad es. incaricando consulenti esterni, al fine di verificare situazioni specifiche, per cui l’organo difetti al suo
interno delle competenze necessarie, oppure di valutare l’opportunità di proporre modifiche del modello.
(43) Che pure dispone di poteri di azione teoricamente efficienti (artt. 2408 s. c.c.); in caso di accertato “inquinamento”
anche di tale organo, ciò che renderebbe altresì inutile il ricorso all’assemblea, sembra che il modello debba prevedere
esplicitamente la comunicazione all’eventuale Autorità di controllo, od all’Autorità Giudiziaria. Il modello è del resto
già seguito dall’ordinamento settoriale bancario e finanziario, e risulta incentivato altresì nelle Guidelines for
multinational enterprises (versione 2000), e nei Principles of corporate governance OCSE (2004), tutti consultabili in
www.oecd.org.
(44) L’esperienza applicativa dell’art. 2409 c.c. tuttavia evidenzia una scarsa utilità del ricorso alla convocazione
dell’assemblea.
del consesso, e che pur non ha precluso la delegabilità anche ad esso delle funzioni
gestorie, rende la soluzione non inaccettabile, almeno in astratto; ciononostante,
fintantoché la prassi non avrà recepito la novità, e continuerà a considerare il
Presidente né e più e né meno di un super- amministratore delegato, sembra
sconsigliabile procedere in tal senso.
Ciò che conferma l’esigenza che ogni valutazione, quanto ai modelli del
Decreto, sia formulata sempre in concreto, senza concettualizzazioni astratte.
Inutile aggiungere che il nocciolo essenziale, rispetto all’organizzazione
dell’OdV, ed alla sua funzione nella struttura di governance dell’impresa, sarà
costituito dalla predisposizione della struttura in modo da assicurare l’indipendenza.
Al riguardo, non paiono del tutto tranquillizzanti quelle affermazioni di principio
per cui sarebbe sufficiente perseguire l’indipendenza dell’organo nel suo complesso,
e non già al livello dei singoli componenti.
Sembra anzi che l’esempio sistematico dei vari organi di controllo interno
(collegio sindacale, consiglio di sorveglianza, comitato per il controllo sulla gestione;
senza dimenticare l’audit committee di cui al Codice “Preda”), ove l’indipendenza è
perseguita come un valore individuale, deponga in senso decisamente inverso.
Ed in ultima analisi occorre ricordare che l’idoneità del modello sarà sempre
validata ex post, da un Giudice, quello penale, specializzato nella repressione dei
reati, ed incline ad una visione decisamente “specialpreventiva” (quando non
generalpreventiva) degli stessi.
Il modello sistematico dell’art. 2399 c.c. (e non dell’art. 2409duodecies) sembra
quello più soddisfacente.
Importante sarà poi salvaguardare la stabilità nell’incarico, rendendolo
revocabile solo ad opera del c.d.a. in composizione collegiale, con delibera motivata
e per giusta causa (45); non sembra indispensabile, ma neanche inopportuno, che sulla
revoca sia chiamata ad esprimersi (ed a fornire un’”autorizzazione” ex art. 2364, n. 5)
l’assemblea. E’ da escludere invece che si possa estendere l’istituto dell’approvazione
giurisdizionale ex art. 2400 c.c., posto che tale norme regola un potere d’azione
giudiziale non disponibile da parte dei privati, i quali non possono devolvere al
Giudice competenze extralegali in sede negoziale.
L’esigenza di tutelare l’indipendenza dell’organo sconsiglia poi di predisporre
modalità retributive in misura variabile, soprattutto se connaturate ai risultati
dell’attività di impresa (c.d. stock options).
Infine, particolare cautela occorrerà quanto alla durata dell’incarico, perché se
un limite temporale (anche in assenza di vincoli alla rieleggibilità) può favorire
l’indipendenza, per contro una durata troppo breve entrerebbe facilmente in urto con
la non meno importante esigenza di professionalità, e potrebbe paradossalmente
diminuire il prestigio dei membri, i quali nell’ultima fase temporale si sentirebbero
meno incentivati ad effettuare investimenti personali, e sarebbero di fatto
delegittimati verso la struttura aziendale.
(45) In tal senso si colloca ad es. il modello predisposto da ENI s.p.a.
Indipendenza e professionalità, infine, si coniugano con la specializzazione
nell’incarico, ciò che rende quantomai auspicabile che l’OdV non sia adibito ad altre
funzioni, soprattutto se di carattere operativo; in relazione ai suoi singoli membri,
tuttavia, sembra difficile poter perseguire tale valore in modo rigido: soltanto
organizzazioni aziendali molto grandi e complesse infatti potrebbero permettersi il
“lusso” di un organo collegiale composto da membri impiegati a tal esclusivo fine a
tempo pieno (46).
4. Modelli organizzativi e gruppi di società. – Il tema dei gruppi, in relazione
alle implicazioni poste dal Decreto, è ancora straordinariamente negletto.
Stride con tale carenza di approfondimento la diffusione dell’organizzazione di
gruppo, indice di una complessità dimensionale che maggiormente intercetta proprio i
profili rilevanti per le finalità preventive del Decreto (47).
I modelli organizzativi già predisposti manifestano al riguardo un deciso
pragmatismo, e dettano disposizioni spesso scarsamente ponderate rispetto
all’ordinamento societario nel suo complesso.
Il primo interrogativo da porsi, al riguardo, concerne l’eventuale obbligatorietà
della predisposizione del modello da parte della capogruppo, a vantaggio delle
controllate.
Il problema trascende in quello, assai stimolante tanto sotto il profilo dogmatico
quanto sotto quello pratico, della responsabilità della capogruppo per abuso
“omissivo” dell’attività di direzione e coordinamento.
A tal proposito la dottrina e la giurisprudenza anteriori alla riforma del 2003
erano approdate, sia pur non senza far registrare dissensi, ad una concezione
dell’abuso della direzione e coordinamento come fattispecie di responsabilità
contrattuale, siccome violazione di un obbligo discendente da un fatto reputato
idoneo dalla legge a produrre l’obbligazione conseguente (art. 1173 c.c.)(48), oppure,
nelle teorizzazioni più raffinate, su di un “contatto sociale” (rectius rapporto
contrattuale di fatto) fra capogruppo e controllate (49).
In tale ottica, anche l’omissione da parte della capogruppo circa l’esercizio
delle proprie prerogative di direttrice- coordinatrice configura responsabilità, appunto
contrattuale (art. 1218 c.c.), e fonda l’obbligo risarcitorio (50).
(46) Diversi modelli infatti hanno strutturato l’OdV come un organo nuovo, ma composto dai titolari di alcune funzioni
aziendali tipiche (legale, risorse umane, internal auditing, controllo di qualità etc.).
(47) Si noti come talune norme della Riforma del 2003, come ad es. l’obbligo di motivare le decisioni intragruppo (art.
2497ter), oppure le “procedure” da adottare in relazione alle c.d. parti correlate (art. 2391bis c.c.) convergano
naturalmente con le finalità del Decreto, costituendo frammenti naturali di modelli organizzativi preventivi delle
situazioni presupposte.
(48) Cfr. ROVELLI, La responsabilità della capogruppo, in Fallimento, 2000, 1100 ss.; conf. Trib. Milano, 22 gennaio
2001, in Fallimento, 2001, 1143; dopo la riforma si sono fatti fautori di questa tesi, pur contrastata dalla Relazione di
accompagnamento, fra gli altri, PAVONE LA ROSA, Nuovi profili della responsabilità dei gruppi di società, in Riv. soc.,
2003, 770; SACCHI, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di capitali, in questa
Rivista, 2003, I, 670.
(49) V. MIOLA, Il diritto italiano dei gruppi de iure condendo: i gruppi e i creditori, in questa Rivista, 1996, I, 418 ss.
(50) Cfr. in tal senso l’ottima Trib. Milano, 22 gennaio 2001, cit., che si colloca come la pronunzia meglio argomentata e
più citata dell’ordinamento previgente, in materia di gruppi ed abuso della controllante.
D’altro canto però pare seriamente dubitabile che di per sé l’adozione di una
struttura di gruppo renda la capogruppo obbligata alla predisposizione di un modello
organizzativo a beneficio di ogni società dell’agglomerato.
Da un lato infatti la nozione di gruppo accolta infine dalla Riforma del 2003
evade dai confini del mero controllo societario, per richiedere un quid pluris, quella
direzione e coordinamento che costituisce un tipico fenomeno di fatto, esaurentesi sul
piano dell’attività, e non dell’atto (51).
Com’è noto, infatti, la dottrina e la giurisprudenza dominanti, anche prima del
2003, ritenevano insufficiente la mera sussistenza di un rapporto di controllo per
qualificare il gruppo, e coessenziale invece la presenza di “direzione unitaria” (52),
intesa come capacità effettiva della capogruppo (o di una società del gruppo
appositamente investita del ruolo di direzione) di influire e determinare le scelte
strategiche della controllata (53).
Deve pertanto escludersi che la mera presenza di un rapporto di controllo
imponga alla controllante di esercitare il coordinamento, e del resto dagli artt.
2497bis, quater e septies si evince chiaramente che ad esercitare tale potere può
anche non essere la “capogruppo”, nel senso “classico”, consono alle strutture
piramidali, del termine, intesa come soggetto che sta in testa all’agglomerato, e ne
controlla le componenti, ma un’altra struttura dell’agglomerato.
Quando tuttavia il coordinamento sia posto in essere, può darsi che sorga
l’obbligo di proseguirlo.
Anche nella gestione d’affari codicistica (54) del resto (tipica figura di quasicontratto, che fonda anch’essa una responsabilità contrattuale), la prima obbligazione
che nasce in capo al gestore per il fatto di essersi ingerito in un affare altrui è di
continuare a gestirlo (art. 2028 c.c.).
Pertanto la capogruppo, che inizi ad esercitare un’attività di direzione e
coordinamento, e poi si arresti, soprattutto senza alcun preavviso, commette un
illecito contrattuale, e può essere sanzionata ex art. 1218 c.c.
Da un certo punto di vista si potrebbe sostenere che la controllata, in quanto
soggetto di diritto distinto, deve essere in grado di perseguire il proprio oggetto
sociale autonomamente; e l’avvalimento dell’assistenza della capogruppo (con
trasferimenti di risorse a prezzi spesso non di mercato, c.d. transfer prices) non giova
all’efficienza economica della stessa, così come insegnano gli aziendalisti.
(51) Il rinvio ovviamente è alle riflessioni, ormai “classiche”, di FERRO LUZZI, I contratti associativi, Milano, Giuffrè,
1971, spec. 196 ss.); più di recente v. RONDINONE, L’”Attività” nel codice civile, Milano, Giuffrè, 2001, 7 ss.;
RIVOLTA, Gli atti d’impresa, in Riv. dir. civ., 1995, I, 107 ss.; ALCARO, La categoria dell’attività: profili ricostruttivi
(atti e attività. L’attività d’impresa), in Riv. crit. dir. priv., 1995, 417 ss.
(52) Cfr. per tutti JAEGER, La disciplina dei gruppi. Direzione unitaria del gruppo e responsabilità degli amministratori,
in Riv. soc., 1985, 817 ss.; e v. anche la cit. Trib. Milano, 22 gennaio 2001.
(53) La nozione era in realtà assai variegata nell’elaborazione dogmatica, a seconda della maggiore o minore ritenuta
intensità della relazione di potere, e dello spettro delle decisioni operative influenzate.
(54) Che differisce dalla fattispecie della direzione di gruppo se non altro per il fatto che la controllata non si trova
temporaneamente impedita dal gestire i suoi affari; inoltre l’istituto civilistico viene per lo più reputato incompatibile
con la gestione di interi patrimoni.
In realtà tuttavia l’inserimento prolungato della controllata nell’organizzazione
di gruppo può allentare la capacità di reagire tempestivamente ed autonomamente alle
stimolazioni dell’ambiente circostante.
Non è giuridicamente ammissibile allora, né può rinvenire spiegazioni in
termini di efficienza economica, che la controllante cessi l’attività di assistenza,
tantopiù in modo improvviso ed inusitato.
Il principio ricavabile dall’art. 2028 c.c., per cui il gestore non può arrestarsi
nella gestione prima che il titolare dell’affare sia in grado di provvedervi
autonomamente, impone che la capogruppo metta prima la controllata nelle
condizioni di riorganizzarsi, al fine di affrontare il mercato autonomamente.
Ma, ciò che è più importante, l’attività di direzione e coordinamento implica
l’accentramento delle funzioni di indirizzo strategico, non necessariamente di tutte,
ma anche soltanto di talune, purché idonee ad influire in misura determinante sulla
vita della società (55).
Se è indubbiamente difficile ricostruire cosa debba intendersi concretamente per
“esercizio” di tale direzione, sembra tuttavia che ciò si possa considerare integrato
anche ad un livello più basso e meno qualificato di quanto si intende per
“amministrazione di fatto” (56).
Se in tale ultimo caso infatti si richiede per lo più la presenza dell’attributo della
sistematicità, tale per cui il compimento di uno o più atti isolati, benché al limite
inseriti in una sequenza complessa, potrebbe non essere sufficiente, al contrario per
integrare la responsabilità di cui agli artt. 2497 ss. c.c. pare bastare l’accentramento di
una sola funzione gestoria (ad es. quella finanziaria), ed anche se la stessa in realtà si
limiti ad un’organizzazione di comportamenti delimitata oggettivamente nel tempo.
Il sistema della responsabilità per esercizio di competenze gestorie dopo la
Riforma del 2003, insomma, sembra tale per cui se in taluni casi anche un solo atto
può fondare l’imputazione (art. 2476, comma 7°, 2497, comma 2o), in altri occorre
almeno un’attività, non ulteriormente qualificata (artt. 2497, comma 1°, c.c.), mentre
a qualificare la vera e propria responsabilità dell’amministratore “di fatto” (cui si
applicano gli artt. 2392 ss. c.c.) continua ad esser necessario l’attributo della
“sistematicità” (57), per quanto il discrimen non appaia di agevole individuazione.
In breve, la responsabilità ex art. 2497 c.c. costituisce oggi un criterio di
imputazione contrattuale, fondato sul dato fattuale dell’esercizio di un’attività di
direzione e coordinamento, ossia sull’esercizio di funzioni gestorie, ove tuttavia la
fattispecie è semplificata rispetto a quella ordinaria ex artt. 2392 ss. c.c.: non
(55) E si noti come l’accentramento delle funzioni possa essere anche scisso, in modo che ciascuna funzione strategica
sia allocata presso una società differente; ciononostante, questa condivisione della direzione e coordinamento non
sembra tenuta in considerazione dagli artt. 2497 ss. c.c.
(56) Il profilo non è molto indagato dalla letteratura: cfr. comunque ABRIANI, Gli amministratori di fatto delle società di
capitali, Milano, Giuffrè, 1998, 224 ss.; GUERRERA, Gestione "di fatto" e funzione amministrativa nelle società di
capitali, in Riv. dir. comm., 1999, I, 131 ss.
(57) Che non sembra necessitare del resto di essere continuativa, né deve essere percepita esclusivamente in chiave
diacronica (si pensi alle acquisizioni in tema di concorrenza sleale parassitaria “sincronica”: v. Cass., 10 novembre
1994, n. 9387, in Mass. Giur. It., 1994); d’altro canto anche la nozione di impresa è qualificata in termini più complessi
della mera attività, richiedendo l’attributo della professionalità.
necessita infatti alcun attributo di sistematicità (58), ed al contempo le conseguenze
sono attenuate dall’inserimento espresso della teoria dei vantaggi compensativi,
almeno nella versione accolta dalla Riforma.
Ciò posto, non sembra che qualsiasi genere di direzione e coordinamento
comporti l’obbligo per chi la esercita di munire le società soggette ad un modello
amministrativo a’ termini del Decreto.
Ciò potrà dirsi soltanto nei casi in cui siano assoggettate ad integrazione proprio
quelle funzioni implicate dalle finalità del testo legislativo: ad es. quando al livello
della capogruppo sia allocata la funzione di supervisione ed organizzazione del
sistema di controllo interno; lo stesso potrà dirsi qualora l’obbligo sia assunto
espressamente ex art. 2497septies, oppure in strutture molto integrate, ove
praticamente tutto il contenuto della funzione gestoria, benché a livello di indirizzo,
sia ubicato presso la società che esercita la direzione; in quest’ultimo caso, per lo
meno l’esigenza di predisporre direttive (e quindi al limite anche modelli astratti, da
concretizzare a livello periferico), riguardanti l’attuazione del Decreto, si porrà.
Quando comunque la “direttrice” intervenga in tale contesto, l’obbligo di
continuare l’attività, sino a che le società “soggette” non siano in grado di acquisire in
termini economici il know how necessario, imporrà di proseguire nello stimolare il
doveroso processo di monitoraggio ed adeguamento continuo del modello realizzato.
Di certo comunque il Decreto non ha manifestato particolare attenzione alla
realtà dei gruppi; in particolare al caratteristico intreccio fra interessi divergenti che
può nascere all’interno di tali agglomerati.
L’ente infatti è responsabile ex art. 5 solo se il fatto viene commesso “nel suo
interesse o a suo vantaggio”; il compimento “nell’interesse esclusivo proprio o di
terzi” opera poi come circostanze esimente: ciò pone però delicati interrogativi, circa
l’idoneità realmente preventiva dell’apparato normativo, in tutti i casi ove il fatto sia
commesso nell’interesse esclusivo della società “direttrice”.
Anche ove si voglia ricostruire una nozione di “interesse” tale per cui l’atto
intragruppo non sia mai, a tali fini, di interesse “esclusivo” della controllante,
resterebbero virtualmente problematici i casi ove non vi sia per la controllata alcun
vantaggio, neppure “compensativo”.
In tali casi, ferma restando la responsabilità ex art. 2497, comma 2°, solo
interpretando la congiunzione “o” contenuta nell’art. 5, comma 1°, Decreto nel senso
per cui basterebbe l’interesse connaturato nella direzione, sia pur inteso in senso lato,
potrebbe arrivarsi all’applicazione della sanzione.
Inoltre, anche quanto alle “persone” (da ritenersi persone fisiche) la cui opera
conduce all’imputazione all’ente della responsabilità ex art. 5, occorrerebbe imputare
espressamente la condotta agli amministratori, anche di fatto, della controllata,
laddove, quanto agli esponenti aziendali della direttrice, gli stessi potrebbero
(58) Oltre a questo, viene reso testuale che la natura di ente del soggetto che esercita la direzione non è limite
all’imputazione, anche se il dato non doveva ritenersi preclusivo della responsabilità ex artt. 2392 ss., ove la natura di
persona fisica dell’amministratore è legata, e diremmo in termini non ontologici, alla sua qualifica di diritto, e non già
di fatto.
condurre all’imputazione soltanto se qualificabili ancora come amministratori di fatto
della controllata.
La legge infatti menziona solo a “persone che esercitano, anche di fatto, la
gestione e il controllo” dell’ente (art. 5), e la materia è connotata molto
probabilmente dai tratti della inestensibilità analogica dei precetti, siccome attinenti
alla materia del diritto punitivo lato sensu (59).
Dunque vi è un potenziale scollamento fra il criterio di imputazione della
responsabilità presupposto nel Decreto e quello di cui agli artt. 2497 ss. c.c., e
l’idoneità preventiva del modello sarà percepita con tutta probabilità in relazione al
solo impianto normativo di diritto speciale, non a quello codicistico.
E’ possibile, cioè, che il modello predisposto presso le controllate sia idoneo ad
impedire la commissione dei reati di cui all’art. 25ter Decreto, ma non se gli stessi
siano posti in essere con modalità non contemplate dal Decreto stesso. E solo in
relazione a tali modalità potrà ipotizzarsi la responsabilità della direttrice per omessa
predisposizione del modello; al di fuori di tale ambito opereranno esclusivamente i
criteri di responsabilità ordinari (60).
Ciò tuttavia non consentirà di accentrare del tutto al livello della direttrice le
funzioni implicate dal modello; la capogruppo (61), potrà sicuramente elaborare dei
modelli astratti, che pur tengano conto delle particolarità dello specifico gruppo, ma
sarà come sempre al livello della singola società che dovrà essere compiuta
l’operazione di concretizzazione, e di adeguamento del modello alla specifica realtà
aziendale.
L’OdV in particolare deve essere di certo stabilmente incardinato
nell’organizzazione della singola società controllata, poiché altrimenti il modello non
sarebbe suscettibile di riconoscimento.
Ciò non esclude che lo stesso possa avvalersi dell’operato delle strutture della
controllante (62), ad es., per compiti ispettivi o di analisi dei dati; occorre tuttavia che
ciò avvenga in forza di un specifici contratti, tali per cui gli elementi della “direttrice”
operino nell’interesse non già della stessa società (o del gruppo, che dir si voglia), ma
comune, obiettivato in un regolamento contrattuale.
(59) Per un cenno v. BARTOLOMUCCI, Corporate governance e responsabilità delle persone giuridiche, (nt. 32), 45.
(60) Non è affatto da escludere, al riguardo, che tali criteri conducano a sanzionare, se non la mera omissione nella
predisposizione del modello, almeno in quelle società esposte al rischio di incorrere in reati, ciò che trasformerebbe un
onere in un obbligo, snaturando le finalità del Decreto, per lo meno quelle situazioni di disordine organizzativo
connotate dalla presenza di fattori altamente favorenti, in strutture complesse, il pericolo di commissione di reati
(eccessiva concentrazione di potere, deformalizzazione dei procedimenti decisionali, etc.).
(61) Non si può considerare l’agglomerato come un’”associazione di categoria” ex art. 6, comma 3°, Decreto, benché il
Ministero della Giustizia abbia, in sede di prima applicazione della disciplina, opinato in apparenza diversamente
quanto al modello di Enel; dunque, il modello “di gruppo” non potrà essere sottoposto alla valutazione pubblica ai sensi
del d.m. 26 giugno 2003.
(62) Il modello di Eni prevede al riguardo che le controllate debbano primariamente avvalersi delle strutture della
capogruppo, e solo ove queste siano indisponibili o non adeguate, ricorrere a consulenti esterni; la previsione, ispirata
ad una sana logica di contenimento dei costi, e di prevenzione del conflitto di interessi al livello periferico (ove
paradossalmente proprio gli organi della controllata potrebbero operare in controtendenza rispetto ai fini della legge,
distribuendo prebende a soggetti collaterali) potrebbe tuttavia minare l’autonomia del singolo OdV, e creare problemi di
riconoscibilità, specie in casi di eccessiva integrazione delle funzioni gestorie, tali da rendere le strutture della
capogruppo come “sospette”.
La responsabilità e l’imputazione degli atti deve comunque restare
inderogabilmente in capo all’OdV della controllata.
Con prudenza, per lo stesso motivo, andrebbero recepite le prescrizioni volte ad
ipotizzare un operare dell’OdV della controllata armonizzato e “coordinato” con
l’omologo organismo della controllante; al riguardo infatti non può essere
pretermesso il valore dell’indipendenza e dell’autonomia dell’OdV “periferico”, che
può coordinarsi con realtà esterne solo su di un piano orizzontale e paritario, e può
semmai avvalersi di strutture della capogruppo, come si è visto, sulla base di rapporti
contrattuali stabili e chiari (63).
Tali linee generali sembra siano state per lo più recepite nei modelli sinora
realizzati.
Ciononostante, occorrerebbe forse minore disinvoltura nel facultizzare le
controllate di dimensioni contenute a consegnare le funzioni dell’OdV all’organo
amministrativo della società.
Ciò conduce alla realizzazione di economie, e risulta in effetti apparentemente
legittimato dall’art. 6, comma 4°, Decreto; ma non è da escludere che la forte
discrasia e tensione fra tale modalità operativa ed i fini generali dell’apparato
normativo conducano la giurisprudenza ad una lettura differente, e fortemente
restrittiva, della norma.
Il modello organizzativo infatti deve essere valutato per la sua idoneità anche in
relazione alla “dimensione dell’organizzazione” (art. 7 ): ciò implica sicuramente la
considerazione della realtà del gruppo, e quindi dell’organizzazione complessiva
dell’agglomerato, anche nei suoi mutamenti; in sostanza il modello della controllata
dovrà implementare i maggiori rischi implicati dall’inserimento nel gruppo, ed in
quello specifico gruppo in particolare (64).
Ma forse proprio l’inserimento stabile della società in un’organizzazione di
gruppo di dimensioni non “piccole” potrebbe ostare all’applicazione dell’art. 6,
comma 4°; e ciò alla luce di un procedimento di riduzione teleologica della
fattispecie, già abbastanza deficitaria.
Per concludere, vi è da dubitare della portata delle disposizioni della controllante
inerenti alla predisposizione dei modelli.
Taluni modelli prevedono espressamente l’adozione di un modello come un
obbligo per le controllate; la maggior parte di essi propone un modello astratto, che
può (ma non deve) essere utilizzato nella predisposizione del modello concreto;
talvolta alcuni disposizioni del modello generale vengono considerate inderogabili.
La natura obbligatoria o meno delle direttive della capogruppo costituisce un
problema di teoria generale, che non può qui essere indagata.
Ciononostante c’è da domandarsi se siano sufficienti le disposizioni della
controllante (che siano ad es. esposte come obbligatorie e direttamente vincolanti),
(63) In tali casi gli ausiliari della capogruppo possono trovarsi ad operare come dipendenti “distaccati” (art. 30 d. lsg. n.
276/2003), assoggettati quindi al potere direttivo della distaccataria.
(64) Come i mutamenti all’interno del gruppo, ma all’esterno della singola società, possano influire sulle condizioni di
rischio, ed assumere rilevanza giuridica, è testimoniato ad es. dall’art. 2497quater.
oppure se le stesse necessitino di essere espressamente recepite da analoghe
prescrizioni assunte dagli organi della controllata.
Quest’ultima sembra la risposta più attendibile, determinata dal fatto che solo a
livello periferico può essere effettuata la indispensabile concretizzazione del modello
astratto elaborato dalla capogruppo, e non tanto dalla pretesa inopponibilità ai terzi
delle direttive della controllante, come suggerito da una pronunzia giurisprudenziale
(65).
D’altro canto sembra “problematica” la disposizione, contenuta in taluni modelli
di gruppo (66), volta ad individuare norme del modello generale derogabili dalle
controllate, ed altre invece intangibili.
Si riproduce, anche tale livello, il trade off fra i benefici della rigidità delle linee
fondamentali, che può prevenire le modifiche abusive ed “interessate”, ed i costi di
tale irrigidimento, che può mettere in crisi la capacità del singolo ente di monitorare
l’efficacia del modello, e di effettuare cambiamenti ed aggiornamenti.
Non sembra tuttavia da escludere a priori che talune disposizioni- chiave, non
necessitanti di aggiornamento nel breve- medio termine, possano essere così
“rinforzate”; tuttavia, nel caso in cui le condizioni mutassero, il difetto di elasticità
potrebbe compromettere il riconoscimento del modello.
Non sospetta infine sembrerebbe la norma, assai frequente nella prassi attuativa
del Decreto, che impone che i casi di comportamenti devianti scoperti debbano essere
prontamente comunicati all’OdV della capogruppo, purché tale obbligo di reporting
non sia indicato come esclusivo; occorrerà comunque che sia imposta l’informazione
immediata agli organi della controllata, affinché siano poste in essere adeguate
contromisure. Analogamente dovrebbe dirsi per gli obblighi di comunicazione
relativi ai monitoraggi periodici sull’efficienza del modello, ed alle sue revisioni.
DANILO GALLETTI
(65) E v. la cit. Gip Trib. Roma, 14 aprile 2003; opponibilità del resto che ha ben poca importanza, posto che l’idoneità
del modello va valutata per la sua capacità di indirizzare i comportamenti all’interno dell’organizzazione.
(66) Ad es. quello di Eni.