i modelli organizzativi nel d. lgs. n. 231/2001
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i modelli organizzativi nel d. lgs. n. 231/2001
I MODELLI ORGANIZZATIVI NEL D. LGS. N. 231/2001: * LE IMPLICAZIONI PER LA CORPORATE GOVERNANCE SOMMARIO: 1. Modelli organizzativi e tendenze del diritto commerciale. – 2. Modelli organizzativi e diritto dell’impresa. – 3. L’organismo di vigilanza nel sistema del diritto societario. - 4. Modelli organizzativi e gruppi di società. – 5. La responsabilità dei membri dell’OdV. 1. Modelli organizzativi e tendenze del diritto commerciale. – L’emanazione del d. lgs. n. 231/2001 (nel prosieguo soltanto Decreto) è passata quasi inosservata ai giuscommercialisti. Le novità sono state infatti esaminate quasi esclusivamente sotto il profilo delle valutazioni penalistiche; ma in realtà è evidente che il testo normativo in questione assegna potenti incentivi affinché le società (1) assemblino i modelli organizzativi ivi previsti, e che forti saranno le implicazioni per il diritto commerciale, insite nel fatto che tali modelli si tradurranno in assetti facenti parte dell’organizzazione dell’impresa, e dell’ente titolare di quest’ultima. Sotto il primo aspetto, infatti, può seriamente prospettarsi l’eventualità che la mancata adozione di un modello, specialmente nel quadro di un’organizzazione imprenditoriale particolarmente esposta al rischio di incorrere nella stigmatizzazione penalistica rilevante ai sensi del Decreto, possa concretizzare responsabilità soprattutto per gli amministratori delegati, i quali sono onerati ex art. 2381, comma 5°, c.c. di curare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo ed amministrativo alla natura ed alle dimensioni dell’impresa, ma anche per l’organo gestorio nel suo complesso (2), chiamato a valutare in seconda battuta (3) tale adeguatezza ai sensi dell’art. 2381, comma 3o. Quanto alla seconda prospettiva, l’emanazione del Decreto si inserisce in realtà in quadro sistematico coerente. La comprensione di come le attività economiche organizzate possano produrre effetti negativi che si materializzano nelle sfere giuridiche di soggetti formalmente (*) Il presente lavoro riproduce e sistematizza le considerazioni esposte nel corso del convegno di Trento del 11 febbraio 2005, sul tema “La modellistica organizzativa nel d. lgs. n. 231/2001. Profili di corporate governance ed esperienze aziendali”; l’intero evento peraltro è accessibile senza costi sul sito http://www.jus.unitn.it/services/arc/2005/0211/home.html. (1) Il Decreto si applica infatti ex art. 1 solo agli enti, e quindi non alle imprese individuali: cfr. sul punto di recente Cass., 3 marzo 2004, in Foro it., 2005, II, c. 22. Apparentemente la spiegazione parrebbe risiedere nel fatto che il testo normativo riguarda l’estensione della responsabilità penale alle persone giuridiche; ma in realtà le esigenze di prevenire la commissione di illeciti penali sussiste anche per le organizzazioni imprenditoriali in forma individuale, ove certe funzioni possono essere delegate ad ausiliari; e l’art. 2049 c.c. potrebbe non esercitare una pressione sufficiente. (2) Sarà trattato nella sedes opportuna, invece, il connesso problema dell’eventuale responsabilità della capogruppo, e dei suoi amministratori, per l’omessa dotazione di un modello organizzativo idoneo nelle singole controllate. (3) Tale dovere di controllo sembra limitato alle risultanze delle comunicazioni fornite dagli organi delegati; ma in realtà sembra difficile che i deleganti possano sfuggire a censure se non si avvedano della carenza di un modello organizzativo idoneo ad evitare l’irrogazione di sanzioni penali sulla base del Decreto; essi infatti hanno l’obbligo di agire “in modo informato”, e può dedursi anche l’esistenza di un dovere di chiedere ai delegati spiegazioni circa l’omessa attivazione nel senso dell’adozione del modello. estranei all’organizzazione societaria, infatti, ha portato alla luce interessi che l’ordinamento giuridico disciplina all’esterno del fenomeno societario, attraverso tecniche normative sanzionanti l’organizzazione, che e-siste e si legittima all’esterno come soggetto, quando entra in contatto e danneggia tali sfere soggettive “altre”. Il paradigma normativo è allora quello della responsabilità, civile (4) od amministrativa, e dunque ricostruttivo di una relazione intersoggettiva fra danneggiante e danneggiato, ove la regola giuridica “preme” dall’esterno sul titolare dei poteri di controllo, affinché ponga in essere gli accorgimenti precauzionali necessari ad evitare il pregiudizio. In termini economici, potrebbe dirsi che il diritto interviene a porre le condizioni affinché un’esternalità negativa del processo produttivo venga internalizzata dal soggetto economico. Ma ben presto ci si accorge che la regola di responsabilità, da sola, non è sufficiente: ci sono infatti situazioni pregiudizievoli che la riallocazione delle conseguenze patrimoniali dannose in capo al danneggiante non può ristorare efficacemente, a causa della prevedibile incapienza di quello (5). Ciò provoca l’estensione degli scenari repressivi in capo ad altri soggetti terzi, che abbiano svolto una qualche funzione di mediazione fra le sfere soggettive dei danneggianti e dei danneggiati (6); e la rottura del paradigma classico, con la moltiplicazione delle istanze di ristoro, e l’allontanamento progressivo della soglia del danno conseguenza “immediata e diretta” (art. 1223 c.c.), rischia di compromettere la tenuta del sistema, provocando un’ondata redistributiva non mediata da scelte politiche consapevoli, e pertanto incapace di svolgere alcuna funzione incentivante coerente. Irrompe finalmente sulla scena del diritto societario, in una prospettiva complementare e non più soltanto ancillare, il diritto della crisi e dell’insolvenza dell’impresa, emancipatosi da una tradizione scientifica e letteraria che ne aveva esaltato la vocazione processualistica e liquidativa, e quindi la prospettiva ex post, piuttosto che quella ex ante. L’ipocrisia del c.d. teorema di Kaldor- Hicks impedisce di affrontare tali situazioni nella logica semplicistica della riallocazione dei diritti ex post, effettuata attraverso la regola di responsabilità. Non si tratta infatti soltanto di un problema di capienza patrimoniale: ci sono valori fra di loro non confrontabili (7), tali per cui uno appaia incomprimibile, e (4) Si pensi alla responsabilità per danno da prodotti difettosi. (5) Il problema tocca quello della struttura legale del capitale della s.p.a., e non può qui essere approfondito: cfr. per riferimenti ENRIQUES- MACEY, Raccolta di capitale di rischio e tutela dei creditori: una critica radicale alle regole europee sul capitale sociale, in Riv. soc., 2002, 94 ss.; DENOZZA, A che serve il capitale ? (Piccole glosse a L. Enriques- J.R. Macey, Creditors versus capital formation: the case against the european legal capital rules), in Giur. comm., 2002, I, 593 ss.; CLERICO, Attività economica e rischio di danno, in Riv. crit. dir. priv., 2000, 71 ss. (6) E si pensi ancora alla responsabilità della banca per “abusiva concessione del credito”: per tutti cfr. in argomento INZITARI, Le responsabilità della banca nell’esercizio del credito: abuso nella concessione e rottura del credito, in Banca borsa tit. cred., 2001, I, 265 ss.; e di recente, anche per riferimenti, BENEDETTO, Approfondimenti sul tema dell’erogazione “abusiva” del credito, in questa Rivista., 2004, II, 344 ss. (7) Ad es. la libertà: e cfr. sul punto SEN, La libertà individuale come impegno sociale, in AA.VV., La dimensione etica nelle società contemporanee, Torino, Utet, 1990, 21 ss.; IDEM, Liberty and social choice, in Journal of philosophy, 1983, 80 ss. dunque la compensazione successiva non abbia alcun senso; non tutto infatti può essere spiegato con l’economia, né tantomeno trasformato in un equivalente monetario, come talvolta nelle ricostruzioni law & economics più esasperate pare dimenticarsi (8). Il diritto si orienta allora progressivamente verso la prevenzione della conseguenza pregiudizievole, ed il contesto ove vengono assunte le decisioni economiche all’interno dell’impresa cessa di essere irrilevante per chi sta all’esterno (9). Il Decreto ipostatizza infine una “colpa organizzativa” di cui l’ente viene per ciò chiamato a rispondere. In tal modo l’innovazione normativa si ricollega ad una linea evolutiva dell’ordinamento, ove gli enti vengono progressivamente obbligati ad internalizzare le proprie inefficienze organizzative (10). Si pensi alle più recenti interpretazioni dell’art. 2598 n. 3, c.c., ove la “correttezza professionale” viene intesa ormai frequentemente in termini di “finalismo obiettivo”, nel senso che l’idoneità della struttura organizzativa a conseguire effetti concorrenziali non giustificabili in termini razionali, di conformità a standards di agire imprenditoriale, prova la commissione dell’illecito (ad es. storno di dipendenti, vendita sotto il costo marginale). 2. Modelli organizzativi e diritto dell’impresa. – L’adozione di procedure interne atte a prevenire illeciti si sposa anche con il nuovo modo di intendere l’impresa alla luce della riforma del diritto societario del 2003, in termini di previsione degli scenari futuri e di programmazione dei risultati (11), ciò che favorisce (e talvolta impone) l’organizzazione dell’impresa non solo attraverso l’adozione di piani, ma anche mediante l’adozione di routines e procedure (12), che migliorano l’efficienza, e favoriscono la verificabilità delle condotte gestorie. L’altra faccia della medaglia è costituita dalla possibilità che un eccesso di burocratizzazione produca fenomeni di stallo organizzativo, e paradossalmente di disincentivazione ad attivarsi, per evitare di incorrere nella violazione degli obblighi di trasparenza e di comportamento. In tal modo possono essere compromessi proprio i fini della legislazione, se l’eccessivo zelo imposto dal modello preventivo, o dal sistema sanzionatorio, induce anche comportamenti di “copertura” rispetto alle violazioni altrui che siano riscontrate (dovuti alla percezione dell’ingiustizia del sistema). (8) E cfr. sul punto, quasi lapidariamente, DENOZZA, Norme efficienti, Milano, Giuffrè, 2002, 117 ss., spec. 125. (9) Basti pensare alla recente Comunicazione della Commissione UE dal titolo Prévenir et combattre les malversations financières et pratiques irrégulières des sociétés, del 6 novembre 2004. (10) Per tali intendendosi tutte quelle strutture idonee ad arrecare danni a terzi: l’esempio dei negozi aventi “per oggetto o per effetto” la lesione degli interessi tutelati, mediato dall’antitrust, sembra significativo. (11) Ci si permette di rinviare a quanto già esposto in La trasformazione radicale dell’attività da parte dell’organo amministrativo: appunti in tema di pianificazione strategica d’impresa, in Riv. dir. comm., 2003, I, 657 ss. (12) Cfr., nella letteratura economica, NELSON- WINTER, An evolutionary theory of economic change, Cambridge University Press, 1982, passim; in relazione alle novità in tema di “procedure” e routines di cui alla riforma Vietti v. invece MONTALENTI, L’amministrazione sociale dal testo unico alla riforma del diritto societario, in questa Rivista, 2003, I, 422. Il termine “procedura” è adesso espressamente utilizzato ad es. dall’art. 2391bis c.c., introdotto dal d. lgs. n. 310/2004. Talvolta poi il diritto impone espressamente l’efficienza (in termini di capacità economica di raggiungere gli obiettivi) dell’organizzazione come un fine, ed allora gli assetti che possano comportare un eccessivo appesantimento burocratico possono entrare in conflitto con tale scopo; nel settore bancario, ad es., il t.u. banc. impone un trade off fra il principio della “sana e prudente gestione” (art. 5) e quello della prevenzione degli illeciti penali di cui al Decreto. Un aspetto fondamentale per la comprensione delle novità del Decreto pare risiedere nel fatto che i modelli preventivi ivi sanciti attengono in realtà all’organizzazione dell’impresa, e non già della società, anche se la normativa si interessa apparentemente soltanto di enti, e dunque tralascia gli imprenditori individuali. I parametri che condizionano la riconoscibilità del modello, e che quindi determinano la concessione dell’esimente nel caso in cui l’elusione fraudolenta dello stesso conduca alla commissione di un reato, attengono infatti alla struttura dell’impresa: la società deve infatti individuare le attività, ovviamente imprenditoriali, nel cui ambito possono essere commessi reati; individuare le “modalità di gestione delle attività finanziarie” (art. 6, comma 2°, Decreto), che non implicano necessariamente problemi di corporate governance; lo stesso modello deve prevedere misure idonee a prevenire, scoprire ed eliminare i pericoli di reato, “in relazione alla natura e alla dimensione dell’organizzazione, nonché al tipo di attività svolta” (art. 7, comma 3o)(13). Lo stesso processo decisionale considerato dal Decreto prescinde dalla normale sistematica organizzativa societaria, focalizzandosi su livelli “apicali” (art. 5, lett. a) che possono evadere dalla sfera consueta degli amministratori e dei direttori generali ex art. 2396 c.c. Quanto poi alle persone che non rivestono funzioni apicali, la loro esistenza è comune altresì alla struttura delle imprese individuali; tale conclusione risulterebbe avvalorata da quelle letture per cui le persone sottoposte alla vigilanza degli apicali (art. 5, lett. b), rispetto alle quali la commissione di un reato sarebbe rilevante, potrebbero essere altresì soggetti, esterni all’organizzazione della società, titolari di un rapporto contrattuale con la stessa (14). (13) Si presuppone qui che i caratteri del modello sanciti dall’art. 7, relativamente alla prevenzione dei reati commessi dai soggetti “subordinati”, siano in realtà omogenei a quelli relativi agli “apicali”; in tal senso del resto è l’orientamento sinora espresso dalla giurisprudenza, che pare da condividere: v. Gip Trib. Roma, 14 aprile 2003, in Guida al dir., n. 31/2003, 66. (14) Tali soggetti infatti sarebbero estranei alla struttura dell’impresa, ma non il contratto che li lega alla società, che invece costituisce uno strumento di organizzazione della stessa (arg. ex art. 2558 c.c.). Quanto agli agenti cfr. FRIGNANI- GROSSO- ROSSI, I modelli di organizzazione previsti dal d.lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti, in Società, 2002, 153. L’estensione dell’efficacia del modello anche agli autonomi, fondata sulla apparente latitudine della norma (che fa riferimento a “persone”, “direzione”, “vigilanza”) potrebbe in astratto sposarsi con una prospettiva di prevenzione avanzata, anche se sanzionerebbe una discutibile volontà dell’ordinamento di “premere” sull’organizzazione dell’impresa secondo modalità persino più aggressive di quelle di cui all’art. 2049 c.c. In realtà però l’accusa dovrebbe qui dimostrare l’omissione della vigilanza, causalmente efficiente, ex art. 7 Decreto, e l’interesse esclusivo del terzo escluderebbe la responsabilità (art. 5, comma 2°). In alcuni modelli concretamente realizzati si fa riferimento in effetti a soggetti quali agenti, franchisees, quindi connotati da vincoli di c.d. parasubordinazione, ma anche partners in joint ventures e simili; in un modello (quello di Ansaldo s.p.a.) addirittura ci si riferisce a tutti i soggetti che agiscono “nell’interesse” della società. Tali estensioni, che non sono certo vietate, ed anzi sono esplicitamente raccomandate ad es. dalle Guidelines for multinational enterprises OCSE (versione 2000, consultabili in In breve, è l’assunzione di decisioni al livello delle scelte d’impresa ad interessare il campo d’applicazione del Decreto. Il Decreto insomma tenta di porre incentivi all’adozione di comportamenti virtuosi, atti a prevenire la commissione di certi reati, attraverso la prospettiva della concessione addirittura di un’esimente (15), se il modello organizzativo sia riconosciuto idoneo ex post dal Giudice (16). L’idoneità preventiva deve spingersi sino alla capacità di prevenire rischi di reato “prevedibili” (17), alla luce delle conoscenze disponibili, non potendosi l’ordinamento accontentare della mera esistenza di una frode (18) al fine di ritenere adempiuto l’onere (19) di predisposizione di un efficace modello, al contrario di quanto sostenuto nelle guidelines di un’importante associazione di categoria (20). Al di là di tale considerazione, appare arduo stabilire i confini esatti dell’ambito di esigibilità del livello di prevenzione (21): se la prevedibilità andasse intesa con riferimento a tutte le conoscenze anche astrattamente disponibili, a prescindere dal loro costo, ne risulterebbe incentivata altresì l’innovazione tecnologica, al fine di reperire tecniche preventive più efficienti; viceversa, un eccesso di responsabilizzazione potrebbe conseguire effetti di overdeterrence. www.oecd.org), presuppongono l’inserimento di clausole risolutive espresse e di penali nei contratti con gli ausiliari. Ciò forse aiuterebbe a dimostrare che in realtà si tratta di estensioni che fuoriescono dal campo applicativo del Decreto, anche perché in relazione a terzi non sarebbe possibile addivenire in via negoziale ad un vero e proprio meccanismo “disciplinare” (cfr. in argomento Le pene private, a cura di BUSNELLI e SCALFI, Milano, Giuffrè, 1985; MOSCATI, Pena (dir. priv.), in Enc. del dir., XXXII, Milano, Giuffrè, 1982, 770; GALGANO, Alla ricerca delle sanzioni civili indirette, in Contr. impr., 1987, 531; IRTI, La nullità come sanzione privata, ivi, 541; PONZANELLI, Pena privata, in Enc. Giur. Treccani, XXII, Roma, 1990; utili riferimenti teorici anche in MONTUSCHI, Potere disciplinare e rapporto di lavoro, Milano, Giuffrè, 1973, passim), e la qualificazione in termini “punitivi” degli istituti della clausola risolutiva espressa e della stessa clausola penale è abbastanza negletta in dottrina. Resterebbe da domandarsi se l’adozione di un modello così strutturato potrebbe poi condurre ad un’affermazione di responsabilità della società, e/o dei membri dell’organismo di vigilanza, in caso di omessa vigilanza sull’operato del terzo, fondata sull’assunzione espressa dell’obbligo di garanzia. (15) I compliance programs statunitensi invece giungono al massimo alla concessione di una attenuante, e comunque escludono l’ipotesi in cui ci sia coinvolgimento dei livelli “apicali”: e cfr. in senso giustamente critico FRIGNANIGROSSO- ROSSI, I modelli di organizzazione previsti dal d.lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti, (nt. 14), 144. (16) L’efficacia dell’incentivo a predisporre ex ante un modello preventivo risulta tuttavia indebolita dall’ampiezza delle soluzioni operative fondate sull’implementazione del modello ex post, che consentono di accedere a trattamenti premiali per nulla insignificanti; per questo si ha l’impressione che l’incentivo risieda soprattutto nella prospettiva della responsabilità dell’amministratore per omessa adozione del modello. Opportuna, a tal riguardo, sembra la presa di posizione della giurisprudenza penale, che ha avuto sinora cura di affermare, almeno nelle dichiarazioni di principio, che l’idoneità del modello assemblato ex post deve essere valutata comunque con maggior rigore rispetto a quella ex ante: cfr. Gip Trib. Roma, 14 aprile 2003, cit.; ciò sembra vero non soltanto perché nella situazione implicata un reato si è già verificato, ma piuttosto nell’ottica preventiva ed incentivante di cui sopra. (17) Così NOCERINO, La responsabilità amministrativa dei soggetti in posizione di vertice e dei dirigenti: requisiti di autonomia/subordinazione, comportamento delittuoso posto in essere a vantaggio dell’ente. Rapporti con la responsabilità penale, relazione tenuta a Milano il 26 giugno 2001 al Convegno Paradigma. (18) Peraltro il requisito della frode entrerebbe in urto con eventuali aggiornamenti del catalogo di reati rilevanti ai fini del Decreto, tali da includervi illeciti a struttura colposa: devo quest’osservazione ad Alessandro MELCHIONDA, che l’ha formulata intervenendo nel già ricordato convegno di Trento dell’11 febbraio 2005. (19) Tale onere era divenuto un vero e proprio obbligo, a seguito dell’art. 1, comma 82°, della l. 30 dicembre 2004, n. 311 (c.d. Finanziaria per il 2005); la disposizione denunciava vistose carenze di formulazione, che ne rendevano assai ardua l’applicazione; il comma 82 tuttavia è stato soppresso dall’art. 4 del d.l. 14 marzo 2005, n. 35 (c.d. decreto sulla “competitività”). (20) Si fa riferimento alla Linee Guida emanate ex art. 6, comma 3°, da Confindustria. (21) Fa riferimento ad una “ragionevole sicurezza” il Position paper dell’Associazione Italiana Internal Auditors, dell’ottobre 2001, reperibile in www.aiaa.it. Di certo alto è il rischio che le società assemblino modelli organizzativi in realtà inidonei, al solo fine di beneficiare dell’effetto in termini di immagine legato alla spontanea ottemperanza ad un precetto legale; così facendo, infatti, esse aumenterebbero il proprio capitale “reputazionale”, senza tuttavia apportare alcun beneficio in termini generali. L’esame di taluni modelli concretamente predisposti, ed immediatamente pubblicati sui siti web aziendali, sembrerebbe confermare l’impressione che molte attuazioni “tempestive” abbiano in realtà soltanto una funzione “di facciata”. Il problema, che discende e dall’assenza di un meccanismo attendibile di “certificazione” (di per sé non proprio auspicabile)(22), e soprattutto dalla carenza di meccanismi giuridici, antecedenti alla stigmatizzazione penale, che consentano di sanzionare l’attuazione “fittizia” del Decreto, è comune del resto alle riflessioni giuridiche sulla c.d. corporate social responsibility. 3. L’organismo di vigilanza nel sistema del diritto societario. – La riconoscibilità del modello è condizionata dalla dotazione di un Organismo di Vigilanza (di seguito OdV) efficiente, in grado di monitorare il funzionamento del modello, ed il bisogno di aggiornamento. L’istituzione di tale funzione è indispensabile (23), perché il modello non può costituire, se davvero in grado di svolgere il suo ruolo preventivo, una struttura astratta, che prescinda dal perenne mutare dell’organizzazione aziendale, soprattutto nel modo con cui relazionarsi con l’ambiente esterno (24). Si tratta tuttavia di una funzione, relativa all’organizzazione dell’impresa, e non già di una struttura societaria; dunque non sarà in ogni caso necessario dare vita ad un organo nuovo ed autonomo, ma è ben possibile che uno degli organi già noti all’organigramma corporativo societario sia onerato di svolgere tale attività, in (22) Si pensi alle possibili implicazioni negative, in tema di eccessiva standardizzazione (al fine di superare più facilemente il vaglio), e di difficoltà nel rendere attendibile ed indipendente l’operato del “certificatore”. Discutibile del resto era il ruolo dell’Isfol nell’abrogato comma 82 dell’art. 1 della legge finanziaria per il 2005. (23) E’ corrente l’idea che tale organismo sia irresponsabile per la commissione dei reati, dato che non potrebbero essere ritenuto correo; al riguardo, è il caso di evidenziare la differenza fra il coinvolgimento nella responsabilità penale e l’imputazione di una responsabilità civile, nei confronti della società, per titolo contrattuale, relativa al danno conseguente non già alla commissione del reato, ma all’irrogazione della sanzione amministrativa alla società (anche tale profilo è emerso durante una conversazione privata con Alessandro MELCHIONDA). Si pone al riguardo il problema della copertura assicurativa dei membri dell’OdV, che si sovrappone a quello più generale dell’assicurabilità delle condotte rilevanti per la corporate governance, e potrebbe condurre ad un nuovo ruolo, di monitor “delegato”, per l’assicuratore: cfr. TOMBARI, L'assicurazione della responsabilità civile degli amministratori di s.p.a., in Banca Borsa tit. cred., 1999, I, 180 ss. Nei confronti dei terzi eventualmente l’OdV potrebbe invece rispondere forse ex art. 2395 c.c., qualora la funzione di vigilanza fosse affidata ad amministratori o direttori generali (arg. ex art. 2396 c.c.); in tal ultimo caso, l’applicazione del CCNL dei dirigenti comporterebbe, com’è noto, l’assunzione dell’obbligazione da parte della società, e solo in caso di insolvenza di quest’ultima si porrebbe il problema della responsabilità in concreto del dirigente. (24) L’esigenza di continuare ad adattare il modello al mutamento delle situazioni è esplicitamente contemplata solo all’art. 7 Decreto, ma in realtà si può dedurre implicitamente da tutto il sistema normativo; diversamente verrebbe meno l’efficienza preventiva. L’esigenza di adattamento si misura anche sul piano statico, in fase di adozione del modello, quando occorrerà assemblare lo stesso, anche se mediato da un modello astratto fornito da un’associazione di categoria, in modo da conformarlo alla natura ed alle caratteristiche della specifica organizzazione imprenditoriale. aggiunta alle altre che lo connotano, a condizione che questa sovrapposizione di compiti non ne snaturi la funzione tipica (25). Escludendo ovviamente che si possa esternalizzare del tutto in outsourcing il servizio (26), oppure attribuirlo semplicemente all’organo gestorio (ed a parte il caso delle PMI [27], regolate dall’art. 6, comma 4°), radicalmente e strutturalmente incompatibile con tale funzione, perplessità possono essere sollevate in relazione a tutte le altre figure organiche familiari (28). Persino il collegio sindacale infatti può divenire in taluni casi correo (art. 25ter Decreto), e non è un organo sufficientemente “continuo”, espletando le sue funzioni di controllo in modo “intermittente”. Il consiglio di sorveglianza, nel modello dualistico, condivide i profili di potenziale correità; risulta adesso inquinato dalla discutibile assegnazione di compiti operativi (29); è caratterizzato da carenze di stabilità nella carica dei suoi membri (30), e da vistose e poco perspicue deficienze nella predisposizione dei requisiti di indipendenza (31). Anche il comitato per il controllo sulla gestione, di cui al modello monistico (od al Codice “Preda”), appare abbastanza poco funzionale allo scopo: si tratta di un articolazione dell’organo amministrativo, e poi i suoi membri non godono di effettivi requisiti di stabilità e di indipendenza; oltre a ciò, l’inspiegabile inesistenza di un dovere di vigilare sulla correttezza dei comportamenti gestionali solleva perplessità circa la sufficiente professionalità dei suoi membri. D’altro canto tali problematiche non potrebbero neppure essere accantonate, semplicisticamente, attraverso l’osservazione per cui nelle PMI il compito di vigilare può essere assegnato allo stesso ”organo dirigente” (32); nelle strutture più semplici (25) E’ ben noto del resto che l’emissione di titoli da negoziare su certi mercati internazionali richiede talvolta adattamenti statutari, necessari a dotare gli organi classici di funzioni nuove e diverse da quelle tradizionali, al fine di rendere l’emissione accettabile o più digeribile per tali mercati. (26) Ad es. attribuendolo ad una società di revisione. (27) Inutile aggiungere che il concetto di “ente di piccole dimensioni” risulta assai fumoso, e la disciplina assai poco incentivante, salvo che nei gruppi, posto che l’esercizio della facoltà di concentrare nell’organo gestorio le funzioni dell’OdV ha ben scarse possibilità di passare il vaglio ex post del Giudice Penale, e dunque potrebbe risultare assai meno costoso “correre il rischio”; in un ordinamento poi che già sconosce i confini della nozione di piccolo imprenditore ex art. 2083 c.c. (soggetto qualificato come piccolo, senza chiarire quale sia l’ordine di grandezze di riferimento), ricorrere ad un’ulteriore nozione generica è di assai scarsa utilità; escluso che si possa individuare semplicemente gli enti di cui all’art. 6, comma 4°, con le s.r.l. e le società di persone, resta assai poco sicuro anche il ricorso ai criteri comunitari, ad es. di cui alla Raccomandazione UE n. 2003/361. (28) Cfr., per un’analisi comparata, FARINA, I reati societari e la responsabilità penale delle persone giuridiche, in Banca borsa tit. cred., 2004, I, 163 ss. (29) Si pensi all’approvazione dei piani e delle operazioni “strategiche”: art. 2409terdecies, comma 1°, lett. f-bis, dopo il d. lgs. n. 310/2004. (30) A causa della mancanza, comune al modello della SE, di un meccanismo di resistenza alla revoca, sottoposto a vaglio giudiziale preventivo (arg. ex art. 2400 c.c.). (31) Inspiegabilmente diversi, ed attenuati, rispetto a quelli dei sindaci: cfr. art. 2409duodecies, comma 10o. (32) Così invece BARTOLOMUCCI, Corporate governance e responsabilità delle persone giuridiche, Milano, Ipsoa, 2004, 253 ss., nel cui volume serpeggia anche un certo ottimismo sulla funzionalità dei nuovi modelli organizzativi istituiti dalla riforma “Vietti”; ma si v. al riguardo le perplessità che traspaiono nel decreto CICR del 5 agosto 2004, il quale contiene la prescrizione, rivolta alle banche che adottino il sistema dualistico, di “adottare idonee cautele, statutarie, regolamentari e organizzative, volte a prevenire i possibili effetti pregiudizievoli per la correttezza e la regolarità della gestione derivanti dalla presenza nello stesso organo delle funzioni gestorie e di controllo”, nonché di attribuire ulteriori funzioni agli organi di controllo, e di assicurare un’idonea composizione dei medesimi organi, “per numero e professionalità”. ciò avviene solo per via di una diversa valutazione legislativa dei costi e dei benefici; e del resto, seguendo tale suggestione, bisognerebbe arrivare persino ad affermare l’idoneità astratta dell’organo amministrativo pur nelle strutture complesse. In talune soluzioni operative già adottate, e variamente “sponsorizzate” dalle associazioni di categoria (AIIA, ABI), si è deciso invece di ricorrere ai responsabili di già collaudate funzioni aziendali: ad es. la funzione legale, oppure quella di internal auditing; in realtà, al di là della necessità di relativizzare il discorso rispetto alla singola situazione aziendale, pare che i titolari di queste funzioni possano manifestare carenze di professionalità: l’attività della funzione legale è ancorata spesso a parametri formali, ed opera in una logica “difensiva” scarsamente compatibile con le finalità dell OdV; quanto all’internal auditing, poi, potrebbe dubitarsi della sovrapponibilità fra controllo interno, pur sempre orientato da fini di economicità, e vigilanza sulla prevenzione dei reati; ciò sarebbe da affermare sicuramente in quei contesti ove tale ultima funzione è esternalizzata (33), posto che l’OdV deve essere una struttura “interna” all’impresa. Anche nel caso in cui si dia vita ad una struttura autonoma, monocratica o collegiale (34), soluzione che per certi versi sembrerebbe la più idonea ed efficace, posto che quasi tutti gli organi già esistenti presentano in misura diversa profili disarmonici rispetto alle funzioni dell’OdV (35), non sembra pertanto che si debba parlare di potenziale collisione con il principio di tipicità delle organizzazioni collettive capitalistiche (36), posto che l’istituzione dell’organismo costituisce una scelta conformativa dell’impresa, e non già della società. Non sarebbe possibile delineare in modo astratto una soluzione unitaria ed universale che descriva un modello sicuramente “riconoscibile”: proprio l’esigenza di valutare l’idoneità preventiva del modello “in concreto” osta alle generalizzazioni; ciò che è idoneo in una struttura, ove sussistono certi rischi, può non esserlo in un’altra, oppure può risultare ridondante. Ciò che è possibile fare però è delineare i profili organizzativi più “sensibili” del modello, e stigmatizzare quelle soluzioni operative, e quelle lacune, che maggiormente rischiano di creare problemi nella fase di validazione ex post. La legge non adotta una scelta specifica nemmeno quanto alla competenza a deliberare l’istituzione dell’OdV (come dello stesso modello organizzativo). (33) Si pensi al modello in uso presso le BCC, che prevede una responsabilità interna, ma comunque la esternalizzazione del servizio, volta ovviamente a realizzare economie di scala, oppure a quello predisposto per le SGR, le SICAV e le SIM. (34) Nelle organizzazioni complesse, anche se di medie dimensioni, la composizione collegiale è sicuramente preferibile a quella monocratica (c.d. compliance officer), in quanto meglio idonea ad assicurare l’indipendenza: conf. Gip Trib. Roma, 14 aprile 2003, cit. (35) L’altra faccia della medaglia ovviamente è costituita dal maggior costo di tale soluzione, anche in termini transattivi, di predisposizione negoziale di regole di funzionamento interno. Per le strutture aziendali più semplici, quindi, e/o meno esposte ai rischi di reato, la scelta di utilizzare un organo già noto non dovrebbe essere guardata con eccessivi sospetti; in tal senso del resto si muovono quasi tutte le Guidelines di categoria note (Confindustria, ABI), e parecchi dei modelli già adottati. (36) V. però RORDORF, I criteri di attribuzione della responsabilità. I modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire i reati, in Società, 2001, 1303. In letteratura il problema dell’esercizio della autonomia statutaria in tema di costituzione di nuovi organi è poco esplorato: cfr. però COSTA, Il rappresentante comune degli azionisti di risparmio, Milano, Giuffrè, 1984, 76. Al riguardo sembra da escludere che occorra una modifica statutaria (37), anche se l’inserimento formale nell’atto costitutivo non parrebbe a priori vietato, ma in quest’ultimo caso la modifica del modello non richiederebbe più una delibera dell’assemblea straordinaria, attenendo al contenuto formale e non già sostanziale dell’atto (38). Diversamente, l’effetto di “ingessamento” del modello che ne risulterebbe, ostativo rispetto all’esigenza del suo aggiornamento continuo, potrebbe entrare in conflitto con i fini stessi del Decreto. Non sembra vietato del resto che lo statuto preveda la competenza di fonti substatutarie, sul modello dei regolamenti assembleari nelle cooperative (art. 2521, ult. cpv.); in talune cooperative consortili che partecipano ai bandi per appalti pubblici ad es. tale soluzione operativa potrebbe risultare particolarmente utile. In caso di omessa previsione statutaria si imporrebbe la competenza del c.d.a., che del resto è inevitabilmente l’organismo “responsabile” per le scelte inerenti all’istituzione ed al funzionamento del modello. Una successiva ratifica assembleare non parrebbe poi dover entrare in conflitto con l’art. 2380bis c.c., sicuramente nel caso in cui l’atto costitutivo richiedesse espressamente l’autorizzazione del consesso dei soci ex art. 2364, n. 5. Sarebbe del resto assurdo immaginare che la legge vietasse ai soci di partecipare ad una decisione che attiene sì all’impresa, ma sotto lo specifico punto di vista della conformazione dell’attività (anche) degli amministratori a determinati standards di comportamento. Dubbi possono sorgere invece quanto alla eventuale delegabilità della competenza all’interno del c.d.a. (39), soprattutto in fase di modifica. E’ evidente che l’art. 2381 c.c. non riporta alcuna esclusione espressa; ciononostante l’esigenza di rendere il modello riconoscibile consiglierebbe di escludere la delega, quantomeno in relazione al momento, assai delicato, dell’aggiornamento e della modifica del modello. Non a caso, in uno dei pochi precedenti giudiziari editi, il Giudice ha addirittura ritenuto opportuno, accogliendo un rilievo della Procura, elevare il quorum statutario ex art. 2388 c.c. per l’adozione della delibera consiliare (40). Profilo ancora nevralgico è quello dell’adozione di un regolamento interno dell’OdV: l’esigenza che l’organismo sia indipendente consiglierebbe di rimettere tale competenza allo stesso; tuttavia occorre soppesare anche la necessità di ottenere il riconoscimento del modello, ove una regolamentazione insufficiente od idonea a generare inefficienza in fase di vigilanza potrebbe creare ostacoli (41); pertanto, sembrerebbe consigliabile provvedere alla predisposizione, da parte della stessa fonte (37) In particolare non sembra che la competenza statutaria derivi dal fatto che si tratterebbe di parte delle “norme relative al funzionamento della società” ex art. 2328, ult. cpv., c.c., proprio perché, come si è già detto, il modello e l’OdV attengono all’organizzazione dell’impresa, e non già della società; il dubbio però è intercettato da RORDORF, I criteri di attribuzione della responsabilità. I modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire i reati, (nt. 36), 1301. (38) Cfr. per questa distinzione TANTINI, Le modificazioni dell’atto costitutivo nella società per azioni, Padova, Cedam, 1973, 23; MARASÀ, Modifiche del contratto sociale e modifiche dell’atto costitutivo, in Tratt. soc. per az. diretto da Colombo e Portale, 6*, Torino, Utet, 1993, 9. (39) Taluni modelli sanciscono espressamente la possibilità di delega (ad es. quello di SDA Express Courier s.p.a., quanto alla modifica). (40) V. ancora Gip Trib. Roma, 14 aprile 2003. (41) Vedi ancora Gip. Trib. Roma, 14 aprile 2003, che indugia sull’opportunità che siano previsti espressamente controlli a sorpresa. che istituisce il modello, di alcune norme essenziali, destinate ad essere recepite dall’OdV in sede di azione del proprio regolamento. L’esigenza di imparzialità poi si tradurrà nella concessione all’OdV di adeguata autonomia finanziaria e di spesa (42); nella legittimazione espressa ad avvalersi di ogni funzione aziendale (legale, controllo di qualità, internal auditing, gestione del personale) senza dover richiedere autorizzazioni preventiva ai normali centri decisionali societari ed aziendali; nella possibilità di interpellare parimenti tutti i soggetti coinvolti nei processi aziendali, anche se esterni all’organizzazione dell’impresa (consulenti, società di revisione, etc.); in particolare andrà riposta particolare attenzione nei poteri istruttori ed ispettivi, risultando difficilmente tollerabile che vi siano aree di “segretezza” opponibili all’OdV, pur magari potendosi provvedere ad una adeguata tutela della riservatezza in sede di conservazione delle tracce documentali dell’operato dell’OdV (con possibilità eventualmente di redigere verbali dell’organo “riservati”). Sembra poi che i membri dell’OdV, meglio se individualmente, debbano necessariamente essere abilitati a partecipare alle riunioni di qualsiasi organo aziendale, anche non corporativo. In fase di reporting infine l’OdV dovrà relazionarsi direttamente con i massimi vertici aziendali, senza gradi intermedi, meglio se con l’organo amministrativo in composizione collegiale (od all’audit committee, ove istituito). In alcuni modelli peraltro è sancito che l’OdV “riporti” al Presidente del c.d.a., oppure all’Amministratore Delegato; raramente è menzionato il collegio sindacale (43), ed ancor più rarefatto è il ricorso all’assemblea. Quanto a quest’ultima, potrebbero nascere sospetti di strumentalizzabilità delle comunicazioni dell’OdV da parte delle minoranze, anche se non se ne può escludere del tutto l’utilità, almeno nei casi clamorosi in cui l’intero organo amministrativo risulti compromesso (44). Sembra pertanto utile che il modello lasci l’OdV libero di valutare a chi riportare, quantomeno per le comunicazioni eccezionali, in relazione alla gravità dei fatti acclarati; quanto invece ai flussi periodici (da ritenersi indispensabili, e con una cadenza congrua, ad es. trimestrale), l’inoltro ai soli membri delegati sembra sconsigliabile. Rispetto invece al Presidente del c.d.a., il nuovo ruolo assunto da quest’ultimo con l’emanazione del testo novellato dell’art. 2381 c.c., di coordinatore dell’attività (42) Le esperienze giurisprudenziali e poi legislative in tema di “delega” delle funzioni in tema di reati a tutela del lavoro e dell’ambiente potranno al riguardo fornire utili linee di indirizzo; come il delegato, infatti, l’OdV deve godere di autonomia operativa; deve ad es. essere libero, nei limiti del ragionevole, di impegnare le risorse finanziarie della società ad es. incaricando consulenti esterni, al fine di verificare situazioni specifiche, per cui l’organo difetti al suo interno delle competenze necessarie, oppure di valutare l’opportunità di proporre modifiche del modello. (43) Che pure dispone di poteri di azione teoricamente efficienti (artt. 2408 s. c.c.); in caso di accertato “inquinamento” anche di tale organo, ciò che renderebbe altresì inutile il ricorso all’assemblea, sembra che il modello debba prevedere esplicitamente la comunicazione all’eventuale Autorità di controllo, od all’Autorità Giudiziaria. Il modello è del resto già seguito dall’ordinamento settoriale bancario e finanziario, e risulta incentivato altresì nelle Guidelines for multinational enterprises (versione 2000), e nei Principles of corporate governance OCSE (2004), tutti consultabili in www.oecd.org. (44) L’esperienza applicativa dell’art. 2409 c.c. tuttavia evidenzia una scarsa utilità del ricorso alla convocazione dell’assemblea. del consesso, e che pur non ha precluso la delegabilità anche ad esso delle funzioni gestorie, rende la soluzione non inaccettabile, almeno in astratto; ciononostante, fintantoché la prassi non avrà recepito la novità, e continuerà a considerare il Presidente né e più e né meno di un super- amministratore delegato, sembra sconsigliabile procedere in tal senso. Ciò che conferma l’esigenza che ogni valutazione, quanto ai modelli del Decreto, sia formulata sempre in concreto, senza concettualizzazioni astratte. Inutile aggiungere che il nocciolo essenziale, rispetto all’organizzazione dell’OdV, ed alla sua funzione nella struttura di governance dell’impresa, sarà costituito dalla predisposizione della struttura in modo da assicurare l’indipendenza. Al riguardo, non paiono del tutto tranquillizzanti quelle affermazioni di principio per cui sarebbe sufficiente perseguire l’indipendenza dell’organo nel suo complesso, e non già al livello dei singoli componenti. Sembra anzi che l’esempio sistematico dei vari organi di controllo interno (collegio sindacale, consiglio di sorveglianza, comitato per il controllo sulla gestione; senza dimenticare l’audit committee di cui al Codice “Preda”), ove l’indipendenza è perseguita come un valore individuale, deponga in senso decisamente inverso. Ed in ultima analisi occorre ricordare che l’idoneità del modello sarà sempre validata ex post, da un Giudice, quello penale, specializzato nella repressione dei reati, ed incline ad una visione decisamente “specialpreventiva” (quando non generalpreventiva) degli stessi. Il modello sistematico dell’art. 2399 c.c. (e non dell’art. 2409duodecies) sembra quello più soddisfacente. Importante sarà poi salvaguardare la stabilità nell’incarico, rendendolo revocabile solo ad opera del c.d.a. in composizione collegiale, con delibera motivata e per giusta causa (45); non sembra indispensabile, ma neanche inopportuno, che sulla revoca sia chiamata ad esprimersi (ed a fornire un’”autorizzazione” ex art. 2364, n. 5) l’assemblea. E’ da escludere invece che si possa estendere l’istituto dell’approvazione giurisdizionale ex art. 2400 c.c., posto che tale norme regola un potere d’azione giudiziale non disponibile da parte dei privati, i quali non possono devolvere al Giudice competenze extralegali in sede negoziale. L’esigenza di tutelare l’indipendenza dell’organo sconsiglia poi di predisporre modalità retributive in misura variabile, soprattutto se connaturate ai risultati dell’attività di impresa (c.d. stock options). Infine, particolare cautela occorrerà quanto alla durata dell’incarico, perché se un limite temporale (anche in assenza di vincoli alla rieleggibilità) può favorire l’indipendenza, per contro una durata troppo breve entrerebbe facilmente in urto con la non meno importante esigenza di professionalità, e potrebbe paradossalmente diminuire il prestigio dei membri, i quali nell’ultima fase temporale si sentirebbero meno incentivati ad effettuare investimenti personali, e sarebbero di fatto delegittimati verso la struttura aziendale. (45) In tal senso si colloca ad es. il modello predisposto da ENI s.p.a. Indipendenza e professionalità, infine, si coniugano con la specializzazione nell’incarico, ciò che rende quantomai auspicabile che l’OdV non sia adibito ad altre funzioni, soprattutto se di carattere operativo; in relazione ai suoi singoli membri, tuttavia, sembra difficile poter perseguire tale valore in modo rigido: soltanto organizzazioni aziendali molto grandi e complesse infatti potrebbero permettersi il “lusso” di un organo collegiale composto da membri impiegati a tal esclusivo fine a tempo pieno (46). 4. Modelli organizzativi e gruppi di società. – Il tema dei gruppi, in relazione alle implicazioni poste dal Decreto, è ancora straordinariamente negletto. Stride con tale carenza di approfondimento la diffusione dell’organizzazione di gruppo, indice di una complessità dimensionale che maggiormente intercetta proprio i profili rilevanti per le finalità preventive del Decreto (47). I modelli organizzativi già predisposti manifestano al riguardo un deciso pragmatismo, e dettano disposizioni spesso scarsamente ponderate rispetto all’ordinamento societario nel suo complesso. Il primo interrogativo da porsi, al riguardo, concerne l’eventuale obbligatorietà della predisposizione del modello da parte della capogruppo, a vantaggio delle controllate. Il problema trascende in quello, assai stimolante tanto sotto il profilo dogmatico quanto sotto quello pratico, della responsabilità della capogruppo per abuso “omissivo” dell’attività di direzione e coordinamento. A tal proposito la dottrina e la giurisprudenza anteriori alla riforma del 2003 erano approdate, sia pur non senza far registrare dissensi, ad una concezione dell’abuso della direzione e coordinamento come fattispecie di responsabilità contrattuale, siccome violazione di un obbligo discendente da un fatto reputato idoneo dalla legge a produrre l’obbligazione conseguente (art. 1173 c.c.)(48), oppure, nelle teorizzazioni più raffinate, su di un “contatto sociale” (rectius rapporto contrattuale di fatto) fra capogruppo e controllate (49). In tale ottica, anche l’omissione da parte della capogruppo circa l’esercizio delle proprie prerogative di direttrice- coordinatrice configura responsabilità, appunto contrattuale (art. 1218 c.c.), e fonda l’obbligo risarcitorio (50). (46) Diversi modelli infatti hanno strutturato l’OdV come un organo nuovo, ma composto dai titolari di alcune funzioni aziendali tipiche (legale, risorse umane, internal auditing, controllo di qualità etc.). (47) Si noti come talune norme della Riforma del 2003, come ad es. l’obbligo di motivare le decisioni intragruppo (art. 2497ter), oppure le “procedure” da adottare in relazione alle c.d. parti correlate (art. 2391bis c.c.) convergano naturalmente con le finalità del Decreto, costituendo frammenti naturali di modelli organizzativi preventivi delle situazioni presupposte. (48) Cfr. ROVELLI, La responsabilità della capogruppo, in Fallimento, 2000, 1100 ss.; conf. Trib. Milano, 22 gennaio 2001, in Fallimento, 2001, 1143; dopo la riforma si sono fatti fautori di questa tesi, pur contrastata dalla Relazione di accompagnamento, fra gli altri, PAVONE LA ROSA, Nuovi profili della responsabilità dei gruppi di società, in Riv. soc., 2003, 770; SACCHI, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di capitali, in questa Rivista, 2003, I, 670. (49) V. MIOLA, Il diritto italiano dei gruppi de iure condendo: i gruppi e i creditori, in questa Rivista, 1996, I, 418 ss. (50) Cfr. in tal senso l’ottima Trib. Milano, 22 gennaio 2001, cit., che si colloca come la pronunzia meglio argomentata e più citata dell’ordinamento previgente, in materia di gruppi ed abuso della controllante. D’altro canto però pare seriamente dubitabile che di per sé l’adozione di una struttura di gruppo renda la capogruppo obbligata alla predisposizione di un modello organizzativo a beneficio di ogni società dell’agglomerato. Da un lato infatti la nozione di gruppo accolta infine dalla Riforma del 2003 evade dai confini del mero controllo societario, per richiedere un quid pluris, quella direzione e coordinamento che costituisce un tipico fenomeno di fatto, esaurentesi sul piano dell’attività, e non dell’atto (51). Com’è noto, infatti, la dottrina e la giurisprudenza dominanti, anche prima del 2003, ritenevano insufficiente la mera sussistenza di un rapporto di controllo per qualificare il gruppo, e coessenziale invece la presenza di “direzione unitaria” (52), intesa come capacità effettiva della capogruppo (o di una società del gruppo appositamente investita del ruolo di direzione) di influire e determinare le scelte strategiche della controllata (53). Deve pertanto escludersi che la mera presenza di un rapporto di controllo imponga alla controllante di esercitare il coordinamento, e del resto dagli artt. 2497bis, quater e septies si evince chiaramente che ad esercitare tale potere può anche non essere la “capogruppo”, nel senso “classico”, consono alle strutture piramidali, del termine, intesa come soggetto che sta in testa all’agglomerato, e ne controlla le componenti, ma un’altra struttura dell’agglomerato. Quando tuttavia il coordinamento sia posto in essere, può darsi che sorga l’obbligo di proseguirlo. Anche nella gestione d’affari codicistica (54) del resto (tipica figura di quasicontratto, che fonda anch’essa una responsabilità contrattuale), la prima obbligazione che nasce in capo al gestore per il fatto di essersi ingerito in un affare altrui è di continuare a gestirlo (art. 2028 c.c.). Pertanto la capogruppo, che inizi ad esercitare un’attività di direzione e coordinamento, e poi si arresti, soprattutto senza alcun preavviso, commette un illecito contrattuale, e può essere sanzionata ex art. 1218 c.c. Da un certo punto di vista si potrebbe sostenere che la controllata, in quanto soggetto di diritto distinto, deve essere in grado di perseguire il proprio oggetto sociale autonomamente; e l’avvalimento dell’assistenza della capogruppo (con trasferimenti di risorse a prezzi spesso non di mercato, c.d. transfer prices) non giova all’efficienza economica della stessa, così come insegnano gli aziendalisti. (51) Il rinvio ovviamente è alle riflessioni, ormai “classiche”, di FERRO LUZZI, I contratti associativi, Milano, Giuffrè, 1971, spec. 196 ss.); più di recente v. RONDINONE, L’”Attività” nel codice civile, Milano, Giuffrè, 2001, 7 ss.; RIVOLTA, Gli atti d’impresa, in Riv. dir. civ., 1995, I, 107 ss.; ALCARO, La categoria dell’attività: profili ricostruttivi (atti e attività. L’attività d’impresa), in Riv. crit. dir. priv., 1995, 417 ss. (52) Cfr. per tutti JAEGER, La disciplina dei gruppi. Direzione unitaria del gruppo e responsabilità degli amministratori, in Riv. soc., 1985, 817 ss.; e v. anche la cit. Trib. Milano, 22 gennaio 2001. (53) La nozione era in realtà assai variegata nell’elaborazione dogmatica, a seconda della maggiore o minore ritenuta intensità della relazione di potere, e dello spettro delle decisioni operative influenzate. (54) Che differisce dalla fattispecie della direzione di gruppo se non altro per il fatto che la controllata non si trova temporaneamente impedita dal gestire i suoi affari; inoltre l’istituto civilistico viene per lo più reputato incompatibile con la gestione di interi patrimoni. In realtà tuttavia l’inserimento prolungato della controllata nell’organizzazione di gruppo può allentare la capacità di reagire tempestivamente ed autonomamente alle stimolazioni dell’ambiente circostante. Non è giuridicamente ammissibile allora, né può rinvenire spiegazioni in termini di efficienza economica, che la controllante cessi l’attività di assistenza, tantopiù in modo improvviso ed inusitato. Il principio ricavabile dall’art. 2028 c.c., per cui il gestore non può arrestarsi nella gestione prima che il titolare dell’affare sia in grado di provvedervi autonomamente, impone che la capogruppo metta prima la controllata nelle condizioni di riorganizzarsi, al fine di affrontare il mercato autonomamente. Ma, ciò che è più importante, l’attività di direzione e coordinamento implica l’accentramento delle funzioni di indirizzo strategico, non necessariamente di tutte, ma anche soltanto di talune, purché idonee ad influire in misura determinante sulla vita della società (55). Se è indubbiamente difficile ricostruire cosa debba intendersi concretamente per “esercizio” di tale direzione, sembra tuttavia che ciò si possa considerare integrato anche ad un livello più basso e meno qualificato di quanto si intende per “amministrazione di fatto” (56). Se in tale ultimo caso infatti si richiede per lo più la presenza dell’attributo della sistematicità, tale per cui il compimento di uno o più atti isolati, benché al limite inseriti in una sequenza complessa, potrebbe non essere sufficiente, al contrario per integrare la responsabilità di cui agli artt. 2497 ss. c.c. pare bastare l’accentramento di una sola funzione gestoria (ad es. quella finanziaria), ed anche se la stessa in realtà si limiti ad un’organizzazione di comportamenti delimitata oggettivamente nel tempo. Il sistema della responsabilità per esercizio di competenze gestorie dopo la Riforma del 2003, insomma, sembra tale per cui se in taluni casi anche un solo atto può fondare l’imputazione (art. 2476, comma 7°, 2497, comma 2o), in altri occorre almeno un’attività, non ulteriormente qualificata (artt. 2497, comma 1°, c.c.), mentre a qualificare la vera e propria responsabilità dell’amministratore “di fatto” (cui si applicano gli artt. 2392 ss. c.c.) continua ad esser necessario l’attributo della “sistematicità” (57), per quanto il discrimen non appaia di agevole individuazione. In breve, la responsabilità ex art. 2497 c.c. costituisce oggi un criterio di imputazione contrattuale, fondato sul dato fattuale dell’esercizio di un’attività di direzione e coordinamento, ossia sull’esercizio di funzioni gestorie, ove tuttavia la fattispecie è semplificata rispetto a quella ordinaria ex artt. 2392 ss. c.c.: non (55) E si noti come l’accentramento delle funzioni possa essere anche scisso, in modo che ciascuna funzione strategica sia allocata presso una società differente; ciononostante, questa condivisione della direzione e coordinamento non sembra tenuta in considerazione dagli artt. 2497 ss. c.c. (56) Il profilo non è molto indagato dalla letteratura: cfr. comunque ABRIANI, Gli amministratori di fatto delle società di capitali, Milano, Giuffrè, 1998, 224 ss.; GUERRERA, Gestione "di fatto" e funzione amministrativa nelle società di capitali, in Riv. dir. comm., 1999, I, 131 ss. (57) Che non sembra necessitare del resto di essere continuativa, né deve essere percepita esclusivamente in chiave diacronica (si pensi alle acquisizioni in tema di concorrenza sleale parassitaria “sincronica”: v. Cass., 10 novembre 1994, n. 9387, in Mass. Giur. It., 1994); d’altro canto anche la nozione di impresa è qualificata in termini più complessi della mera attività, richiedendo l’attributo della professionalità. necessita infatti alcun attributo di sistematicità (58), ed al contempo le conseguenze sono attenuate dall’inserimento espresso della teoria dei vantaggi compensativi, almeno nella versione accolta dalla Riforma. Ciò posto, non sembra che qualsiasi genere di direzione e coordinamento comporti l’obbligo per chi la esercita di munire le società soggette ad un modello amministrativo a’ termini del Decreto. Ciò potrà dirsi soltanto nei casi in cui siano assoggettate ad integrazione proprio quelle funzioni implicate dalle finalità del testo legislativo: ad es. quando al livello della capogruppo sia allocata la funzione di supervisione ed organizzazione del sistema di controllo interno; lo stesso potrà dirsi qualora l’obbligo sia assunto espressamente ex art. 2497septies, oppure in strutture molto integrate, ove praticamente tutto il contenuto della funzione gestoria, benché a livello di indirizzo, sia ubicato presso la società che esercita la direzione; in quest’ultimo caso, per lo meno l’esigenza di predisporre direttive (e quindi al limite anche modelli astratti, da concretizzare a livello periferico), riguardanti l’attuazione del Decreto, si porrà. Quando comunque la “direttrice” intervenga in tale contesto, l’obbligo di continuare l’attività, sino a che le società “soggette” non siano in grado di acquisire in termini economici il know how necessario, imporrà di proseguire nello stimolare il doveroso processo di monitoraggio ed adeguamento continuo del modello realizzato. Di certo comunque il Decreto non ha manifestato particolare attenzione alla realtà dei gruppi; in particolare al caratteristico intreccio fra interessi divergenti che può nascere all’interno di tali agglomerati. L’ente infatti è responsabile ex art. 5 solo se il fatto viene commesso “nel suo interesse o a suo vantaggio”; il compimento “nell’interesse esclusivo proprio o di terzi” opera poi come circostanze esimente: ciò pone però delicati interrogativi, circa l’idoneità realmente preventiva dell’apparato normativo, in tutti i casi ove il fatto sia commesso nell’interesse esclusivo della società “direttrice”. Anche ove si voglia ricostruire una nozione di “interesse” tale per cui l’atto intragruppo non sia mai, a tali fini, di interesse “esclusivo” della controllante, resterebbero virtualmente problematici i casi ove non vi sia per la controllata alcun vantaggio, neppure “compensativo”. In tali casi, ferma restando la responsabilità ex art. 2497, comma 2°, solo interpretando la congiunzione “o” contenuta nell’art. 5, comma 1°, Decreto nel senso per cui basterebbe l’interesse connaturato nella direzione, sia pur inteso in senso lato, potrebbe arrivarsi all’applicazione della sanzione. Inoltre, anche quanto alle “persone” (da ritenersi persone fisiche) la cui opera conduce all’imputazione all’ente della responsabilità ex art. 5, occorrerebbe imputare espressamente la condotta agli amministratori, anche di fatto, della controllata, laddove, quanto agli esponenti aziendali della direttrice, gli stessi potrebbero (58) Oltre a questo, viene reso testuale che la natura di ente del soggetto che esercita la direzione non è limite all’imputazione, anche se il dato non doveva ritenersi preclusivo della responsabilità ex artt. 2392 ss., ove la natura di persona fisica dell’amministratore è legata, e diremmo in termini non ontologici, alla sua qualifica di diritto, e non già di fatto. condurre all’imputazione soltanto se qualificabili ancora come amministratori di fatto della controllata. La legge infatti menziona solo a “persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo” dell’ente (art. 5), e la materia è connotata molto probabilmente dai tratti della inestensibilità analogica dei precetti, siccome attinenti alla materia del diritto punitivo lato sensu (59). Dunque vi è un potenziale scollamento fra il criterio di imputazione della responsabilità presupposto nel Decreto e quello di cui agli artt. 2497 ss. c.c., e l’idoneità preventiva del modello sarà percepita con tutta probabilità in relazione al solo impianto normativo di diritto speciale, non a quello codicistico. E’ possibile, cioè, che il modello predisposto presso le controllate sia idoneo ad impedire la commissione dei reati di cui all’art. 25ter Decreto, ma non se gli stessi siano posti in essere con modalità non contemplate dal Decreto stesso. E solo in relazione a tali modalità potrà ipotizzarsi la responsabilità della direttrice per omessa predisposizione del modello; al di fuori di tale ambito opereranno esclusivamente i criteri di responsabilità ordinari (60). Ciò tuttavia non consentirà di accentrare del tutto al livello della direttrice le funzioni implicate dal modello; la capogruppo (61), potrà sicuramente elaborare dei modelli astratti, che pur tengano conto delle particolarità dello specifico gruppo, ma sarà come sempre al livello della singola società che dovrà essere compiuta l’operazione di concretizzazione, e di adeguamento del modello alla specifica realtà aziendale. L’OdV in particolare deve essere di certo stabilmente incardinato nell’organizzazione della singola società controllata, poiché altrimenti il modello non sarebbe suscettibile di riconoscimento. Ciò non esclude che lo stesso possa avvalersi dell’operato delle strutture della controllante (62), ad es., per compiti ispettivi o di analisi dei dati; occorre tuttavia che ciò avvenga in forza di un specifici contratti, tali per cui gli elementi della “direttrice” operino nell’interesse non già della stessa società (o del gruppo, che dir si voglia), ma comune, obiettivato in un regolamento contrattuale. (59) Per un cenno v. BARTOLOMUCCI, Corporate governance e responsabilità delle persone giuridiche, (nt. 32), 45. (60) Non è affatto da escludere, al riguardo, che tali criteri conducano a sanzionare, se non la mera omissione nella predisposizione del modello, almeno in quelle società esposte al rischio di incorrere in reati, ciò che trasformerebbe un onere in un obbligo, snaturando le finalità del Decreto, per lo meno quelle situazioni di disordine organizzativo connotate dalla presenza di fattori altamente favorenti, in strutture complesse, il pericolo di commissione di reati (eccessiva concentrazione di potere, deformalizzazione dei procedimenti decisionali, etc.). (61) Non si può considerare l’agglomerato come un’”associazione di categoria” ex art. 6, comma 3°, Decreto, benché il Ministero della Giustizia abbia, in sede di prima applicazione della disciplina, opinato in apparenza diversamente quanto al modello di Enel; dunque, il modello “di gruppo” non potrà essere sottoposto alla valutazione pubblica ai sensi del d.m. 26 giugno 2003. (62) Il modello di Eni prevede al riguardo che le controllate debbano primariamente avvalersi delle strutture della capogruppo, e solo ove queste siano indisponibili o non adeguate, ricorrere a consulenti esterni; la previsione, ispirata ad una sana logica di contenimento dei costi, e di prevenzione del conflitto di interessi al livello periferico (ove paradossalmente proprio gli organi della controllata potrebbero operare in controtendenza rispetto ai fini della legge, distribuendo prebende a soggetti collaterali) potrebbe tuttavia minare l’autonomia del singolo OdV, e creare problemi di riconoscibilità, specie in casi di eccessiva integrazione delle funzioni gestorie, tali da rendere le strutture della capogruppo come “sospette”. La responsabilità e l’imputazione degli atti deve comunque restare inderogabilmente in capo all’OdV della controllata. Con prudenza, per lo stesso motivo, andrebbero recepite le prescrizioni volte ad ipotizzare un operare dell’OdV della controllata armonizzato e “coordinato” con l’omologo organismo della controllante; al riguardo infatti non può essere pretermesso il valore dell’indipendenza e dell’autonomia dell’OdV “periferico”, che può coordinarsi con realtà esterne solo su di un piano orizzontale e paritario, e può semmai avvalersi di strutture della capogruppo, come si è visto, sulla base di rapporti contrattuali stabili e chiari (63). Tali linee generali sembra siano state per lo più recepite nei modelli sinora realizzati. Ciononostante, occorrerebbe forse minore disinvoltura nel facultizzare le controllate di dimensioni contenute a consegnare le funzioni dell’OdV all’organo amministrativo della società. Ciò conduce alla realizzazione di economie, e risulta in effetti apparentemente legittimato dall’art. 6, comma 4°, Decreto; ma non è da escludere che la forte discrasia e tensione fra tale modalità operativa ed i fini generali dell’apparato normativo conducano la giurisprudenza ad una lettura differente, e fortemente restrittiva, della norma. Il modello organizzativo infatti deve essere valutato per la sua idoneità anche in relazione alla “dimensione dell’organizzazione” (art. 7 ): ciò implica sicuramente la considerazione della realtà del gruppo, e quindi dell’organizzazione complessiva dell’agglomerato, anche nei suoi mutamenti; in sostanza il modello della controllata dovrà implementare i maggiori rischi implicati dall’inserimento nel gruppo, ed in quello specifico gruppo in particolare (64). Ma forse proprio l’inserimento stabile della società in un’organizzazione di gruppo di dimensioni non “piccole” potrebbe ostare all’applicazione dell’art. 6, comma 4°; e ciò alla luce di un procedimento di riduzione teleologica della fattispecie, già abbastanza deficitaria. Per concludere, vi è da dubitare della portata delle disposizioni della controllante inerenti alla predisposizione dei modelli. Taluni modelli prevedono espressamente l’adozione di un modello come un obbligo per le controllate; la maggior parte di essi propone un modello astratto, che può (ma non deve) essere utilizzato nella predisposizione del modello concreto; talvolta alcuni disposizioni del modello generale vengono considerate inderogabili. La natura obbligatoria o meno delle direttive della capogruppo costituisce un problema di teoria generale, che non può qui essere indagata. Ciononostante c’è da domandarsi se siano sufficienti le disposizioni della controllante (che siano ad es. esposte come obbligatorie e direttamente vincolanti), (63) In tali casi gli ausiliari della capogruppo possono trovarsi ad operare come dipendenti “distaccati” (art. 30 d. lsg. n. 276/2003), assoggettati quindi al potere direttivo della distaccataria. (64) Come i mutamenti all’interno del gruppo, ma all’esterno della singola società, possano influire sulle condizioni di rischio, ed assumere rilevanza giuridica, è testimoniato ad es. dall’art. 2497quater. oppure se le stesse necessitino di essere espressamente recepite da analoghe prescrizioni assunte dagli organi della controllata. Quest’ultima sembra la risposta più attendibile, determinata dal fatto che solo a livello periferico può essere effettuata la indispensabile concretizzazione del modello astratto elaborato dalla capogruppo, e non tanto dalla pretesa inopponibilità ai terzi delle direttive della controllante, come suggerito da una pronunzia giurisprudenziale (65). D’altro canto sembra “problematica” la disposizione, contenuta in taluni modelli di gruppo (66), volta ad individuare norme del modello generale derogabili dalle controllate, ed altre invece intangibili. Si riproduce, anche tale livello, il trade off fra i benefici della rigidità delle linee fondamentali, che può prevenire le modifiche abusive ed “interessate”, ed i costi di tale irrigidimento, che può mettere in crisi la capacità del singolo ente di monitorare l’efficacia del modello, e di effettuare cambiamenti ed aggiornamenti. Non sembra tuttavia da escludere a priori che talune disposizioni- chiave, non necessitanti di aggiornamento nel breve- medio termine, possano essere così “rinforzate”; tuttavia, nel caso in cui le condizioni mutassero, il difetto di elasticità potrebbe compromettere il riconoscimento del modello. Non sospetta infine sembrerebbe la norma, assai frequente nella prassi attuativa del Decreto, che impone che i casi di comportamenti devianti scoperti debbano essere prontamente comunicati all’OdV della capogruppo, purché tale obbligo di reporting non sia indicato come esclusivo; occorrerà comunque che sia imposta l’informazione immediata agli organi della controllata, affinché siano poste in essere adeguate contromisure. Analogamente dovrebbe dirsi per gli obblighi di comunicazione relativi ai monitoraggi periodici sull’efficienza del modello, ed alle sue revisioni. DANILO GALLETTI (65) E v. la cit. Gip Trib. Roma, 14 aprile 2003; opponibilità del resto che ha ben poca importanza, posto che l’idoneità del modello va valutata per la sua capacità di indirizzare i comportamenti all’interno dell’organizzazione. (66) Ad es. quello di Eni.