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MODERNITÀ POSTSECOLARE
a cura di Massimo Rosati
Nilüfer Göle
L’ISLAM E L’EUROPA
Interpenetrazioni
ARMANDO
EDITORE
GÖLE, Nilüfer
L’Islam e l’Europa. Interpenetrazioni ;
Roma : Armando, © 2013
176 p. ; 20 cm. (Modernità postsecolare)
ISBN: 978-88-6677-102-9
1. Islam e modernità
2. Islam e globalizzazione
3. La laicità: spazio pubblico e mondo femminile
CDD 300
Traduzione di Andrea Cossu
Titolo originale: Interpénétrations. L’Islam et l’Europe
© Galaade Éditions, 2005
Published by arrangement with Agence litteraire Pierre Aster & Associés
© 2013 Armando Armando s.r.l.
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SOMMARIO
Introduzione
Diventare contemporanei
Nuovi, vecchi ponti
La nuova, vecchia Europa
Luoghi pubblici e politica
Frammenti dell’Islam: un movimento espressivo
L’istantanea terrorista
L’istante e le istantanee
Islam e modernità
Un nuovo immaginario islamico
Le Twin Towers e il desiderio mimetico
Violenza e purezza
Gli attentati di Istanbul e la scenografia islamica
Temporalità e istantanee terroriste
Un momento chiave del terrorismo globale?
La rappresentazione di una umma transnazionale
Una scenografia del religioso
Un Islam dal volto umano
Islam e globalizzazione: somiglianza o alterità?
Islam e globalità
Somiglianza e prossimità
L’immaginario collettivo musulmano
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Modernità e tassonomie: globale e locale
Dalla imitazione intellettuale all’intellettuale indigeno
La detradizionalizzazione e il passato
Extra-modernità
Località e mobilità
Simultaneità e extra-modernità
Laicità, spazio pubblico e visibilità dell’Islam
La laicità e la creazione delle élite repubblicane
Spazio pubblico e spazio delle donne
Donne e civiltà
Civilizzazione e pratiche civili
La querelle tra cultura e civilizzazione
L’islamizzazione dei costumi, dei corpi e dello spazio
Sfera pubblica e sfera privata
Cittadinanza e impegno pubblico
Islam e spazio pubblico: la questione della donna
La laicità, dalla Turchia alla Francia
La donna come chiave della modernità
Prossimità e relazioni faccia a faccia: lo spazio pubblico
Il velo, il rovesciamento dello stigma e la controversia
sulle donne
Donne, Islam e femminismo
Il conflitto delle temporalità
Il rovesciamento dello stigma
Un altro uso del corpo
Dare un’identità all’Europa: alterizzare la Turchia?
Dalle opinioni all’opinione pubblica
L’Europa: identità o progetto?
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L’abbandono della “purezza” europea
L’Islam come riappropriazione critica della modernità
Abbandonare l’equazione Occidente = civilizzazione
Ripensare i fondamenti dello spazio pubblico europeo
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INTRODUZIONE
Questo libro parte da una semplice constatazione: nel mondo moderno, l’Islam sta assumendo un carattere contemporaneo. Benché
semplice, questa affermazione non è per niente facile da risolvere,
perché si accompagna a un processo di confronto che chiama in causa la coscienza della modernità. In effetti, l’ingresso dell’Islam sul
proscenio della storia non sempre avviene in modo pacifico, né segue
una logica di assimilazione al mondo occidentale. Le modalità della sua comparsa nella contemporaneità introducono anacronismi che
coinvolgono le fondamenta stesse della modernità, e che non lasciano
indenni le società occidentali e la coscienza che queste ultime hanno
di sé. L’incontro tra l’Islam e la modernità ha prodotto delle trasformazioni reciproche, e ha confuso i riferimenti di quest’ultima. Prossimità
e distanza: questo libro cerca di indagare questo doppio movimento di
attrazione e repulsione.
È in Europa che si può osservare al meglio questo incontro, perché
è in Europa che esso è messo in scena nelle pratiche individuali e nel
dibattito pubblico. L’Islam si inserisce in modi diversi in questo spazio, e diventa dunque una questione europea. A sua volta, l’identità è
sempre più trasformata e chiamata in causa dalla presenza dell’Islam.
Queste zone di contatto e di confronto devono essere messe in rilievo per studiare il rapporto tra l’Islam e l’Europa. Bisogna adottare
un’ottica più trasversale e performativa, al fine di mostrare come questo processo di interscambio trasformi l’uno e l’altra? Nel quadro di
questo interscambio, tuttavia, alcuni effetti inattesi sfuggono di mano
agli attori e alle loro intenzioni. Questi effetti rappresentano un fatto
inedito nell’esperienza sociale, ed è grazie ad essi che si produce la
storia. Questo saggio ha l’ambizione di sollevare il velo di oscurità che
nasconde l’esperienza sociale, questo processo in divenire e non anco9
ra realizzato – in altre parole, di cercare nelle istantanee del presente
il disegno della storia. È un modo di pensare la storia attraverso eventi
specifici, nei frammenti del presente. Come si può, tuttavia, attribuire
loro un senso prima che essi siano conclusi, archiviati e catalogati nel
tempo? Come distinguere ciò che è significativo da ciò che è triviale
o effimero?
Questo compito è tanto più arduo quanto più la coscienza moderna
cerca di salvaguardare il suo monopolio sulla definizione di civiltà, la
sua sovranità originaria su ciò che è universale. Come si può superare
il quadro cognitivo dentro il quale si sviluppa la narrazione della modernità? È necessario operare un decentramento della visione europea,
adottare una doppia prospettiva, europea e musulmana al tempo, al
fine di spezzare questo quadro di riferimento e andare oltre lo specchio
della coscienza moderna. Dobbiamo svolgere un lavoro sociologico
che comporta la traduzione simultanea delle pratiche tra culture, un
lavoro che va fatto negli interstizi e nelle zone di contatto e confronto.
Cosa stiamo cercando, se non ciò che non può essere udito, un significato deviato che è lost in translation?1 La voce del sociologo, dunque,
al posto di mascherarsi in nome di una presunta oggettività scientifica,
si farà sentire – come Clifford Geertz ci ha invitato a fare2 – in modo
tale da far spazio alla riflessività interculturale.
Diventare contemporanei
L’undici settembre 2001 ha rivelato in modo chiaro l’irrompere
violento dell’Islam nel cuore del centro egemonico dell’Occidente.
Questa data segna l’avvio di una nuova fase della globalizzazione, non
solo per l’Islam ma anche per gli Stati Uniti, che fino a quel momento erano stati risparmiati dagli effetti devastanti di questo fenomeno.
L’Islam si è mostrato al mondo come qualcosa di molto contemporaneo: rifiutato come “medievale” e “oscurantista”, è riemerso al centro
della vita contemporanea. Da quel momento in poi, esso ha costituito
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Dal titolo del film di Sofia Coppola.
C. Geertz, Opere e vite. L’antropologo come autore, Bologna, il Mulino, 1990.
un “problema” per le concezioni del mondo consolidate. Il fenomeno
islamista, la cui gestazione va fatta risalire all’inizio degli anni Ottanta, e che non può essere ridotto al solo terrorismo, non è più limitato
al Medio Oriente o al mondo arabo. Esso non riguarda più solo l’Iran
sciita o la laica Turchia, ma circola da un contesto all’altro, acquista
una forza transnazionale, e si installa negli spazi dell’Occidente, nel
Weltzeit.
Anche se la globalizzazione vuol dire che aree del mondo che solitamente erano distinte, separate dal tempo e dalla distanza, si stanno
avvicinando dal punto di vista spaziale e temporale, una delle caratteristiche principali dell’attuale incontro tra l’Europa e l’Islam3 è il suo
legame stretto con le strutture e le reti globali di comunicazione. La
sincronicità dell’evento produce anche effetti perversi, incomprensioni, collisioni tra pubblici diversi. Dall’undici settembre, un evento che
è stato vissuto in diretta su una scala globale, fino alle foto dei soldati
americani nella prigione di Abu Ghraib e i video degli ostaggi in Iraq,
tutti questi fenomeni testimoniano sia la costituzione di un pubblico
globale sia la collisione tra vari pubblici, che li porta a mobilitarsi per
la guerra e il terrorismo.
A differenza di altri periodi storici, in cui la relazione tra Islam
ed Europa era regolata, come nel caso del colonialismo, dalla distanza geografica e anche da differenti temporalità (una più “sviluppata”
dell’altra), l’epoca in cui viviamo fornisce prova della simultaneità
e della prossimità delle esperienze. Nondimeno, questa situazione di
prossimità è vissuta da entrambe le parti in un modo al tempo stesso
accecante e inquietante, al punto di rendere la contemporaneità difficile o persino insostenibile.
Ciò accade perché la contemporaneità non è semplicemente
un’esperienza cronologica del tempo presente ma, piuttosto, un’esperienza di riconoscimento. Estendendosi al di là del dominio delle relazioni interpersonali, non è né immediata né scontata; al contrario,
3 Dare un nome all’uno e all’altra è problematico. È difficile designare l’Europa
come un’entità omogenea e ben definita, delimitata da delle frontiere fissate una volta
per tutte. In modo simile, l’Islam non è un’entità omogenea. Questo libro vuole offrire
una traccia d’analisi per superare queste semplificazioni. Si tratta di comprendere come
queste etichette prendano forma in un processo intersoggettivo e interculturale.
11
essa deve essere costruita in modo anonimo. Paul Ricoeur, riflettendo
sull’articolazione tra memoria individuale e memoria collettiva, enfatizza le variazioni nel rapporto tra il sé e l’altro. In questo contesto, sorge dunque la questione della prossimità come una relazione
dinamica da essere perseguita e costruita: “rendersi vicini, e sentirsi
vicini”4.
La contemporaneità esistente tra Islam e Occidente implica tale
questione di prossimità. È quando diventa contemporaneo all’Occidente che l’Islam rivela la sua relazione anacronistica con la modernità. I suoi attori affermano la loro presenza in Europa attraverso simboli
religiosi quali i riferimenti alla sfera del sacro, le pratiche rituali, o
indossando simboli religiosi in spazi laici e profani. La contemporaneità e l’anacronismo sono legati all’espressione delle relazioni di
potere tra chi fa appello alla contemporaneità come se fosse un potere
esclusivo che agisce sulla modernità, e quelli che non si identificano
con l’esperienza occidentale della modernità e affermano la loro differenza acronica rifiutando l’espressione di questo dominio. Quindi,
sia la “negazione” da parte dell’Occidente, sia il “rifiuto” da parte dei
non occidentali, implicano tali relazioni di potere tra i paesi collocati
nel “centro” e tutti quelli che non lo sono. Le critiche di impostazione
postcoloniale, comprese quelle rivolte dall’interno dei “subaltern studies” in India5 e quelle portate dalla rivoluzione islamica in Iran, possono essere viste come un rifiuto di assimilare la modernità, portate
avanti attraverso una strategia assoluta di anacronismo. Nel contesto
europeo, tuttavia, dove il comfort della distanza è stato perduto e dove
le pratiche sono sincronizzate, la questione della prossimità emerge
con maggiore intensità. In Europa, più che in ogni altra parte del mondo, la questione della contemporaneità con l’Islam è una questione
cruciale, una questione da cui dipende lo sviluppo stesso dell’Europa,
perché è su questo punto che questo tipo di incontro/scontro si manifesta, come prossimità tra Islam ed Europa.
4 P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina, 2003. Ringrazio Olivier Abel per aver attirato la mia attenzione su questo approccio alla contemporaneità.
5 D. Chakrabarty, Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical
Difference, Princeton, Princeton University Press, 2000.
12
La produzione strutturale della prossimità e della simultaneità è
legata all’esperienza sociale dei musulmani e degli europei; il passato
coloniale (e anche l’impatto della storia dell’Impero Ottomano, che
è riconosciuto con maggior difficoltà)6, le migrazioni, e più di recente la globalizzazione, hanno contribuito all’intrecciarsi delle pratiche
umane. È dunque difficile – o persino impossibile – parlare di civiltà
distinte7; la modernità è stata trasmessa come un vettore dell’immaginario sociale laico (e anche come vettore dell’uguaglianza e della
libertà), ha preso corpo nelle istituzioni (lo Stato-nazione, il parlamento, la società civile), è stata standardizzata dall’economia di mercato (e
dal suo corollario, la società dei consumi), e ha finito con l’acculturare
popoli molti distanti dal centro della modernità. Oggi, la globalizzazione accelera la circolazione e moltiplica le reti di connessione tra le
diverse parti del mondo, uomini e donne, pubblici e mercati. Le differenze che stanno emergendo non provengono dall’esterno del sistema
globale, ma dall’interno, anche da dentro l’Europa. I paesi europei
stanno facendo esperienza della presenza dell’Islam al loro interno e
si confrontano col problema della convivenza.
Nuovi, vecchi ponti
La vicenda della distruzione e della ricostruzione dello Stari Most
(il “ponte vecchio”) a Mostar, in Bosnia, raccontata in modo magistrale da Michael Ignatieff nel suo libro Kaboul-Sarajevo8, ci fornisce degli elementi per comprendere la complessità della presenza islamica in
Europa, l’eredità ottomana nei Balcani, e la “memoria lunga” che dà
6 Edgar Morin mostra come la storiografia europea abbia esteriorizzato la Turchia
anche quando essa era un impero europeo. Nel XIV secolo, durante la famosa battaglia
della Piana dei Merli a Kosovo Poljie, in cui gli ottomani sconfissero i serbi, vi erano
dei cristiani tra le file ottomane, e dei musulmani tra le file serbe. Cfr. E. Morin, Le test
europeen, in «Le Journal du Dimanche», 10 ottobre 2004.
7 S.N. Eisenstadt, W. Schluchter, Introduction: Paths to Early Modernities. A Comparative View, in «Daedalus», 127(3), 1998, p. 6.
8 M. Ignatieff, Kaboul-Sarajevo. Les Nouvelles frontières de l’empire, Paris, Seuil,
2002.
13
forma ai conflitti nel presente9. Nel 1566, in un’epoca in cui il dominio dell’Impero Ottomano si estendeva fino a Budapest, un ingegnere
di nome Hayreddin, allievo di Sinan, a sua volta l’architetto capo di
Solimano il Magnifico, giunse nella città di Mostar per costruire un
ponte sulla Neretva, perché fosse un simbolo dell’autorità imperiale
ottomana e per collegare le moschee e i mercati situati sulle due rive
del fiume. Nel corso dei secoli, la bellezza di questo ponte conquistò
i cuori della gente, e diventò un simbolo della città. Ignatieff stesso
racconta che lo vide per la prima volta quando era ancora un bambino, durante un viaggio con i suoi genitori da Belgrado a Dubrovnik,
passando per Sarajevo e Mostar. Egli visitò per la prima volta una
moschea a Sarajevo, la grande moschea al centro del bazar della città vecchia, e lì capì che anche in Europa c’erano dei musulmani, e
che vi avevano vissuto per secoli. Anche lo Stari Most fece su di lui
una grande impressione. Egli scrive che era «in una bellissima pietra
bianca, arcuato sulle tumultuose acque blu, e sembrava avere una delicatezza incredibile, troppo esile per sopportare il peso di un uomo o
di un cavallo». Eppure questo ponte aveva sopportato ogni peso, sia
fisico sia simbolico. Restò al suo posto dopo che gli ottomani furono
scacciati dalla Bosnia nel decennio 1890-90, sopravvisse alla prima
guerra mondiale e agli scontri tra serbi e austroungarici, e alle battaglie combattute dai partigiani durante la seconda guerra mondiale.
Nella Yugoslavia di Tito e durante gli anni Sessanta e Settanta, cominciò ad avere una certa popolarità; per visitarlo, i turisti venivano
in autobus da tutta l’Europa meridionale. Fu solo nel 1992-93 che la
follia si impadronì degli abitanti di Mostar; squadre paramilitari croate
e musulmane, i cui membri erano stati compagni di scuola e che erano poi diventati nemici, si spararono contro per diciotto lunghi mesi,
in una lotta condotta casa per casa. Il 9 novembre 1993, l’artiglieria
croata distrusse il vecchio ponte. Un video amatoriale mostra il ponte
che crolla nel fiume. «Quando si distrugge un ponte, resta di solito una
specie di moncherino su una delle rive. A prima vista sembrava che il
ponte fosse crollato senza lasciar traccia di sé, portando con sé parte
9
Un libro di Ivo Andric, premio Nobel per la letteratura nel 1961, Il ponte sulla
Drina, spiega bene la complessità dell’identità bosniaca.
14
della roccia, le torri di pietra che lo sovrastavano, e brandelli di suolo
bosniaco. Più tardi, ci accorgemmo che sulle due rive c’erano delle
vere e proprie ferite, aperte e sanguinanti», scrisse Predrag Matvejevic, uno scrittore nato a Mostar nel 193210.
A quel punto, la comunità internazionale diede il suo contributo
per ricostruire lo Stari Most, il cui carico simbolico era molto pesante:
un ponte tra passato e futuro, tra croati e musulmani, tra la Bosnia e
la comunità internazionale, tra il mondo musulmano e l’Europa11. La
sua ricostruzione era vista come un contributo allo “spettacolo della riconciliazione” dopo dieci anni di divisioni tra croati, serbi, e bosniaci.
L’uomo che fu scelto per ricostruire il ponte non era né croato né musulmano, bensì un architetto francese, Gilles Pequeux, che non aveva
nemmeno mai visto il ponte prima della sua distruzione. Forse non è
un caso che l’incarico fu affidato a un architetto francese formatosi
alla scuola di Ponts et Chausses creata da Napoleone. Possiamo infatti
segnalare, come fa del resto Ignatieff, che gli ingegneri ricoprivano
un ruolo importante presso i sultani di Istanbul quanto presso i re e gli
imperatori francesi. Un simbolo dell’influenza ottomana in Europa, lo
Stari Most attirò anche l’attenzione delle agenzie governative turche
e degli uomini d’affari, che parteciparono al finanziamento e alla sua
ricostruzione.
Gli europei, i turchi e i bosniaci si affrettarono a ricostruire senza indugi il ponte di Mostar, al fine di recuperare un pezzo di storia,
di cancellare le cicatrici, e di elaborare il lutto. L’inaugurazione del
nuovo ponte, il 23 giugno del 2004, diventò uno spettacolo di riconciliazione, un’occasione per la proliferazione di metafore politiche che,
secondo l’architetto, compromise lo stesso progetto di ricostruzione.
Riconsegnare al mondo contemporaneo un vecchio ponte, creare un
“nuovo ponte vecchio”, è infatti un compito niente affatto facile. Per
Gilles Pequeux, il progetto si collocava nell’atto stesso di ricostruire
il ponte; occorre tempo per studiare approfonditamente cosa gli architetti del passato avevano in mente, senza fare del ponte ricostruito
una copia o un’imitazione: «l’idea era di entrare nello stato d’animo
10 P. Matvejevic, “Ce Pont entre Orient et Occident”, in Stari Most/Le Vieux Pont de
Mostar, a cura di G. Pequeux, Y. Le Corre, Paris, Gallimard, 2002.
11 Ivi, p. 28.
15
di Hayrredin, un turco che era giunto a Mostar con un seguito di due o
tre turchi e una trentina di persone dalla regione dei Balcani. Ciò di cui
bisognava tener conto era il fatto che in Oriente la pietra è tagliata in
modo diverso da come è tagliata in Occidente (che nel caso specifico
includeva un’area che si estendeva fino a Venezia). Ciò che è commovente, riguardo a questa opera costruita nel XVI secolo, è il fatto che
essa è più una scultura collettiva che una classica opera d’arte. Dico
“scultura collettiva” perché la bellezza di questa opera consiste nel fatto che essa è una serie di errori corretti da una miscela di competenze
tecniche orientali e occidentali. In un certo senso, Mostar è il luogo
dove Oriente ed Occidente si sono stretti la mano»12.
Gli eventi in Bosnia possono essere stati dei presagi precoci della tragedia che oggi si svolge in tutta Europa: è là, nel cuore della
Mitteleuropa, che la identità europea dei musulmani bosniaci è stata
messa a dura prova. Nel 1995, durante la guerra in Bosnia, laddove il
governo serbo conduceva una politica di distruzione e pulizia etnica
diretta contro le popolazioni croate e musulmane della Bosnia, le autorità politiche europee rimasero inerti, lasciando il campo all’esercito
americano. Senza l’iniziativa di alcuni intellettuali francesi e americani (come Susan Sontag) che cercarono di essere vicini al popolo
bosniaco, l’opinione pubblica europea sarebbe rimasta indifferente, o
avrebbe addirittura mostrato una certa riluttanza a riconoscere la politica di pulizia etnica portata avanti da Slobodan Milosevic per quella che era in realtà13. Il documentario politico prodotto nel 1994 da
Bernard Henry-Levy e Alain Ferrari, Bosnia!, sembrava un grido di
indignazione rivolto all’opinione pubblica internazionale, ma anche
uno sguardo sull’Europa stessa. Il film si concludeva con l’espressione della speranza che “L’Europa non muore a Sarajevo”. Come se
12 Incontro con Gilles Pequeux, ingegnere incaricato della definizione, il coordinamento e la supervisione degli studi per la ricostruzione del ponte di Mostar, in occasione della “Journée du Courrier des Balkans”, 1 marzo 2003.
13 La corte d’appello del Tribunale Penale Internazionale (TPI) sull’ex Yugoslavia
ha definitivamente confermato, il 19 aprile 2004, che il massacro dei musulmani bosniaci di Srebrenica (Bosnia orientale) rappresenta un genocidio. Dopo dieci anni, l’11
giugno 2005, l’anniversario del massacro di ottomila uomini e bambini musulmani ad
opera delle forze serbe è stato commemorato come il peggior massacro perpetrato in
Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale.
16
fosse una specie di “piccola Europa”, la Bosnia divenne la metafora
della distruzione e della ricostruzione dell’Europa. Il film di Jean-Luc
Godard Notre Musique (2004) formula lo stesso desiderio ed esplora
la ricostruzione del ponte di Mostar e della città di Sarajevo come una
metafora per una possibile riconciliazione globale.
La nuova, vecchia Europa
In effetti, la questione che sorge nel mondo contemporaneo è se
l’Europa rappresenti un luogo di riconciliazione, uno spazio comune,
un progetto per il futuro, quando si trova di fronte a temi caldi contemporanei che prendono corpo su scala globale. Come può costruirsi
la nuova, vecchia Europa senza cadere nei labirinti del passato, da un
lato, e nel rifiuto di accorgersi di quale sia oggi la posta in gioco? In
altre parole, come può la vecchia Europa diventare contemporanea?
L’Europa è vecchia come il ponte di Mostar: e come questo ponte,
vuole essere costruita come un luogo di circolazione e riconciliazione. E dunque, non possiamo far altro che trovarci d’accordo con
Ignatieff quando scrive: «c’è una certa ironia nel fatto che l’Europa
vuole al tempo stesso tenere fuori i turchi e ricostruire questo ponte,
che è un simbolo del suo multiculturalismo e della eredità culturale
musulmana»14.
La distruzione di questi luoghi, e anche la loro ricostruzione, rivela
la battaglia combattuta oggi sui simboli e sulle relazioni di potere che
essi esprimono. A differenza del ponte di Mostar, il vuoto lasciato dal
World Trade Center non è stato fino ad oggi riempito. Il progetto di
ricostruzione continua ad essere oggetto di controversie tra architetti,
promotori, rappresentanti eletti nelle istituzioni, e le famiglie delle vittime. “Ground Zero” è diventato un luogo dove sono coinvolti aspetti emotivi e politici. Le famiglie delle vittime chiedono uno spazio
maggiore per il monumento che le ricorda, i residenti del quartiere
non vogliono vivere con un cimitero nel cuore della loro comunità, e
i promotori dell’iniziativa oltre che gli uomini d’affari di Wall Street
14
M. Ignatieff, Kaboul-Sarajevoi, cit., p. 27.
17
vogliono far valere le leggi del mercato. Ancora una volta, come nel
caso del ponte di Mostar, il progetto di ricostruzione è stato compromesso dal suo peso simbolico, dalla sua carica emotiva, e dalla pressione esercitata dal potere politico ed economico. L’architetto autore
del progetto, Daniel Libeskind, che deve la sua fama al museo ebraico
di Berlino (2001), cerca di collegare memoria e speranza, seguendo lo
spirito delle sue opere precedenti15. La domanda che egli pone è come
si possa costruire sulla tragedia, come perpetuare la memoria dei morti
e al tempo stesso guardare avanti dando un messaggio di speranza.
Con la “Freedom Tower”, che vuole essere più che un semplice edificio commemorativo, Libeskind ha immaginato uno “spazio comune”
che include i simboli della democrazia. La torre sarà alta 1776 piedi, una allusione diretta alla data della dichiarazione di indipendenza
americana, e sormontata da una struttura che allude al braccio della
statua della Libertà, alzato a tenere la torcia16.
Pertanto, pensare, immaginare e costruire uno spazio comune,
condividendo i simboli di tradizioni e traiettorie differenti da quelle dell’Occidente, non è un compito facile. Dopo la guerra in Iraq, è
comparsa una frattura tra due visioni dell’Occidente; l’America e la
vecchia Europa (in particolare, la Francia), che chiama in causa lo
spazio e l’azione comune, divergendo sulla definizione di libertà e sul
significato di “democrazia occidentale”. Non dobbiamo sottovalutare
le relazioni di potere, oltre che la concorrenza interna all’Occidente
per l’appropriazione della memoria, dei luoghi e dei simboli della modernità. Le torri gemelle erano uno specchio della grandezza della volontà di controllo sul mondo da parte delle reti di scambio finanziario,
proprio come il ponte di Mostar, piccolo e bellissimo, era il simbolo
di una zona di contatto e scambio tra frontiere culturali e religiose. È
dunque all’opera una gerarchizzazione che coinvolge le tassonomie
15 Per una autobiografia dell’architetto, si veda D. Libeskind, Construire le futur.
D’une enfance polonaise a la Freedom Tower, Paris, Albin Michel, 2005.
16 La statua originale è stata ufficialmente donata agli Stati Uniti il 4 luglio 1884 a
Parigi. La statua della Libertà rappresenta una donna avvolta in una toga, che brandisce
una torcia nella mano destra. Sulle tavole che tiene nella mano sinistra si può leggere in
numeri romani la scritta “4 luglio 1776”, giorno dell’Indipendenza americana. Ai suoi
piedi si trovano le catene spezzate della schiavitù.
18
dei luoghi e dei simboli, e la loro iscrizione nella memoria globale17.
In effetti, la memoria diventa un luogo nel quale si combatte per l’accesso all’universale e al globale. Non si tratta più di una “memoria
giusta”, ma piuttosto «di un inquietante spettacolo che rivela ora un
eccesso di memoria, ora un eccesso di oblio»18. La distruzione delle
torri gemelle e la data “9/11” aprono la strada al nuovo ordine mondiale, di cui sono il fondamento. Dal punto di vista della storia europea, la
distruzione del ponte di Mostar e la pulizia etnica in Bosnia non sono
state meno significative. Eppure, questi eventi non sono stati considerati con altrettanto zelo; non sono stati contrassegnati da una data e
dunque sono stati abbandonati all’oblio. È questo forse il segno di un
cedimento del progetto europeo? L’Europa, come il ponte di Mostar,
piccolo nelle dimensioni ma capace di portare le intelligenze da una
riva all’altra, facendo attraversare le frontiere tra civiltà, è diventata
troppo vecchia, una volta passata la fase del suo massimo splendore,
per fronteggiare il nuovo mondo, tirata da una parte dall’America, e
dall’altra dall’Islam? Il carattere antico dell’eredità culturale europea,
fonte delle sue ricchezze, sembra essere troppo oneroso e rappresenta
un ostacolo per l’Europa come idea e come luogo, come concetto,
come progetto di “costruzione di un mondo”19. Eppure, solo un tale
progetto permetterà ai paesi europei di superare le esperienze nazionali e trascenderle in tempi e in spazi comuni, e di pensare a come
diventare europei.
Il confronto tra l’Europa e la potenza americana da un lato, e il disaccordo con l’Islam dall’altro, mettono a rischio il progetto europeo,
gli fanno correre un grave pericolo. Il referendum che ha bocciato il
trattato sulla costituzione europea, prima in Francia (55% di no, il 30
17
La serie su Lieux de Mémoire diretta da Pierre Nora (Paris, Gallimard) vuole considerare i luoghi della memoria come oggetti storici da analizzare per comprendere la
costruzione nazionale della memoria. La globalizzazione trasforma considerevolmente
la relazione tra luoghi e memoria.
18 P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, cit.; R. Robin, La mémoire saturée, Paris, Stock, 2003. Cfr. anche A. Laignel-Lavastine, Face a l’histoire, la recherche d’une
“juste mémoire”, “Le Monde”, 22 maggio 2005, p. 12.
19 Riprendo l’espressione dal volume di N. Karagiannis, P. Wagner (eds.), Varieties of World-Making. Beyond Globalization, Liverpool, Liverpool University Press,
2006.
19
maggio 2005) e in seguito, tre giorni più tardi, nei Paesi Bassi (i no furono il 62%), rappresenta la comparsa di una frattura tra il sentimento
nazionale e il progetto europeo.
Nazioni così diverse tra loro come la Francia e i Paesi Bassi, gli uni
orientati verso il multiculturalismo, l’altra verso il repubblicanesimo,
hanno usato una sola voce per difendere il valore della propria identità,
e hanno mostrato entrambi un rifiuto di fronte all’intrusione dell’Islam
nel loro orizzonte simbolico e nel loro quotidiano. Non è azzardato
sostenere che i due paesi che hanno bocciato la bozza di costituzione
attraverso un referendum sono anche quelli dove l’Islam è oggetto
di un acceso dibattito. La questione dell’immigrazione e quella della
candidatura turca hanno determinato l’agenda del dibattito pubblico
sull’Islam. La presenza dell’Islam in Europa, veicolata dagli immigrati o portata dal desiderio europeista dei turchi, è sembrata agli occhi
della coscienza collettiva europea una intrusione forzata, subita e non
voluta, che ha provocato una sensazione di dissoluzione della propria
identità e dei confini culturali e geografici; insomma, come un’invasione. Il senso di essere “a casa” sembra essere stato minacciato dalla
presenza dei musulmani in Europa.
Gli attacchi del terrorismo islamista di Al-Qaeda nel cuore di città
come Istanbul (15 e 20 novembre 2003), Madrid (11 marzo 2004), o
Londra (7 luglio 2005), non hanno fatto altro che rafforzare la sensazione di fronteggiare un “nemico interno”20. Benché la dimensione
transnazionale delle reti terroriste sia un dato acquisito, l’identità degli
autori degli attentati suicidi è stata un motivo di sorpresa sia in Turchia
sia in Spagna sia, più recentemente, in Inghilterra. Gli autori degli
attentati non provenivano dall’estero ma erano dei cittadini britannici
di origine pakistana (e nati in Gran Bretagna) che conducevano una
vita tranquilla, integrati nella società britannica (uno di loro lavorava
nel negozio di fish and chips di suo padre, un segno dell’adattamento ai gusti alimentari britannici; un altro insegnava in una scuola per
studenti disabili, un fatto che potrebbe essere preso come un segno
della sua umanità). Qual è il motivo per cui dei musulmani britanni20 Titolo
di un articolo comparso sul settimanale The Economist dopo gli attentati di
Londra: The Enemy Within, «The Economist», 16-22 luglio 2005, p. 24.
20
ci, preoccupati per la vita del loro quartiere, delle loro famiglie e per
il proprio lavoro, si sono fatti conquistare da una mentalità jihadista
caratterizzata dall’odio e dalla distruzione? Questa domanda è fondamentale, ma resta senza risposta. Dietro questi atti possiamo scorgere
una comunità religiosa, una umma transnazionale indipendentemente
dalle origini nazionali. Una categoria jihadista musulmana che non
si limita ai musulmani arabi, e non risparmia i pakistani britannici,
trascendendo così ogni frontiera nazionale, regionale e confessionale.
Questo è ciò che è svelato dall’intreccio tra l’Islam transnazionale e la
sua iscrizione nel suolo europeo.
L’assassinio di Theo Van Gogh (il 2 novembre 2004) è stato un
evento che ha rivelato le modalità violente con cui avviene questa
iscrizione. Theo Van Gogh impersonava la libertà di parola e di provocazione intellettuale, cara alla tradizione olandese. La sua morte per
mano di un immigrato marocchino, a causa di un documentario che egli
aveva realizzato e che trattava la condizione della donna musulmana,
ha avuto importanti ripercussioni e ha originato un dibattito sui limiti
della tolleranza. L’evento ha mostrato la costellazione di problemi che
riguardano l’immigrazione, l’Islam, la questione del genere, e il confronto con le leggi europee. Il suo film, intitolato Submission, è stato
prodotto con Hirsi Ali, una parlamentare olandese, una figura pubblica
conosciuta per le sue posizioni critiche riguardo alla religione islamica come fonte di sottomissione delle donne. Lei stessa, una rifugiata
di origine somala, ha avuto successo nel varcare i confini della sua
comunità e dell’oppressione, ed è diventata una portavoce del diritto
all’emancipazione delle donne musulmane. La produzione del film da
parte di queste due figure, dalle diverse traiettorie personali, di cultura,
religione, e genere diversi, ha reso concreta la prossimità, l’incontro,
l’incrocio tra i loro due mondi. Ma il cammino che porta all’incontro
non è riuscito a evitare ciò che essi condannavano: la violenza.
Il messaggio del film è semplice: l’Islam sottopone le donne a pratiche crudeli. Il documentario inizia con una preghiera e racconta la
storia di quattro donne che parlano a Dio della loro sofferenza, degli
abusi che hanno subito da parte degli uomini: matrimonio forzato, incesto, violenza domestica, lapidazione per adulterio. La decisione di
mostrare delle immagini di donne vestite di stoffa trasparente, con dei
21
versetti del Corano dipinti sulla pelle suscitò aspre reazioni. Per certi
critici, il film non evita la semplificazione caricaturale nella rappresentazione dell’Islam, col risultato di denigrare le donne musulmane21.
La traduzione delle esperienze interculturali non è un atto privo di
rischi; può portare facilmente a una banalizzazione del senso e a una
collisione tra pubblici differenti. Nel contesto europeo, i musulmani si
trovano a dover riflettere sul loro status di minoranza e sul loro legame
con i non musulmani. La questione del genere, dello status delle donne, è centrale per questa riflessione. Allorché la definizione europea di
cittadinanza si fonda sulla questione del genere e della sessualità, l’assassinio di Theo Van Gogh ha rivelato un vero e proprio repertorio del
dissenso, e ha mostrato le difficoltà di negoziazione e argomentazione
tra due sistemi di valori, la libertà di parola e l’emancipazione femminile da un lato, e la blasfemia e la sacralizzazione della donna dall’altro. Al tempo stesso questo scontro, anche violento, ha intensificato
l’iscrizione dell’Islam nella coscienza pubblica olandese – in un modo
molto concreto, perché il delitto è avvenuto nelle strade di Amsterdam,
è stato registrato, macchiato con il sangue e rivendicato dal terrorista
con una lettera scritta in olandese e indirizzata agli olandesi.
Ciononostante, bisogna evitare di adottare un punto di vista eccessivamente binario sull’Islam e l’Europa, e interrogarsi sul ruolo che le
norme religiose e i valori liberali rivestono in Europa22. A questo proposito, si può attirare l’attenzione sul divieto – in Francia nel 2005, su
richiesta di un’associazione cattolica – di mostrare la pubblicità di una
marca di vestiti23. La campagna pubblicitaria si ispirava all’Ultima cena
di Leonardo Da Vinci. La pubblicità mostrava un solo uomo, l’apostolo
21
A. Moors, “Submission”, in Debates on Islam in Europe, «ISIM Review», 15,
2005.
22
José Casanova ha attirato l’attenzione sul ruolo crescente della religione nella
vita moderna. Egli ha mostrato come le religioni siano “deprivatizzate”: sia il cattolicesimo che il protestantesimo, in paesi molto diversi come la Spagna, la Polonia, i Paesi
Bassi e gli Stati Uniti, non si nascondono più nella sfera privata ma si manifestano nella
vita pubblica. Cfr. J. Casanova, Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla conquista
della sfera pubblica, Bologna, il Mulino, 2000.
23 L’affissione della pubblicità per l’azienda d’abbigliamento Marithe et Francois
Girbaud è stata vietata dal tribunale di Parigi il 10 marzo 2005, dando così ragione
all’associazione cattolica “Croyances et Libertés”. Cfr. “Le Monde”, 2 aprile 2005, pp.
39-40.
22
Giovanni, ritratto di spalle e vestito di jeans, mentre gli altri apostoli
erano rappresentati da donne vestite con abiti firmati. Questa inversione
dei sessi voleva essere un rimando al best seller di Dan Brown, Il codice
Da Vinci, dove lo scrittore afferma che, nell’affresco che ritrae l’ultima
cena, la persona seduta alla destra di Gesù non è Giovanni bensì Maria Maddalena. Gli ideatori della campagna volevano dare una nuova
rappresentazione all’ultima cena, e dare potere alle donne, sostituendo
Gesù e gli apostoli con delle donne che imitavano parodisticamente gli
atteggiamenti e i gesti dipinti da Leonardo. Questa campagna pubblicitaria è stata vietata perché offendeva i sentimenti religiosi dei cattolici.
Questa controversia mostra anche la complessità delle interconnessioni
tra il sacro, i simboli religiosi, l’inversione dei ruoli sessuali, i corpi delle donne e le leggi del mercato e del desiderio. Oltre a tutto ciò, mostra
anche come le questioni che hanno fatto emergere gli attori dell’Islam
sulle frontiere tra il sacro e il mercato, la religione e la cultura, il pudore
e la sessualità, non siano esterne alla modernità, allo sviluppo dell’Europa; al contrario, si evince come esse siano molto vicine al nucleo delle
domande fondamentali sulle definizioni etiche, estetiche e scientifiche
del soggetto e del suo corpo. Le questioni che riguardano la sessualità,
l’aborto, il matrimonio tra omosessuali, la fecondazione in provetta dimostrano che le società occidentali sono sempre più preoccupate dalla
questione del controllo umano sulla vita e sulla morte, dallo spostamento dei confini tra natura e cultura, strette tra le prescrizioni morali e le
scelte legate alla libertà individuale.
Gli attacchi terroristici hanno ripercussioni diverse a seconda dei
paesi, ma è dentro queste zone di contatto e di confronto che l’Europa
prende forma o si sfalda. Gli attentati di Istanbul hanno costretto il
potere politico ad ammettere l’esistenza di un terrorismo di matrice
religiosa, e a condannarlo. In un paese a maggioranza musulmana, la
differenza tra due visioni dell’Islam, uno in guerra contro l’Europa
e l’altro filo-europeo, si è sentita nettamente. Gli attentati di Madrid
hanno provocato una cambiamento nella maggioranza di governo e il
ritiro del contingente spagnolo dall’Iraq. A differenza di quanto avvenuto in Spagna, in Inghilterra la presenza delle forze britanniche in
Iraq è stata chiamata in causa timidamente, ed è stata data la priorità al
rafforzamento delle leggi contro il terrorismo. I portavoce della comu23
nità musulmana britannica sono stati elogiati per non aver collegato le
sofferenze dei musulmani in Medio Oriente alle atrocità di Londra, e
per aver condannato senza ambiguità gli atti terroristici commessi in
nome dell’Islam, dando prova di essere fedeli alla loro patria. In un
modo quasi paradossale, questi atti hanno reso più esplicito il carattere “europeo” della presenza musulmana, non senza provocare nuove
tensioni tra le diverse comunità, nuove forme di razzismo religioso ed
etnico. Si può pensare che la memoria sepolta della “balcanizzazione”
dell’Europa preoccupi la coscienza collettiva e rappresenti una sfida
per la “nuova, vecchia Europa”.
Luoghi pubblici e politica
La presenza dell’Islam in Europa riguarda la condivisione di uno
spazio comune, sia che lo definiamo come una sfera pubblica dove
prende forma la discussione, o come uno spazio europeo dove sta
emergendo una visione politica. Gli attacchi terroristici, dunque, ma
anche le diverse forme di visibilità dei musulmani, sono rivolte verso
questo spazio e lo invadono. Gli attori pubblici dell’Islam, che sono
migranti o figli di immigrati, si stanno riterritorializzando nello spazio
europeo, sfidando i valori dello stile di vita occidentale. Gli attentati
colpiscono gli spazi della vita urbana, vale dire spazi (strade, ferrovie,
stazioni, metropolitane, autobus), luoghi di ritrovo (bar, discoteche)
luoghi del commercio e del turismo (mercati, centri commerciali, hotel) – in breve, tutti quei luoghi dove si crea un legame sociale e gli
individui che li occupano cambiano in continuazione24. L’uccisione di
civili è l’uccisione della città, un “urbicidio”, per usare l’espressione
di Monique Canto-Sperber, che prende di mira la realtà fisica della
città e il suo significato culturale.
È nello spazio pubblico che la presenza dell’Islam si manifesta. Gli
attentati, la questione del velo islamico in Francia, e la controversia
sulla candidatura turca a paese membro dell’Unione Europea sono
problemi molto diversi fra loro, che tuttavia sono collegati e intrecciati nella coscienza comune e nella memoria pubblica. Il terrorismo
24
24
M. Canto-Sperber, Le Bien, La Guerre, et la Terreur, Paris, Plon, 2005, p. 30.
prende di mira soprattutto il pubblico e si colloca al di fuori del campo
delle negoziazioni politiche; il velo sta emergendo come una presa
di posizione personale, in primo luogo nelle scuole; la candidatura
della Turchia, che al principio fu considerata una faccenda di relazioni internazionali, è presto diventata una questione di politica interna.
Questi diversi aspetti della presenza islamica in Europa sono trattati,
quando fanno la loro comparsa nel dibattito, come problemi politici e
legislativi. Le leggi antiterrorismo, il divieto di esibire simboli religiosi nelle scuole pubbliche, e il referendum sulla bozza di costituzione
europea (che in parte si è trasformato, almeno in Olanda e in Francia, in un referendum sulla candidatura turca) sono tutti sintomi della
transizione dal potere pubblico alla sfera delle decisioni politiche e
giuridiche.
La sfera pubblica, come ho già detto, è il palcoscenico in cui il
dramma dell’incontro tra musulmani ed europei prende forma, e dove
questa intersezione riconfigura a sua volta la natura della sfera pubblica. Quest’ultima non è una struttura fissa e prestabilita: al contrario, essa cambia nello stesso modo in cui cambia la scenografia su un
palcoscenico, con l’arrivo di nuovi attori che presentano nuovi stili di
vita, di comunicare, e di partecipazione. L’intrusione degli islamici
nella sfera pubblica europea muta la situazione. La repubblica e le sue
leggi hanno certamente messo il loro marchio sullo spazio pubblico.
Ma la “res publica” significa anche uno spazio autonomo in cui emergono e sono rappresentati pratiche e problemi inediti. Solo il totalitarismo cerca un accordo perfetto tra lo spazio pubblico e la repubblica.
Vi sono, infatti, repubbliche non democratiche. Lo spirito democratico
di una società si definisce attraverso la sua capacità di rendere pubblici
i problemi che emergono, e di rendere contemporanei i problemi che
sorgono dall’“Altro”. Pierre Vidal-Naquet ha studiato questi problemi
della democrazia nella polis greca adottando il concetto di “altrove
sociale”: lo studio delle donne, degli schiavi, degli stranieri, e di altri
gruppi esclusi dalla partecipazione alla vita della polis gli ha permesso
di comprenderne il nucleo centrale25. Per il primo periodo moderno
25
P. Vidal-Nacquet, La democrazia greca nell’immaginario dei moderni, Milano,
Il Saggiatore, 2003.
25
(l’età classica), l’interesse centrale dell’opera di Michel Foucault è
stato il mondo in cui i folli, i malati, i criminali, gli omosessuali, ecc.,
erano esclusi dalla società. Come possiamo, però, affrontare lo studio
di altre forme di esclusione nelle nostre società contemporanee, specialmente se prendiamo in considerazione il mondo intero?
L’approccio alla sfera pubblica moderna proposto da Jürgen Habermas evidenzia il legame con la democrazia contemporanea. Secondo Habermas, la deliberazione pubblica e le pratiche discorsive sono
ciò che permette il funzionamento della democrazia come tipo ideale.
La sfera pubblica è il luogo per eccellenza in cui avvengono scambi
politici razionali tra cittadini responsabili. Tuttavia, mi sembra che in
essa vi sia qualcosa in più della semplice deliberazione nazionale, un
substrato emotivo che soggiace allo spettacolo dell’incontro tra Islam
ed Europa.
Il concetto di sfera pubblica appare qui in senso molto concreto,
come se stessimo osservando un palcoscenico sul quale si sviluppa una
tragedia spettacolare. Sia gli attacchi suicidi sia le diverse modalità di
attivismo religioso nella vita quotidiana mettono in scena repertori religiosi diversi e persino contraddittori. Vi sono diverse interpretazioni
e rappresentazioni dell’Islam nel mondo moderno, in competizione e
persino in lotta tra loro. Ma qui sta anche una sfida per gli stessi europei, che devono tradurre il loro accidentato incontro con l’Islam in un
progetto politico.
Questo incontro prende forma nello spazio pubblico. Esso rappresenta il luogo d’azione di una performatività islamica, per i terroristi come per qualunque altro attore religioso, una performatività che
copre una gamma di fenomeni che va dal vestiario al rispetto dei riti
religiosi, fino all’invenzione di stili di consumo e divertimento rivolti
ai fedeli. Lo spazio pubblico è il luogo dove la presenza islamica non
solo si manifesta, ma anche il luogo dove essa fa nascere nel pubblico
europeo la consapevolezza e il dibattito sulla sua presenza. Persiste
tuttavia una qualche difficoltà a comprendere queste pratiche e a dare
ad esse un nome. Questa difficoltà è prova del fatto che le persone si
trovano di fronte a pratiche inedite, alle quali non riescono ancora a
dare un nome. Quale nome dovremmo dare all’aspetto religioso di
queste pratiche contemporanee? O al ruolo del pensiero politico mo26
derno nell’islamismo contemporaneo26? Terrorista o martire, guerra o
jihad, il velo indossato da una donna islamica o da una suora cattolica,
simboli religiosi o politici, Turchia asiatica o europea; in tutti questi
casi, la difficoltà consiste nel tracciare e definire delle linee di confine
tra il politico, il culturale e il religioso. In ogni caso, l’amplificatore
religioso opera nello spazio pubblico europeo in modo tale da rendere ciò che è estraneo ancora più estraneo27. Comprendere il legame
conflittuale e tuttavia stretto tra musulmani e modernità (un legame
che può essere formulato come una doppia asserzione e/o una doppia
negazione – musulmani e moderni, o né musulmani né moderni) non
è una cosa semplice, e non lo è né per gli europei né per i musulmani. Per i musulmani, vuol dire abbandonare la loro aspirazione a una
identità islamica totale. Quanto agli europei, essi devono riscoprire ciò
che hanno in comune con l’Altro e abbandonare ogni pretesa riguardo
a una presunta “purezza” europea.
In sintesi, l’ingresso dell’Islam nella contemporaneità sta prendendo forma attraverso frammenti e relazioni anacronistiche con la modernità. Gli europei fanno esperienza della presenza islamica attraverso una serie di eventi che non sono necessariamente legati tra loro, ma
che appaiono agli occhi del pubblico in forme disparate.
Frammenti dell’Islam: un movimento espressivo
Non sto parlando, dunque, dell’Islam come se fosse un’entità omogenea, una “civiltà” intatta e impermeabile al mutamento storico. Tuttavia, non possiamo nemmeno limitarci solo a descrivere la pluralità
e la diversità dell’Islam. Oggigiorno, l’Islam sta diventando sempre
meno una fede e sempre più un riferimento etnico, culturale e politico
per quei musulmani che vivono in mezzo agli spazi e alle esperien26
Il libro di Paul Berman mostra l’impatto del pensiero antiliberale di origine europea nella mentalità degli islamisti contemporanei. Cfr. P. Berman, Terror and Liberalism, New York, W.W. Norton and Company, 2003.
27 Per una critica della iperislamizzazione dei dibattiti si veda D. Bouzar, Monsieur
Islam n’existe pas: pour une deislamization des débats, Paris, Hachette Literatures,
2004.
27
ze della modernità in Europa. L’Islam sta diventando un movimento:
possiamo parlare di un attivismo religioso nella misura in cui l’Islam è
soggetto all’interpretazione dei suoi discorsi e delle sue pratiche sia a
livello individuale che collettivo. Concetti come “islamismo radicale”
e “neofondamentalismo” cercano di dar conto dell’attivismo politico, collettivo dell’Islam. Tuttavia, gli approcci sinora adottati dagli
scienziati politici enfatizzano gli aspetti collettivi e ideologici di questo movimento, senza prendere granché in considerazione il carattere
problematico della relazione personale con la modernità. Da un lato,
i musulmani non arrancano dietro alla modernità; al contrario, essi
usano le nuove tecnologie e i nuovi strumenti della comunicazione;
hanno appreso il linguaggio della politica e acquisito familiarità con
la vita urbana; investono nei mercati finanziari e adattano i prodotti di
consumo e intrattenimento perché si conformino ai nuovi bisogni dei
gruppi religiosi. In breve, non si precludono l’uso degli oggetti della
vita moderna. Ma l’uso che ne fanno rimane religioso.
Inoltre, l’Islam contemporaneo non si propaga ad opera di attori
esterni al sistema, ma piuttosto grazie ad attori che sono portatori di modernità; i giovani, le donne, i mediatori culturali28, gli imprenditori, le
classi medie. Questi attori hanno appreso le tecniche della rappresentazione pubblica, manipolano i termini del dibattito politico, e conoscono
le regole del mercato. Essi mettono in scena la loro diversità religiosa
negli spazi comuni, nelle scuole, nelle università, negli ospedali, nelle
imprese, e nel parlamento, ma anche in luoghi di svago e di vacanza.
Essi sfidano dunque i valori fondamentali della vita pubblica europea,
come la laicità, l’uguaglianza tra i sessi e la libertà di espressione. Il
fatto che l’Islam stia diventando pubblico significa che i musulmani
stanno affermando e mettendo in scena la loro presenza e la loro diversità religiosa nel quadro pluralista degli spazi pubblici europei29. Ciò
28
P. Haenni, “Ils n’en ont pas fini avec l’Orient. De quelques islamisations non
islamistes”, in Le Post-Islamisme, numero speciale di «Revue des mondes musulmans
et de la Méditerranée», a cura di d’O. Roy, P. Haenni, 85-86, 1999.
29 Per degli studi di caso delle modalità di espressione pubblica dell’Islam in Europa, in Turchia ma anche in Iran, cfr. N. Göle, L. Amman (hrsg.), Islam in Sicht. Der
Auftritt von Muslimen im offentilchen Raum, Bielefeld, Transcript, 2004. In particolare,
si veda il capitolo di Simonetta Tabboni (pp. 326-341), che elabora le questioni della
differenza e della prossimità attraverso la nozione di “straniero”.
28
porta all’invenzione di diversi spazi pubblici islamici, “eterotopie” o
“spazi altri” dove gli attori islamici operano sulla loro identità religiosa
per mezzo di atti performativi e rituali collettivi30.
L’esacerbarsi di questa visibilità pubblica e religiosa distingue il
movimento islamista contemporaneo da quelli che lo hanno preceduto. Questa visibilità è veicolata nello spazio pubblico da vari tipi di
azione dotata di un senso religioso, inclusa la performatività personale
e del corpo. Tuttavia, la natura “espressiva”31 dell’agire islamico è
sottostimata e persino fraintesa, perché l’espressività si associa a un
processo di emancipazione e autorealizzazione del soggetto, vale a
dire a un’azione creativa e progressiva. È in effetti difficile classificare
l’islamismo come un movimento sociale creativo e progressivo, che
si muove in accordo con la narrazione propria dell’Illuminismo. Al
tempo stesso, sarebbe troppo limitante provare a restringere lo studio
dell’agire umano esclusivamente alle azioni creative, progressive o
emancipatrici. L’Islam è trasformato dall’interpretazione e dall’azione
umana: vi è dunque un legame particolare tra religione e azione. La
presenza della religione musulmana in azione non può essere affrontata come una pura strumentalizzazione politica. D’altro canto, l’attivismo musulmano non è identico ad altre forme collettive di attivismo
politico, o ad altri movimenti sociali. Dobbiamo far emergere l’aspetto
distintivo dell’attivismo religioso islamico. Enfatizzerei dunque il carattere frammentato, e pur tuttavia espressivo, dell’attivismo islamico.
Esiste una espressività linguistica e corporea. Il concetto di espressione caratterizza un processo in cui qualcosa di interno è esternalizzato e reso percepibile; la religione è richiamata alla mente come un
repertorio d’azione, circola come un immaginario sociale, e dunque si
esteriorizza e si inscrive nei corpi e nello spazio.
30 Per i concetti di “spazi altri” e “eterotopia” cfr. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi
delle eterotopie, Sesto S. Giovanni, Mimesis, 2001. Per la nozione di “contro-pubblico”
cfr. M. Warner, Publics and Counterpublics, London, Zed, 2002. Si veda anche N. Fraser, Rethinking the Public Sphere: A Contribution to the Critique of Actually Existing
Democracy, «Socialist Review», 4, 1989, pp. 56-80.
31 Hans Joas distingue tre tipi di creatività nell’agire umano: l’idea di produzione
rapporta la creatività al mondo degli oggetti materiali; quella di rivoluzione al mondo
sociale; e quella di espressione al mondo soggettivo. Cfr. H. Joas, Die Kreativität des
Handelns, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1992.
29
Questo è il motivo per cui le figure della donna velata e del martire,
anche se sono opposte, sfuggono a ogni analisi o spiegazione che si
fondi sulla strumentalizzazione del religioso e sulla logica razionale e
collettiva dell’agire politico.
Nondimeno, queste due figure si presentano come simboli dell’azione orientata in senso religioso. Questi due simboli dell’Islamismo sono
presentati anche senza alcuna mediazione politica, e senza alcuna rappresentanza politica o istituzionale. Tentando di definire un “nuovo
paradigma”32, Alain Touraine mostra il primato del dominio culturale
e l’assenza di rappresentatività come caratteristiche fondamentali del
mondo contemporaneo.
In queste due figure, l’aspetto espressivo è importante. Il velo è
parte dell’elaborazione di una performatività religiosa femminile e di
una messa in circolo dell’immaginario collettivo islamico. Soprattutto, esso è una forma di appropriazione personale e collettiva di uno
stigma (secondo la narrativa della modernità, il velo significa la sottomissione della donna). Esso esprime l’esternalizzazione di questo
stigma, ma anche la volontà di rovesciarne il significato e di renderlo
un segno del potere e della distinzione delle donne. I divieti religiosi e
i valori del pudore sessuale agiscono sulla soggettività di questa femminilità, in opposizione alla femminilità emancipatrice. La differenza
nelle tecniche del corpo crea una disarmonia tra il soggetto femminile
emancipato e il soggetto femminile religioso. Una “intercorporalità”
conflittuale si esprime in relazione al velo. Tra queste due figure femminili si sta combattendo una battaglia intorno alla “civiltà” e alla “civilizzazione”, perché la relazione con il corpo diventa il perno su cui si
sviluppa un dibattito sull’orientamento culturale e le abitudini proprie
della modernità. La donna musulmana sembra il simbolo di un’alterità
insormontabile tra il mondo civilizzato e quello dei barbari. La Gioconda che indossa un velo islamico apparsa sulla copertina di Time33
illustra questa conversazione pericolosa, vista come un intreccio strettissimo tra il velo e l’Europa, e specialmente come una minaccia ai
simboli della modernità europea.
32 A. Touraine, Un nouveau paradigme. Pour comprendre le monde d’aujourd’hui,
Paris, Fayard, 2005.
33 Europe’s Identity Crisis, «Time», 28 febbraio 2005, vol. 165, n. 9.
30
All’altro estremo, la figura del “martire” mostra la capacità distruttiva dell’agire religioso. Disprezzando i valori della vita, il corpo
umano, e i valori della vita urbana, essi accettano di fatto la visione
dell’Occidente, la visione per cui l’Islam è inferiore. Essi trascendono,
attraverso la barbarie, i tabù della civiltà e della vita civile. Possiamo
anche notare che la parola turca per civiltà – medeniyet – deriva dal
termine medina, che in arabo significa “città”. La distruzione delle
città significa la distruzione degli stili di vita moderni e civili. (ma
la risposta – molto ammirata – del popolo britannico agli attentati di
Londra non esprime forse la sua determinazione a non cambiare il suo
stile di vita e la sua civiltà?)
È chiaro che né la studentessa velata né il terrorista suicida si conformano all’ortodossia religiosa o alle tradizioni popolari. Al contrario, queste “minoranze attive”34 rappresentano un’uscita dalla religione istituzionale e riflettono un processo di acculturazione e di ingresso nell’esperienza della modernità globale, in quanto prendono parte
all’elaborazione di un repertorio di immagini sociali islamiche. Non
abbiamo dunque a che fare con delle questioni di poco conto o con dei
falsi problemi, almeno per la maggioranza dei musulmani che vivono
vite pacifiche, né con degli epifenomeni dell’islamismo politico. In
effetti, la questione del velo è stata spesso vista come una questione
secondaria, l’effetto del radicalismo politico e di una strumentalizzazione delle donne da parte degli uomini. Per quanto riguarda il terrorismo, esso è stato descritto come una questione di reti, e quindi con
una capacità limitata di reclutamento. È stato anche analizzato come
un’ammissione dell’incapacità dell’islamismo di ottenere un ampio
sostegno, e quindi come una specie di ultima spiaggia. Nel migliore
dei casi, esso è stato visto come un prodotto dell’Occidente. Forse
questa negazione della agency e della soggettività dei musulmani è
vista come una terapia per un Occidente la cui egemonia è in pericolo,
e come un’illusione ottica per mascherare una preoccupante prossimità.
Questi frammenti sono zone di incontro che cristallizzano i pro34 Riprendo questo concetto da S. Moscovici, per il quale la grandissima maggioranza dei mutamenti sociali è opera di minoranze. Cfr. S. Moscovici, Psicologia delle
minoranze attive, Torino, Bollati-Boringhieri, 1981.
31
blemi e la conversazione conflittuale tra Islam ed Europa. Essi rappresentano i punti nodali di questo incontro. Essi rappresentano anche
una questione di interpenetrazione (nel senso biologico, ma anche nel
senso che Niklas Luhmann assegna al termine)35, perché c’è un aspetto corporeo, sessuale, ma anche forzato e violento in questo incontro
e nella comunicazione che ne deriva. I musulmani impongono a forza
la loro presenza in Europa. La candidatura turca e il suo desiderio di
Europa sono percepiti dagli europei non solo come sospetti ma anche
come un’intrusione al di qua dei confini geografici, storici e religiosi
dell’Europa. Il velo islamico genera inquietudine perché i musulmani
esprimono la loro diversità ostentando simboli, costringendo dunque
le persone ad avvertire la loro presenza. Da ultimo, il terrorismo è una
affermazione dell’Islam con mezzi apocalittici. Ma se la candidatura
turca e il velo islamico esprimono un processo di mescolamento e di
mutua fecondazione, stabilendo così un legame tra musulmani ed europei, il terrorismo suicida esprime una volontà di annientare se stessi
e gli altri. È un’ammissione di impotenza nel senso che esso rende
manifesta l’incapacità di sostenere il peso dell’interpenetrazione tra
Islam e modernità.
Questa non è un incontro tra due sistemi distinti, due “civiltà” diverse e distinte, ma piuttosto un incontro che avviene in alcune zone
di contatto. Possiamo ricostruire lo sviluppo di questo processo attraverso delle “istantanee”. Il velo, gli attentati suicidi e la candidatura
turca sono tutti frammenti di questa storia. Essi sono anche segni della
frammentazione dell’Islam e della molteplicità delle sue interpretazioni o dei modi di azione religiosa e dialogo con la civiltà occidentale.
Sin dalla comparsa dell’Islam, vi sono stati conflitti su ciò che esso
sarebbe dovuto essere. Emersero due tradizioni, quella sciita e quella
sunnita, che portarono a un “dialogo cumulativo” di reazioni e controreazioni. Tuttavia, il dramma contemporaneo è scritto in una conversazione interculturale sul disaccordo tra civiltà. Il dramma dell’Islam
non è scritto in termini puramente religiosi, ma come una reazione e
contro-reazione al progetto culturale della modernità occidentale36.
35
N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Milano, Il Saggiatore, 2010.
M.G.S. Hodgson, The Venture of Islam, vol. 1, The Classical Age of Islam, Chicago, University of Chicago Press, 1974, p. 81.
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La Turchia gioca un ruolo importante in questa conversazione tra
civiltà, perché sin dall’abolizione del califfato37 e dalla svolta laicista
di Ataturk – così come oggi con il suo desiderio di entrare nell’Unione
Europea, che si esprime anche grazie a un potere politico che ha le sue
radici nel movimento islamico – essa ha rappresentato un’importante
posta in gioco, non solo per l’Europa, ma anche per il mondo arabo e musulmano. La Turchia, in quanto “cattivo musulmano” alleato
dell’Occidente, è stata a lungo ignorata, se non disprezzata, dal mondo
arabo. Oggi ha ottenuto un certo rispetto agli occhi dei nazionalisti
arabi per il suo rifiuto di sostenere la politica americana riguardo alla
guerra in Iraq38. Gli islamisti sono perplessi a causa della crescita di
un potere alternativo alla loro visione dell’Islam, e i riformatori iraniani stanno seguendo con molta attenzione l’esperimento democratico
condotto in Turchia.
È sulla base di questi frammenti anacronistici e tuttavia contemporanei, islamici ma non europei, che voglio cercare di comprendere il
modello ricorrente in questo incontro. La forza del male e le passioni
non sono affatto assenti; al contrario, sono parte integrante di questo
processo. Come ci ricorda Monique Canto-Sperber, ciò che si palesa
«nella nuova condizione del mondo […] sono le passioni che nascono
dal confronto del sé con gli altri. Queste passioni variano dall’invidia
al risentimento, fino a una cieca volontà di distruzione»39. La minima
differenza nella prossimità causa confronti e innesca passioni; la paura
di essere invasi dall’altro, la perdita della propria identità e della propria patria soggiace a questo incontro.
L’incontro tra Islam ed Europa non ha preso forma senza essere
accompagnato dalla sensazione di perdere la propria purezza e autenticità. Innalzando barriere basate sull’identità culturale, i musulmani e
gli europei cercano entrambi di superare il senso di smarrimento che
li coglie nel momento in cui si trovano gli uni in presenza degli altri.
37
Sul rapporto tra abolizione del califfato e l’ondata di islamismo contemporaneo
cfr. B.S. Sayyid, A Fundamental Fear. Eurocentrism and the Emergence of Islamism,
London, Zed Books, 1997.
38 S.J. Al-Azm, Time Out of Joint. Western Dominance, Islamist Terror, and the
Arab Imagination, «Boston Review», ottobre-novembre 2004.
39 M. Canto-Sperber, La Bien, la Guerre, et la Terreur, cit., p. 26.
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Per l’Islam, nella misura in cui si costituisce attraverso l’affermazione
della propria identità, il mondo moderno sta diventando insostenibile.
Dall’altro lato, quando gli europei rivendicano la loro cultura e la loro
identità come una identità civilizzatrice, è il progetto dell’Europa a
pagare un prezzo. Dobbiamo ricordare che la concezione positivista
della civiltà, tipica della Francia del XVIII secolo, ovvero la concezione che fu adottata dagli ottomani, aveva l’immenso vantaggio di
presentare l’occidente sotto una veste laica, piuttosto che cristiana40.
Oggi, la nozione di civiltà sembra essere più una questione di identità
culturale che di universalismo laico.
L’identità culturale diventa sempre più una fissazione e amplifica,
come se ci si trovasse di fronte a uno specchio, l’alterità di ciò che è
già Altro: civilizzato e barbaro, emancipato e sottomesso, europeo e
musulmano. Rendere l’altro ancora più diverso per creare la propria
identità è un modo per rendersi ciechi fissando l’immagine riflessa
dell’altro, di cadere in preda alle illusioni e di distruggere ogni possibilità di trovare un terreno comune, di costruire un legame tra il sé
e l’altro. È in una situazione in cui la distanza rassicurante non esiste
più che dobbiamo ripensare uno spazio che possa unire le persone.
La posta in gioco, per l’Europa, non è tanto il riconoscimento della
diversità islamica, ma al contrario la capacità di ripensare e ricostruire
uno spazio comune tra Europa e Islam, e di andare oltre il dialogo
basato sul conflitto. Ciò richiede che entrambe le parti vadano oltre le
loro fissazioni sull’identità culturale. I musulmani, che in Europa sono
una minoranza religiosa, devono imparare a vivere in mezzo ad altre
religioni41. L’antisemitismo, una questione che tocca il cuore stesso
40
F. Georgeon, “L’Empire ottoman et l’Europe au XIX siècle”, Turquie, la 28e
etoile? Un défi a relever, «Confluences Méditerranée», 52, inverno 2004-2005.
41 Tariq Ramadan, figura controversa dell’Islam europeo, ha tentato di concettualizzare la presenza dei musulmani in Europa. L’evoluzione della terminologia da lui utilizzata è significativa. Cfr. A. Roussillon, La Pensée islamique contemporaine: acteurs
et enjeux, Paris, Tetraedre, 2005. Ramadan cerca di definire le condizioni minime che
permettano ai musulmani di vivere come una minoranza in una società non musulmana,
senza contraddire la loro appartenenza alla comunità dei fedeli. Per superare la divisione binaria del mondo tra dar al-Islam e dar al-harb, all’inizio degli anni Novanta egli
propose di parlare di uno “spazio del patto” o di “spazio della pace” (dar al-sulh), e
introdusse in seguito il concetto di “spazio di testimonianza” (dar al-shahada), dove la
libertà di coscienza è protetta dalle Costituzioni. Cfr. T. Ramadan, Les musulmanes et la
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dell’Europa, è l’elemento guida di queste relazioni inter-religiose, la
cui importanza politica sta aumentando42. L’Europa è al tempo stesso
inseguita e turbata da questo passato. Il carattere europeo della Turchia è messo alla prova sulla questione del riconoscimento del genocidio armeno. Ciò significa superare il nazionalismo turco – che
si fonda sulla rimozione del suo passato multietnico e multireligioso.
La prospettiva europea può rendere questo sforzo più agevole oppure,
al contrario, può bloccarlo, se a prevalere è la narrativa egemonica e
identitaria dell’Europa cristiana.
L’Europa si definisce come un’identità o come un progetto politico?
Per moltissimi europei, tra i due aspetti vi è una continuità naturale.
Tuttavia, la bocciatura della bozza di costituzione europea ha rivelato
le tensioni esistenti tra le fissazioni identitarie e nazionaliste, e la costruzione di un progetto transnazionale. La tacita equazione tra il lascito culturale del passato, la religione cristiana, e il progetto europeista
è diventata esplicita quando ha dovuto confrontarsi con la questione
della presenza islamica in Europa. Senza essere troppo pessimisti, si
può dire che, alla luce degli eventi recenti, l’Europa in quanto progetto, come invenzione di un legame politico, di qualcosa in comune con
altri, come produzione di un’idea universale, come modo per creare un
mondo, è stata rallentata se non fermata del tutto. Per rimettere in moto
questo progetto, c’è bisogno di due chiavi di avvio e di un duplice
punto di vista. Come nella ricostruzione del ponte vecchio di Mostar, è
necessario trovare un terreno comune tra modi di agire, tra differenze
di civiltà, perché i ponti possano stare in piedi, e collegare persone,
religioni e continenti. Dunque, la questione dell’Europa, la questione
della civiltà, non può essere ridotta alla volontà politica, all’allestimento di spettacoli simbolici di costruzione e commemorazione. Deve
essere considerata come una specie di “assemblea costituente”, a cui
dare qualcosa come un “popolo” e un “ideale”43. In breve, deve essere
considerata come qualcosa su cui si innestano delle idee.
mondialization, «Pouvoirs», 104, 2003. Del medesimo autore, cfr Id. Islam. Le face-aface des civilisations. Quel Projet pur quelle modernité?, Lyon, Tawhid, 2001.
42 Cfr. M. Wieviorka, La tentation antisémite. Haine des Juifs dans la France
d’aujourd’hui, Paris, Robert Laffont, 2005.
43 J.L. Nancy, L’impossible acte constituant, “Le Monde”, 29 giugno 2005.
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Si tratta di un innesto politico che può essere ottenuto solo usando
strumenti intellettuali, ma che deve prendere in considerazione anche
le emozioni, le devastazioni e le tragedie. Ciò non porta a una narrativa
semplice per quanto riguarda l’interazione, il dialogo interculturale, e
la coesistenza tra culture. Richiede un processo di interpenetrazione,
o persino una controversia inscritta nel corpo, nella memoria, e nello
spazio. Non possiamo diventare reciprocamente contemporanei senza
dispute, senza anacronismi durevoli, o senza accettare che potrà esservi disaccordo.
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