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MODERNITÀ POSTSECOLARE a cura di Massimo Rosati Nilüfer Göle L’ISLAM E L’EUROPA Interpenetrazioni ARMANDO EDITORE GÖLE, Nilüfer L’Islam e l’Europa. Interpenetrazioni ; Roma : Armando, © 2013 176 p. ; 20 cm. (Modernità postsecolare) ISBN: 978-88-6677-102-9 1. Islam e modernità 2. Islam e globalizzazione 3. La laicità: spazio pubblico e mondo femminile CDD 300 Traduzione di Andrea Cossu Titolo originale: Interpénétrations. L’Islam et l’Europe © Galaade Éditions, 2005 Published by arrangement with Agence litteraire Pierre Aster & Associés © 2013 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-16-003 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected] SOMMARIO Introduzione Diventare contemporanei Nuovi, vecchi ponti La nuova, vecchia Europa Luoghi pubblici e politica Frammenti dell’Islam: un movimento espressivo L’istantanea terrorista L’istante e le istantanee Islam e modernità Un nuovo immaginario islamico Le Twin Towers e il desiderio mimetico Violenza e purezza Gli attentati di Istanbul e la scenografia islamica Temporalità e istantanee terroriste Un momento chiave del terrorismo globale? La rappresentazione di una umma transnazionale Una scenografia del religioso Un Islam dal volto umano Islam e globalizzazione: somiglianza o alterità? Islam e globalità Somiglianza e prossimità L’immaginario collettivo musulmano 9 10 13 17 24 27 37 37 40 43 44 45 51 53 54 55 58 62 65 69 73 75 Modernità e tassonomie: globale e locale Dalla imitazione intellettuale all’intellettuale indigeno La detradizionalizzazione e il passato Extra-modernità Località e mobilità Simultaneità e extra-modernità Laicità, spazio pubblico e visibilità dell’Islam La laicità e la creazione delle élite repubblicane Spazio pubblico e spazio delle donne Donne e civiltà Civilizzazione e pratiche civili La querelle tra cultura e civilizzazione L’islamizzazione dei costumi, dei corpi e dello spazio Sfera pubblica e sfera privata Cittadinanza e impegno pubblico Islam e spazio pubblico: la questione della donna La laicità, dalla Turchia alla Francia La donna come chiave della modernità Prossimità e relazioni faccia a faccia: lo spazio pubblico Il velo, il rovesciamento dello stigma e la controversia sulle donne Donne, Islam e femminismo Il conflitto delle temporalità Il rovesciamento dello stigma Un altro uso del corpo Dare un’identità all’Europa: alterizzare la Turchia? Dalle opinioni all’opinione pubblica L’Europa: identità o progetto? 77 80 83 89 90 92 99 101 105 111 112 116 122 125 129 129 132 134 138 143 145 147 149 153 157 158 161 L’abbandono della “purezza” europea L’Islam come riappropriazione critica della modernità Abbandonare l’equazione Occidente = civilizzazione Ripensare i fondamenti dello spazio pubblico europeo 167 167 170 171 INTRODUZIONE Questo libro parte da una semplice constatazione: nel mondo moderno, l’Islam sta assumendo un carattere contemporaneo. Benché semplice, questa affermazione non è per niente facile da risolvere, perché si accompagna a un processo di confronto che chiama in causa la coscienza della modernità. In effetti, l’ingresso dell’Islam sul proscenio della storia non sempre avviene in modo pacifico, né segue una logica di assimilazione al mondo occidentale. Le modalità della sua comparsa nella contemporaneità introducono anacronismi che coinvolgono le fondamenta stesse della modernità, e che non lasciano indenni le società occidentali e la coscienza che queste ultime hanno di sé. L’incontro tra l’Islam e la modernità ha prodotto delle trasformazioni reciproche, e ha confuso i riferimenti di quest’ultima. Prossimità e distanza: questo libro cerca di indagare questo doppio movimento di attrazione e repulsione. È in Europa che si può osservare al meglio questo incontro, perché è in Europa che esso è messo in scena nelle pratiche individuali e nel dibattito pubblico. L’Islam si inserisce in modi diversi in questo spazio, e diventa dunque una questione europea. A sua volta, l’identità è sempre più trasformata e chiamata in causa dalla presenza dell’Islam. Queste zone di contatto e di confronto devono essere messe in rilievo per studiare il rapporto tra l’Islam e l’Europa. Bisogna adottare un’ottica più trasversale e performativa, al fine di mostrare come questo processo di interscambio trasformi l’uno e l’altra? Nel quadro di questo interscambio, tuttavia, alcuni effetti inattesi sfuggono di mano agli attori e alle loro intenzioni. Questi effetti rappresentano un fatto inedito nell’esperienza sociale, ed è grazie ad essi che si produce la storia. Questo saggio ha l’ambizione di sollevare il velo di oscurità che nasconde l’esperienza sociale, questo processo in divenire e non anco9 ra realizzato – in altre parole, di cercare nelle istantanee del presente il disegno della storia. È un modo di pensare la storia attraverso eventi specifici, nei frammenti del presente. Come si può, tuttavia, attribuire loro un senso prima che essi siano conclusi, archiviati e catalogati nel tempo? Come distinguere ciò che è significativo da ciò che è triviale o effimero? Questo compito è tanto più arduo quanto più la coscienza moderna cerca di salvaguardare il suo monopolio sulla definizione di civiltà, la sua sovranità originaria su ciò che è universale. Come si può superare il quadro cognitivo dentro il quale si sviluppa la narrazione della modernità? È necessario operare un decentramento della visione europea, adottare una doppia prospettiva, europea e musulmana al tempo, al fine di spezzare questo quadro di riferimento e andare oltre lo specchio della coscienza moderna. Dobbiamo svolgere un lavoro sociologico che comporta la traduzione simultanea delle pratiche tra culture, un lavoro che va fatto negli interstizi e nelle zone di contatto e confronto. Cosa stiamo cercando, se non ciò che non può essere udito, un significato deviato che è lost in translation?1 La voce del sociologo, dunque, al posto di mascherarsi in nome di una presunta oggettività scientifica, si farà sentire – come Clifford Geertz ci ha invitato a fare2 – in modo tale da far spazio alla riflessività interculturale. Diventare contemporanei L’undici settembre 2001 ha rivelato in modo chiaro l’irrompere violento dell’Islam nel cuore del centro egemonico dell’Occidente. Questa data segna l’avvio di una nuova fase della globalizzazione, non solo per l’Islam ma anche per gli Stati Uniti, che fino a quel momento erano stati risparmiati dagli effetti devastanti di questo fenomeno. L’Islam si è mostrato al mondo come qualcosa di molto contemporaneo: rifiutato come “medievale” e “oscurantista”, è riemerso al centro della vita contemporanea. Da quel momento in poi, esso ha costituito 1 2 10 Dal titolo del film di Sofia Coppola. C. Geertz, Opere e vite. L’antropologo come autore, Bologna, il Mulino, 1990. un “problema” per le concezioni del mondo consolidate. Il fenomeno islamista, la cui gestazione va fatta risalire all’inizio degli anni Ottanta, e che non può essere ridotto al solo terrorismo, non è più limitato al Medio Oriente o al mondo arabo. Esso non riguarda più solo l’Iran sciita o la laica Turchia, ma circola da un contesto all’altro, acquista una forza transnazionale, e si installa negli spazi dell’Occidente, nel Weltzeit. Anche se la globalizzazione vuol dire che aree del mondo che solitamente erano distinte, separate dal tempo e dalla distanza, si stanno avvicinando dal punto di vista spaziale e temporale, una delle caratteristiche principali dell’attuale incontro tra l’Europa e l’Islam3 è il suo legame stretto con le strutture e le reti globali di comunicazione. La sincronicità dell’evento produce anche effetti perversi, incomprensioni, collisioni tra pubblici diversi. Dall’undici settembre, un evento che è stato vissuto in diretta su una scala globale, fino alle foto dei soldati americani nella prigione di Abu Ghraib e i video degli ostaggi in Iraq, tutti questi fenomeni testimoniano sia la costituzione di un pubblico globale sia la collisione tra vari pubblici, che li porta a mobilitarsi per la guerra e il terrorismo. A differenza di altri periodi storici, in cui la relazione tra Islam ed Europa era regolata, come nel caso del colonialismo, dalla distanza geografica e anche da differenti temporalità (una più “sviluppata” dell’altra), l’epoca in cui viviamo fornisce prova della simultaneità e della prossimità delle esperienze. Nondimeno, questa situazione di prossimità è vissuta da entrambe le parti in un modo al tempo stesso accecante e inquietante, al punto di rendere la contemporaneità difficile o persino insostenibile. Ciò accade perché la contemporaneità non è semplicemente un’esperienza cronologica del tempo presente ma, piuttosto, un’esperienza di riconoscimento. Estendendosi al di là del dominio delle relazioni interpersonali, non è né immediata né scontata; al contrario, 3 Dare un nome all’uno e all’altra è problematico. È difficile designare l’Europa come un’entità omogenea e ben definita, delimitata da delle frontiere fissate una volta per tutte. In modo simile, l’Islam non è un’entità omogenea. Questo libro vuole offrire una traccia d’analisi per superare queste semplificazioni. Si tratta di comprendere come queste etichette prendano forma in un processo intersoggettivo e interculturale. 11 essa deve essere costruita in modo anonimo. Paul Ricoeur, riflettendo sull’articolazione tra memoria individuale e memoria collettiva, enfatizza le variazioni nel rapporto tra il sé e l’altro. In questo contesto, sorge dunque la questione della prossimità come una relazione dinamica da essere perseguita e costruita: “rendersi vicini, e sentirsi vicini”4. La contemporaneità esistente tra Islam e Occidente implica tale questione di prossimità. È quando diventa contemporaneo all’Occidente che l’Islam rivela la sua relazione anacronistica con la modernità. I suoi attori affermano la loro presenza in Europa attraverso simboli religiosi quali i riferimenti alla sfera del sacro, le pratiche rituali, o indossando simboli religiosi in spazi laici e profani. La contemporaneità e l’anacronismo sono legati all’espressione delle relazioni di potere tra chi fa appello alla contemporaneità come se fosse un potere esclusivo che agisce sulla modernità, e quelli che non si identificano con l’esperienza occidentale della modernità e affermano la loro differenza acronica rifiutando l’espressione di questo dominio. Quindi, sia la “negazione” da parte dell’Occidente, sia il “rifiuto” da parte dei non occidentali, implicano tali relazioni di potere tra i paesi collocati nel “centro” e tutti quelli che non lo sono. Le critiche di impostazione postcoloniale, comprese quelle rivolte dall’interno dei “subaltern studies” in India5 e quelle portate dalla rivoluzione islamica in Iran, possono essere viste come un rifiuto di assimilare la modernità, portate avanti attraverso una strategia assoluta di anacronismo. Nel contesto europeo, tuttavia, dove il comfort della distanza è stato perduto e dove le pratiche sono sincronizzate, la questione della prossimità emerge con maggiore intensità. In Europa, più che in ogni altra parte del mondo, la questione della contemporaneità con l’Islam è una questione cruciale, una questione da cui dipende lo sviluppo stesso dell’Europa, perché è su questo punto che questo tipo di incontro/scontro si manifesta, come prossimità tra Islam ed Europa. 4 P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina, 2003. Ringrazio Olivier Abel per aver attirato la mia attenzione su questo approccio alla contemporaneità. 5 D. Chakrabarty, Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton, Princeton University Press, 2000. 12 La produzione strutturale della prossimità e della simultaneità è legata all’esperienza sociale dei musulmani e degli europei; il passato coloniale (e anche l’impatto della storia dell’Impero Ottomano, che è riconosciuto con maggior difficoltà)6, le migrazioni, e più di recente la globalizzazione, hanno contribuito all’intrecciarsi delle pratiche umane. È dunque difficile – o persino impossibile – parlare di civiltà distinte7; la modernità è stata trasmessa come un vettore dell’immaginario sociale laico (e anche come vettore dell’uguaglianza e della libertà), ha preso corpo nelle istituzioni (lo Stato-nazione, il parlamento, la società civile), è stata standardizzata dall’economia di mercato (e dal suo corollario, la società dei consumi), e ha finito con l’acculturare popoli molti distanti dal centro della modernità. Oggi, la globalizzazione accelera la circolazione e moltiplica le reti di connessione tra le diverse parti del mondo, uomini e donne, pubblici e mercati. Le differenze che stanno emergendo non provengono dall’esterno del sistema globale, ma dall’interno, anche da dentro l’Europa. I paesi europei stanno facendo esperienza della presenza dell’Islam al loro interno e si confrontano col problema della convivenza. Nuovi, vecchi ponti La vicenda della distruzione e della ricostruzione dello Stari Most (il “ponte vecchio”) a Mostar, in Bosnia, raccontata in modo magistrale da Michael Ignatieff nel suo libro Kaboul-Sarajevo8, ci fornisce degli elementi per comprendere la complessità della presenza islamica in Europa, l’eredità ottomana nei Balcani, e la “memoria lunga” che dà 6 Edgar Morin mostra come la storiografia europea abbia esteriorizzato la Turchia anche quando essa era un impero europeo. Nel XIV secolo, durante la famosa battaglia della Piana dei Merli a Kosovo Poljie, in cui gli ottomani sconfissero i serbi, vi erano dei cristiani tra le file ottomane, e dei musulmani tra le file serbe. Cfr. E. Morin, Le test europeen, in «Le Journal du Dimanche», 10 ottobre 2004. 7 S.N. Eisenstadt, W. Schluchter, Introduction: Paths to Early Modernities. A Comparative View, in «Daedalus», 127(3), 1998, p. 6. 8 M. Ignatieff, Kaboul-Sarajevo. Les Nouvelles frontières de l’empire, Paris, Seuil, 2002. 13 forma ai conflitti nel presente9. Nel 1566, in un’epoca in cui il dominio dell’Impero Ottomano si estendeva fino a Budapest, un ingegnere di nome Hayreddin, allievo di Sinan, a sua volta l’architetto capo di Solimano il Magnifico, giunse nella città di Mostar per costruire un ponte sulla Neretva, perché fosse un simbolo dell’autorità imperiale ottomana e per collegare le moschee e i mercati situati sulle due rive del fiume. Nel corso dei secoli, la bellezza di questo ponte conquistò i cuori della gente, e diventò un simbolo della città. Ignatieff stesso racconta che lo vide per la prima volta quando era ancora un bambino, durante un viaggio con i suoi genitori da Belgrado a Dubrovnik, passando per Sarajevo e Mostar. Egli visitò per la prima volta una moschea a Sarajevo, la grande moschea al centro del bazar della città vecchia, e lì capì che anche in Europa c’erano dei musulmani, e che vi avevano vissuto per secoli. Anche lo Stari Most fece su di lui una grande impressione. Egli scrive che era «in una bellissima pietra bianca, arcuato sulle tumultuose acque blu, e sembrava avere una delicatezza incredibile, troppo esile per sopportare il peso di un uomo o di un cavallo». Eppure questo ponte aveva sopportato ogni peso, sia fisico sia simbolico. Restò al suo posto dopo che gli ottomani furono scacciati dalla Bosnia nel decennio 1890-90, sopravvisse alla prima guerra mondiale e agli scontri tra serbi e austroungarici, e alle battaglie combattute dai partigiani durante la seconda guerra mondiale. Nella Yugoslavia di Tito e durante gli anni Sessanta e Settanta, cominciò ad avere una certa popolarità; per visitarlo, i turisti venivano in autobus da tutta l’Europa meridionale. Fu solo nel 1992-93 che la follia si impadronì degli abitanti di Mostar; squadre paramilitari croate e musulmane, i cui membri erano stati compagni di scuola e che erano poi diventati nemici, si spararono contro per diciotto lunghi mesi, in una lotta condotta casa per casa. Il 9 novembre 1993, l’artiglieria croata distrusse il vecchio ponte. Un video amatoriale mostra il ponte che crolla nel fiume. «Quando si distrugge un ponte, resta di solito una specie di moncherino su una delle rive. A prima vista sembrava che il ponte fosse crollato senza lasciar traccia di sé, portando con sé parte 9 Un libro di Ivo Andric, premio Nobel per la letteratura nel 1961, Il ponte sulla Drina, spiega bene la complessità dell’identità bosniaca. 14 della roccia, le torri di pietra che lo sovrastavano, e brandelli di suolo bosniaco. Più tardi, ci accorgemmo che sulle due rive c’erano delle vere e proprie ferite, aperte e sanguinanti», scrisse Predrag Matvejevic, uno scrittore nato a Mostar nel 193210. A quel punto, la comunità internazionale diede il suo contributo per ricostruire lo Stari Most, il cui carico simbolico era molto pesante: un ponte tra passato e futuro, tra croati e musulmani, tra la Bosnia e la comunità internazionale, tra il mondo musulmano e l’Europa11. La sua ricostruzione era vista come un contributo allo “spettacolo della riconciliazione” dopo dieci anni di divisioni tra croati, serbi, e bosniaci. L’uomo che fu scelto per ricostruire il ponte non era né croato né musulmano, bensì un architetto francese, Gilles Pequeux, che non aveva nemmeno mai visto il ponte prima della sua distruzione. Forse non è un caso che l’incarico fu affidato a un architetto francese formatosi alla scuola di Ponts et Chausses creata da Napoleone. Possiamo infatti segnalare, come fa del resto Ignatieff, che gli ingegneri ricoprivano un ruolo importante presso i sultani di Istanbul quanto presso i re e gli imperatori francesi. Un simbolo dell’influenza ottomana in Europa, lo Stari Most attirò anche l’attenzione delle agenzie governative turche e degli uomini d’affari, che parteciparono al finanziamento e alla sua ricostruzione. Gli europei, i turchi e i bosniaci si affrettarono a ricostruire senza indugi il ponte di Mostar, al fine di recuperare un pezzo di storia, di cancellare le cicatrici, e di elaborare il lutto. L’inaugurazione del nuovo ponte, il 23 giugno del 2004, diventò uno spettacolo di riconciliazione, un’occasione per la proliferazione di metafore politiche che, secondo l’architetto, compromise lo stesso progetto di ricostruzione. Riconsegnare al mondo contemporaneo un vecchio ponte, creare un “nuovo ponte vecchio”, è infatti un compito niente affatto facile. Per Gilles Pequeux, il progetto si collocava nell’atto stesso di ricostruire il ponte; occorre tempo per studiare approfonditamente cosa gli architetti del passato avevano in mente, senza fare del ponte ricostruito una copia o un’imitazione: «l’idea era di entrare nello stato d’animo 10 P. Matvejevic, “Ce Pont entre Orient et Occident”, in Stari Most/Le Vieux Pont de Mostar, a cura di G. Pequeux, Y. Le Corre, Paris, Gallimard, 2002. 11 Ivi, p. 28. 15 di Hayrredin, un turco che era giunto a Mostar con un seguito di due o tre turchi e una trentina di persone dalla regione dei Balcani. Ciò di cui bisognava tener conto era il fatto che in Oriente la pietra è tagliata in modo diverso da come è tagliata in Occidente (che nel caso specifico includeva un’area che si estendeva fino a Venezia). Ciò che è commovente, riguardo a questa opera costruita nel XVI secolo, è il fatto che essa è più una scultura collettiva che una classica opera d’arte. Dico “scultura collettiva” perché la bellezza di questa opera consiste nel fatto che essa è una serie di errori corretti da una miscela di competenze tecniche orientali e occidentali. In un certo senso, Mostar è il luogo dove Oriente ed Occidente si sono stretti la mano»12. Gli eventi in Bosnia possono essere stati dei presagi precoci della tragedia che oggi si svolge in tutta Europa: è là, nel cuore della Mitteleuropa, che la identità europea dei musulmani bosniaci è stata messa a dura prova. Nel 1995, durante la guerra in Bosnia, laddove il governo serbo conduceva una politica di distruzione e pulizia etnica diretta contro le popolazioni croate e musulmane della Bosnia, le autorità politiche europee rimasero inerti, lasciando il campo all’esercito americano. Senza l’iniziativa di alcuni intellettuali francesi e americani (come Susan Sontag) che cercarono di essere vicini al popolo bosniaco, l’opinione pubblica europea sarebbe rimasta indifferente, o avrebbe addirittura mostrato una certa riluttanza a riconoscere la politica di pulizia etnica portata avanti da Slobodan Milosevic per quella che era in realtà13. Il documentario politico prodotto nel 1994 da Bernard Henry-Levy e Alain Ferrari, Bosnia!, sembrava un grido di indignazione rivolto all’opinione pubblica internazionale, ma anche uno sguardo sull’Europa stessa. Il film si concludeva con l’espressione della speranza che “L’Europa non muore a Sarajevo”. Come se 12 Incontro con Gilles Pequeux, ingegnere incaricato della definizione, il coordinamento e la supervisione degli studi per la ricostruzione del ponte di Mostar, in occasione della “Journée du Courrier des Balkans”, 1 marzo 2003. 13 La corte d’appello del Tribunale Penale Internazionale (TPI) sull’ex Yugoslavia ha definitivamente confermato, il 19 aprile 2004, che il massacro dei musulmani bosniaci di Srebrenica (Bosnia orientale) rappresenta un genocidio. Dopo dieci anni, l’11 giugno 2005, l’anniversario del massacro di ottomila uomini e bambini musulmani ad opera delle forze serbe è stato commemorato come il peggior massacro perpetrato in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale. 16 fosse una specie di “piccola Europa”, la Bosnia divenne la metafora della distruzione e della ricostruzione dell’Europa. Il film di Jean-Luc Godard Notre Musique (2004) formula lo stesso desiderio ed esplora la ricostruzione del ponte di Mostar e della città di Sarajevo come una metafora per una possibile riconciliazione globale. La nuova, vecchia Europa In effetti, la questione che sorge nel mondo contemporaneo è se l’Europa rappresenti un luogo di riconciliazione, uno spazio comune, un progetto per il futuro, quando si trova di fronte a temi caldi contemporanei che prendono corpo su scala globale. Come può costruirsi la nuova, vecchia Europa senza cadere nei labirinti del passato, da un lato, e nel rifiuto di accorgersi di quale sia oggi la posta in gioco? In altre parole, come può la vecchia Europa diventare contemporanea? L’Europa è vecchia come il ponte di Mostar: e come questo ponte, vuole essere costruita come un luogo di circolazione e riconciliazione. E dunque, non possiamo far altro che trovarci d’accordo con Ignatieff quando scrive: «c’è una certa ironia nel fatto che l’Europa vuole al tempo stesso tenere fuori i turchi e ricostruire questo ponte, che è un simbolo del suo multiculturalismo e della eredità culturale musulmana»14. La distruzione di questi luoghi, e anche la loro ricostruzione, rivela la battaglia combattuta oggi sui simboli e sulle relazioni di potere che essi esprimono. A differenza del ponte di Mostar, il vuoto lasciato dal World Trade Center non è stato fino ad oggi riempito. Il progetto di ricostruzione continua ad essere oggetto di controversie tra architetti, promotori, rappresentanti eletti nelle istituzioni, e le famiglie delle vittime. “Ground Zero” è diventato un luogo dove sono coinvolti aspetti emotivi e politici. Le famiglie delle vittime chiedono uno spazio maggiore per il monumento che le ricorda, i residenti del quartiere non vogliono vivere con un cimitero nel cuore della loro comunità, e i promotori dell’iniziativa oltre che gli uomini d’affari di Wall Street 14 M. Ignatieff, Kaboul-Sarajevoi, cit., p. 27. 17 vogliono far valere le leggi del mercato. Ancora una volta, come nel caso del ponte di Mostar, il progetto di ricostruzione è stato compromesso dal suo peso simbolico, dalla sua carica emotiva, e dalla pressione esercitata dal potere politico ed economico. L’architetto autore del progetto, Daniel Libeskind, che deve la sua fama al museo ebraico di Berlino (2001), cerca di collegare memoria e speranza, seguendo lo spirito delle sue opere precedenti15. La domanda che egli pone è come si possa costruire sulla tragedia, come perpetuare la memoria dei morti e al tempo stesso guardare avanti dando un messaggio di speranza. Con la “Freedom Tower”, che vuole essere più che un semplice edificio commemorativo, Libeskind ha immaginato uno “spazio comune” che include i simboli della democrazia. La torre sarà alta 1776 piedi, una allusione diretta alla data della dichiarazione di indipendenza americana, e sormontata da una struttura che allude al braccio della statua della Libertà, alzato a tenere la torcia16. Pertanto, pensare, immaginare e costruire uno spazio comune, condividendo i simboli di tradizioni e traiettorie differenti da quelle dell’Occidente, non è un compito facile. Dopo la guerra in Iraq, è comparsa una frattura tra due visioni dell’Occidente; l’America e la vecchia Europa (in particolare, la Francia), che chiama in causa lo spazio e l’azione comune, divergendo sulla definizione di libertà e sul significato di “democrazia occidentale”. Non dobbiamo sottovalutare le relazioni di potere, oltre che la concorrenza interna all’Occidente per l’appropriazione della memoria, dei luoghi e dei simboli della modernità. Le torri gemelle erano uno specchio della grandezza della volontà di controllo sul mondo da parte delle reti di scambio finanziario, proprio come il ponte di Mostar, piccolo e bellissimo, era il simbolo di una zona di contatto e scambio tra frontiere culturali e religiose. È dunque all’opera una gerarchizzazione che coinvolge le tassonomie 15 Per una autobiografia dell’architetto, si veda D. Libeskind, Construire le futur. D’une enfance polonaise a la Freedom Tower, Paris, Albin Michel, 2005. 16 La statua originale è stata ufficialmente donata agli Stati Uniti il 4 luglio 1884 a Parigi. La statua della Libertà rappresenta una donna avvolta in una toga, che brandisce una torcia nella mano destra. Sulle tavole che tiene nella mano sinistra si può leggere in numeri romani la scritta “4 luglio 1776”, giorno dell’Indipendenza americana. Ai suoi piedi si trovano le catene spezzate della schiavitù. 18 dei luoghi e dei simboli, e la loro iscrizione nella memoria globale17. In effetti, la memoria diventa un luogo nel quale si combatte per l’accesso all’universale e al globale. Non si tratta più di una “memoria giusta”, ma piuttosto «di un inquietante spettacolo che rivela ora un eccesso di memoria, ora un eccesso di oblio»18. La distruzione delle torri gemelle e la data “9/11” aprono la strada al nuovo ordine mondiale, di cui sono il fondamento. Dal punto di vista della storia europea, la distruzione del ponte di Mostar e la pulizia etnica in Bosnia non sono state meno significative. Eppure, questi eventi non sono stati considerati con altrettanto zelo; non sono stati contrassegnati da una data e dunque sono stati abbandonati all’oblio. È questo forse il segno di un cedimento del progetto europeo? L’Europa, come il ponte di Mostar, piccolo nelle dimensioni ma capace di portare le intelligenze da una riva all’altra, facendo attraversare le frontiere tra civiltà, è diventata troppo vecchia, una volta passata la fase del suo massimo splendore, per fronteggiare il nuovo mondo, tirata da una parte dall’America, e dall’altra dall’Islam? Il carattere antico dell’eredità culturale europea, fonte delle sue ricchezze, sembra essere troppo oneroso e rappresenta un ostacolo per l’Europa come idea e come luogo, come concetto, come progetto di “costruzione di un mondo”19. Eppure, solo un tale progetto permetterà ai paesi europei di superare le esperienze nazionali e trascenderle in tempi e in spazi comuni, e di pensare a come diventare europei. Il confronto tra l’Europa e la potenza americana da un lato, e il disaccordo con l’Islam dall’altro, mettono a rischio il progetto europeo, gli fanno correre un grave pericolo. Il referendum che ha bocciato il trattato sulla costituzione europea, prima in Francia (55% di no, il 30 17 La serie su Lieux de Mémoire diretta da Pierre Nora (Paris, Gallimard) vuole considerare i luoghi della memoria come oggetti storici da analizzare per comprendere la costruzione nazionale della memoria. La globalizzazione trasforma considerevolmente la relazione tra luoghi e memoria. 18 P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, cit.; R. Robin, La mémoire saturée, Paris, Stock, 2003. Cfr. anche A. Laignel-Lavastine, Face a l’histoire, la recherche d’une “juste mémoire”, “Le Monde”, 22 maggio 2005, p. 12. 19 Riprendo l’espressione dal volume di N. Karagiannis, P. Wagner (eds.), Varieties of World-Making. Beyond Globalization, Liverpool, Liverpool University Press, 2006. 19 maggio 2005) e in seguito, tre giorni più tardi, nei Paesi Bassi (i no furono il 62%), rappresenta la comparsa di una frattura tra il sentimento nazionale e il progetto europeo. Nazioni così diverse tra loro come la Francia e i Paesi Bassi, gli uni orientati verso il multiculturalismo, l’altra verso il repubblicanesimo, hanno usato una sola voce per difendere il valore della propria identità, e hanno mostrato entrambi un rifiuto di fronte all’intrusione dell’Islam nel loro orizzonte simbolico e nel loro quotidiano. Non è azzardato sostenere che i due paesi che hanno bocciato la bozza di costituzione attraverso un referendum sono anche quelli dove l’Islam è oggetto di un acceso dibattito. La questione dell’immigrazione e quella della candidatura turca hanno determinato l’agenda del dibattito pubblico sull’Islam. La presenza dell’Islam in Europa, veicolata dagli immigrati o portata dal desiderio europeista dei turchi, è sembrata agli occhi della coscienza collettiva europea una intrusione forzata, subita e non voluta, che ha provocato una sensazione di dissoluzione della propria identità e dei confini culturali e geografici; insomma, come un’invasione. Il senso di essere “a casa” sembra essere stato minacciato dalla presenza dei musulmani in Europa. Gli attacchi del terrorismo islamista di Al-Qaeda nel cuore di città come Istanbul (15 e 20 novembre 2003), Madrid (11 marzo 2004), o Londra (7 luglio 2005), non hanno fatto altro che rafforzare la sensazione di fronteggiare un “nemico interno”20. Benché la dimensione transnazionale delle reti terroriste sia un dato acquisito, l’identità degli autori degli attentati suicidi è stata un motivo di sorpresa sia in Turchia sia in Spagna sia, più recentemente, in Inghilterra. Gli autori degli attentati non provenivano dall’estero ma erano dei cittadini britannici di origine pakistana (e nati in Gran Bretagna) che conducevano una vita tranquilla, integrati nella società britannica (uno di loro lavorava nel negozio di fish and chips di suo padre, un segno dell’adattamento ai gusti alimentari britannici; un altro insegnava in una scuola per studenti disabili, un fatto che potrebbe essere preso come un segno della sua umanità). Qual è il motivo per cui dei musulmani britanni20 Titolo di un articolo comparso sul settimanale The Economist dopo gli attentati di Londra: The Enemy Within, «The Economist», 16-22 luglio 2005, p. 24. 20 ci, preoccupati per la vita del loro quartiere, delle loro famiglie e per il proprio lavoro, si sono fatti conquistare da una mentalità jihadista caratterizzata dall’odio e dalla distruzione? Questa domanda è fondamentale, ma resta senza risposta. Dietro questi atti possiamo scorgere una comunità religiosa, una umma transnazionale indipendentemente dalle origini nazionali. Una categoria jihadista musulmana che non si limita ai musulmani arabi, e non risparmia i pakistani britannici, trascendendo così ogni frontiera nazionale, regionale e confessionale. Questo è ciò che è svelato dall’intreccio tra l’Islam transnazionale e la sua iscrizione nel suolo europeo. L’assassinio di Theo Van Gogh (il 2 novembre 2004) è stato un evento che ha rivelato le modalità violente con cui avviene questa iscrizione. Theo Van Gogh impersonava la libertà di parola e di provocazione intellettuale, cara alla tradizione olandese. La sua morte per mano di un immigrato marocchino, a causa di un documentario che egli aveva realizzato e che trattava la condizione della donna musulmana, ha avuto importanti ripercussioni e ha originato un dibattito sui limiti della tolleranza. L’evento ha mostrato la costellazione di problemi che riguardano l’immigrazione, l’Islam, la questione del genere, e il confronto con le leggi europee. Il suo film, intitolato Submission, è stato prodotto con Hirsi Ali, una parlamentare olandese, una figura pubblica conosciuta per le sue posizioni critiche riguardo alla religione islamica come fonte di sottomissione delle donne. Lei stessa, una rifugiata di origine somala, ha avuto successo nel varcare i confini della sua comunità e dell’oppressione, ed è diventata una portavoce del diritto all’emancipazione delle donne musulmane. La produzione del film da parte di queste due figure, dalle diverse traiettorie personali, di cultura, religione, e genere diversi, ha reso concreta la prossimità, l’incontro, l’incrocio tra i loro due mondi. Ma il cammino che porta all’incontro non è riuscito a evitare ciò che essi condannavano: la violenza. Il messaggio del film è semplice: l’Islam sottopone le donne a pratiche crudeli. Il documentario inizia con una preghiera e racconta la storia di quattro donne che parlano a Dio della loro sofferenza, degli abusi che hanno subito da parte degli uomini: matrimonio forzato, incesto, violenza domestica, lapidazione per adulterio. La decisione di mostrare delle immagini di donne vestite di stoffa trasparente, con dei 21 versetti del Corano dipinti sulla pelle suscitò aspre reazioni. Per certi critici, il film non evita la semplificazione caricaturale nella rappresentazione dell’Islam, col risultato di denigrare le donne musulmane21. La traduzione delle esperienze interculturali non è un atto privo di rischi; può portare facilmente a una banalizzazione del senso e a una collisione tra pubblici differenti. Nel contesto europeo, i musulmani si trovano a dover riflettere sul loro status di minoranza e sul loro legame con i non musulmani. La questione del genere, dello status delle donne, è centrale per questa riflessione. Allorché la definizione europea di cittadinanza si fonda sulla questione del genere e della sessualità, l’assassinio di Theo Van Gogh ha rivelato un vero e proprio repertorio del dissenso, e ha mostrato le difficoltà di negoziazione e argomentazione tra due sistemi di valori, la libertà di parola e l’emancipazione femminile da un lato, e la blasfemia e la sacralizzazione della donna dall’altro. Al tempo stesso questo scontro, anche violento, ha intensificato l’iscrizione dell’Islam nella coscienza pubblica olandese – in un modo molto concreto, perché il delitto è avvenuto nelle strade di Amsterdam, è stato registrato, macchiato con il sangue e rivendicato dal terrorista con una lettera scritta in olandese e indirizzata agli olandesi. Ciononostante, bisogna evitare di adottare un punto di vista eccessivamente binario sull’Islam e l’Europa, e interrogarsi sul ruolo che le norme religiose e i valori liberali rivestono in Europa22. A questo proposito, si può attirare l’attenzione sul divieto – in Francia nel 2005, su richiesta di un’associazione cattolica – di mostrare la pubblicità di una marca di vestiti23. La campagna pubblicitaria si ispirava all’Ultima cena di Leonardo Da Vinci. La pubblicità mostrava un solo uomo, l’apostolo 21 A. Moors, “Submission”, in Debates on Islam in Europe, «ISIM Review», 15, 2005. 22 José Casanova ha attirato l’attenzione sul ruolo crescente della religione nella vita moderna. Egli ha mostrato come le religioni siano “deprivatizzate”: sia il cattolicesimo che il protestantesimo, in paesi molto diversi come la Spagna, la Polonia, i Paesi Bassi e gli Stati Uniti, non si nascondono più nella sfera privata ma si manifestano nella vita pubblica. Cfr. J. Casanova, Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla conquista della sfera pubblica, Bologna, il Mulino, 2000. 23 L’affissione della pubblicità per l’azienda d’abbigliamento Marithe et Francois Girbaud è stata vietata dal tribunale di Parigi il 10 marzo 2005, dando così ragione all’associazione cattolica “Croyances et Libertés”. Cfr. “Le Monde”, 2 aprile 2005, pp. 39-40. 22 Giovanni, ritratto di spalle e vestito di jeans, mentre gli altri apostoli erano rappresentati da donne vestite con abiti firmati. Questa inversione dei sessi voleva essere un rimando al best seller di Dan Brown, Il codice Da Vinci, dove lo scrittore afferma che, nell’affresco che ritrae l’ultima cena, la persona seduta alla destra di Gesù non è Giovanni bensì Maria Maddalena. Gli ideatori della campagna volevano dare una nuova rappresentazione all’ultima cena, e dare potere alle donne, sostituendo Gesù e gli apostoli con delle donne che imitavano parodisticamente gli atteggiamenti e i gesti dipinti da Leonardo. Questa campagna pubblicitaria è stata vietata perché offendeva i sentimenti religiosi dei cattolici. Questa controversia mostra anche la complessità delle interconnessioni tra il sacro, i simboli religiosi, l’inversione dei ruoli sessuali, i corpi delle donne e le leggi del mercato e del desiderio. Oltre a tutto ciò, mostra anche come le questioni che hanno fatto emergere gli attori dell’Islam sulle frontiere tra il sacro e il mercato, la religione e la cultura, il pudore e la sessualità, non siano esterne alla modernità, allo sviluppo dell’Europa; al contrario, si evince come esse siano molto vicine al nucleo delle domande fondamentali sulle definizioni etiche, estetiche e scientifiche del soggetto e del suo corpo. Le questioni che riguardano la sessualità, l’aborto, il matrimonio tra omosessuali, la fecondazione in provetta dimostrano che le società occidentali sono sempre più preoccupate dalla questione del controllo umano sulla vita e sulla morte, dallo spostamento dei confini tra natura e cultura, strette tra le prescrizioni morali e le scelte legate alla libertà individuale. Gli attacchi terroristici hanno ripercussioni diverse a seconda dei paesi, ma è dentro queste zone di contatto e di confronto che l’Europa prende forma o si sfalda. Gli attentati di Istanbul hanno costretto il potere politico ad ammettere l’esistenza di un terrorismo di matrice religiosa, e a condannarlo. In un paese a maggioranza musulmana, la differenza tra due visioni dell’Islam, uno in guerra contro l’Europa e l’altro filo-europeo, si è sentita nettamente. Gli attentati di Madrid hanno provocato una cambiamento nella maggioranza di governo e il ritiro del contingente spagnolo dall’Iraq. A differenza di quanto avvenuto in Spagna, in Inghilterra la presenza delle forze britanniche in Iraq è stata chiamata in causa timidamente, ed è stata data la priorità al rafforzamento delle leggi contro il terrorismo. I portavoce della comu23 nità musulmana britannica sono stati elogiati per non aver collegato le sofferenze dei musulmani in Medio Oriente alle atrocità di Londra, e per aver condannato senza ambiguità gli atti terroristici commessi in nome dell’Islam, dando prova di essere fedeli alla loro patria. In un modo quasi paradossale, questi atti hanno reso più esplicito il carattere “europeo” della presenza musulmana, non senza provocare nuove tensioni tra le diverse comunità, nuove forme di razzismo religioso ed etnico. Si può pensare che la memoria sepolta della “balcanizzazione” dell’Europa preoccupi la coscienza collettiva e rappresenti una sfida per la “nuova, vecchia Europa”. Luoghi pubblici e politica La presenza dell’Islam in Europa riguarda la condivisione di uno spazio comune, sia che lo definiamo come una sfera pubblica dove prende forma la discussione, o come uno spazio europeo dove sta emergendo una visione politica. Gli attacchi terroristici, dunque, ma anche le diverse forme di visibilità dei musulmani, sono rivolte verso questo spazio e lo invadono. Gli attori pubblici dell’Islam, che sono migranti o figli di immigrati, si stanno riterritorializzando nello spazio europeo, sfidando i valori dello stile di vita occidentale. Gli attentati colpiscono gli spazi della vita urbana, vale dire spazi (strade, ferrovie, stazioni, metropolitane, autobus), luoghi di ritrovo (bar, discoteche) luoghi del commercio e del turismo (mercati, centri commerciali, hotel) – in breve, tutti quei luoghi dove si crea un legame sociale e gli individui che li occupano cambiano in continuazione24. L’uccisione di civili è l’uccisione della città, un “urbicidio”, per usare l’espressione di Monique Canto-Sperber, che prende di mira la realtà fisica della città e il suo significato culturale. È nello spazio pubblico che la presenza dell’Islam si manifesta. Gli attentati, la questione del velo islamico in Francia, e la controversia sulla candidatura turca a paese membro dell’Unione Europea sono problemi molto diversi fra loro, che tuttavia sono collegati e intrecciati nella coscienza comune e nella memoria pubblica. Il terrorismo 24 24 M. Canto-Sperber, Le Bien, La Guerre, et la Terreur, Paris, Plon, 2005, p. 30. prende di mira soprattutto il pubblico e si colloca al di fuori del campo delle negoziazioni politiche; il velo sta emergendo come una presa di posizione personale, in primo luogo nelle scuole; la candidatura della Turchia, che al principio fu considerata una faccenda di relazioni internazionali, è presto diventata una questione di politica interna. Questi diversi aspetti della presenza islamica in Europa sono trattati, quando fanno la loro comparsa nel dibattito, come problemi politici e legislativi. Le leggi antiterrorismo, il divieto di esibire simboli religiosi nelle scuole pubbliche, e il referendum sulla bozza di costituzione europea (che in parte si è trasformato, almeno in Olanda e in Francia, in un referendum sulla candidatura turca) sono tutti sintomi della transizione dal potere pubblico alla sfera delle decisioni politiche e giuridiche. La sfera pubblica, come ho già detto, è il palcoscenico in cui il dramma dell’incontro tra musulmani ed europei prende forma, e dove questa intersezione riconfigura a sua volta la natura della sfera pubblica. Quest’ultima non è una struttura fissa e prestabilita: al contrario, essa cambia nello stesso modo in cui cambia la scenografia su un palcoscenico, con l’arrivo di nuovi attori che presentano nuovi stili di vita, di comunicare, e di partecipazione. L’intrusione degli islamici nella sfera pubblica europea muta la situazione. La repubblica e le sue leggi hanno certamente messo il loro marchio sullo spazio pubblico. Ma la “res publica” significa anche uno spazio autonomo in cui emergono e sono rappresentati pratiche e problemi inediti. Solo il totalitarismo cerca un accordo perfetto tra lo spazio pubblico e la repubblica. Vi sono, infatti, repubbliche non democratiche. Lo spirito democratico di una società si definisce attraverso la sua capacità di rendere pubblici i problemi che emergono, e di rendere contemporanei i problemi che sorgono dall’“Altro”. Pierre Vidal-Naquet ha studiato questi problemi della democrazia nella polis greca adottando il concetto di “altrove sociale”: lo studio delle donne, degli schiavi, degli stranieri, e di altri gruppi esclusi dalla partecipazione alla vita della polis gli ha permesso di comprenderne il nucleo centrale25. Per il primo periodo moderno 25 P. Vidal-Nacquet, La democrazia greca nell’immaginario dei moderni, Milano, Il Saggiatore, 2003. 25 (l’età classica), l’interesse centrale dell’opera di Michel Foucault è stato il mondo in cui i folli, i malati, i criminali, gli omosessuali, ecc., erano esclusi dalla società. Come possiamo, però, affrontare lo studio di altre forme di esclusione nelle nostre società contemporanee, specialmente se prendiamo in considerazione il mondo intero? L’approccio alla sfera pubblica moderna proposto da Jürgen Habermas evidenzia il legame con la democrazia contemporanea. Secondo Habermas, la deliberazione pubblica e le pratiche discorsive sono ciò che permette il funzionamento della democrazia come tipo ideale. La sfera pubblica è il luogo per eccellenza in cui avvengono scambi politici razionali tra cittadini responsabili. Tuttavia, mi sembra che in essa vi sia qualcosa in più della semplice deliberazione nazionale, un substrato emotivo che soggiace allo spettacolo dell’incontro tra Islam ed Europa. Il concetto di sfera pubblica appare qui in senso molto concreto, come se stessimo osservando un palcoscenico sul quale si sviluppa una tragedia spettacolare. Sia gli attacchi suicidi sia le diverse modalità di attivismo religioso nella vita quotidiana mettono in scena repertori religiosi diversi e persino contraddittori. Vi sono diverse interpretazioni e rappresentazioni dell’Islam nel mondo moderno, in competizione e persino in lotta tra loro. Ma qui sta anche una sfida per gli stessi europei, che devono tradurre il loro accidentato incontro con l’Islam in un progetto politico. Questo incontro prende forma nello spazio pubblico. Esso rappresenta il luogo d’azione di una performatività islamica, per i terroristi come per qualunque altro attore religioso, una performatività che copre una gamma di fenomeni che va dal vestiario al rispetto dei riti religiosi, fino all’invenzione di stili di consumo e divertimento rivolti ai fedeli. Lo spazio pubblico è il luogo dove la presenza islamica non solo si manifesta, ma anche il luogo dove essa fa nascere nel pubblico europeo la consapevolezza e il dibattito sulla sua presenza. Persiste tuttavia una qualche difficoltà a comprendere queste pratiche e a dare ad esse un nome. Questa difficoltà è prova del fatto che le persone si trovano di fronte a pratiche inedite, alle quali non riescono ancora a dare un nome. Quale nome dovremmo dare all’aspetto religioso di queste pratiche contemporanee? O al ruolo del pensiero politico mo26 derno nell’islamismo contemporaneo26? Terrorista o martire, guerra o jihad, il velo indossato da una donna islamica o da una suora cattolica, simboli religiosi o politici, Turchia asiatica o europea; in tutti questi casi, la difficoltà consiste nel tracciare e definire delle linee di confine tra il politico, il culturale e il religioso. In ogni caso, l’amplificatore religioso opera nello spazio pubblico europeo in modo tale da rendere ciò che è estraneo ancora più estraneo27. Comprendere il legame conflittuale e tuttavia stretto tra musulmani e modernità (un legame che può essere formulato come una doppia asserzione e/o una doppia negazione – musulmani e moderni, o né musulmani né moderni) non è una cosa semplice, e non lo è né per gli europei né per i musulmani. Per i musulmani, vuol dire abbandonare la loro aspirazione a una identità islamica totale. Quanto agli europei, essi devono riscoprire ciò che hanno in comune con l’Altro e abbandonare ogni pretesa riguardo a una presunta “purezza” europea. In sintesi, l’ingresso dell’Islam nella contemporaneità sta prendendo forma attraverso frammenti e relazioni anacronistiche con la modernità. Gli europei fanno esperienza della presenza islamica attraverso una serie di eventi che non sono necessariamente legati tra loro, ma che appaiono agli occhi del pubblico in forme disparate. Frammenti dell’Islam: un movimento espressivo Non sto parlando, dunque, dell’Islam come se fosse un’entità omogenea, una “civiltà” intatta e impermeabile al mutamento storico. Tuttavia, non possiamo nemmeno limitarci solo a descrivere la pluralità e la diversità dell’Islam. Oggigiorno, l’Islam sta diventando sempre meno una fede e sempre più un riferimento etnico, culturale e politico per quei musulmani che vivono in mezzo agli spazi e alle esperien26 Il libro di Paul Berman mostra l’impatto del pensiero antiliberale di origine europea nella mentalità degli islamisti contemporanei. Cfr. P. Berman, Terror and Liberalism, New York, W.W. Norton and Company, 2003. 27 Per una critica della iperislamizzazione dei dibattiti si veda D. Bouzar, Monsieur Islam n’existe pas: pour une deislamization des débats, Paris, Hachette Literatures, 2004. 27 ze della modernità in Europa. L’Islam sta diventando un movimento: possiamo parlare di un attivismo religioso nella misura in cui l’Islam è soggetto all’interpretazione dei suoi discorsi e delle sue pratiche sia a livello individuale che collettivo. Concetti come “islamismo radicale” e “neofondamentalismo” cercano di dar conto dell’attivismo politico, collettivo dell’Islam. Tuttavia, gli approcci sinora adottati dagli scienziati politici enfatizzano gli aspetti collettivi e ideologici di questo movimento, senza prendere granché in considerazione il carattere problematico della relazione personale con la modernità. Da un lato, i musulmani non arrancano dietro alla modernità; al contrario, essi usano le nuove tecnologie e i nuovi strumenti della comunicazione; hanno appreso il linguaggio della politica e acquisito familiarità con la vita urbana; investono nei mercati finanziari e adattano i prodotti di consumo e intrattenimento perché si conformino ai nuovi bisogni dei gruppi religiosi. In breve, non si precludono l’uso degli oggetti della vita moderna. Ma l’uso che ne fanno rimane religioso. Inoltre, l’Islam contemporaneo non si propaga ad opera di attori esterni al sistema, ma piuttosto grazie ad attori che sono portatori di modernità; i giovani, le donne, i mediatori culturali28, gli imprenditori, le classi medie. Questi attori hanno appreso le tecniche della rappresentazione pubblica, manipolano i termini del dibattito politico, e conoscono le regole del mercato. Essi mettono in scena la loro diversità religiosa negli spazi comuni, nelle scuole, nelle università, negli ospedali, nelle imprese, e nel parlamento, ma anche in luoghi di svago e di vacanza. Essi sfidano dunque i valori fondamentali della vita pubblica europea, come la laicità, l’uguaglianza tra i sessi e la libertà di espressione. Il fatto che l’Islam stia diventando pubblico significa che i musulmani stanno affermando e mettendo in scena la loro presenza e la loro diversità religiosa nel quadro pluralista degli spazi pubblici europei29. Ciò 28 P. Haenni, “Ils n’en ont pas fini avec l’Orient. De quelques islamisations non islamistes”, in Le Post-Islamisme, numero speciale di «Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée», a cura di d’O. Roy, P. Haenni, 85-86, 1999. 29 Per degli studi di caso delle modalità di espressione pubblica dell’Islam in Europa, in Turchia ma anche in Iran, cfr. N. Göle, L. Amman (hrsg.), Islam in Sicht. Der Auftritt von Muslimen im offentilchen Raum, Bielefeld, Transcript, 2004. In particolare, si veda il capitolo di Simonetta Tabboni (pp. 326-341), che elabora le questioni della differenza e della prossimità attraverso la nozione di “straniero”. 28 porta all’invenzione di diversi spazi pubblici islamici, “eterotopie” o “spazi altri” dove gli attori islamici operano sulla loro identità religiosa per mezzo di atti performativi e rituali collettivi30. L’esacerbarsi di questa visibilità pubblica e religiosa distingue il movimento islamista contemporaneo da quelli che lo hanno preceduto. Questa visibilità è veicolata nello spazio pubblico da vari tipi di azione dotata di un senso religioso, inclusa la performatività personale e del corpo. Tuttavia, la natura “espressiva”31 dell’agire islamico è sottostimata e persino fraintesa, perché l’espressività si associa a un processo di emancipazione e autorealizzazione del soggetto, vale a dire a un’azione creativa e progressiva. È in effetti difficile classificare l’islamismo come un movimento sociale creativo e progressivo, che si muove in accordo con la narrazione propria dell’Illuminismo. Al tempo stesso, sarebbe troppo limitante provare a restringere lo studio dell’agire umano esclusivamente alle azioni creative, progressive o emancipatrici. L’Islam è trasformato dall’interpretazione e dall’azione umana: vi è dunque un legame particolare tra religione e azione. La presenza della religione musulmana in azione non può essere affrontata come una pura strumentalizzazione politica. D’altro canto, l’attivismo musulmano non è identico ad altre forme collettive di attivismo politico, o ad altri movimenti sociali. Dobbiamo far emergere l’aspetto distintivo dell’attivismo religioso islamico. Enfatizzerei dunque il carattere frammentato, e pur tuttavia espressivo, dell’attivismo islamico. Esiste una espressività linguistica e corporea. Il concetto di espressione caratterizza un processo in cui qualcosa di interno è esternalizzato e reso percepibile; la religione è richiamata alla mente come un repertorio d’azione, circola come un immaginario sociale, e dunque si esteriorizza e si inscrive nei corpi e nello spazio. 30 Per i concetti di “spazi altri” e “eterotopia” cfr. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Sesto S. Giovanni, Mimesis, 2001. Per la nozione di “contro-pubblico” cfr. M. Warner, Publics and Counterpublics, London, Zed, 2002. Si veda anche N. Fraser, Rethinking the Public Sphere: A Contribution to the Critique of Actually Existing Democracy, «Socialist Review», 4, 1989, pp. 56-80. 31 Hans Joas distingue tre tipi di creatività nell’agire umano: l’idea di produzione rapporta la creatività al mondo degli oggetti materiali; quella di rivoluzione al mondo sociale; e quella di espressione al mondo soggettivo. Cfr. H. Joas, Die Kreativität des Handelns, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1992. 29 Questo è il motivo per cui le figure della donna velata e del martire, anche se sono opposte, sfuggono a ogni analisi o spiegazione che si fondi sulla strumentalizzazione del religioso e sulla logica razionale e collettiva dell’agire politico. Nondimeno, queste due figure si presentano come simboli dell’azione orientata in senso religioso. Questi due simboli dell’Islamismo sono presentati anche senza alcuna mediazione politica, e senza alcuna rappresentanza politica o istituzionale. Tentando di definire un “nuovo paradigma”32, Alain Touraine mostra il primato del dominio culturale e l’assenza di rappresentatività come caratteristiche fondamentali del mondo contemporaneo. In queste due figure, l’aspetto espressivo è importante. Il velo è parte dell’elaborazione di una performatività religiosa femminile e di una messa in circolo dell’immaginario collettivo islamico. Soprattutto, esso è una forma di appropriazione personale e collettiva di uno stigma (secondo la narrativa della modernità, il velo significa la sottomissione della donna). Esso esprime l’esternalizzazione di questo stigma, ma anche la volontà di rovesciarne il significato e di renderlo un segno del potere e della distinzione delle donne. I divieti religiosi e i valori del pudore sessuale agiscono sulla soggettività di questa femminilità, in opposizione alla femminilità emancipatrice. La differenza nelle tecniche del corpo crea una disarmonia tra il soggetto femminile emancipato e il soggetto femminile religioso. Una “intercorporalità” conflittuale si esprime in relazione al velo. Tra queste due figure femminili si sta combattendo una battaglia intorno alla “civiltà” e alla “civilizzazione”, perché la relazione con il corpo diventa il perno su cui si sviluppa un dibattito sull’orientamento culturale e le abitudini proprie della modernità. La donna musulmana sembra il simbolo di un’alterità insormontabile tra il mondo civilizzato e quello dei barbari. La Gioconda che indossa un velo islamico apparsa sulla copertina di Time33 illustra questa conversazione pericolosa, vista come un intreccio strettissimo tra il velo e l’Europa, e specialmente come una minaccia ai simboli della modernità europea. 32 A. Touraine, Un nouveau paradigme. Pour comprendre le monde d’aujourd’hui, Paris, Fayard, 2005. 33 Europe’s Identity Crisis, «Time», 28 febbraio 2005, vol. 165, n. 9. 30 All’altro estremo, la figura del “martire” mostra la capacità distruttiva dell’agire religioso. Disprezzando i valori della vita, il corpo umano, e i valori della vita urbana, essi accettano di fatto la visione dell’Occidente, la visione per cui l’Islam è inferiore. Essi trascendono, attraverso la barbarie, i tabù della civiltà e della vita civile. Possiamo anche notare che la parola turca per civiltà – medeniyet – deriva dal termine medina, che in arabo significa “città”. La distruzione delle città significa la distruzione degli stili di vita moderni e civili. (ma la risposta – molto ammirata – del popolo britannico agli attentati di Londra non esprime forse la sua determinazione a non cambiare il suo stile di vita e la sua civiltà?) È chiaro che né la studentessa velata né il terrorista suicida si conformano all’ortodossia religiosa o alle tradizioni popolari. Al contrario, queste “minoranze attive”34 rappresentano un’uscita dalla religione istituzionale e riflettono un processo di acculturazione e di ingresso nell’esperienza della modernità globale, in quanto prendono parte all’elaborazione di un repertorio di immagini sociali islamiche. Non abbiamo dunque a che fare con delle questioni di poco conto o con dei falsi problemi, almeno per la maggioranza dei musulmani che vivono vite pacifiche, né con degli epifenomeni dell’islamismo politico. In effetti, la questione del velo è stata spesso vista come una questione secondaria, l’effetto del radicalismo politico e di una strumentalizzazione delle donne da parte degli uomini. Per quanto riguarda il terrorismo, esso è stato descritto come una questione di reti, e quindi con una capacità limitata di reclutamento. È stato anche analizzato come un’ammissione dell’incapacità dell’islamismo di ottenere un ampio sostegno, e quindi come una specie di ultima spiaggia. Nel migliore dei casi, esso è stato visto come un prodotto dell’Occidente. Forse questa negazione della agency e della soggettività dei musulmani è vista come una terapia per un Occidente la cui egemonia è in pericolo, e come un’illusione ottica per mascherare una preoccupante prossimità. Questi frammenti sono zone di incontro che cristallizzano i pro34 Riprendo questo concetto da S. Moscovici, per il quale la grandissima maggioranza dei mutamenti sociali è opera di minoranze. Cfr. S. Moscovici, Psicologia delle minoranze attive, Torino, Bollati-Boringhieri, 1981. 31 blemi e la conversazione conflittuale tra Islam ed Europa. Essi rappresentano i punti nodali di questo incontro. Essi rappresentano anche una questione di interpenetrazione (nel senso biologico, ma anche nel senso che Niklas Luhmann assegna al termine)35, perché c’è un aspetto corporeo, sessuale, ma anche forzato e violento in questo incontro e nella comunicazione che ne deriva. I musulmani impongono a forza la loro presenza in Europa. La candidatura turca e il suo desiderio di Europa sono percepiti dagli europei non solo come sospetti ma anche come un’intrusione al di qua dei confini geografici, storici e religiosi dell’Europa. Il velo islamico genera inquietudine perché i musulmani esprimono la loro diversità ostentando simboli, costringendo dunque le persone ad avvertire la loro presenza. Da ultimo, il terrorismo è una affermazione dell’Islam con mezzi apocalittici. Ma se la candidatura turca e il velo islamico esprimono un processo di mescolamento e di mutua fecondazione, stabilendo così un legame tra musulmani ed europei, il terrorismo suicida esprime una volontà di annientare se stessi e gli altri. È un’ammissione di impotenza nel senso che esso rende manifesta l’incapacità di sostenere il peso dell’interpenetrazione tra Islam e modernità. Questa non è un incontro tra due sistemi distinti, due “civiltà” diverse e distinte, ma piuttosto un incontro che avviene in alcune zone di contatto. Possiamo ricostruire lo sviluppo di questo processo attraverso delle “istantanee”. Il velo, gli attentati suicidi e la candidatura turca sono tutti frammenti di questa storia. Essi sono anche segni della frammentazione dell’Islam e della molteplicità delle sue interpretazioni o dei modi di azione religiosa e dialogo con la civiltà occidentale. Sin dalla comparsa dell’Islam, vi sono stati conflitti su ciò che esso sarebbe dovuto essere. Emersero due tradizioni, quella sciita e quella sunnita, che portarono a un “dialogo cumulativo” di reazioni e controreazioni. Tuttavia, il dramma contemporaneo è scritto in una conversazione interculturale sul disaccordo tra civiltà. Il dramma dell’Islam non è scritto in termini puramente religiosi, ma come una reazione e contro-reazione al progetto culturale della modernità occidentale36. 35 N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Milano, Il Saggiatore, 2010. M.G.S. Hodgson, The Venture of Islam, vol. 1, The Classical Age of Islam, Chicago, University of Chicago Press, 1974, p. 81. 36 32 La Turchia gioca un ruolo importante in questa conversazione tra civiltà, perché sin dall’abolizione del califfato37 e dalla svolta laicista di Ataturk – così come oggi con il suo desiderio di entrare nell’Unione Europea, che si esprime anche grazie a un potere politico che ha le sue radici nel movimento islamico – essa ha rappresentato un’importante posta in gioco, non solo per l’Europa, ma anche per il mondo arabo e musulmano. La Turchia, in quanto “cattivo musulmano” alleato dell’Occidente, è stata a lungo ignorata, se non disprezzata, dal mondo arabo. Oggi ha ottenuto un certo rispetto agli occhi dei nazionalisti arabi per il suo rifiuto di sostenere la politica americana riguardo alla guerra in Iraq38. Gli islamisti sono perplessi a causa della crescita di un potere alternativo alla loro visione dell’Islam, e i riformatori iraniani stanno seguendo con molta attenzione l’esperimento democratico condotto in Turchia. È sulla base di questi frammenti anacronistici e tuttavia contemporanei, islamici ma non europei, che voglio cercare di comprendere il modello ricorrente in questo incontro. La forza del male e le passioni non sono affatto assenti; al contrario, sono parte integrante di questo processo. Come ci ricorda Monique Canto-Sperber, ciò che si palesa «nella nuova condizione del mondo […] sono le passioni che nascono dal confronto del sé con gli altri. Queste passioni variano dall’invidia al risentimento, fino a una cieca volontà di distruzione»39. La minima differenza nella prossimità causa confronti e innesca passioni; la paura di essere invasi dall’altro, la perdita della propria identità e della propria patria soggiace a questo incontro. L’incontro tra Islam ed Europa non ha preso forma senza essere accompagnato dalla sensazione di perdere la propria purezza e autenticità. Innalzando barriere basate sull’identità culturale, i musulmani e gli europei cercano entrambi di superare il senso di smarrimento che li coglie nel momento in cui si trovano gli uni in presenza degli altri. 37 Sul rapporto tra abolizione del califfato e l’ondata di islamismo contemporaneo cfr. B.S. Sayyid, A Fundamental Fear. Eurocentrism and the Emergence of Islamism, London, Zed Books, 1997. 38 S.J. Al-Azm, Time Out of Joint. Western Dominance, Islamist Terror, and the Arab Imagination, «Boston Review», ottobre-novembre 2004. 39 M. Canto-Sperber, La Bien, la Guerre, et la Terreur, cit., p. 26. 33 Per l’Islam, nella misura in cui si costituisce attraverso l’affermazione della propria identità, il mondo moderno sta diventando insostenibile. Dall’altro lato, quando gli europei rivendicano la loro cultura e la loro identità come una identità civilizzatrice, è il progetto dell’Europa a pagare un prezzo. Dobbiamo ricordare che la concezione positivista della civiltà, tipica della Francia del XVIII secolo, ovvero la concezione che fu adottata dagli ottomani, aveva l’immenso vantaggio di presentare l’occidente sotto una veste laica, piuttosto che cristiana40. Oggi, la nozione di civiltà sembra essere più una questione di identità culturale che di universalismo laico. L’identità culturale diventa sempre più una fissazione e amplifica, come se ci si trovasse di fronte a uno specchio, l’alterità di ciò che è già Altro: civilizzato e barbaro, emancipato e sottomesso, europeo e musulmano. Rendere l’altro ancora più diverso per creare la propria identità è un modo per rendersi ciechi fissando l’immagine riflessa dell’altro, di cadere in preda alle illusioni e di distruggere ogni possibilità di trovare un terreno comune, di costruire un legame tra il sé e l’altro. È in una situazione in cui la distanza rassicurante non esiste più che dobbiamo ripensare uno spazio che possa unire le persone. La posta in gioco, per l’Europa, non è tanto il riconoscimento della diversità islamica, ma al contrario la capacità di ripensare e ricostruire uno spazio comune tra Europa e Islam, e di andare oltre il dialogo basato sul conflitto. Ciò richiede che entrambe le parti vadano oltre le loro fissazioni sull’identità culturale. I musulmani, che in Europa sono una minoranza religiosa, devono imparare a vivere in mezzo ad altre religioni41. L’antisemitismo, una questione che tocca il cuore stesso 40 F. Georgeon, “L’Empire ottoman et l’Europe au XIX siècle”, Turquie, la 28e etoile? Un défi a relever, «Confluences Méditerranée», 52, inverno 2004-2005. 41 Tariq Ramadan, figura controversa dell’Islam europeo, ha tentato di concettualizzare la presenza dei musulmani in Europa. L’evoluzione della terminologia da lui utilizzata è significativa. Cfr. A. Roussillon, La Pensée islamique contemporaine: acteurs et enjeux, Paris, Tetraedre, 2005. Ramadan cerca di definire le condizioni minime che permettano ai musulmani di vivere come una minoranza in una società non musulmana, senza contraddire la loro appartenenza alla comunità dei fedeli. Per superare la divisione binaria del mondo tra dar al-Islam e dar al-harb, all’inizio degli anni Novanta egli propose di parlare di uno “spazio del patto” o di “spazio della pace” (dar al-sulh), e introdusse in seguito il concetto di “spazio di testimonianza” (dar al-shahada), dove la libertà di coscienza è protetta dalle Costituzioni. Cfr. T. Ramadan, Les musulmanes et la 34 dell’Europa, è l’elemento guida di queste relazioni inter-religiose, la cui importanza politica sta aumentando42. L’Europa è al tempo stesso inseguita e turbata da questo passato. Il carattere europeo della Turchia è messo alla prova sulla questione del riconoscimento del genocidio armeno. Ciò significa superare il nazionalismo turco – che si fonda sulla rimozione del suo passato multietnico e multireligioso. La prospettiva europea può rendere questo sforzo più agevole oppure, al contrario, può bloccarlo, se a prevalere è la narrativa egemonica e identitaria dell’Europa cristiana. L’Europa si definisce come un’identità o come un progetto politico? Per moltissimi europei, tra i due aspetti vi è una continuità naturale. Tuttavia, la bocciatura della bozza di costituzione europea ha rivelato le tensioni esistenti tra le fissazioni identitarie e nazionaliste, e la costruzione di un progetto transnazionale. La tacita equazione tra il lascito culturale del passato, la religione cristiana, e il progetto europeista è diventata esplicita quando ha dovuto confrontarsi con la questione della presenza islamica in Europa. Senza essere troppo pessimisti, si può dire che, alla luce degli eventi recenti, l’Europa in quanto progetto, come invenzione di un legame politico, di qualcosa in comune con altri, come produzione di un’idea universale, come modo per creare un mondo, è stata rallentata se non fermata del tutto. Per rimettere in moto questo progetto, c’è bisogno di due chiavi di avvio e di un duplice punto di vista. Come nella ricostruzione del ponte vecchio di Mostar, è necessario trovare un terreno comune tra modi di agire, tra differenze di civiltà, perché i ponti possano stare in piedi, e collegare persone, religioni e continenti. Dunque, la questione dell’Europa, la questione della civiltà, non può essere ridotta alla volontà politica, all’allestimento di spettacoli simbolici di costruzione e commemorazione. Deve essere considerata come una specie di “assemblea costituente”, a cui dare qualcosa come un “popolo” e un “ideale”43. In breve, deve essere considerata come qualcosa su cui si innestano delle idee. mondialization, «Pouvoirs», 104, 2003. Del medesimo autore, cfr Id. Islam. Le face-aface des civilisations. Quel Projet pur quelle modernité?, Lyon, Tawhid, 2001. 42 Cfr. M. Wieviorka, La tentation antisémite. Haine des Juifs dans la France d’aujourd’hui, Paris, Robert Laffont, 2005. 43 J.L. Nancy, L’impossible acte constituant, “Le Monde”, 29 giugno 2005. 35 Si tratta di un innesto politico che può essere ottenuto solo usando strumenti intellettuali, ma che deve prendere in considerazione anche le emozioni, le devastazioni e le tragedie. Ciò non porta a una narrativa semplice per quanto riguarda l’interazione, il dialogo interculturale, e la coesistenza tra culture. Richiede un processo di interpenetrazione, o persino una controversia inscritta nel corpo, nella memoria, e nello spazio. Non possiamo diventare reciprocamente contemporanei senza dispute, senza anacronismi durevoli, o senza accettare che potrà esservi disaccordo. 36