Articolo A.Pitta - Istituto Superiore di Scienze Religiose

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Articolo A.Pitta - Istituto Superiore di Scienze Religiose
L’ecclesiologia paolina del corpo di Cristo
Antonio Pitta∗
1. Introduzione
Fra le principali motivazioni che hanno indotto gli esegeti contemporanei a distinguere le lettere autoriali (le 7 grandi lettere), da quelle della
prima tradizione (2Tessalonicesi, Colossesi, Efesini) e quelle della seconda tradizione (1Timoteo, Tito, 2Timoteo) di Paolo, si trova l’ecclesiologia diversa che in esse si riflette1. Come sorge l’ecclesiologia paolina? E possibile cogliere una categoria dominante che caratterizza le tre
ramificazioni delle lettere paoline oppure ogni lettera presenta una modalità propria di parlare della Chiesa? Qual è il rapporto tra «Gesù Cristo, il
Signore» e la «Chiesa di Dio»?
In termini religionistici si può continuare a sostenere, sulla scia della
teologia della scuola liberale, che Paolo sia l’inventore del cristianesimo e
quindi di un particolare tipo di chiesa che Gesù di Nazareth non aveva
giammai pensato di fondare? Ormai classica è diventato l’assioma di A.
Loisy: «Gesù annunciava il regno ed è venuta la Chiesa»2. In definitiva è
∗
Pontificia Università Lateranense, Roma.
Sull’ecclesiologia paolina in generale, oltre al classico L. CERFAUX, La teologia della Chiesa secondo san Paolo, A.V.E., Roma 1968 con la nota prospettiva mistica del
«corpo di Cristo»; cf J.-N. ALETTI, «Le statut de l’Église dans les lettres pauliniennes. Réflexions sur quelques paradoxes», in Bib 83 (2002) 153-174; Id., «Les difficultés ecclésiologiques de la lettre aux Éphésiens», in Bib 85 (2004) 457-474; R.S. ASCOUGH, What are
they Saying About the Formation of Pauline Churches, New York 1998; R W. KRAUS,
Das Wolk Gottes: zur Grundlegung der Ekklesiologie bie Paulus, WUNT 85, Tübingen
1996; P.T. O’Brien, «Chiesa», in G.F. HAWTHORNE - R.P. MARTIN - D.G. REID (a cura di),
Dizionario di Paolo e delle sue lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, 213-226; R.
BANKS, «Chiesa, ordinamento e governo della», in ID., 226-236.
2
A. LOISY, L’évangile et l’église, Paris 1902, 111, ripresa, ma posta in discussione, da
G. BARBAGLIO, Gesù di Nazareth e Paolo di Tarso. Confronto storico, EDB, Bologna
2006, 199.
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pertinente seguire, in modo più o meno esplicito, il paradigma del Frükatholizismus? Con il progressivo rallentamento e con la delusione per
l’avvento dell’escatologia, propria delle grandi lettere, si sarebbe passati
da un’ecclesiologia carismatica, a una pleromatica e cosmologica di Colossesi e di Efesini per giungere ad una istituzionale delle lettere pastorali. Affronteremo questi interrogativi soffermandoci sull’ecclesiologia delle homologoumena poiché in esse risaltano maggiormente, mentre per le
altre lettere porremo attenzione soltanto su quelle della prima tradizione
(Colossesi ed Efesini).
2. La «chiesa di Dio» e quelle domestiche
Dal versante storico le comunità cristiane delle origini non nascono
con Paolo, ma sono già operanti da un quindicennio rispetto alla produzione delle sue grandi lettere, collocabile nel decennio degli anni 50 del I
secolo d.C. Il comportamento persecutorio assunto nel suo passato farisaico (cf 1Cor 15, 8-9; Gal 1, 13-15; Fil 3, 6-7) contro quella che denomina al singolare come «la Chiesa di Dio» attesta, con tutte le specificazioni necessarie, che le comunità della Giudea erano meravigliate per il
fatto che colui che una volta cercava di distruggere la loro pistis si propone, in seguito all’evento di Damasco, di annunciare la stessa fede in Gesù
Cristo (cf Gal 1, 22).
Le formule della trasmissione rispetto a quanto si è ricevuto e si è comunicato ad altri (cf 1Cor 11, 23 per le parole di Gesù durante la cena; e
1Cor 15, 3 per il kerygma della fede iniziale degli apostoli) confermano
l’esistenza delle prime comunità cristiane alle quali Paolo rinvia i destinatari delle sue lettere, contro l’attribuzione dell’invenzione del cristianesimo al suo genio politico. Alla stessa tradizione prepaolina sono ricondotti
alcuni frammenti riportati nelle sue lettere: i paragrafi o le proposizioni di
1Cor 11, 23-25; 1Cor 15, 3-5; Gal 1, 4; Rm 1, 3-4; Rm 3, 25 e soprattutto
l’elogium di Cristo in Fil 2, 5-11 sono stati, da tempo, riconosciuti come
prepaolini e non si devono al suo dettato epistolare.
Di per sé l’espressione «chiesa di Dio», riportata in 1Cor 15, 9 e in
Gal 1, 13 proviene dall’ecclesiologia dell’AT (Ne 13, 1) in cui, come varianti, sono utilizzate le formule «chiesa (assemblea/comunità) del Signore» (Dt 23, 2; Mi 2, 5) o «assemblea d’Israele» (1Re 8, 14)3. Nella LXX il
3
J.D.G. DUNN, «The Church of God», in The Theology of Paul the Apostle, T&T
Clark, Edinburgh 1998, 537-543.
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termine ekklesia è utilizzato circa 100 volte, è scelto in prevalenza per
tradurre l’ebraico qahal e caratterizza, in diversi contesti – politico, militare e cultuale (Gdc 20, 2; 1Sam 17, 47; 1Re 8, 22; Sal 22, 23) –, il popolo d’Israele che appartiene, per elezione, al Signore ed è convocato dalla
sua Parola. Altrettanto diffusa è la portata civile o «politica» del sostantivo ekklesia, utilizzato nella letteratura extra-biblica per designare le assemblee urbane delle città greche in cui Paolo andava organizzando le sue
comunità. Tuttavia le due accezioni del termine non andrebbero contrapposte4, bensì, come si verifica spesso nell’uso del linguaggio paolino,
considerate in reciproca continuità.
Dal versante delle frequenze lessicali è indicativo che il sostantivo ekklesia, presente 114 volte nel NT, riscontra nell’epistolario paolino la sua
frequenza maggiore: 62 volte rispetto alle 23 in Atti e 20 in Apocalisse5.
Anche i vangeli presentano prospettive ecclesiologiche proprie, tuttavia
ricorrono a vocabolari e a categorie diverse da quelle paoline, come il discepolato (Marco/Luca), la fratellanza (Matteo) e l’unità fra i credenti
(Giovanni), mentre il termine ekklesia si riscontra soltanto 3 volte nei
vangeli e per giunta in due proposizioni del vangelo di Matteo (cf Mt 16,
18; 18, 17.17) definito, per questo, «ecclesiale» per antonomasia. Pertanto se è bene riconoscere che l’espressione «chiesa di Dio» è di matrice
anticotestamentaria, nondimeno Paolo è il primo autore che l’applica ai
credenti in Cristo.
Il primo livello che chiarifica l’ecclesiologia paolina è quello domestico o familiare6, poiché nel periodo di formazione del suo epistolario, non
4
Così invece BARBAGLIO, Gesù di Nazaret e Paolo, 214.
Le frequenze paoline del sostantivo ekklesia sono così distribuite: 1Ts 2x (1, 1; 2,
14), 1Cor 22x (1, 2; 4, 17; 6, 4; 7, 17; 10, 32; 11, 16.18.22; 12, 28; 14,
4.5.12.19.23.28.33.34.35; 15, 9; 16, 1.19.19), 2Cor 9 x (1, 1; 8, 1.18.19.23.24; 11, 8.28;
12, 13), Gal 3x (1, 2.13.22), Rm 5x (16, 1.4.5.16.23), Filippesi 2x (3, 6; 4, 15), Fm 1x (v.
2), 2Ts 2x (1, 1.4), Col 4x (1, 18.24; 4, 15.16), Ef 9x (1, 22; 3, 10.21; 5,
23.24.25.27.29.32), 1Tm 2x (3, 5.15; 5, 16). La corrispondenza con i Corinzi è quella che
attesta l’uso maggiore del sostantivo che, per inverso, non è mai utilizzato soltanto in Tt e
in 2Tm.
6
Sul contesto domestico o familiare delle prime comunità cristiane cf R. BANKS,
Paul’s Idea of Community: The Early House Churches in Their Cultural Setting, Hendrickson, Peabody 19942; H.-J. KLAUCK, Hausgemeinde und Hauskirche im frühen Christentum, SBS 103, Stuttgart 1981; K. LEHRMEIER, «Gemeinschaft nach den oikos-Modell:
Philodemus und Paulus im Vergleich», in Text und Geschichte: Facetten Theologischen
Arbeitens aus dem Fremdes- und Schülerkreis, FS. D. LÜHRMANN, MTS 50, Marburg
1999, 107-121; W.A. MEEKS, The First Urban Christians. The Social World of the Apostle Paul, Yale University Press, New Haven - London 1983, 74-110; R. PENNA, «Chiese
domestiche e culti privati pagani alle origini», in Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001,
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esisteva ancora una chiesa unitaria, rappresentata da un edificio ben delimitato e distinto dalla sinagoga o dal tempio di Gerusalemme, che tra
l’altro sarà distrutto soltanto nel 70 dell’era cristiana. La «chiesa di Dio»,
operante prima dell’incontro di Paolo con il Risorto sulla strada di Damasco, permette di cogliere la valenza assembleare del termine: la ekklesia
corrisponde a un gruppo di persone convocato (da kalein = chiamare), nel
nome del Signore, per condividere la Scrittura d’Israele, la frazione del
pane e della carità con i più indigenti7.
Dal versante sociale, le prime comunità familiari erano composte di
circa 40 o, al massimo, 50 persone e si radunavano nella casa più spaziosa utilizzando, nello stesso tempo, il triclinium o la sala da pranzo e
l’atrium o quella d’ingresso. Molti dei credenti in Cristo provenivano dagli strati più umili della società, in quanto schiavi o liberti (cf l’elenco dei
nomi nei saluti finali di Rm 16, 1-23), anche se non mancavano possidenti e agiati (commercianti e artigiani) che ponevano a disposizione le loro
abitazioni più spaziose per favorire le adunanze comunitarie. Rari dovevano essere i credenti di estrazione nobile (cf 1Cor 1, 26), riconducibili
alla classe senatoriale e a quella equestre dei patrizi. Nelle lettere paoline
sono attestate, in modo esplicito, le comunità domestiche di Aquila e Prisca a Efeso (1Cor 16, 19) e a Roma (Rm 16, 5), di Stefana (1Cor 1, 16) e
di Gaio a Corinto (Rm 16, 23), di Narciso a Roma (Rm 16, 11), di Filemone e Ninfa a Colossi (Fm 2; Col 4, 15). La formula he kat’oikon ekklesia caratterizza le comunità domestiche e assume anzitutto carattere distributivo: «La chiesa che si raduna nella casa di…». In genere i figli e gli
schiavi domestici seguivano gli orientamenti religiosi del pater familias,
anche se non mancavano eccezioni per cui erano autorizzati a frequentare
i culti che desideravano. L’esempio del gentile Onesimo, convertito da
Paolo in prigione, rispetto al credente Filemone è emblematico, ma anche
la casistica affrontata in 1Cor 7, 12-16, sulle disparità tra mariti e mogli
credenti e non, dimostra che dovevano essere frequenti le situazioni dei
cosiddetti «matrimoni misti».
Con l’attribuzione civile e provinciale, comprensiva di più domus,
746-770; ID., «La casa/famiglia sullo sfondo della Lettera ai Romani», in EstBíb 65
(2007) 159-175; E.W. STEGEMANN - W. STEGEMANN, Storia sociale del cristianesimo
primitivo. Gli inizi nel giudaismo e le comunità cristiane nel mondo del mediterraneo,
EDB, Bologna 1998, 441-484; G. THEISSEN, The Social Setting of Pauline Christianity,
T&T Clark, Edinburgh 1982, 69-119.
7
Su queste caratterizzazioni delle prime comunità cristiane cf M. PESCE, Le due fasi
della predicazione di Paolo. Dall’evangelizzazione alla guida delle comunità, EDB, Bologna 1994.
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nell’epistolario paolino sono citate la chiesa che è in Tessalonica (1Ts 1,
1), in Corinto (1Cor 1, 1; 2Cor 1, 1), in Cencre (Rm 16, 1), in Laodicea
(Col 4, 16), le chiese della Giudea (Gal 1, 22), dell’Asia (1Cor 16, 19) e
della Macedonia (2Cor 8, 1). Un plurale generale connota «le chiese»
(2Cor 8, 23) o «tutte le chiese» (1Cor 4, 17; 7, 17; 2Cor 8, 18; 11, 28), a
volte specificate come «dei gentili» (Rm 16, 4), «di Dio» (1Ts 2, 14; 2Ts
1, 4) o «di Cristo» (Rm 16, 16). Per questo, sono definite come «chiese
dei santi» (1Cor 14, 33.34), nel senso «identificante», prima che etico,
dell’aggettivo hagios. Nello stesso tempo, il singolare collettivo è scelto
per identificare «la chiesa di Dio» (1Cor 10, 32; 11, 16.22; 15, 9; Gal 1,
13), per cui nelle frequenze in cui si trova «la chiesa», senza specificazioni, è opportuno sottintendere l’appartenenza divina (1Cor 14,
4.5.12.23.28; Fil 3, 6; Ef 1, 22) e/o cristologica (1Ts 1, 1; Gal 1, 22; Ef 5,
23). Di fatto è Dio che stabilisce nella chiesa i diversi carismi e ministeri
(1Cor 12, 28), ed è «in Cristo» che si radunano le diverse comunità locali.
Per questo in Ef 5, 25 si dirà che «Cristo che ha amato la chiesa, donando
se stesso per lei» (Ef 5, 25).
La situazione familiare e frammentaria delle prime comunità cristiane
dimostra, da una parte, come la chiesa non sia una categoria astratta, bensì concreta e sorta per le relazioni interpersonali dei credenti, e dall’altra
che gli stessi nuclei familiari ecclesiali rimandano alla «chiesa di Dio», in
quanto attestazione visibile della sua elezione e della sua presenza. In tal
senso la formula he kat’oikon ekklesia, esprime sia il valore distributivo
del termine8, sia quello unificante9: in ogni comunità domestica è la chiesa di Dio che s’incontra e, a loro volta, le diverse chiese formano l’unica
chiesa.
Il tratto dinamico della relazione distributiva e unitiva della chiesa è
posto in evidenza dal linguaggio dell’edificazione, mediante la valorizzazione dei diversi carismi e ministeri (1Cor 14, 4.5): gli stessi credenti, in
quanto proprietà del Signore, sono definiti «campo» (1Cor 3, 9), «edificio/edificazione» (1Cor 3, 9; 14, 12; 2Cor 12, 19), «casa» (1Cor 1, 16) e
«tempio di Dio» (1Cor 3, 16.17; 6, 19; 2Cor 6, 16; Ef 2, 21). A riguardo è
opportuno precisare che l’ultima accezione non sostituisce il secondo
Tempio di Gerusalemme, che è ancora in auge negli anni 50 d.C., ma si
pone in continuità, sottolineando l’appartenenza di entrambi al Signore,
che in essi rivela la sua presenza e la sua santità.
8
M. GIELEN, «Zur Interpretation der paulinischen Formel he kat’oikon ekklesia», in
ZNW 77 (1986) 109-125.
9
MEEKS, Urban Christian, 57.
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3. Chiesa e «corpo di Cristo»
Originale è il modo con cui Paolo utilizza il linguaggio somatologico
o del corpo per descrivere la chiesa in generale e le singole comunità in
particolare10. Di per sé la metafora del corpo, applicata alle relazioni sociali e civili, è diffusa nella filosofia popolare ellenistica, soprattutto in
quella stoica11 e nella letteratura greco-romana antica. Già nella sua Politica Aristotele si serviva della metafora per evidenziare la solidarietà delle parti: «In effetti, come il corpo risulta di parti e deve crescere in proporzione, perché rimanga la simmetria… così anche lo stato risulta di
parti» (5, 35-41, 1302b).
La metafora del corpo e delle membra per la società umana è ripresa
da Cicerone nel suo De officiis 3, 5, 22: «… Se ciascun membro del nostro corpo immaginasse di poter essere sano e forte attirando a sé la sanità
e il vigore del membro vicino, necessariamente l’organismo intero
s’indebolirebbe e perirebbe, così se ciascuno di noi si appropriasse dei
beni altrui, sottraendo a ciascuno quanto più può per il proprio vantaggio,
necessariamente la società umana andrebbe in rovina».
Nel contesto dello stoicismo Epitteto così descrive le relazioni umane
della polis: «Qual è dunque la professione del cittadino: Non avere nulla
per la propria utilità (sympheron), né organizzare nulla come se fosse
contro l’unità, ma agire come il piede o la mano che, se avessero facoltà
di ragionare o di comprendere la costituzione della natura, non eserciterebbero mai scelta o desiderio in nessun altro modo, ma riferendosi al tutto» (Dissertatione 2, 10, 4-5).
Altrettanto importante è l’uso della somatologia nel De ira di Seneca:
«Che cosa accadrebbe se le mani volessero nuocere ai piedi, gli occhi alle
mani? Come tutte le membra s’intendono fra loro, poiché la conservazio10
Cf BARBAGLIO, «Corpo di Cristo», in Gesù di Nazaret e Paolo, 215-222; W. BOUnità e reciprocità delle membra della Chiesa. Studio esegetico-teologico di 1Cor
12, 21-26; Rom 12, 3-8; Ef 4, 25–5, 2, TG ST 115, Gregoriana, Roma 2004; DUNN, «The
Body of Christ», in Theology of Paul, 548-552; Y.S. Kim, Christ’s Body in Corinth . The
Politics of a Metaphor, Fortress Press, Minneapolis 2008; R. PENNA, «La chiesa come
corpo di Cristo secondo S. Paolo», in Lateranum 68 (2002) 243-257; M. WALTER, Gemeinde als Lieb Christi: Untersuchungen zum Corpus Paulinum und zu den «apostolischen Vätern», NTOA 49, Friburg 2001. Per un’analisi dettagliata della sezione di 1Cor
12–14 cf J.E. AGUILAR CHIU, 1 Cor 12–14 Literary Structure and Theology, AnBib 166,
P.I.B., Roma 2007.
11
Cf T. ENGBERG-PEDERSEN, Paul and the Stoics, T&T Clark, Edinburgh 2000, 265271 e soprattutto il recente contributo di M.V. LEE, Paul, the Stoics and the Body of
Christ, SNTS MS 157, University Press, Cambridge 2006.
REK,
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11
ne delle singole membra interessa al tutto, così gli uomini usano riguardo
ai singoli, perché sono stati generati per l’unione» (2, 31, 7)12. Noto infine
è l’apologo, pronunciato da Menenio Agrippa alla plebe romana, e riportato anzitutto da Dionigi di Alicarnasso, nelle sue Antichità romane 6, 83,
2: «Una città somiglia in certo senso al corpo umano. Infatti ognuno di
essi è composto e consiste in molte parti. E nessuna delle loro parti ha la
stessa funzione o compie lo stesso servizio». Lo stesso apologo sarà ripreso da Tito Livio nella Storia di Roma 2, 32, 7-12. «Cospirarono dunque che le mani non portassero più il cibo alla bocca, che la bocca non lo
ricevesse, che i denti non masticassero ciò che avessero ricevuto … Così
paragonando la sedizione interna del corpo all’iroso furore della plebe
contro i patrizi, piegò l’animo dei plebei».
La metafora somatologica, per riferirsi a una polis o a uno stato, è nota
anche a Flavio Giuseppe che nella Guerra giudaica 4, 7, 2 così descrive
le incursioni dei briganti in Giudea: «Inoltre anche nelle altre regioni della Giudea entrarono in azione le bande dei briganti che fino a quel momento non s’erano mosse, come avviene in un corpo quando, ammalandosi una parte vitale, ne risentono tutte quante le altre».
Tuttavia, nonostante le contiguità rispetto all’uso della metafora, nuova è la modalità con cui Paolo concepisce le relazioni tra le membra e il
corpo. Anzitutto non sono causali i riferimenti al corpo di Cristo che è
l’eucaristia in 1Cor 10, 14-16 e in 1Cor 11, 23-25, e quello al battesimo
«in un solo Spirito» (1Cor 12, 13)13. Tali priorità determinano, di fatto, un
capovolgimento fondamentale rispetto all’uso della «metafora» del corpo
in 1Cor 12, 4-27; Rm 12, 3-8 e in Ef 4, 1-16. Così mentre nelle fonti parallele citate si procede dalla diversità delle membra, per origine, cultura
e stato sociale, all’unità del corpo, nell’argomentazione paolina si assiste
alla dinamica inversa: dall’unità dei singoli in Cristo, per la fede14, alla
comunione delle membra fra loro: «E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo …» (1Cor 12, 13). Da
questo versante è sostanziale la differenza rispetto alla visione aristotelica
dello stato: «E per natura lo stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di
noi perché il tutto deve essere necessariamente anteriore alla parte: infatti
12
Cf anche SENECA, Lettere a Lucilio 95, 52: «Tutto questo mondo che tu vedi, in cui
sono comprese le sfere del divino e dell’umano, forma un’unità; siamo le membra di un
grande corpo. La natura ci ha tratto alla vita stretti da vincoli di parentela, generandoci dai
medesimi principi e per tendere ai medesimi fini. Ci ha infuso un amore reciproco e ci ha
resi inclini alla solidarietà».
13
BOREK, Unità e reciprocità, 127-145.
14
Così opportunamente DUNN, Theology of Paul, 551-552.
12
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soppresso il tutto non ci sarà più né piede, né mano …» (Politica 1, 18,
20, 1253a).
Soltanto in questo capovolgimento l’unità ecclesiale diventa garanzia
della diversità e questa espressione dell’unità, senza che la prima cada in
espressioni di unitarismo e la seconda in divisioni che lacerano il corpo di
Cristo. Di conseguenza, la categoria del «corpo mistico», applicata nella
storia della teologia alla chiesa e introdotta in epoca medievale da Berengario di Tours, andrebbe ridefinita: non si tratta semplicemente di una
metafora, bensì di una relazione con Cristo nella chiesa che assume caratteri persino più coinvolgenti di quelli che si verificano nel corpo di ognuno. Di fatto mentre non è vero che se un membro soffre sono tutte le
membra a soffrire, tranne per gli organi centrali o vitali del corpo umano,
la condivisione delle membra nel corpo di Cristo, che è la chiesa, è totalizzante poiché la gioia e la sofferenza di un piede hanno ripercussioni
sulla mano o sull’occhio (1Cor 12, 26).
Altrettanto significative sono le conseguenze del linguaggio del corpo,
applicato alle comunità domestiche di Corinto, di Roma, di Colossi e di
Efeso, rispetto sia alle relazioni interne, sia a quelle con coloro che non
appartengono al corpo. Nel primo versante la metafora è funzionale ad
instaurare una relazione fra le diverse comunità domestiche, per cui sono
«corpo di Cristo», non soltanto nella stessa assemblea, ma in rapporto alle
altre comunità domestiche. Nel secondo l’uso della somatologia nei contesti etici, propri delle sezioni in cui sono utilizzate da Paolo, non andrebbe inteso come irrilevante per la dimensione kerygmatica della fede, ma
sostanziale in quanto il corpo di ogni credente, definito come tempio dello Spirito (cf 1Cor 6, 19) e acquistato a caro prezzo da Cristo (cf 1Cor 6,
20), non può contaminarsi con quello di una prostituta (cf 1Cor 6, 15).
Purtroppo sull’incidenza del linguaggio somatologico non si è conferita la dovuta attenzione poiché, riscontrandosi in sezioni etiche, di conseguenza sarebbe poco rilevante sulla dimensione della fede. Al contrario,
lo scandalo denunciato da Paolo contro le divisioni tra possidenti e nullatenenti, in occasione della cena del Signore, presenta implicazioni così
sostanziali che interpreta, in prospettiva vendicativa, le relazioni tra colpa
e malattia in 1Cor 11, 30. Certo tra responsabilità umana e malattia non
c’è relazione tra causa ed effetto – ed è quanto Paolo sosterrà in Rm 8,
18-30, ma se Paolo ricorre a questo paradigma in 1 Cor 11, si deve quanto meno alla visione tutt’altro che metaforica che ha del corpo di Cristo
sia per l’eucaristia, sia per la comunità cristiana.
L’ecclesiologia paolina del corpo di Cristo
13
4. Il capo e il corpo
Diversa è la somatologia che si delinea nelle grandi lettere paoline rispetto a quella successiva di Colossesi e di Efesini. Mentre nel primo ambito epistolare il capo non è Cristo, bensì è identificato con uno dei membri (1Cor 12, 28-30) della comunità che, in quanto suo corpo, s’identifica
con Cristo, nel secondo Cristo stesso è il capo che continua a operare, in
relazione inscindibile, con il suo corpo che è la chiesa (cf Ef 4, 15)15. Per
questo Paolo può asserire che completa nella sua carne quanto manca ai
patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la chiesa (Col 1, 24): il
referente della sua sofferenza non è il sacrificio di Cristo che, poiché di
uno che non aveva conosciuto il peccato, è definitivo e perfetto, ma il suo
corpo ecclesiale.
Tuttavia in questi ambiti diversificati, tra la somatologia delle lettere
autoriali e quelle della prima tradizione, permane il tratto costante che
procede dall’unità di e in Cristo alla comunione vicendevole fra i credenti: l’origine cristologica dell’ecclesiologia vale sia per le lettere autoriali,
sia per quelle della tradizione. In tal senso non è la comunione a generare
l’unità, bensì l’unità in Cristo a esprimersi nella comunione, altrimenti
non si spiega la negazione di qualsiasi differenza tra giudeo e gentile, maschio e femmine, schiavo e libero al livello dell’unica fede (Gal 3, 28;
Col 3, 11), e la contemporanea affermazione quando si tratta di sottolineare le diversità tra giudei e gentili, schiavi o liberi (1Cor 12, 13) nello
stesso corpo.
Le differenze non sono negate in assoluto, ma riguardano l’ambito
della fede, per essere valorizzate in quello delle relazioni ecclesiali. Tale
cambiamento contestuale permette di stabilire che mentre il gentile chi
aderisce a Cristo non deve, in alcun modo, passare per la sottomissione
alla Legge e alla circoncisione, pena l’inutilità della giustificazione in
Cristo (Gal 2, 15-21), il giudeo e il proselito o il timorato di Dio, vale a
dire i gentili che hanno aderito in precedenza al giudaismo per credere in
Cristo, possono continuare a osservare le regole di purità alimentari e il
calendario giudaico, a patto che non diventino condizioni per la giustificazione in Cristo e che non costituiscano motivi di conflitto tra i forti e i
deboli (Rm 14, 1–15, 13; cf anche 1Cor 8–10 per le carni immolate agli
15
ALETTI, «Les difficultés ecclesiologiques», 460; La diversa somatologia tra le homomogoumena e le prime antilegomena è stata ben evidenziata da A. MARTIN, La tipologia adamica nella lettera agli Efesini, AnBib 159, Roma 2005, mediante la diffusa tipologia del rapporto tra Adamo e Cristo che attraversa Efesini.
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14
idoli). Se al livello della fede o battesimale non c’è alcuna differenza sociale, etnica e sessuale fra i credenti, in quello ministeriale le stesse differenze arricchiscono il corpo di Cristo.
5. Lo Spirito e i carismi
Nella somatologia ecclesiale svolge un ruolo prioritario lo «Spirito di
Cristo» (Rm 8, 9) o «del Dio vivente» (2Cor 3, 3), poiché la sua azione
permette, da una parte, a Cristo di continuare a operare nella chiesa e,
dall’altra, a questa di essere il suo corpo vivente. L’azione dello Spirito è
verificabile nella varietà dei carismi che elargisce alla chiesa16: sono dati
per l’utilità personale o di ognuno, e per quella comunitaria del corpo,
contro una lettura collettiva diffusa del termine sympheron in 1Cor 12, 7,
che pone in secondo piano l’impatto personale dei carismi. Per questo,
anche se Paolo non parla mai della «chiesa dello Spirito», nei carismi, nei
ministeri e nelle attuazioni, si rende visibile la Trinità in azione e la comunità diventa sua icona visibile: «Ci sono diversità di carismi, ma uno
solo è lo Spirito; diversità di ministero, ma uno solo è il Signore (riferito
a Gesù Cristo); diversità di attuazioni, ma un solo Dio che opera tutto in
tutti» (1Cor 12, 4-6). Soltanto una lettura superficiale può assimilare lo
Spirito con il Signore (Gesù Cristo) e con Dio, giacché come non tutte le
attuazioni sono ministeri, e non tutti i ministeri sono carismi, in quanto i
carismi sono più numerosi dei ministeri e i ministeri più ampi delle attuazioni, così lo Spirito si differenzia da Cristo e questi da Dio17.
L’implicito, ma comunque presente orizzonte trinitario per l’ecclesiologia paolina, è fondamentale per identificare il luogo e il corpo visibile
in cui operano le tre Persone divine, prima che nella storia del dogma
emergessero il linguaggio della Trinità e le differenze interne tra la natura
e le persone divine. L’augurio conclusivo di 2Cor 13, 13 sulla grazia del
Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo,
riversati sui destinatari, conferma le differenze trinitarie accomunate dalla
loro signoria (per quella dello Spirito cf 2Cor 3, 17).
Fra i carismi, destinati a diventare ministeri, sono opportune alcune
precisazioni circa gli apostoloi, gli episkopoi e i diakonoi, i ministeri che
riceveranno ulteriori sviluppi nelle lettere pastorali, con la triade degli e16
R. FABRIS, «Chiesa, carismi e ministeri a Corinto», in G. DE VIRGILIO (a cura di),
Chiesa e Ministeri in Paolo, EDB, Bologna 2003, 37-53.
17
AGUILAR CHIU, Literary Structure, 255.
L’ecclesiologia paolina del corpo di Cristo
15
piscopi, dei diaconi e dei presbyteroi (l’ultimo termine non si trova mai
nelle lettere autentiche)18. Nelle lettere autoriali gli apostoli non
s’identificano con i Dodici, anche se resta vero il contrario, ma con coloro che, a prescindere dalla condizione sessuale o civile, sono inviati per
diffondere il vangelo di Cristo. Di fatto anche Giunia e Andronico, sono
definiti «apostoli», che sono in Cristo prima di Paolo stesso (Rm 16, 7).
Pertanto mentre anche i Dodici (1Cor 15, 5) sono apostoli, non tutti gli
apostoli rientrano nel gruppo ristretto dei Dodici che hanno condiviso la
vita pubblica di Gesù. A sua volta, il binomio «episcopi e diaconi» compare soltanto in Fil 1, 2 per le homologoumena19 e, a causa della funzione
ancora generica dei termini, forse assume una valenza endiadica: ritengo
che si tratti degli stessi episcopi che, nella loro diaconia di guida della
comunità, esercitano il loro ministero.
La portata indefinita dei termini è convalidata dal fatto che spesso il
sostantivo apostolos è equiparato a diakonos e alla diakonia (2Cor 5, 18;
Rm 11, 13). Per inverso anche Cristo è definito «diacono (nel senso generico di «ministro») della circoncisione» (Rm 15, 8), l’autorità imperiale
«diacono di Dio» (Rm 13, 4) e la sorella Febe «diacono» della comunità
portuale di Cencre (Rm 16, 1-2).
Quanto è tuttavia prioritario evidenziare riguarda le relazioni tra il
corpo ecclesiale di Cristo e i ministeri citati: anche se Paolo stesso è
l’apostolo che ha fondato diverse comunità cristiane nella diaspora, nessun ministero, neanche quello degli apostoli, è concepito come esterno,
bensì sempre come interno al corpo di Cristo; ne è parte in quanto membro del corpo, come dimostrano gli elenchi dei ministeri in 1Cor 12, 28;
Ef 4, 11. D’altro canto sono definiti «apostoli» gli stessi delegati, scelti
nelle comunità paoline della Macedonia, per gestire l’iniziativa della colletta a favore dei poveri di Gerusalemme (cf 2Cor 8, 23: «apostoli delle
chiese»).
18
In particolare sul ministero dell’episkopos cf R. PENNA, La funzione ecclesiale
dell’episkopos nel Nuovo Testamento (Lettere Pastorali), in Lateranum 71 (2005) 299309.
19
J. REUMANN, Church Office in Paul, Especially in Philippians, in B.H. MCLEAN (a
cura di), Origins and Method. Towards a New Understanding of Judaism and Christianity,
FS. J.C. Hurd, JSNT SS 86, Sheffield 1993.
Antonio Pitta
16
6. Il corpo e il popolo
La priorità sostanziale della somatologia pone in secondo piano la categoria del «popolo» di Dio o del Signore, presente nelle lettere paoline,
ma su cui è opportuno formulare alcune precisazioni. Di fatto il termine
laos si riscontra, in gran parte, quando sono utilizzate citazioni dirette,
indirette ed echi dell’AT20, mentre soltanto in Rm 11, 1-2 si riscontra nel
dettato paolino. Il seguente prospetto sulle 12 frequenze del sostantivo
laos nell’epistolario paolino è illuminante:
a) Citazione diretta di Es 32, 6 in 1Cor 10, 7: «Non diventate idolatri
come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: «Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò a divertirsi»».
b) Citazione diretta di Is 28, 11-12 in 1Cor 14, 21: «Nella Legge sta
scritto: «In altre lingue e in altre labbra parlerò a questo popolo e neanche
così mi ascolteranno, dice il Signore»».
c) Citazione diretta di Lv 26, 11-12 in 2Cor 6, 16: «Come disse Dio:
«Abiterò fra loro e camminerò con loro e sarò il loro Dio ed essi saranno
il mio popolo»».
d) Citazioni dirette di Os 2, 25 e di Os 2, 1 in Rm 9, 25-26: «Come dice anche in Osea: «Chiamerò ‘popolo mio’ quello che non era mio popolo e ‘mia diletta’ quella che non era diletta»»; e nel luogo in cui fu detto
loro: «Voi non siete «mio popolo», là saranno chiamati «figli del Dio vivente»».
e) Citazione diretta di Is 65, 2 in Rm 10, 21: «Invece contro Israele dice: «Tutto il giorno tesi le mie mani contro un popolo incredulo e ribelle»».
f) Allusione al Sal 93, 14 e/o a 1Sam 12, 22 in Rm 11, 1-2: «Dico
dunque: Forse Dio ha rigettato il suo popolo? Non sia mai!... Non ha ripudiato il suo popolo che aveva preconosciuto».
g) Citazioni dirette di Dt 32, 43 e del Sal 117, 1 in Rm 15, 10-11: «E
di nuovo dice: «Rallegratevi, gentili, con il suo popolo». E nuovamente:
«Lodate, nazioni tutte, il Signore, e lo esaltino tutti i popoli».
h) Unica attestazione di Tt 2, 14 in cui la categoria del popolo è utilizzata per quanti sono in Cristo.
20
Sulla categoria del popolo nelle citazioni dell’AT, Aletti «Le statut de l’Église»,
160-172, si sofferma soltanto su 2Cor 6, 16b-18 e su Rm 9, 24-26, mentre sarebbe illuminante estendere l’analisi a 1Cor 10, 7; 14, 21 e soprattutto a Rm 15, 7-13, poiché permettono di approfondire le relazioni tra il popolo d’Israele e i gentili o le nazioni che aderiscono al vangelo.
L’ecclesiologia paolina del corpo di Cristo
17
Dall’elenco riportato risalta anzitutto che, con una certa reticenza, Paolo è propenso a utilizzare il termine laos per riferirlo alla comunità dei
credenti: in pratica soltanto Tt 2, 14 per denotare il popolo che Gesù si è
formato con la redenzione (cf in seguito 1Pt 1, 9-10). Il dettato di Rm 11,
1-2 rappresenta una eco del Sal 93, 14 e/o di 1Sam 12, 22 per cui rientra
fra i riferimenti dominanti in cui laos è utilizzato da Paolo richiamando le
citazioni dell’AT, tratte in prevalenza dalla LXX. In diversi casi, come in
2Cor 6, 16 e in Rm 9, 25-26, la categoria del popolo dipende e non precede quella della separazione e dell’elezione divina alla figliolanza, a dimostrazione di una tensione o di un paradosso tra l’appartenenza per elezione e quella dell’etnia21. Come stanno insieme la priorità dell’elezione
divina a chiamare un non-popolo che diventa popolo suo con la convinzione che Dio non ha rigettato il suo popolo? Non è un caso che la paternità di Abramo, evidenziata in Gal 3, 1–4, 31 e in Rm 4, 1-25 per includere i gentili che hanno aderito a Cristo, non sia mai rapportata a laos, bensì
ad ethnos: un tratto che contrasta con diverse correnti del giudaismo del
secondo Tempio22.
L’uso della gezera hawah in Rm 9, 25-26 (con i termini d’inferenza
kalein e laos) e in Rm 15, 10-11 (con i termini ethnos e laos) dimostra
che la questione sul laos è quanto mai problematica23: da una parte Paolo
non intende mai sostenere che Dio ha ripudiato il suo popolo, sostituendolo con la Chiesa, dall’altra che anche i gentili e non soltanto i giudei
sono stati chiamati in Cristo ad essere popolo del Signore. Se ricorre
all’AT per sostenere questa tesi nelle sue lettere è perché preferisce intraprendere il percorso della figliolanza divina in Cristo e del corpo di Cristo
piuttosto che quello del popolo del Signore.
Soltanto con l’avanzare del processo di separazione tra giudaismo e
cristianesimo si assiste al trasferimento della realtà del «popolo» da Israele alla chiesa, mentre nelle homologuomena tale scissione non è ancora
consumata. Il dato merita di essere approfondito in ambito teologico:
l’assunto per il quale la categoria del popolo di Dio svolge un ruolo prioritario nell’ecclesiologia paolina, comprendendo l’identificazione della
figliolanza divina, della santità dei credenti e della somatologia, riflette
21
ALETTI, «Le statut de l’Église», 173-174.
Cf N. CALVERT-KOYZIS, Paul, monotheism and the people of God: The Significance of Abraham traditions of Early Judaism and Christianity, JSNT SS 273, T&T Clark,
Sheffield 2004.
23
P. BASTA, Gezerah Shawah. Storia, forme e metodi dell’analogia biblica, SubBib
26, Roma 2006; ID., Abramo in Romani 4. L’analogia dell’agire divino nella ricerca esegetica di Paolo, AnBib 168, Roma 2007.
22
Antonio Pitta
18
una petizione di principio non rispondente alla sua visione della chiesa24.
Piuttosto si dovrebbe sostenere il contrario: la priorità della figliolanza
divina, dell’elezione, e della somatologia, che accomuna, le grandi lettere
con quelle della prima tradizione paolina, cede il posto soltanto con la seconda tradizione a quella del popolo per caratterizzare la comunità dei
credenti.
7. I credenti, Israele e la cittadinanza
Il rapporto tra l’ecclesiologia somatica e quella del «popolo» illumina
quello tra Israele e la chiesa, nell’epistolario paolino. Il primo resta sempre «il popolo del Signore», con la sua peculiare e permanente elezione,
che non è mai sostituito dalla chiesa: da questo versante permane «tutto
l’Israele di Dio» di Gal 6, 16 o il suo popolo eletto, che non cede il posto
al «nuovo Israele», una categoria del tutto estranea a Paolo. Nello stesso
tempo, in quanto corpo di Cristo, la comunità dei credenti comprende sia
i giudei, sia i gentili che hanno creduto al vangelo (Rm 9, 24; 15, 7-13) o
coloro che in Cristo sono riconosciuti come «nuova creatura» (Gal 6, 15),
al di là delle distinzioni etniche tra circoncisione e incirconcisione.
Rilevante a riguardo è l’asimmetria tra la Gerusalemme presente e
quella di lassù, proposta in Gal 4, 25-26: per la prima è adottato il linguaggio cronologico (nyn), per la seconda quello spaziale (ana), poiché
da una parte Paolo non può ignorare l’esistenza della città attuale,
dall’altra afferma quella della Gerusalemme concepita come realtà ecclesiale in cui rientrano alcuni degli stessi cittadini della capitale palestinese
che hanno aderito al vangelo. Da questo versante la prospettiva paolina è
diversa da quella escatologica sulla nuova Gerusalemme, riportata nella
visione finale dell’Apocalisse (Ap 21, 1-27).
La stessa tensione si verifica a proposito dello statuto civile e religioso
dei credenti di Filippi: se da un lato sono esortati a comportarsi come cittadini degni del vangelo (cf l’uso di politeuesthai in Fil 1, 27), dall’altro
non devono dimenticare che la loro cittadinanza è celeste, poiché da essa
24
Così KRAUS, Das Wolk Gottes, 124-126. Sulle critiche all’ecclesiologia paolina, delineata da Kraus, cf ALETTI, «Le status de l’Église», 158-159 che giustamente annota: «Il
est pour le moins bizarre qu’il ait essayé de repenser l’extension et la compréhension de
ce concept sans jamais le notifier explicitement, car si telle est son intention, on peut
s’étonner de le voir montrer comment on peut appliquer aux croyants non circoncis le
composantes du “peuple de Dieu” eschatologique… sans jamais conclure expressément,
en ces argumentation, qu’ils sont ainsi membres à part entière de ce peuple».
L’ecclesiologia paolina del corpo di Cristo
19
attendono come salvatore il Signore Gesù Cristo (cf to politeuma in Fil 3,
20). In questo scarto s’innesta il relativo e l’assoluto della «teologia politica» di Paolo, senza dimenticare però che l’accento è posto sul versante
apocalittico della Gerusalemme di lassù e della cittadinanza celeste, reali
quanto quelle civili e che, per questo, esigono comportamenti rispettosi e
responsabili nei confronti delle autorità imperiali (Rm 13, 1-7). In caso
contrario, le stesse comunità domestiche rischiano di essere colpite dagli
editti imperiali, come quello di Claudio contro gli ebrei di Roma (49
d.C.), che stabilisce la loro espulsione dalla Capitale, «per istigazione di
Cresto» (Svetonio, Vita di Claudio 25, 4). Fra quanti, di fatto, subirono le
conseguenze dell’editto imperiale è citata la famiglia giudeo-cristiana di
Aquila e Priscilla (cf At 18, 2), emigrata a Corinto e a Efeso per tornare a
Roma, con la rescissione dell’editto imperiale. Le tensioni tra statuto ecclesiale e civile caratterizzeranno diverse comunità cristiane nel I e nel II
secolo d.C., poiché dalle autorità imperiali saranno equiparate ai collegi
religiosi minori, mal tollerati dagli imperatori e dai governatori delle province romane. Si ricordi l’accusa di Nerone contro i cristiani per
l’incendio di Roma (64 d.C.) e la nota Lettera 10, 96, 6-7 di Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, a Traiano (prima decade del II sec. d.C.),
sulla proibizione delle assemblee domestiche dei cristiani.
8. Conclusioni
L’ecclesiologia paolina è diversificata, poiché in ogni lettera è conformata dalla sua cristologia, per cui con il variare di questa subentrano
differenti prospetti comunitari. Tuttavia, pur nelle differenze contestuali
di ogni lettera ritengo che sia possibile identificare un duplice Oberbegriff: quello della oikia o della famiglia domestica e quello somatologico.
Alcuni, con l’intenzione positiva di porre in discussione la classica ecclesiologia del laos, ritengono che non si possa delineare alcun concetto
dominante dell’ecclesiologia paolina25. In realtà, i due prospetti della oikia e del soma caratterizzano l’ecclesiologia delle homologoumena, per
essere consolidate nelle antilegomena di Colossesi e di Efesini. Il primo
modello deriva, in prevalenza, dal contesto storico-sociale delle prime
comunità cristiane: in esso rientrano le categorie della famiglia, della figliolanza e della fratellanza, fra quanti appartengono alla stessa oikia. Il
25
Così conclude Aletti, «Le statut de l’Église», 173: «Il ne semble donc pas y avoir
d’Oberbegriff ecclésiologique dans les homologoumena».
Antonio Pitta
20
secondo proviene dalla cristologizzazione della chiesa, ossia dall’unicità
della fede in lui per orientarsi verso la chiesa come corpo di Cristo.
Tensionale è il rapporto tra la chiesa come corpo di Cristo, rispetto a
quella del popolo del Signore. Per non ingenerare modelli sostitutivi, nelle homologoumena non è applicata mai la categoria del popolo, né tanto
meno il titolo di Israele alla chiesa. Con il ricorso autorevole alla Scrittura, il termine laos è riconosciuto come proprio d’Israele e non è trasferito
alla chiesa, poiché Dio non ha ripudiato il suo popolo (cf Rm 11, 1-2).
Per quanto coloro che provengono dal non-popolo diventino popolo del
Signore, l’Israele di Dio resta il popolo del Signore a cui si relazionano
gli ethne e «tutti i popoli» della terra. La tensione, propria delle grandi
lettere, tra l’Israele di Dio e la chiesa o quanti hanno creduto al vangelo,
tra la Gerusalemme presente e quella di lassù, tra la cittadinanza civile e
quella celeste attraversa le grandi lettere paoline. Una tensione che si deve al dato di fatto che in queste non si è ancora consumata la definitiva
separazione fra il giudaismo e la chiesa di Dio (cf Gal 1, 13-14), ma del
primo fa parte ancora la seconda, pur nella condizione di persecuzione e
di rifiuto dell’uno nei confronti dell’altra.
Quanto tuttavia è proprio delle grandi lettere paoline è la somatologia
ecclesiologica, rispetto alla quale Paolo non ha alcun bisogno di ricorrere
alla Scrittura per evidenziare che la chiesa e la singola comunità che si
raduna in casa di un credente è il corpo di Cristo. Sostenere che la somatologia di Colossesi ed Efesini colmi l’assenza di un concetto ecclesiologico dominante nelle grandi lettere non credo che renda ragione del dato
di fatto che nella somatologia di 1Corinzi e di Romani s’innesta quella
della prima tradizione paolina. Piuttosto su questo versante ciò che differenzia le grandi lettere da quelle della prima tradizione è l’insorgere della
categoria del pleroma presente in Cristo e comunicato alla chiesa (cf Ef 1,
22-23; 3, 17-29)26. Ma non è fortuito che sia, ancora una volta, il linguaggio del corpo a salvaguardare le relazioni tra Cristo e la chiesa, contro
una cognizione semplicemente metaforica o gnostica delle loro relazioni.
In definitiva se la chiesa per Paolo non è il popolo, bensì la casa e/o il
tempio di Dio e il corpo di Cristo è perché opera un radicale ripensamento della «chiesa di Dio», non a partire dall’elezione in quanto tale, bensì
dall’essere in Cristo di ciascuno, giudeo e gentile, per la fede in lui27.
26
BOREK, Unità e reciprocità, 41.
Su questo non si possono che sottoscrivere a piene mani le osservazioni di ALETTI,
«Le statut de l’Église», 158.
27