Regolare e costituire. Sul carattere tecnico delle regole

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Regolare e costituire. Sul carattere tecnico delle regole
Corrado Roversi
Regolare e costituire. Sul carattere tecnico delle regole costitutive
N.B.: Il presente articolo è in corso di pubblicazione. Si prega di non citarlo senza permesso dell’autore.
E-mail: ([email protected]).
Introduzione
In Italia, il concetto di regola costitutiva ha ricevuto forse più attenzione che in qualsiasi
altra parte del mondo. Mentre altrove, infatti, il lavoro attorno a questo concetto si è
sviluppato per lo più in connessione con la teoria di John Searle, concentrandosi dunque in
massima parte sull’interpretazione di tale teoria,1 la filosofia del diritto analitica italiana ha
prodotto su questo tema un dibattito vivace, consistente sia di proposte teoriche originali
sia di un accurato lavoro di critica. Ancora oggi, in Italia, il tema (se sollevato) anima una
discussione che spesso si polarizza su due opposti “partiti”: da un lato, vi sono coloro che
ritengono che le regole costitutive abbiano una portata ontologica, siano cioè dotate di
potenzialità creative di oggetti, stati di cose, proprietà, relazioni di natura sociale, o (per
usare il lessico di Searle) istituzionale; dall’altro, vi sono coloro che ritengono che le regole
costitutive non siano nella sostanza diverse dalle altre regole, e che la loro apparente
peculiarità sia in realtà riconducibile a fenomeni normativi più noti e meno controversi.
Questo contrasto si ripropone quasi invariabilmente, perché esso nasconde due concezioni
del diritto e della realtà giuridica che si ritengono opposte. Tipicamente, infatti, coloro che
difendono l’aspetto creativo delle regole costitutive danno particolare rilevanza al diritto
come dominio ontologico, vale a dire come insieme di entità dotate di proprietà normative
peculiari, mentre coloro che minimizzano l’aspetto creativo delle regole costitutive
ritengono che l’insistenza sull’aspetto ontologico sia foriera di ipostasi incompatibili con un
serio empirismo. La medesima polarizzazione si ripercuote su tutte le questioni riguardanti
1
Fanno eccezione almeno i lavori di Alf Ross e di Georg H. von Wright, nonché, più recentemente, il lavoro
di Andrei Marmor sulle “convenzioni costitutive” (constitutive conventions): si veda Ross 1968, 53ss.; Wright
1971, 151ss.; Marmor 2009, 3644.
1
le regole costitutive, la loro natura e funzione. In questo lavoro, affronterò il problema del
rapporto tra regole costitutive e regole tecniche e cercherò di mostrare, con riferimento a
questo problema, che il suddetto contrasto di fondo non ha ragion d’essere.
La struttura del lavoro è la seguente. Nella Sezione 1 fornirò, con riferimento al più ampio
dibattito giusfilosofico italiano, alcuni chiarimenti sul mio uso del concetto di regola
costitutiva. Nella Sezione 2, introdurrò più nello specifico la disputa sulla natura tecnica
delle regole costitutive. Nella Sezione 3, proporrò due tesi sul modo in cui le regole
costitutive costituiscono il proprio oggetto, fornendo contestualmente alcuni chiarimenti
sulla natura di ciò che esse costituiscono. Infine, nella Sezione 4, avanzerò le mie
conclusioni sul carattere tecnico e, più in generale, regolativo delle regole costitutive.
1. Alcune questioni preliminari
Nel parlare di regole costitutive con riferimento al dibattito italiano, è necessario sgombrare
il campo da possibili confusioni. Alla base del concetto di regola (o norma) costitutiva così
come esso è discusso nella filosofia del diritto analitica italiana, infatti, è presente una
originaria duplicità, già riscontrabile nelle due monografie di Gaetano Carcaterra Le norme
costitutive, del 1974, e La forza costitutiva delle norme, del 1979.
In un primo senso, sono state dette “costitutive” quelle regole (o norme) che, in quanto atti,
hanno immediatamente un effetto nell’ordinamento giuridico. In questo senso, è costitutiva
una norma abrogativa perché essa, per il fatto stesso di entrare in vigore, appunto abroga.
Questo tipo di costitutività delle regole costitutive è, come Carcaterra riconosce a più
riprese, un equivalente della performatività degli atti linguistici, in particolare di ciò che
Searle ha chiamato atti linguistici “dichiarativi” (declarative speech acts).2 Come un atto
linguistico dichiarativo, se compiuto a determinate condizioni, determina il venire ad
esistenza dello stato di cose istituzionale che esso descrive (ad esempio, con il dire “questa
nave si chiama Giuseppina” un pubblico ufficiale attribuisce questo nome alla nave), così una
regola (o norma) costitutiva in questo primo senso, per il fatto stesso di essere stata
validamente emanata ed essere entrata in vigore, determina la sussistenza dell’effetto
2
Si veda, ad esempio, Searle 1979, 16–20; Searle e Vanderveken 1985, 56–8. Cfr. anche Di Lucia 1997, 38.
2
giuridico che essa descrive come suo contenuto.
In un secondo senso, sono state dette “costitutive” quelle regole (o norme) che creano tipi
(concetti o, se si vuole, fattispecie astratte) di atti e fatti dotati di un determinato significato
sociale. In questo senso, è costitutiva la regola degli scacchi sull’arroccamento perché essa
crea il concetto di un atto che, nel corso di una partita a scacchi, ha una determinato
significato. Questo tipo di costitutività delle regole costitutive, tuttavia, non è equivalente
alla performatività degli atti linguistici dichiarativi, bensì è analoga alla capacità creativa di
ciò che Searle chiama constitutive rules di quegli atti linguistici. Come una regola costitutiva di
un atto linguistico, per Searle, determina le condizioni di esecuzione e il fine illocutivo
(illocutionary point) tipico di quell’atto, così una regola (o norma) costitutiva in questo
secondo senso, per il fatto stesso di essere stata validamente emanata ed essere entrata in
vigore, determina le condizioni di esecuzione e gli effetti tipici di fatti (o atti, stati di cose,
eventi, ruoli, proprietà, relazioni, etc.) che sono resi significanti dalla regola stessa.
Sebbene si tenda spesso a sovrapporre questi due sensi di regola costitutiva in un unico
concetto, siamo qui di fronte a due fenomeni essenzialmente differenti, distinguibili sotto
almeno tre profili.
Sotto il profilo del soggetto costituente, una regola costitutiva nel primo senso è un atto linguistico
produttivo di effetti, mentre una regola costitutiva nel secondo senso è piuttosto una regola
che rende possibile tali atti produttivi di effetti costituendone il concetto. Sotto questo
specifico profilo, tuttavia, la differenza sembra potersi comporre, poiché è possibile (ed
anzi, particolarmente nel contesto giuridico, avviene comunemente) che la regola
costitutiva di fattispecie di atti o fatti giuridicamente rilevanti sia a sua volta un atto
normativo che produce effetti nel sistema giuridico. Ciò può essere mostrato con
riferimento all’esempio delle norme abrogative. Si può certamente sostenere, infatti, che atti
immediatamente produttivi di effetti quali sono le norme abrogative (regole costitutive nel
primo senso, ovvero atti linguistici dichiarativi) presuppongono regole che rendono
possibile il processo di abrogazione delle norme (regole costitutive nel secondo senso,
constitutive rules nel senso di Searle): nulla impedisce, tuttavia, di concepire anche queste
regole costitutive dell’atto di abrogazione come atti linguistici, dunque (anche) come regole
costitutive nel primo senso. Una tale reinterpretazione non è tuttavia sufficiente a stabilire
una equivalenza tra i due tipi di regole: anche se concepite a loro volta come atti linguistici,
infatti, le regole costitutive nel secondo senso si differenziano dalle regole costitutive nel
primo senso sia sotto il profilo dell’oggetto che costituiscono sia sotto il profilo del
processo tramite il quale costituiscono.
Sotto il profilo dell’oggetto costituito, una regola costitutiva nel primo senso stabilisce
immediatamente il sussistere di uno stato di cose, mentre una regola costitutiva nel secondo
senso crea piuttosto il concetto (il tipo, la fattispecie astratta) di atti o fatti dotati di significato.
La differenza salta agli occhi sviluppando ulteriormente l’esempio delle norme abrogative:
mentre una norma abrogativa (regola costitutiva nel primo senso) crea il proprio contenuto
(l’abrogazione di una norma) come uno stato di cose immediatamente sussistente, una
regola costitutiva (nel secondo senso) dell’atto di abrogazione non determina l’immediata
3
sussistenza del proprio contenuto (un atto di abrogazione), ma, per così dire, ne costituisce
il concetto (la fattispecie astratta): in altri termini, non determina la sussistenza immediata
dell’atto, ma la sua possibilità in quanto atto dotato di significato.
Sotto il profilo del processo di costituzione, una regola costitutiva nel primo senso ottiene un
effetto immediatamente, mentre una regola costitutiva nel secondo senso lo ottiene soltanto a
determinate condizioni, e dunque in modo mediato. Di nuovo con riferimento alle norme
abrogative: rispetto all’effetto dell’abrogazione, una norma abrogativa (regola costitutiva nel
primo senso) ha una connessione immediata, poiché essa crea questo effetto nel momento
stesso della propria entrata in vigore, mentre la regola (costitutiva nel secondo senso) che
crea il concetto dell’atto di abrogazione ha una connessione mediata, poiché ottiene l’effetto
dell’abrogare soltanto se si verificano le condizioni di attuazione dell’atto che essa stessa
pone (ad esempio, l’atto di emanazione di una norma abrogativa). Una tale differenza
riguarda appunto il processo di costituzione, ed è inevitabile se tentiamo di unificare i due
sensi di regola costitutiva sotto il profilo dell’oggetto costituito (mettendo cioè in relazione
entrambe le regole con uno stesso oggetto, nel nostro esempio l’effetto dell’abrogazione).
Se, invece, tentiamo di ricondurre ad unità i due sensi sotto il profilo del processo di
costituzione, notando ad esempio che sia le regole costitutive nel primo senso sia le regole
costitutive nel secondo senso possono essere entrambe interpretate come immediatamente
costitutive di qualcosa, la divaricazione si riapre, evidentemente, sotto il profilo dell’oggetto
di costituzione: le regole costitutive nel primo senso, infatti, costituiscono immediatamente
lo stato di cose corrispondente all’abrogazione di una norma, mentre le regole costitutive
nel secondo senso costituiscono immediatamente qualcosa di diverso, ovvero il concetto
dell’atto di abrogazione come atto giuridicamente significante.
La differenza tra i due sensi di regola costitutiva sembra dunque, in conclusione, non essere
simultaneamente riducibile sotto tutti i profili. Com’è noto, Amedeo G. Conte ha notato la
differenza tra questi due sensi di regola costitutiva collocandola nel quadro di una
prospettiva unitaria sul fenomeno della costitutività. Secondo Conte, i criteri rilevanti per
l’identificazione del tipo di costitutività di una regola costitutiva sono due, e corrispondono
a due domande distinte: (a) la prima domanda è se la regola sia o piuttosto ponga una
condizione al proprio regolato; (b) la seconda è quale tipo di condizione la regola sia, o ponga:
se necessaria, sufficiente, o necessaria e insieme sufficiente. Una ben nota tassonomia delle
regole costitutive sulla base dei due detti criteri è stata proposta da Giampaolo Azzoni nel
suo Condizioni costitutive, del 1986 (e ripresa più estesamente in Il concetto di condizione nella
tipologia delle regole, del 1988). La ripropongo qui di seguito, brevemente.
(i) Sono regole eidetico-costitutive quelle regole che sono condizione necessaria di ciò che esse
regolano; ad esempio, la regola “la situazione di gioco in cui il re non può essere sottratto
allo scacco con nessuna mossa ha valore di scacco matto nel gioco degli scacchi”.
(ii) Sono regole thetico-costitutive quelle regole che sono condizione sufficiente di ciò che esse
regolano; ad esempio, la regola “la norma X è abrogata”.
(iii) Sono regole noetico-costitutive quelle regole che sono condizione necessaria e sufficiente di ciò
4
che esse regolano; ad esempio, “la norma fondamentale di un ordinamento, se concepita (à
la Felix Kaufmann) come condizione necessaria e sufficiente della possibilità di validità
delle norme dell’ordinamento da essa individuato” (Azzoni 1986, 161).
(iv) Sono regole anankastico-costitutive quelle regole che pongono una condizione necessaria a ciò
che esse regolano; ad esempio, la regola “il testamento olografo deve essere sottoscritto di
mano del testatore”.
(v) Sono regole metathetico-costitutive quelle regole che pongono una condizione sufficiente a ciò
che esse regolano; ad esempio, la regola “è senatore di diritto a vita, salvo rinunzia, chi è
stato Presidente della Repubblica”.
(vi) Sono regole nomico-costitutive quelle regole che pongono una condizione necessaria e sufficiente
a ciò che esse regolano; ad esempio, la regola “il riconoscimento del figlio naturale è fatto
nell’atto della nascita, oppure con un’apposita dichiarazione, posteriore alla nascita o al
concepimento, davanti ad un ufficiale dello stato civile o davanti al giudice tutelare o in un
atto pubblico o in un testamento, qualunque sia la forma di questo”.
L’eleganza ed unitarietà di questa prospettiva è indubbia: si tratta, evidentemente, di un
framework teorico che rappresenta un’originale estensione del concetto di costitutività a
fenomeni differenti. Essa tenta di comporre l’originaria duplicità tra i due sensi di norma
costitutiva facendo riferimento alla semplice distinzione tra condizione necessaria e
condizione sufficiente: in questa prospettiva, le norme costitutive nel primo senso sono
thetico-costitutive, poiché esse pongono attualmente il proprio oggetto (da cui l’espressione
“thetico”), mentre le norme costitutive nel secondo senso sono eidetico-costitutive, poiché
esse creano in primo luogo un concetto (un tipo, una fattispecie astratta) di atti o fatti
(proprio da questo aspetto di costitutività concettuale discende l’espressione “eidetico”).
Ciò che mi preme qui sottolineare, tuttavia, è che l’appello al concetto di condizione non
permette di superare la fondamentale duplicità tra i due sensi di regola costitutiva che ho
sopra individuato. Come del resto anche Conte ha più volte notato, le regole theticocostitutive e le regole eidetico-costitutive sono infatti condizione del proprio oggetto in un
senso del tutto diverso: le regole eidetico-costitutive, creando un concetto, sono condizione
necessaria di possibilità di ciò che esse regolano, mentre le regole thetico-costitutive,
istituendo immediatamente uno stato di cose, ne sono condizione sufficiente di attualità.3 A
3
Cfr. ad esempio Conte 1981, 84. Su questo, si veda anche Ferrari 1981, 519–20.
5
dispetto del comune ricorso al concetto di condizione, la differenza è essenziale, e può
essere còlta anche tramite un semplice formalismo. Se indichiamo con ‘R(x)’ la regola, e
con ‘x’ il suo regolato, il rapporto di condizione tra regola e regolato che Conte ravvisa nel
caso di una regola eidetico-costitutiva può essere schematicamente espresso come:
R(x)  x (equivalente a x  R(x)),
mentre il rapporto di condizione che Conte ravvisa nel caso di una regola theticocostitutiva può essere espresso come:
R(x)  x.4
La differenza di posizione relativa tra regola e regolato rispetto all’operatore ‘’, nonché la
presenza di un operatore modale nel primo caso, è indicativa della differenza di concetto
che stiamo qui trattando. Questa differenza di concetto è anche mostrata dal fatto che,
nella tassonomia di Azzoni, è più che mai difficoltosa l’interpretazione della regola che
dovrebbe combinare thetico ed eidetico-costitutività, vale a dire la regola noetico-costitutiva
intesa come condizione necessaria e sufficiente del proprio regolato. La regola noeticocostitutiva, infatti, può essere interpretata o come condizione necessaria e sufficiente di
possibilità del proprio regolato, o come condizione necessaria e sufficiente di attualità del
proprio regolato o, infine, come condizione necessaria di possibilità e condizione sufficiente
di attualità del proprio regolato. La prima interpretazione, palesemente, annulla la differenza
tra eidetico-costitutività e thetico-costitutività privilegiando la prima sulla seconda: la regola
è condizione necessaria e sufficiente di possibilità del regolato in quanto ne costituisce
completamente il concetto. La seconda interpretazione, inversamente rispetto alla prima,
annulla la differenza tra eidetico-costitutività e thetico-costitutività privilegiando la seconda
sulla prima: la regola è condizione necessaria e sufficiente di attualità del regolato in quanto,
come atto performativo, lo istituisce immediatamente, ed è inoltre l’unico modo per
istituirlo. La terza interpretazione è l’unica che non annulla la differenza tra eideticocostitutività e thetico-costitutività, ma non fa altro che mantenere questa differenza
sommando due processi differenti: così interpretata, infatti, la regola insieme crea il
4
Si noti che queste formule hanno un semplice valore esplicativo. Ovviamente, la costruzione di un sistema
di logica modale predicativa per formalizzare il rapporto di condizione tra regola e regolato va oltre i limiti del
presente lavoro.
6
concetto di un determinato fatto significante Y e lo istituisce come effettivamente
sussistente.5
Il concetto di condizione come criterio di inclusione nella categoria del costitutivo, dunque,
ripropone la duplicità originaria presente in questa categoria, vale a dire quella tra
costitutivo come performativo, da un lato, e costitutivo come creativo di concetti, dall’altro.
Dire che sia le regole thetico-costitutive sia le regole eidetico-costitutive sono entrambe
costitutive in quanto condizione del proprio regolato, infatti, non fa che mettere in ombra
la sostanziale differenza tra i due fenomeni, e dunque perpetuare la già comune confusione
tra essi. In questo senso, l’essere condizione del proprio regolato è un criterio di inclusione
troppo ampio per la categoria delle regole costitutive.
Per un altro verso, invece, la tassonomia delle regole costitutive secondo il concetto di
condizione distingue fenomeni della costitutività di regole che sono analoghi e, dunque,
fornisce un criterio di inclusione troppo stretto. Ciò si può mostrare facendo riferimento al
rapporto tra regole eidetico-costitutive e regole anankastico-costitutive, un rapporto che è
già di per sé rilevante per la questione del carattere tecnico delle regole costitutive.
L’esempio classico di regola anankastico-costitutiva secondo Conte ed Azzoni, infatti, è
anche un esempio classico di regola tecnica: “il testamento olografo deve essere sottoscritto
di mano del testatore”. Secondo Conte ed Azzoni, la differenziazione tra regole eideticocostitutive e regole anankastico-costitutive risiede nel fatto che, mentre le prime sono
condizione necessaria del proprio oggetto, le seconde pongono una condizione necessaria al
proprio oggetto. La mia impressione, al contrario, è che questa dicotomia concettuale
finisca per distinguere tra fenomeni che sono invece, a ben vedere, assimilabili. Da un lato,
infatti, le regole eidetico-costitutive pongono sempre una condizione almeno necessaria,
ovvero la condizione necessaria (ed eventualmente sufficiente) per realizzare ciò che è
connotato dal concetto che esse creano: ad esempio, la regola “la situazione di gioco in cui
il re non può sottrarsi allo scacco con nessuna mossa ha valore di scacco matto nel gioco
degli scacchi”, oltre ad essere una condizione necessaria dello scacco matto (essa ne
costituisce il concetto), pone una condizione necessaria affinché uno scacco matto si possa
dare. D’altro lato, una regola anankastico-costitutiva come “il testamento olografo deve
5
Conte ed Azzoni privilegiano con ogni probabilità la prima interpretazione: si veda ad esempio Conte 1981,
85 (in cui viene tuttavia utilizzato il sintagma “regola aletico-costitutiva”, alethisch-konstitutive Regel, al posto di
“regola noetico-costitutiva”) e Azzoni 1988, 70.
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essere sottoscritto di mano dal testatore” può, nel porre questa condizione necessaria,
costituire il concetto di testamento olografo, e allora essa è equivalente ad una regola
eidetico-costitutiva, oppure porre una condizione del tutto estrinseca a qualcosa il cui
concetto le pre-esiste, e allora essa è una semplice regola tecnica che non ha nulla di
costitutivo. In altri termini, il porre condizioni non è un fenomeno proprio delle regole
costitutive se esso non accompagna la capacità di creare concetti, perché porre condizioni a
ciò il cui concetto sia già determinato non è altro, in ultima analisi, che disciplinarne
l’attuazione in senso tecnico. E, se questo è vero, la categoria della ipotetico-costitutività
(regole che sono costitutive in quanto pongono condizioni) non può che dissolversi in quella
dell’eidetico-costitutività.
Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, ho scelto nel corso di questo lavoro di
privilegiare il secondo senso di regola costitutiva. Come si è visto, infatti, i due sensi di
regola costitutiva non sono riconducibili l’uno all’altro; d’altro canto, il concetto di regola
costitutiva nel primo senso non fa che connotare un fenomeno già ben noto nella
letteratura filosofica come “performatività” degli atti linguistici, e non vi è alcun motivo, a
mio parere, di discostarsi da questo lessico consolidato. Nel seguito, dunque, quando
parlerò di regole costitutive intenderò regole costitutive nel secondo senso, ovvero regole
eidetico-costitutive, ciò che per lo più Searle intende quando parla di constitutive rules. Si
tratta di regole che costituiscono il concetto di fatti (o atti, stati di cose, eventi, ruoli,
proprietà, relazioni, etc.) dotati di un determinato significato sociale. Con specifico
riferimento al rapporto tra regole costitutive e regole tecniche, peraltro, nel corso della
discussione che segue non utilizzerò il concetto di regola anankastico-costitutiva, né farò in
alcun modo riferimento ad esso. Ritengo infatti che si tratti di una categoria vuota: le regole
anankastico-costitutive sono in realtà o regole eidetico-costitutive (regole costitutive nel
secondo senso, regole che pongono condizioni perché costituiscono concetti) o regole
tecniche non costitutive.
2. Tesi dell’allonomia e tesi della fondazione
Il problema del carattere tecnico delle regole costitutive non è nuovo al dibattito filosoficogiuridico italiano. Esso è sorto in relazione a regole costitutive in forma prescrittiva, come
ad esempio la regola del gioco degli scacchi “l’alfiere deve muovere in diagonale”. Conte ha
chiamato questo tipo di regole “regole eidetico-costitutive deontiche”, e ha notato la loro
relazione con un dovere di tipo tecnico (nella terminologia di Conte, anankastico) nel
seguente passo:
Ogni regola eidetico-costitutiva deontica d’una praxis (ad esempio, del gioco degli scacchi) ha
come epifenomeno una omonima regola anankastica (ossia una regola fondata su un rapporto
di condizione necessaria) prescrivente come agire per realizzare quella praxis. (Conte 1985,
358)
Ma, proprio con riferimento a questo passo, Mario Jori ha notato che
8
l’uso di un termine logicamente oscuro come “epifenomeno” nasconde, secondo me, quello
che non può che essere un rapporto di implicazione della c.d. regola anankastica da parte della
regola eidetico-costitutiva; nasconde che le due regole sono una sola regola. (Jori 1986, 465)
L’osservazione di Jori ha una portata più generale. Egli scrive infatti:
da una parte l’anankasticità appare intrinseca alla natura delle regole eidetico-costitutive, e
appare alquanto artificiale e precaria la distinzione tra regola eidetico-costitutiva e regola
anankastico-non-costitutiva. Dall’altra, una regola anankastica appare implicita anche nelle
regole anankastico-costitutive e appare quindi alquanto artificiale e precaria la distinzione tra le
stesse regole eidetico- e anankastico-costitutive [...]. (Jori 1986, 465)
Conte ha chiamato “tesi dell’allonomia” la tesi per la quale una regola eidetico-costitutiva
deontica e la corrispondente regola tecnica (anankastica) sarebbero in realtà la stessa regola.
Dal suo punto di vista, questa tesi è fallace in quanto non distingue tra il sistema del gioco
(ludus) e l’attività del giocare (lusus). Egli scrive a questo proposito:
Dalle regole eidetico-costitutive deontiche le quali costituiscono un sistema ludico (un game, o,
come io ho proposto di dire, giocando sull’assonanza di ‘ludus’ e ‘lusus’, un ludus) si distinguono
le omonime regole (non costitutive, ma) anankastiche, prescriventi come agire per realizzare il
gioco: le regole anankastiche dell’attività ludica, del play, del lusus. Questa ovvia distinzione tra
regole costitutive del ludus e regole anankastiche del lusus sembra disconosciuta da altri: in
particolare, da coloro per i quali una regola eidetico-costitutiva deontica del ludus e l’omonima
regola anankastica sul lusus sono due stati allotropici di una regola (di un’unica e stessa regola),
ossia due allonomi: tesi dell’allonomia. (Conte 1995, 332)
Secondo Conte, dunque, una regola eidetico-costitutiva deontica del ludus non è una regola
tecnica, ma piuttosto fonda una regola tecnica del lusus (che egli chiama “regola anankastica
praxeonomica”) sul rapporto di condizione necessaria posto dalla prima.6 Azzoni ha
chiamato quest’ultima “tesi della fondazione”, e l’ha contrapposta alla tesi dell’allonomia.
Nel suo lavoro Cognitivo e normativo: Il paradosso delle regole tecniche, del 1991, Azzoni ha
sviluppato la tesi della fondazione riprendendo l’idea di Giovanni Brunetti secondo la quale
le regole giuridiche tecniche, ovvero regole nella forma “se vuoi che sia prodotta la
conseguenza giuridica B, devi fare A”, presuppongono la presenza nell’ordinamento
giuridico di un “principio generatore” nella forma “Il fatto A (positivo o negativo) produce
6
Sul concetto di “regola anankastica praxeonomica,” si veda Conte 1985, 358.
9
la conseguenza giuridica B”, in modo analogo a come regole tecnico-strumentali nella
forma “se vuoi ottenere A, fai B” presuppongono la verità del corrispondente enunciato
descrittivo “A determina causalmente B”. Secondo Azzoni, tali principi generatori di regole
tecniche possono essere o regole eidetico-costitutive o regole anankastico-costitutive.7
Sembra evidente che, per quanto il problema del rapporto tra regole costitutive e regole
tecniche sia qui emerso con riferimento a regole in forma prescrittiva quali “l’alfiere deve
muovere in diagonale”, esso si ripropone invariato anche nel caso di regole costitutive in
forma non-prescrittiva quali “lo scacco matto è la situazione di gioco nella quale il re non
può sottrarsi allo scacco con alcuna mossa”: anche questa regola, infatti, può essere letta
come una regola tecnica che prescrive come agire se si vuole fare scacco matto.
L’opposizione tra tesi dell’allonomia e tesi della fondazione non è dunque una opposizione
relativa ad un particolare tipo di regole costitutive: essa è piuttosto una opposizione sulla
natura stessa delle regole costitutive e sul loro ruolo regolativo.
La differenza tra la tesi della fondazione e la tesi dell’allonomia può caratterizzarsi,
sinteticamente, nei termini della relazione logica che sussiste tra (i) la regola costitutiva che
stabilisce una connessione tra un fatto A e le sue conseguenze B (nel nostro esempio, la
regola “lo scacco matto è la situazione di gioco nella quale il re non può sottrarsi allo
scacco con alcuna mossa”), (ii) la corrispondente regola tecnica che prescrive di porre in
essere A per ottenere B (nel nostro esempio, la regola “se vuoi fare scacco matto, devi fare
in modo che il re dell’avversario non possa sottrarsi allo scacco con nessuna mossa”), e (iii)
l’enunciato descrittivo che descrive la connessione tra A e B (nel nostro esempio, l’enunciato
descrittivo del gioco degli scacchi “nel gioco degli scacchi, per fare scacco matto, bisogna
fare in modo che il re dell’avversario non possa sottrarsi allo scacco con nessuna mossa”).
Secondo la tesi della fondazione, vi sono qui due regole: da un lato, la regola costitutiva, la quale
in quanto “principio generatore” stabilisce una connessione tra lo scacco matto ed una
determinata situazione di gioco e rende analiticamente vero l’enunciato descrittivo che
descrive la connessione; dall’altro, la regola tecnica che prescrive di realizzare quella
situazione per fare scacco matto, la quale regola presuppone la verità dell’enunciato
descrittivo e di conseguenza l’esistenza della regola costitutiva in virtù della quale
l’enunciato è vero.
7
Cfr. Azzoni 1991, 83–93.
10
Secondo la tesi dell’allonomia, vi è invece una sola regola: essa, in quanto simultaneamente
costitutiva e tecnica, stabilisce una connessione tra lo scacco matto ed una determinata
situazione di gioco mentre prescrive di porre in essere la detta situazione per fare scacco
matto. Vi è qui una inversione della normale relazione logica tra la regola tecnica ed il
corrispondente enunciato descrittivo sul gioco degli scacchi, in quanto la verità di
quest’ultimo, invece che essere presupposta dalla regola tecnica, è posta da essa.
Questa opposizione ripropone, in maniera soltanto parzialmente celata, l’opposizione
classica sulla natura delle regole costitutive di cui si diceva in esordio, vale a dire il contrasto
sulla possibilità di una realtà istituzionale costituita e resa possibile da regole. La tesi della
fondazione, infatti, mantendendo in modo elegante la dipendenza logica tra regole tecniche
ed enunciati descrittivi e trasponendo questa relazione nell’ambito istituzionale come
dipendenza tra regole tecniche e principi generatori di natura costitutiva, assume
implicitamente che una ontologia giuridica fondata su regole dotate di potere costitutivo sia
possibile ed anzi necessaria per l’analisi del fenomeno giuridico: l’idea stessa di una regola
costitutiva come “principio generatore” non è altro che una elegante metafora vòlta ad
esprimere questa esigenza. La tesi dell’allonomia, invece, tenta chiaramente di mostrare
come la verità di enunciati descrittivi di una supposta realtà istituzionale sia soltanto il
prodotto di regole tecniche che stabiliscono come si svolge una determinata attività sociale:
per coloro che sostengono questa tesi non esistono, dunque, né sono possibili realtà
alternative “magicamente” prodotte da regole.
Non tutti interpretano l’opposizione tra tesi dell’allonomia e tesi della fondazione come un
dibattito sulla natura essenziale delle regole. Gianmarco Gometz, ad esempio, riprendendo
nel suo recente libro Le regole tecniche la questione della relazione tra regole tecniche e regole
costitutive (con particolare riferimento alle norme che definiscono le condizioni di validità
dei negozi giuridici), ha mostrato di voler spostare la discussione da un piano ontologico ad
un piano epistemologico, avanzando l’ipotesi che la caratterizzazione di una regola come
tecnica o costitutiva dipenda più dal “punto di vista” o dagli obiettivi dell’analisi piuttosto
che da una supposta natura essenziale delle regole. Egli scrive a questo proposito:
L’impressione […] è che le categorizzazioni delle norme sull’autonomia privata operate in
termini di regole anankastico-costitutive o di regole tecniche non dipendano da caratteristiche
immanenti all’ontologia delle norme (qualunque cosa ciò significhi), o dalla loro peculiare
“essenza” o “natura” costitutiva o tecnica; si tratta piuttosto di qualificazioni che rispondono, e
sono strumentali, a concezioni delle norme e/o del diritto differenti, sebbene non
necessariamente, e non in tutto, incompatibili. L’errore, allora, non consiste nel ritenere che
norme come quella espressa dall’art. 602 siano categorizzabili come regole tecniche piuttosto
che categoriche, bensì nel ritenere, essenzialisticamente, che tali norme siano (qualificabili
esclusivamente come) regole tecniche o costitutive, in via del tutto indipendente dagli
obbiettivi e dalla prospettiva che informa la categorizzazione. (Gometz 2008, 53)
Nelle sezioni che seguono, proporrò una soluzione alla dicotomia tra tesi della allonomia e
tesi della fondazione che in buona parte concorda con questa osservazione di Gometz.
Cercherò di mostrare, cioè, che il fatto che una stessa regola possa essere una regola
11
costitutiva o una regola tecnica dipende dalla prospettiva che assumiamo: può accadere,
infatti, che differenti proprietà di una stessa regola emergano se la si guarda da punti di
vista differenti.
3. Complementarietà e dipendenza delle regole costitutive
È stato detto, delle regole costitutive, che esse “creano la possibilità” dell’attività che
costituiscono (Searle 1964, 55), che “costituiscono forme di attività la cui esistenza è
logicamente dipendente dalle regole” (Searle 1969, 55) o, ancora, che sono “condizione
eidetica di concepibilità e percepibilità di ciò su cui esse vertono” (Conte 1995, 320). Ma questo
potere creativo delle regole costitutive è avvolto da un alone di mistero: esso è spesso
guardato con scetticismo da coloro che lo ritengono oggetto di una sorta di superstizione
tribale, simile alle antiche credenze sul potere magico delle formule verbali.
Che le regole costitutive siano condizione di concepibilità del proprio oggetto non è che un
modo per dire che esse costituiscono un concetto. Non c’è nulla di misterioso in questo: è
un fatto abbastanza frequente della nostra esperienza comune che determinati concetti
vengano introdotti sulla base di definizioni convenzionali. Fatti o eventi come lo scacco
matto o il fuorigioco, oggetti come l’asso di briscola, atti come il dire un rosario, proprietà
come l’essere lungo un metro, relazioni come l’essere padrino di battesimo, ruoli come il
portiere nel calcio hanno tutti un concetto convenzionale, una regola che semplicemente
stabilisce, dal nulla, di che cosa si tratta. Il problema più serio emerge quando si passa dal
concetto all’esistenza: quando si dice, cioè, che le regole costitutive, oltre a creare un
concetto, sono condizione di possibilità del sussistere di ciò che esse creano. Sembra
configurarsi, qui, una misteriosa relazione tra concetto ed esistenza, come se le regole
costitutive avessero il potere di proiettare il concetto che esse costituiscono all’interno della
struttura ontologica del mondo. Ed è questa capacità di proiezione ontologica ciò che, più
di ogni altra cosa, turba l’empirista: da dove discenderebbe infatti questo magico potere di
modificare i limiti di ciò che esiste e che non esiste?
Tuttavia, anche l’empirista non può non concedere che vi sono effettivamente, nel mondo,
cose che esistono soltanto perché sono gli esseri umani a concepirle come tali. Si tratta
degli artefatti: oggetti che, con modalità diverse, vengono creati dagli esseri umani. Questi
12
oggetti, quando sono materiali, hanno proprietà che non sono riducibili alle proprietà della
materia bruta che li compone. Ad esempio, sebbene il David di Michelangelo sia fatto di
marmo, esso non potrebbe essere ridotto ad una sfera di marmo e rimanere il David. In
quanto artefatto, infatti, il David ha proprietà relazionali che il marmo di cui esso è
costituito non ha: proprietà dipendenti dalla relazione che un opera d’arte intrattiene con gli
esseri umani in quanto fruitori sensibili al mutamento di forma.8
Per poter esistere, dunque, gli artefatti dipendono da stati intenzionali degli esseri umani,
ma le modalità di questa dipendenza possono variare. Artefatti dotati di un substrato
materiale, come ad esempio gli strumenti, hanno una dipendenza storica da stati intenzionali
(sono cioè storicamente dipendenti almeno dagli stati intenzionali dei loro autori), ma una
volta creati essi esistono nello spazio e nel tempo al pari degli altri oggetti materiali: un
cacciavite, ad esempio, può continuare ad esistere anche se noi smettiamo di concepirlo
come tale, fintanto che il suo substrato materiale non si disgrega (moltissimi artefatti della
cui funzione si è persa memoria sono tuttora conservati in celebri musei). Altri tipi di
artefatti, invece, non hanno propriamente un substrato materiale e sviluppano una
dipendenza costante.9 È il caso, ad esempio, delle finzioni e dei personaggi fittizi, che
popolano opere letterarie ed artistiche e dunque plasmano il nostro immaginario. Un
personaggio letterario fittizio, ad esempio, viene creato da uno scrittore (e in questo senso è
in dipendenza storica da uno stato intenzionale originario), ma esso può esistere (in modo
fittizio, appunto) soltanto come parte degli stati intenzionali di coloro che fruiscono l’opera
di cui esso fa parte, ed è dunque in una relazione di dipendenza costante dall’opera e dalla
sua fruizione.
I cosidetti fatti (o atti, stati di cose, eventi, ruoli, proprietà, relazioni, etc.) istituzionali sono
anch’essi, per la maggior parte, artefatti astratti che hanno una forma di dipendenza
costante da stati intenzionali di esseri umani. Per poter esistere, essi dipendono in modo
costante dalle regole costitutive che ne definiscono il concetto, e (cosa ancor più
importante) dal fatto che tali regole concorrano alla formazione di stati intenzionali di
8
Riporto qui, in maniera estremamente sintetica, un punto centrale del dibattito avvenuto nella letteratura
filosofica analitica sul concetto di “costituzione materiale” (material constitution): si veda ad esempio Rea 1997.
9
Uso qui la distinzione tra dipendenza storica (historical dependence) e dipendenza costante (constant dependence)
così come essa è sviluppata in Thomasson 1999.
13
individui concreti, ovvero, dal fatto che tali regole abbiano un ruolo nel contesto di una
attività sociale praticata nel suo complesso. Quest’ultimo punto è essenziale. Il concetto di
un fatto istituzionale creato da una regola costitutiva deve avere un significato sociale per
poter dar luogo ad un fatto istituzionale esistente come artefatto astratto: sistemi di regole
costitutive creati in vitro, come semplici giochi formali non giocati da nessuno, non danno
infatti luogo ad alcunché, rimangono cioè “lettera morta”.
Queste considerazioni non sono in contraddizione con una epistemologia empirista. Non
vi è nulla di ipostatizzante nel ritenere che artefatti astratti esistano e siano possibili. La
questione è, piuttosto, come siano possibili, a quali condizioni: si deve cioè spiegare come
possa una regola costitutiva creare un concetto dotato di significato sociale. A questo fine,
intendo proporre qui due tesi.
Chiamerò la prima tesi della complementarietà. Secondo questa tesi, per poter costituire il
concetto di un fatto istituzionale in modo completo, una regola costitutiva deve sempre
specificare sia le condizioni alle quali il fatto istituzionale sussiste, sia le conseguenze del suo
sussistere, la sua valenza.10 Questo punto è stato spesso ignorato nella discussione sulle
regole costitutive. Si prenda nuovamente l’esempio della regola sullo scacco matto: “lo
scacco matto è la situazione di gioco nella quale il re non può sottrarsi allo scacco con
alcuna mossa”. È importante notare che, sebbene questa regola venga in più occasioni
citata in letteratura come esempio di regola costitutiva, essa non è affatto costitutiva, da
sola, di un concetto rilevante per il gioco degli scacchi. Supponiamo, infatti, che il gioco
degli scacchi contenga soltanto questa regola relativa allo scacco matto. Cosa potremmo
dire dello scacco matto? Nulla. Che rilevanza avrebbe per un giocatore di scacchi?
Assolutamente nessuna. Lo scacco matto acquisisce l’importanza che ha nel gioco degli
scacchi soltanto quando a questa regola, che stabilisce le condizioni alle quali si fa uno
10
Parlerò da questo punto in poi, per semplicità, di “fatti” istituzionali evitando di considerare le differenze
categoriali che possono sussistere tra ciò che viene costituito da regole costitutive. Una regola costitutiva può,
infatti, costituire il concetto di un fatto, di un atto, di uno stato di cose, di un evento, di una proprietà, di una
relazione, di un ruolo etc. Chiaramente, con il mutare della categoria, muta anche la natura delle condizioni
fornite dalla regola costitutiva: mentre, nel caso di un fatto o stato di cose, la regola costitutiva fornisce
condizioni di sussistenza, nel caso di un atto essa fornisce piuttosto condizioni di attuazione; nel caso di un evento,
condizioni di accadimento; nel caso di una proprietà o relazione, condizioni di attribuzione, etc. Qui, sempre per
semplicità, parlerò perlopiù di condizioni di sussistenza, ma alla luce di questo chiarimento le considerazioni
svolte nel seguito per i fatti possono essere estese anche alle altre categorie formali.
14
scacco matto, si associa una regola che ne stabilisce le conseguenze, la valenza: ovvero, la
regola “lo scacco matto ha valore di vittoria”. Le regole costitutive hanno sempre, dunque,
un duplice aspetto: esse sono costitutive sia per condizione sia per implicazione.11
La tesi della complementarietà e l’idea di costitutività per implicazione sono molto rilevanti
per una teoria delle regole costitutive. Esse mostrano chiaramente che, per poter avere un
concetto completo, un fatto istituzionale deve non soltanto avere condizioni, ma anche essere
condizione di qualcosa: esso deve essere, per così dire, l’anello di una catena che lo collega ad
altri fatti istituzionali in due direzioni tra loro opposte. Il punto, però, è se questa catena di
fatti istituzionali tra loro in relazione sia tutto ciò che è necessario affinché una regola
costitutiva possa creare il concetto di un fatto dotato di significato sociale. Posto di fronte
ad una domanda analoga, Alf Ross, nel suo noto articolo Tû-Tû del 1951, risponde
affermativamente. Egli sostiene, com’è ben noto, che termini giuridici quali ‘diritto
soggettivo’ o ‘proprietà’ non sono altro che uno strumento di presentazione della
connessione tra un insieme di fatti condizionanti ed un insieme di conseguenze giuridiche.12
Questo problema mi porta alla seconda tesi, che chiamerò tesi della dipendenza. Secondo la
tesi della dipendenza, per poter costituire un concetto dotato di significato sociale, una
regola costitutiva deve sempre collocarsi nel contesto di una più ampia pratica già dotata di
significato. Se un insieme di regole costitutive non si collocasse entro un contesto di
significato più ampio, tali regole non potrebbero che creare un sistema di concetti “vuoti”,
consistenti in mere relazioni strutturali reciproche ma privi, per così dire, di una direzione,
di un senso. La completezza ottenuta facendo riferimento alla tesi della complementarietà
non è dunque sufficiente, da sola, a fornire ai concetti costituiti da regole un significato
sociale in grado di dar luogo a fatti istituzionali.13
Questa tesi si può argomentare facendo ancora una volta riferimento al classico esempio
11
Una tesi analoga alla tesi della complementarietà è stata formulata da Frank Hindriks in Hindriks 2005, 124,
e prefigurata da Joseph Ransdell in Ransdell 1971, 388.
12
Cfr. Ross 1957. La tesi è ripresa più estesamente nell’articolo Definition in Legal Language (Ross 1958b) e nel
capitolo 6 di On Law and Justice (Ross 1958a). Recentemente, la stessa tesi è stata sviluppata da Giovanni
Sartor in una prospettiva inferenzialista: si veda, ad esempio, Sartor 2007.
13
Posizioni connesse con la tesi della dipendenza sono state sviluppate in Schwyzer 1969, Lorini 2000, e più
recentemente in Marmor 2009.
15
degli scacchi. Vi sono due tipi di domande che possono essere poste con riguardo al gioco
degli scacchi. Da un lato, noi possiamo chiedere qual è il valore di uno scacco matto, o a
cosa serve l’arroccamento, e rispondere a domande di questo tipo facendo semplicemente
riferimento alle regole costitutive degli scacchi. Ma non tutte le domande sul gioco degli
scacchi trovano risposta nel sistema di regole che lo costituiscono. Potremmo infatti anche
chiedere, ad esempio, perché negli scacchi i giocatori devono tentare di vincere, o perché
non è ammesso barare, e non troveremmo una risposta a queste domande facendo ricorso
alle regole degli scacchi. Il fatto che i giocatori di scacchi devono tentare di vincere e che
non possono barare non dipende propriamente da una regola degli scacchi, ma piuttosto da
una verità concettuale su ciò che sono gli scacchi: vale a dire, appunto, un gioco, e un gioco
di tipo competitivo.
Questa differenza mette in luce la possibilità di almeno due prospettive distinte da cui
considerare gli scacchi: una prospettiva strutturale o ristretta, focalizzata sul sistema di
regole, ed una prospettiva pragmatica più ampia, focalizzata sulla pratica sociale nel
contesto della quale il sistema di regole si inscrive. La prima prospettiva mostra le mosse, i
pezzi, gli eventi, gli atti che costituiscono il gioco; la seconda mostra quali sono le
caratteristiche degli scacchi in quanto esemplificazione della pratica ludica generale, una
pratica sociale più ampia già dotata di significato. È importante notare, tuttavia, che le due
prospettive in questione possono essere distinte soltanto a fini analitici, in quanto esse
rappresentano due modi differenti di guardare la stessa cosa. Il sistema di regole costitutive
di un gioco, da un lato, e la pratica del giocare, dall’altro, non sono due cose distinte o
distinguibili: seguire le regole di un gioco è giocare, e quasi sempre giocare in modo
competitivo implica seguire un insieme di regole. Il problema è epistemologico più che
ontologico: si tratta cioè di stabilire quanto è ampia la prospettiva che intendiamo assumere
sull’oggetto della nostra analisi. Dobbiamo chiederci, dunque, se una tale variazione di
prospettiva sia in grado di fornirci maggiori dettagli sulla capacità delle regole costitutive di
creare fatti istituzionali dotati di significato sociale.
Proviamo ad abbozzare una risposta ad una simile domanda. In una prospettiva strutturale
o ristretta, il gioco degli scacchi appare come segue:
Il gioco degli scacchi è giocato da due avversari, i quali muovono a turno i loro pezzi su una
plancia di gioco quadrata chiamata scacchiera.
Il gioco è vinto dal giocatore che mette in scacco matto il re dell’avversario.
I giocatori hanno a disposizione i seguenti pezzi: un re, una regina, due alfieri, due cavalli, due
torri, otto pedoni.
La posizione iniziale dei pezzi sulla scacchiera è come segue: [diagramma esplicativo].
Il re può muovere o di una casella in qualsiasi direzione, o, una volta per partita, può compiere
un arroccamento. L’arroccamento è una mossa che coinvolge il re ed una delle due torri dello
stesso colore: [diagramma esplicativo].
16
La regina può muovere di un qualsiasi numero di caselle in qualsiasi direzione. L’alfiere può
muovere di un qualsiasi numero di caselle, ma soltanto in diagonale. La torre può muovere di
un qualsiasi numero di caselle, ma soltanto in linee ortogonali, etc.
Ogni pezzo può catturare un pezzo avversario muovendo legalmente su una casella occupata
da quest’ultimo.
Il re è sotto scacco quando un pezzo dell’avversario è in grado di mangiarlo con la sua
prossima mossa. Quando il re è sotto scacco, deve muoversi per sottrarsi allo scacco.
Lo scacco matto è la situazione di gioco in cui il re non può sottrarsi allo scacco con nessuna
mossa.14
In questa prospettiva, gli scacchi non sono altro che un sistema di elementi definiti da
regole costitutive in modo coerente con la tesi della complementarietà. Tutti gli elementi
degli scacchi, dal re allo scacco matto, hanno infatti regole costitutive che ne definiscono le
condizioni di sussistenza e la valenza all’interno del gioco. Ogni pezzo è dotato di una
collocazione iniziale, di una precisa modalità di movimento e della capacità di mangiare gli
altri pezzi e di mettere in scacco il re; lo scacco e l’arroccamento hanno condizioni di
attuazione e una precisa valenza (lo scacco è preliminare allo scacco matto, l’arroccamento
è un modo per muovere il re); lo scacco matto ha, a sua volta, una condizione di attuazione
e valore di vittoria.
I difetti di tale prospettiva sono, tuttavia, evidenti. Essa, nel mettere in luce la somiglianza
strutturale tra i pezzi, non è in grado di rivelarne la fondamentale differenza funzionale
all’interno del gioco. Visto così, il gioco è poco di più di un insieme di regole che
definiscono elementi tra loro equivalenti, una sorta di sistema assiomatico che produce
formule ben formate. Chiaramente, tutti gli elementi sono organizzati in maniera tale che
non è difficile vedere qual è la catena che li collega l’uno all’altro: il concetto di scacco
matto è connesso al concetto di scacco e di re, il concetto di re è a sua volta connesso con
il concetto di arroccamento, e così via. Ma in questa prospettiva non si riesce a vedere a
cosa è “fissata” la catena, vale a dire, non si coglie come queste connessioni strutturali
create da regole costitutive possano dar luogo a fatti istituzionali dotati di significato
14
Faccio liberamente riferimento, qui e in quanto segue, alle FIDE Laws of Chess, rintracciabili su Internet
all’indirizzo www.fide.com.
17
sociale.
Facendo riferimento alla tesi della dipendenza, cerchiamo allora di ampliare la nostra analisi
passando ad una prospettiva pragmatica, tentando cioè di analizzare le caratteristiche della
più ampia pratica nella quale gli scacchi si collocano. Gli scacchi sono un gioco, ed un gioco
di tipo competitivo: qual è, dunque, la struttura di questa pratica?
Si diceva sopra che, in un gioco di tipo competitivo, i giocatori devono cercare di vincere
senza barare. Questa è una verità concettuale, l’elemento fondamentale della pragmatica di
questa pratica ludica, una verità che si mostra con particolare evidenza (come nel caso della
pragmatica degli atti linguistici) laddove il comportamento di un giocatore diventa
paradossale. Proviamo ad immaginare un giocatore di scacchi che tenti fin dall’inizio della
partita di esporre il proprio re allo scacco matto e che, dopo aver perso, mostri palesemente
la propria soddisfazione. Oppure, inversamente, immaginiamo che un giocatore di scacchi
metta il re avversario in scacco matto dichiarando di aver mosso l’alfiere come si muove il
cavallo, e che si mostri chiaramente soddisfatto della vittoria così ottenuta. Cosa diremmo
di giocatori del genere? Che stanno giocando veramente a scacchi? Per quanto si possa
insistere sui comportamenti ludici più disparati ed anomali, è difficile rispondere
affermativamente a questa domanda. A dire il vero, si tratta quasi di una domanda retorica.
Vincere seguendo le regole, tuttavia, non è la sola cosa che rileva in un gioco. Come ha ben
mostrato Johan Huizinga nel suo ormai classico Homo Ludens, anche forme altamente
formalizzate di duelli marziali, o persino di guerre, sono caratterizzati da questi due
elementi: vittoria e regole. Ciò che differenzia la pratica ludica da altre forme regolate di
competizione è il fatto che, in essa, l’aspetto competitivo è subordinato a quello più
tipicamente cooperativo.15 I giocatori accettano, tipicamente, che competere sia un modo
per ottenere cooperativamente quel piacere di natura peculiare che è tipico del giocare.
Naturalmente, questo non vale in quei contesti altamente istituzionalizzati in cui giochi e
sport diventano forme di attività professionale: ma proprio in quei contesti rimane sempre
l’ambiguità tra “gioco” e “professione”, e questo perché si tratta, in effetti, di pratiche del
tutto differenti. In un contesto genuinamente ludico, invece, è perfettamente sensato che la
comunità isoli o escluda un giocatore che mostri di privilegiare sistematicamente la pura e
15
Questa peculiare dialettica tra competizione e cooperazione nella pratica ludica di tipo competitivo è stata
notata, ad esempio, da Aurel Kolnai e Michael Bratman: si veda Kolnai 1966, 116; Bratman 1992, 340.
18
semplice vittoria sul fine cooperativo del comune divertimento (ad esempio con modi di
fare palesemente ostili, poco sportivi, o semplicemente “troppo” competitivi).
Una prospettiva pragmatica sul gioco degli scacchi mostra dunque che, in quanto gioco, gli
scacchi hanno due elementi fondamentali: un obiettivo generale, che ne costituisce l’elemento
finale, ed un sistema di regole, che ne costituisce l’elemento tecnico. Giocare in modo
competitivo significa cioè, sostanzialmente, tentare di vincere seguendo le regole al fine di
trarre piacere dall’esperienza così ottenuta. La relazione tra elemento finale ed elemento
tecnico, tra vittoria e regole, è dunque, nel gioco di tipo competitivo, una relazione interna:
non è possibile vincere se non seguendo le regole e, d’altra parte, nel seguire le regole si
deve tentare di vincere.16
Applicata nello specifico alle regole costitutive del gioco degli scacchi, la prospettiva
pragmatica mostra la propria rilevanza. Infatti, incorporando le regole costitutive degli
scacchi, oggetto della prospettiva strutturale, nell’elemento tecnico della pratica ludica di
tipo competitivo si ottiene una struttura ad albero, che può essere rappresentata più o
meno come segue:
16
Su questa relazione interna tra l’obiettivo della vittoria e le procedure stabilite dalle regole del gioco, si veda
anche Suits 1978, 24, and Raz 1999, 118. La stessa relazione tra il fine della vittoria e la necessaria mediazione
delle regole emerge chiaramente dalla definizione che l’Oxford History of Board Games fornisce di un gioco (cfr.
Parlett 1999, 3).
19
Per vincere,
devi fare scacco matto
Lo scacco matto ha valore di vittoria.
(FIDE La ws o f Chess, art. 1.2)
Per fare scacco matto, devi porre il
re nella situazione in cui esso
non può sottrarsi allo scacco con nessuna mossa
La situazione di gioco in cui il re non può sottrarsi allo scacco
con nessuna mossa ha valore di scacco matto.
(FIDE La ws o f Chess, art. 1.2)
Il re nero è la pedina che si
trova in e8 all'inizio della
partita. Il re bianco è la
pedina che si trova in e1
all'inizio della partita.
Per porre il re nella situazione di
scacco, devi poterlo mangiare
con un pezzo qualsiasi nella
successiva mossa.
Per muovere il re, devi
spostarlo di una sola casella in
qualsiasi direzione oppure
compiere arroccamento
La pedina che si trova in X
all'inizio della partita è il re.
(FIDE Laws of Chess, artt. 2.2–
2.3)
La situazione di gioco in cui il re
può essere mangiato da una
pedina avversaria nella successiva
mossa ha valore di scacco.
(FIDE Laws of Chess, art. 3.9)
Il re deve muoversi di una sola
casella in q ualsiasi direzione o
per arroccamento.
(FIDE Laws of Chess, art. 3.8,
punto i)
I pezzi degli scacchi sono: 1 Re, 1 regina, 2 alfieri, 2
torri, 2 cavalli, 8 pedoni.
La regina nera è la pedina che si trova in d8 all'inizio
della partita. La regina bianca è la pedina che si trova
in d1 all'inizio della partita.
Gli alfieri neri sono le pedine che si trovano in c8 ed
f8 all'inizio della partita. Gli alfieri bianchi sono le
pedine che si trovano in c1 ed f1 all'inizio della
partita.
......
La pedina che si trova in X all'inizio della partita è il
pezzo Y.
(FIDE Laws of Chess, artt. 2.2–2.3)
Per muovere la regina, devi spostarla in qualsiasi
direzione di qualsiasi numero di caselle non
occupate.
Per muovere l'alfiere devi spostarlo in diagonale di un
qualsiasi numero di caselle non occupate.
........
Per mangiare un pezzo
avversario, devi
muovere un tuo pezzo
sulla casella occupata
dal primo. Un pezzo
mangiato deve essere
rimosso dal gioco.
Se un pezzo muove su
una casella occupata da
un pezzo avversario, lo
mangia.
L'essere mangiato da un
pezzo avversario implica
la rimozione dal gioco di
quel pezzo.
(FIDE Laws of Chess,
art. 3.1)
Per compiere
arroccamento, devi
spostare il re di due
caselle verso la torre,
e spostare la torre
nella prima delle due
caselle attraversate
dal re
Lo spostamento di due
caselle del re verso la
torre, e della torre
nella prima delle due
caselle attraversate dal
re, ha valo re di
arroccamento.
(FIDE Laws of Chess,
art. 3.8, punto ii)
Il pezzo X deve muoversi nel modo Y.
(FIDE Laws of Chess, artt. 3.1–3.8)
In una prospettiva pragmatica così formulata,
20molte delle domande sorte tradizionalmente
sullo statuto e sulla natura delle regole costitutive ricevono nuove risposte. Nel loro
insieme, come si vede, le regole costitutive del gioco degli scacchi formano un sistema che
si inscrive nell’elemento tecnico della pratica ludica di tipo competitivo. Vi è poi una regola
costitutiva che connette l’elemento tecnico con l’elemento finale: si tratta della regola che
costituisce lo scacco matto per implicazione, ovvero la regola che recita “lo scacco matto
ha valore di vittoria”. Questa regola è certamente costitutiva dello scacco matto, in quanto
ne determina la valenza; essa, tuttavia, non è costitutiva del concetto di vittoria, perché
quest’ultimo, evidentemente, non è un concetto costituito dalle regole degli scacchi.17 Non
è il sistema delle regole costitutive degli scacchi ciò che conferisce significato al termine
‘vittoria’; piuttosto, il riferimento alla vittoria è fondamentale per conferire agli scacchi il
loro significato come gioco di tipo competitivo. Come ha scritto Dolores Miller, il concetto
di vittoria non è un concetto istituzionale specifico di un gioco, ma piuttosto un “concetto
meta-istituzionale” (meta-institutional concept) che qualifica il gioco come forma di
competizione.18 Vista in una prospettiva pragmatica, dunque, la regola costitutiva dello
scacco matto, nello stabilire le condizioni di vittoria, agisce come una sorta di regola-ponte
che effettua la connessione tra il sistema di regole costitutive e la più ampia pratica nella
quale esso si inscrive, conferendo in questo modo significato all’intero sistema.
Immaginiamo che nel sistema di regole degli scacchi lo scacco matto venga definito non
come ciò che ha valenza di vittoria bensì, semplicemente, come “ciò che pone termine
all’attività”. In un tale sistema, praticamente tutti gli elementi tipici del gioco degli scacchi (il
re, la regina, l’alfiere, l’arroccamento, lo scacco, etc.) rimarrebbero invariati, e tuttavia la
corrispondente attività, nel suo complesso, non avrebbe alcun significato. Potremmo
praticare questa attività, muovendo i nostri pezzi e “mangiando” i pezzi avversari fino a
giungere allo scacco matto: ma che senso avrebbe? Non avremmo modo di conferire a tale
attività un qualunque significato, perché non sapremmo come collocarla nel contesto della
nostra vita sociale. Il riferimento al concetto di vittoria in un contesto ludico, che ha già un
significato sociale, è invece uno dei mezzi essenziali tramite cui gli scacchi vengono
identificati come una pratica dotata di significato. Tramite la regola-ponte, la rete di
17
Il fatto che il concetto di vittoria non è costituito dalle regole di un gioco è stato notato anche da Joseph
Raz e da Giuseppe Lorini. Si veda Raz 1999, 121, e Lorini 2000, 2589; 2003, 299300.
18
Si veda Miller 1981, 188 ss.
21
concetti costituiti dalle regole costitutive degli scacchi trova una propria collocazione, si
inscrive in una cornice che le dà senso. In questo modo, ognuno dei concetti tipici degli
scacchi acquisisce un significato che va oltre la mera collocazione strutturale all’interno del
sistema.
Si prenda, ad esempio, l’alfiere. Stando alle semplici relazioni che emergono in una
prospettiva strutturale, il concetto dell’alfiere consiste semplicemente nell’avere una
determinata posizione iniziale, una determinata modalità di movimento ed una determinata
valenza. Ma in una prospettiva pragmatica, che mostri come l’alfiere si colloca all’interno
della cornice di un gioco, si vede qualcosa di più su questo concetto: si vede che l’alfiere
rappresenta, per così dire, una “sfida”. In quanto pezzo di un gioco, l’aspetto concettuale
più rilevante e centrale dell’alfiere è che esso può essere utilizzato per vincere, ma soltanto a
determinate condizioni: può mettere in scacco il re, ma soltanto muovendo in diagonale.
Qualsiasi modifica che dovesse mutare questa “sfida interna” che l’alfiere rappresenta (ad
esempio, una nuova regola che stabilisse che l’alfiere può muoversi soltanto
ortogonalmente) finirebbe inevitabilmente per toccare un aspetto centrale del suo concetto
e dunque del gioco; invece, una modifica che lasciasse inalterata quella “sfida” (ad esempio,
una nuova regola che stabilisse che l’alfiere deve essere rappresentato con un pezzo di
legno a forma di pianoforte) non comporterebbe alcuna modifica sostanziale. Il punto qui
fondamentale è che questo “grado di centralità” nelle modifiche concettuali dipende dalla
pragmatica degli scacchi: dal fatto che gli scacchi sono un gioco e non, ad esempio, una
forma di rappresentazione. Se, infatti, gli scacchi si inscrivessero in una pratica di natura
rappresentativa (se, ad esempio, il loro scopo primario fosse quello di rappresentare in
modo stilizzato una determinata realtà sociale), un mutamento riguardante la forma del
pezzo di legno che deve rappresentare l’alfiere sarebbe molto più rilevante di uno
riguardante le sue modalità di movimento.19
La prospettiva pragmatica qui proposta sembra falsificare, in conclusione, la tesi per la
quale il contenuto di un concetto istituzionale è semplicemente il risultato di una somma di
condizioni e conseguenze. Come si è mostrato, infatti, se la catena delle condizioni e delle
conseguenze costituite da regole non trovasse collocazione all’interno di una cornice già
19
È possibile argomentare che, nel corso della loro lunga storia, gli scacchi abbiano avuto anche una funzione
rappresentativa di questo tipo: si veda ad esempio Olivieri 1985, 1678.
22
dotata di significato sociale, essa non sarebbe in grado di creare, da sola, un concetto
istituzionale dotato di significato. La semplice complementarietà di condizioni e
conseguenze non basta per dar luogo a fatti istituzionali: la valenza di questo fatto deve,
infatti, poter esser messa in relazione con un concetto meta-istituzionale già dotato di
significato sociale.
4. Il profilo tecnico delle regole costitutive
La distinzione tra prospettiva strutturale e prospettiva pragmatica, nonché le tesi della
complementarietà e della dipendenza, mostrano in maggiore dettaglio in che senso una
regola costitutiva può essere interpretata come una regola tecnica.
La tesi della complementarietà e la prospettiva pragmatica ci mostrano un primo senso in
cui una regola costitutiva può essere interpretata come tecnica. Poiché, infatti, secondo la
tesi della complementarietà una regola costitutiva costruisce il concetto di un fatto
istituzionale stabilendone sempre almeno le condizioni di sussistenza e la valenza, tale
regola, se vista nel contesto dell’elemento tecnico della pratica in cui essa si inscrive, può
anche essere interpretata come regola tecnica che prescrive di realizzare determinate
condizioni per ottenere una determinata valenza.
Si consideri nuovamente la regola costitutiva dello scacco matto “la situazione di gioco in
cui il re non può sottrarsi allo scacco con nessuna mossa ha valore di scacco matto nel
gioco degli scacchi”. Come abbiamo visto, la tesi della complementarietà stabillisce che
questa regola, stabilendo le sole condizioni di sussistenza dello scacco matto, non può
costituire da sola ma soltanto in connessione con la regola che stabilisce la valenza dello
scacco matto, ovvero “lo scacco matto ha valore di vittoria”. Inoltre, si è visto come in una
prospettiva pragmatica questa connessione tra condizioni e valenza si inscriva nel contesto
di una pratica dotata di un determinato fine interno, per il quale la valenza in questione è
rilevante.
In questa prospettiva, dunque, la più adeguata lettura tecnica della regola costitutiva sullo
scacco matto non è “se vuoi fare scacco matto, devi….”, quanto piuttosto “se vuoi vincere
a scacchi, devi…”; e, più in generale, l’obiettivo specificato nella protasi della regola
costitutiva letta come regola tecnica deve contenere, in modo implicito o esplicito, un
riferimento alla valenza del fatto istituzionale costituito dalla regola: in una prospettiva
pragmatica, infatti, è soltanto perché questa valenza è rilevante per il fine interno della
pratica che tentiamo in quel contesto di realizzare le condizioni stabilite dalla regola. Così,
ad esempio, la regola costitutiva sulle modalità di movimento dell’alfiere può essere letta
come regola tecnica nella forma “se vuoi muovere l’alfiere, con tutto ciò che questo comporta,
ovvero la possibilità di mangiare altri pezzi, la possibilità di mettere in scacco matto il re,
etc., allora devi muoverlo in diagonale”. O, ancora, la regola costitutiva sull’arroccamento
può essere letta come regola tecnica nella forma “se vuoi arroccare, con tutto ciò che
questo comporta, ovvero la possibilità di sottrarre il re allo scacco, di muovere la torre in
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modo inaspettato, etc., allora devi procedere così e così”. La connessione, tipica della regola
tecnica, tra dovere specificato nella apodosi e obiettivo specificato nella protasi diventa
dunque, nel caso della rilettura tecnica di una regola costitutiva resa possibile dalla tesi della
complementarietà e dalla prospettiva pragmatica, connessione non tra un insieme di
condizioni e la semplice creazione di un token di fatto istituzionale, bensì connessione tra un
insieme di condizioni e la fruizione della specifica valenza di quel fatto istituzionale.
Questo, tuttavia, non è tutto. La tesi della dipendenza ci mostra un secondo senso in cui
una regola costitutiva può essere interpretata come una regola tecnica. L’inserimento delle
regole costitutive all’interno dell’elemento tecnico di una pratica, infatti, implica che il
dovere tecnico cui tali regole corrispondono sia duplicemente condizionato: da un lato vi è
la condizione specifica dell’obiettivo che si vuole ottenere adempiendo le condizioni di
sussistenza del fatto istituzionale (ciò che abbiamo appena visto), dall’altro vi è la
condizione più generale del voler partecipare alla pratica in cui il fatto istituzionale si
inscrive, e di raggiungerne il fine interno. Questa seconda condizione non fa altro che
mostrare come, in una prospettiva pragmatica, la regola costitutiva si collochi nell’elemento
tecnico di una pratica: nel nostro esempio, l’elemento tecnico della pratica ludica di tipo
competitivo, il quale stabilisce che, se vuoi giocare e vincere ad un gioco, devi seguirne le
regole.
Si deve notare subito che, in questo secondo senso, l’aspetto tecnico non appartiene tanto
alle regole costitutive di un gioco, quanto a tutte le regole di un gioco (anche a quelle
semplicemente regolative, come ad esempio, nel gioco del calcio, “non si deve toccare la
palla con le mani”). Dire, dunque, che le regole costitutive sono tecniche in questo senso
non pone una relazione tra regole costitutive e regole tecniche, bensì tra regole del gioco e
regole tecniche. Ciò non toglie però che, in una prospettiva pragmatica, una regola
costitutiva degli scacchi, in quanto a sua volta inscritta nel contesto dell’elemento tecnico di
una determinata pratica, possa essere letta come regola tecnica dotata di due protasi
condizionanti innestate, delle quali la seconda è logicamente dipendente dalla prima: “se vuoi
giocare a scacchi, e se vuoi fare scacco matto, allora devi mettere il re dell’avversario nella
situazione di gioco in cui esso non può sottrarsi allo scacco con nessuna mossa”.
Chiaramente, in esempi simili, poiché il riferimento alla volontà di fare scacco matto
rimanda alla volontà di giocare a scacchi, la prima condizione generale da cui il resto della
regola dipende può essere interpretata come pleonastica. Non è pleonastico però ciò che
essa mostra: ovvero che l’obiettivo di ottenere determinati effetti nel contesto di un sistema
di regole costitutive è sempre subordinato al più generale obiettivo di ottenere il fine
interno della pratica in cui tale sistema si inscrive.
Viste in una prospettiva pragmatica, dunque, le regole costitutive sono regole tecniche. In
primo luogo, esse sono regole tecniche in quanto dicono come si ottengono determinati
effetti nel contesto della pratica in cui si inscrivono; in secondo luogo, esse sono regole
tecniche poiché, più in generale, specificano l’elemento tecnico di questa pratica: dato il fine
interno della pratica, le regole costitutive sono parte del sistema che stabilisce come si fa a
raggiungerlo. Mentre condividono la prima funzione con tutte le altre regole che si
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inscrivono in una pratica (anche quelle puramente prescrittive), la seconda funzione è loro
tipica.
Ciò non toglie, tuttavia, che le regole costitutive siano anche costitutive. Esse, infatti,
adempiono alla loro funzione regolativa in modo peculiare, ovvero costituendo concetti di
fatti istituzionali dotati di una certa valenza. Questi fatti istituzionali hanno relazioni
reciproche, ma soprattutto hanno un ruolo preciso nel contesto della nostra vita sociale,
fintanto che la loro relazione con una pratica dotata di significato sociale sia esplicita e
comprensibile. Come altri artefatti, ad esempio i cacciavite, i fatti istituzionali costituiti da
regole hanno una funzione precisa; ma a differenza dei cacciavite sono per lo più artefatti
astratti, e dunque esistono solo fintanto che popolano gli stati intenzionali degli esseri
umani: un concetto significativo è dunque il fondamento della loro esistenza.
Non vi è contraddizione nel sostenere che le regole costitutive sono sia regolative sia
costitutive: in realtà, l’opposizione tra regolare e costituire, a lungo accarezzata, è in questo
caso illusoria. L’opposizione non sussiste perché il costitutivo ed il regolativo sono due
profili diversi e tuttavia compresenti di tali regole: dico qui “profili” perché, viste in una
prospettiva rigidamente strutturale, le regole costitutive sembrano “soltanto” costituire,
mentre, se viste in una prospettiva pragmatica, emerge chiaramente come esse, costituendo
concetti, regolino, anche, una attività. Una prospettiva pragmatica che collochi le regole
costitutive nel contesto di una più generale pratica dotata di significato sociale sembra
dunque essere, in conclusione, un fruttuoso punto di partenza per una teoria dei concetti
istituzionali.
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