La Crocifissione di Gesù

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La Crocifissione di Gesù
La Crocifissione di Gesù
“Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva
la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come
agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi
tosatori, e non aprì la sua bocca”
(Isaia 53,6-7)
La Crocifissione è un tema ed un soggetto molto importante nella storia dell'arte, tale quasi
da meritare studi specifici non meramente da inquadrarsi nella categoria dell'arte sacra.
Molte sono state le motivazioni che hanno persuaso vari artisti ad applicarvisi e davvero
cospicuo e prezioso è il patrimonio artistico tramandatoci.
La rappresentazione della Passione di Cristo offriva infatti spunto per rendere una gamma
di emozioni e sensazioni, e comunque di sommovimenti spirituali, che non trovano un
apprezzabile paragone in altre istanze di comune immediatezza e ricevibilità. In più, come
per tutta l'arte sacra, vi furono epoche (come certo il Rinascimento) in cui il mecenatismo
delle varie Signorie condizionavano la munificenza all'imposizione della tematica, talvolta a
fini meramente politico-diplomatici, finalizzati a preservare buoni rapporti con gli Stati della
Chiesa; perciò si commissionavano in grande quantità soggetti religiosi che oggi ci restano
in buona parte come capolavori.
Nonostante tuttavia le si conosca per il loro valore artistico, tali opere contengono anche
un importantissimo registro documentario, poiché descrivono, specialmente nella
comparazione fra le varie epoche, la variazione della concezione culturale e sociale delle
materie sacre (o spirituali in genere), lasciando trasparire la maggiore o minore importanza
che taluni dettagli, talune presenze (o assenze), taluni contesti potevano assumere o
perdere nell'evolvere delle mentalità. Dalla rappresentazione della Bibbia di Rabbula, alla
surreale sintesi di Dalì, passando per diverse sfaccettature del Cinquecento italiano e
fiammingo, cattolico o protestante, la Crocifissione marca con la sua costante immutabilità,
una smisurata fioritura interpretativa.
Il tema del resto, non era riservato ai soli cristiani, né
tantomeno ai cattolici: molte opere sono di protestanti, ebrei,
agnostici ed atei, mentre anche lo “sporadicamente
osservante” Caravaggio fu capace di una Flagellazione che
tuttora è una delle più profonde e toccanti visioni
dell’argomento. La Crocifissione bianca di Chagall (1938),
ebreo
chassidico,
insieme
al
trittico
Resistenza,
Resurrezione, Liberazione segnala che il sacrificio di Cristo è
divenuto patrimonio comune delle culture (almeno quelle
Occidentali) come simbolo della persecuzione e lo usa quindi
per dipingere un Cristo, nato ebreo, che incarna l'eterno
destino di quel popolo martoriato e perseguitato da secoli.
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Il ruolo della crocifissione di Gesù nella cultura occidentale, al di là delle dispute sulla sua
storicità, è sicuramente fondamentale, poiché ad un tempo simbolico ed emblematico della
nascita del Cristianesimo, che rappresenta di fatto un agente culturale di enorme influenza
nella storia. Inoltre, il segno formale stesso della crocifissione, la croce, è diventato un
simbolo di cui tuttora si fa ampio uso presso le culture di derivazione cristiana.
Nel tempo, in mancanza di elementi scientificamente certi, innumerevoli discussioni sono
tuttavia ugualmente scaturite intorno al supplizio, ad esempio sulla sua appropriata
qualificabilità come martirio in senso teologico, è tuttavia accettabile che sia stata la
conseguenza di una condanna per sedizione, costituzione di banda armata, devastazione
di un luogo di culto e lesa maestà nei confronti del potere di Roma.
Il tema del Crocifisso, i cui più antichi esempi sono del IV secolo, segue
quello della rappresentazione della croce, già presente, come
raffigurazione simbolico-escatologica nelle catacombe e nei siti funerari
cristiani dei primi secoli, soprattutto durante le persecuzioni. La croce è a
volte rappresentata come ancora (Catacombe di Domitilla a Roma) o
unitamente ai pesci, una simbologia fortemente connessa con il concetto di
salvezza che il martirio portava.
Come tale la Crocifissione rimane sconosciuta all'iconografia fino a quando Teodosio il
Grande nel IV secolo non soppresse la pena della croce e l'immagine non suscitò più dei
analogie negative. La raffigurazione di Gesù crocifisso “scandalo per i giudei, stoltezza
per i pagani” secondo San Paolo (1 Cor 1,23), avrebbe potuto destare scandalo tra gli
ebrei e suscitare disprezzo nei pagani. Soppresso questo tipo di supplizio comparvero le
prime raffigurazioni.
Le più antiche rappresentazioni di
Cristo crocifisso sono quella della
scatola
d'avorio
del
British
Museum databile al 420-430 d.C.
e il pannello di Santa Sabina a
Roma, che costituisce uno dei rari
esempi
antichi
di
scultura
paleocristiana.
Cristo è rappresentato frontalmente al centro della scena, trai
due
ladroni,
in
dimensioni
maggiori. Volto barbuto, capelli
lunghi e occhi aperti. Le braccia
sono semi distese in posizione
orante, con solo le mani inchiodate. I piedi, contrariamente alla maggioranza delle
rappresentazioni, poggiano saldamente a terra e non sono inchiodati. Il corpo di Cristo
appare senza peso ed il suo volto “vivente”. Sul retro dei tre suppliziati è raffigurato un
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paramento in mattoni scompartito in tre parti verticali da esili lesene scanalate, sormontate
da altrettanti timpani, di cui quello sinistro con una apertura.
La maggiori dimensioni del Cristo, oltre
che denotarne una maggiore importanza
rispetto agli altri due secondo una
impostazione di carattere esegetico già
vista nella scultorea romana di tipo plebeo,
ne accentuano l’aspetto escatologico
complessivo offrendone una visione oltre
che di universis imperator di primus inter
pares dell’humanitas. La tripartizione,
infatti, che funge da sfondo ai tre
costituisce
un
topos
architettonico
bizantino e tardo antico, soprattutto negli
edifici religiosi atti ad ospitare le funzioni religiose dove prendeva parte l’imperatore o il
sovrano. Una ripartizione simile è presente, ad esempio, nei mosaici di Sant’Apollinare
Nuovo a Ravenna (505) nella raffigurazione del palatium, sede per eccellenza
dell’imperatore cristiano. Nella raffigura-zione di Santa Sabina, tuttavia, la testa del Cristo,
sedes sapientiae, è rappresentata all’interno del timpano centrale che culmi-na,
contrariamente agli altri due, al di fuori della formella, segno evidente che l’humanitas di
Cristo è già superata dalla sua stessa resurrezione; mentre l’apertura centinata posta sul
timpano sinistro ac-cenna alla salvazione del ladrone buono (Lc 23,43), alla cui anima è
permesso uscire dalle strette ed anguste mura umane, intese come prigione corporale più
che spirituale.
Nel V secolo, soprattutto in affreschi e mosaici comparirà la "Croce gemmata" , simbolo
del Cristo in gloria. Nel 451 papa Leone Magno, nel riaffermare le due nature, umana e
divina del Cristo, sostenne che era stato “appeso alla croce e trapassato da chiodi”.
Successivamente, il Concilio di Costantinopoli (696), si ordinò di rappresentare Cristo nella
sua umanità più sofferente. Da allora si ebbero dunque due tipologie di rappresentazioni: il
Cristus triunfans ed il Cristus Patiens, raffigurazioni che, in varie forme, sono giunte fino a
noi.
Una tipologia di Crocifisso, derivata forse dal cosiddetto
Volto del Santo Sepolcro, è rappresentata dal Volto
Santo di Lucca, un crocifisso ligneo che la leggenda
definisce un'immagine acheropita per secoli al centro di
una diffusa venerazione in tutta Europa fin dal Medioevo,
custodito in un tempietto a pianta centrale del 1484, nella
navata sinistra della cattedrale di San Martino a Lucca.
Per quanto riguarda questa importante scultura lignea, la
critica è concorde nel ritenere che sia una copia della
immagine originale, approntata in epoca incerta per
sostituire una croce forse gravemente danneggiata. La
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valutazione cronologica, ostacolata dallo stato attuale della scultura, coperta di nerofumo e
su cui non è pensabile di condurre indagini distruttive o restauri di grande portata stante la
grandissima venerazione ancora tributatagli, oscilla fra l' XI e il XIII secolo.
Secondo la Legenda Leobiniana, diffusasi nel secolo
XII per fornire una base documentale alla sempre
crescente venerazione tributata all'immagine, fu
redatta una Relatio de revelatione sive inventione ac
translatione sacratissimi vultus (Racconto della
creazione, scoperta e traslazione del santissimo volto)
che in realtà, secondo la critica, riunirebbe tre nuclei
leggendari diversi comunque riferibili all'epoca del
vescovo Rangerio (1097-1112). In questa relatio si
racconta dell'arrivo a Luni, poi a Lucca, nel 742, di una
immagine, contenente numerose reliquie scolpita da
Nicodemo che, con Giuseppe d'Arimatea, depose
Cristo nel sepolcro. La leggenda riporta anche che Nicodemo si sarebbe trovato di fronte
all'impossibilità di riprodurre il volto del Messia e che l'immagine sarebbe stata da lui
ritrovata già scolpita in modo miracoloso. La connotazione dell'immagine come acheropita
e per di più contenitore per reliquie, veniva così accentuata per allontanare le accuse di
idolatria, non rare nel caso di culto di immagini tridimensionali di tale grandezza. La
leggenda continua raccontando che per sfuggire alla minaccia di distruzione essa venisse
posta su una nave priva di equipaggio, lasciata libera di navigare a tutti i venti, che infine
giunse nel Tirreno, di fronte al porto di Luni. La nave avrebbe resistito ad ogni tentativo di
abbordaggio da parte dei lunensi, salvo poi approdare spontaneamente a riva dopo
l'esortazione del vescovo di Lucca Giovanni I, giunto nel frattempo nella zona dopo essere
stato avvisato in sogno della presenza sulla nave del Volto Santo. Una volta portato a
terra, il crocifisso fu ancora disputato da lunensi e lucchesi, ma altri segni divini vollero che
il Crocifisso venisse condotto a Lucca, e alla fine i lunensi furono costretti a rinunciare al
suo possesso, ricevendo in compensazione un'ampolla del Sangue di Cristo prelevata da
dentro il simulacro.
Pur non essendo noto il momento in cui l'attuale simulacro fu
sostituito al precedente andrebbe comunque correlato con il
vescovato di Anselmo da Baggio (1060-70),, che presenziò alla
consacrazione della nuova cattedrale il 6 ottobre 1070. Alcuni
critici ritengono che il Crocifisso ligneo non sia riferibile alla
scultura Occidentale del X-XI secolo, soprattutto perché
indosserebbe un colobium, una tunica tipica della Siria. Al
contrario, altri studiosi ritengono che non si tratti di un colobium,
bensì una tunica manicata di tipo sacerdotale. L’origine
occidentale del simulacro lucchese sarebbe altresì giustificata
da altre croci monumentali come la Gerokreuz nel Duomo di
Colonia, datata all'epoca del vescovo di Gero (969-976), o alle
grandi croci ottoniane di Pavia e Vercelli, datate rispettivamente
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ante 996 e ante 1026.
La questione tuttavia non sarebbe da ridurre
esclusivamente al fatto dimensionale, infatti tra i due
Crocifissi emergono importanti differenze di altro tipo,
come, prima fra tutte, il fatto che il Crocifisso lucchese
sia vestito, mentre quello di Colonia porti solo un
perizoma, come la gran parte dei simulacri di questo
tipo. Nonostante ciò, tuttavia occorre osservare come
in entrambi lo sguardo si rivolga al riguardante, verso
il basso, in atteggiamento tra il compassionevole e il
sofferente, un atteggiamento che presuppone la
rappresentazione del Cristo comunque vivo e non
ancora trapassato, nel quale l’aspetto ascetico risulta
preponderante, esattamente come si può osservare
nel Crocifisso del Museo Sanna, ma proveniente
dalla chiesa di San Sisto a Sassari, per il quale la
datazione al XIII secolo parrebbe troppo alta, vista la
tipologia così simile al Cristo di Tahull presso Lérida
ascritto al primo ventennio del XII secolo.
Rimanendo in ambito medievale, ma
spingendosi in epoca romanica, alla quale
forse appartiene il citato Crocifisso
sassarese, occorre sottolineare come
assuma particolare importanza, soprattutto
nei grandi cicli d’affreschi di derivazione
cassinese, la Crocifissione come momento
centrale di tutta la rappresentazione degli
episodi neotestamentari, a cominciare dal
perduto ciclo della basilica costantiniana di
San Pietro in Vaticano e di quelli superstiti di
Sant’Angelo in Formis, San Vincenzo al
Volturno, San Pere de Sorpe (oggi al Museu
Nacional d’Art de Catalunya) e San Pietro di Galtellì. Tale centralità della
rappresentazione del Calvario fu sottolineata da Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), che
la indicava come inizio della meditazione mistica. Si tratta di Crocifissioni nelle quali, pur
lasciando trasparire l’imminente morte nel volto leggermente inclinato del Cristo, come
indicava Anselmo d’Aosta, nel loro corpo non portano i segni della sofferenza terrena e,
come scriveva Ruperto di Deutz (1075-1130), risultano “conformi alla bellezza ideale”. In
effetti l’idea di un Cristo intonso sulla croce, che durante il Medio Evo fu abbastanza
diffuso fino al gotico, deriva dal Vangelo Apocrifo di Filippo, dove si legge che “chi dice ce
il Signore prima morì e poi risuscitò sbaglia, perché prima è risuscitato poi è morto, se
prima, infatti, uno non si procura la resurrezione non morirà, come Dio vive, egli sarà
morto” (21).
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I quattro bracci della croce, che
soprattutto nel gotico italiano troviamo
rinforzati e ricchi di personaggi,
rappresentano secondo il Vangelo
Apocrifo di Giovanni (25) le quattro
grandi luci, ossia le quattro grandi
potenze: charis (grazia), synesis
(comprensione), aisthesis (percezione)
e phronesys (giudizio) del divino
Antogene, che si presentano a Cristo.
Fu forse questo il motivo per cui prima
Cimabue (Cenni di Pepi, 1240-1302),
poi Giotto reinventarono proprio i bracci
popolandoli di figure che partecipavano
più che all’ascesi mistica del Cristo, al
suo dolore corporale e alla sua morte,
resa sempre più realistica attraverso la
contorsione del corpo e gli occhi non
più aperti. Così è, per esempio, nello
straordinario Crocifisso che Cimabue dipinse per Santa Croce a Firenze (ivi, Museo di
Santa Croce) al ritorno da Roma nel 1272, dove nel rinforzo dei bracci laterali inserisce le
figure di Maria e Giovanni dolenti su fondo oro per esaltarne maggiormente l’aspetto divino
e salvifico, mentre sui lati rinforza la croce per permettere alla figura del Cristo, resa con
naturalismo, di torcersi al di fuori dell’asse centrale e trasmettere così la sensazione
dell’uomo appeso e suppliziato. Qua, come nel caso del bassorilievo di Santa Sabina a
Roma, luogo centrale della rappresentazione è la testa nimbata e reclinata seguendo la
direzione di quella di Giovanni, collocato a destra, e specularmente rispetto a quella della
Vergine di sinistra, come per sottolineare un dialogo tra madre e figlio, sposa e sposo,
padre e figlia, con una compostezza tra charis e synesis, dal forte sapore emotivo.
Se nel Gotico italiano si assiste ancora ad una
continenza verso la crudezza del dolore,
rappresentando ancora Cristo parzialmente
intonso sulla croce, come è il caso di Cimabue,
Giotto (Crocifissione, Padova, Cappella degli
Scrovegni, 1305) o Nicola Pisano, per i quali
conta più la stilizzazione della figura e il rinvio
all’antico che l’espressionismo incisivo determinato dal memento mori, nel nord Europa e
particolarmente nella zona renana prevale invece
la volontà di evidenziare nel corpo del Salvatore
tutta la sua passione, con una crudezza di
dettagli che ne sottolineava tutta l’umanità. Ciò fu
forse dovuto, poco dopo il 1300, all’influsso della teologia di Anselmo di Canterbury e alla
contemplazione della croce di Bernardo di Clairvaux, per i quali il corpo di Cristo
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Crocifisso diventa sempre più l’oggetto centrale degli interessi mistici. Partendo dalla
Renania e dalla Vestfalia, anche gli altri ambiti centroeuropei dell'Austria, della Boemia e
della Silesia, di diffuse l'iconografia della nuova tipologia del crucifixus dolorosus. Il tema
del Cristo In Croce subisce un mutamento essenziale: dalla rappresentazione della vittoria
sulla morte si arriva alla consapevolezza della realtà delle sofferenze e della morte di
Cristo: un profondo naturalismo domina la composizione, al posto del nimbo, una corona
di spine cinge la testa china sul petto e Il corpo emaciato proclama a gran voce i segni del
martirio com’è retto da quelle esili braccia distese fino allo stremo. L’ossatura pettorale
pronunciatissima, il corpo ricoperto di ulcere, il sangue abbondante che corre dalle ferite,
la bocca mezza aperta che esala l’ultimo respiro.
I modelli più antichi di tale tipologia derivano si trovano
tutti in Renania: il crocifisso di Santa Maria in Kapitol a
Colonia (1304), dove anche la croce è espressa
attraverso due rami a forma di Y, e quella della
collezione Mangold di Colmar. Ma le forme si fanno
presto più miti e una moderazione naturalistica di
accenti realistici pacati subentra nella composizione
dei Crocifissi della Cattedrale di Perpignano (1307), di
San Georg a Colonia (c. 1333), di Andernach in
Renania e il cosiddetto “Ungarkreuz” forse posteriore.
La tipologia di questo stile addolcito del crucifixus
dolorosus (“Weicher Stil”), di cui esempi ulteriori sono
identificabili a Krefeld-Linn ed a San Mauritius sempre
a Colonia, troverà poi accoglienza in Italia. Proprio i
crocifissi di San Georg e di Andernach costituiscono
degli esempi notevolmente prossimi al Crocifisso della
Beata Villana a Santa Maria Novella (Firenze) e a quello detto di Nicodemo di Oristano:
a parte l'iconografia vicinissima, tali rappresentazioni testimoniano una certa affinità
stilistica e risultano animati dal medesimo moderato.
Si tratta di modelli che pur nella
loro ristretta diffusione costituiscono un topos caratteristico
dell’espressività nordica che,
anche in tempi molto recenti, ha
continuato a maturare nell’opera
di Munch, ma che ha riscontri
anche in ambito rinascimentale,
dove alla tragedia con-sumata e
drammatica della Crocifissione
dell’Altare di Issenheim (151216) commissionato a Grünewald
(1480-1528) dal siciliano Guido
Guersi (Colmar, Musée di Unterlinden) o quelle, dello stesso artista, della National Gallery
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di Washington (1508) e del Kunstsamm di Basilea (1510) si contrappone l’aspetto
caricaturale e grottesco di Bosch o Bruegel. “A Grünewald non interessano che
l'espressione e il movimento. La norma, la misura, le proporzioni della figura umana (che
Dürer perseguì per tutta vita) non lo hanno certamente interessato molto. le sue forme
fisiche sono per lo più brutte, malaticce, impossibili o almeno fuori dall'ordinario, anche
quando non si sacrifichi niente all'espressione. I volti sono asimmetrici, quasi in ogni
dipinto si riscontrano arbitrii di disegno che hanno una giustificazione artistica; oppure
tralascia il modellato, come avviene negli schizzi. Già questo fatto, e l'arbitrarietà delle
proporzioni, dimostrano che l'artista non si è lasciato turbare da ciò che è anormale” (H. A.
Schmid).
Evoluzione contraria ebbe il naturalismo
italiano dove la composizione era comunque
commisurata a proporzioni precise e gamme
cromatiche chiare che delineano paesaggi
bucolici, degni di una istantanea scattata
riprendendo i lievi e verdeggianti paesaggi
umbri o marchigiani, certo diversi rispetto a
quelli più aspri di Galilea. Così Antonello da
Messina, muovendosi dalla Sicilia a Napoli,
secondo quanto riferì Pietro Summonte, poi
a Venezia, passando per la verde Umbria, e
tornando quindi nella sua terra natia,
espresse attraverso la divina proporzione, o
proporzione aurea, quella bellezza ideale di
ascendenza ellenica, degna più che di un
uomo crocifisso e torturato, di un Apollo di
Belvedere. La misurata proporzionalità del
corpo che, come in epoca romanica, diviene
intonso è tema centrale, assieme alla
prospettiva, del rinascimento italiano, dove
alla forza espressiva germanica si sostituisce
una visione del mondo scientifica e
perfettamente commensurabile. Così alle
crocifissioni antonellesche di Sibiu (ivi,
Muzeul National Brukenthal), Anversa (ivi,
Koninklijk Museum voor Schone Kunsten) o
Londra (ivi, National Gallery), seguiranno quelle di Perugino e Raffaello, rappresentate col
medesimo sentimento estatico verso quel Parnaso ideale che andava a sostituire il più
drammatico ed oscuro Monte Calvario dove l’esperienza umana di Cristo si era interrotta.
Già prima di Antonello, tuttavia, l’attenzione dell’arte italiana di era concentrata sulla
questione matematica sia proporzionale che prospettica, come se tutto il mondo potesse
essere misurato col raziocinio, compresa la visione ottica. In ciò Masaccio a Firenze e più
tardi Piero della Francesca ad Urbino ebbero un ruolo determinante, soprattutto nella
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definizione delle norme prospettiche. Nel caso di
Masaccio, una così forte attenzione alla
razionalità sembra contrapporsi con quanto
Vasari, biografo che ne documentò la vita oltre
un secolo dopo, racconta: “Fu persona
astrattissima e molto a caso, come quello che,
avendo fisso tutto l'animo e la volontà alle cose
dell'arte sola. Si curava poco di sé e manco
d'altrui. E perché è non volle pensar già mai in
maniera alcuna alle cure o cose del mondo, e
non che altro al vestire stesso, non costumando
riscuotere i danari da' suoi debitori, se non
quando era in bisogno estremo, per Tommaso
che era il suo nome, fu da tutti detto Masaccio.
Non già perché è fusse vizioso, essendo egli la
bontà naturale, ma per la tanta straccurataggine.” Pare incredibile infatti che uno con
un temperamento simile sia stato il maggior
artefice del razionalismo prospettico e misurato
del rinascimento italiano. Simbolo di tale estrema
attenzione verso la misura delle cose è senza
dubbio l’affresco della Trinità in Santa Maria
Novella a Firenze. Dipinta tra il 1426 e il 1428,
rappresenta il dogma trinitario inserito in una
cappella ispirata agli archi di trionfo romani, con
volta a botte cassettonata sostenuta da colonne
ioniche, vede al centro la figura di Cristo,
sostenuto da Dio Padre, unica figura sottratta
alle rigide regole prospettiche, in quanto essere non misurabile e sotto la croce Maria e
Giovanni. Più in basso i due committenti, secondo una recente identificazione Berto di
Bartolomeo del Banderaio e la sua consorte Sandra, assistono inginocchiati alla scena
sacra. Con funzione di base è infine collocato un altare marmoreo, sotto il quale si trova
uno scheletro giacente con la scritta “Io fu già quel che voi sete: e quel chi son voi ancor
sarete”.
L’opera può essere letta verticalmente dal basso verso l’alto come ascesi verso la
salvezza eterna: in primo piano il sarcofago con lo scheletro, che ricorda la transitorietà
della vita terrena, in secondo piano, le due figure inginocchiate che pregano dei
committenti, alla base del triangolo che le figure formano (rappresentano la preghiera,
mezzo di salvezza), in terzo piano la cappella con sulla soglia la Vergine e Giovanni
(rappresentano l'intercessione), dietro ai quali c’è la Croce, sorretta da Dio Padre, al
vertice del triangolo. Sopra il Cristo si trova la colomba dello Spirito Santo (Salvezza). La
cappella è rappresentata secondo una rigorosa prospettiva che viene data dai lacunari
della volta a botte, dalle lesene e dai capitelli corinzi sullo sfondo. I personaggi sono
monumentali, ben definiti spazialmente dal chiaroscuro.
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Alle forme corpose e naturalistiche di
Masaccio si rifece Michelangelo (14751564), che attraverso la rottura con le rigide
regole prospettico-ottiche e proporzionali
del primo rinascimento italiano, inventò il
manierismo. Nel 1504 lavorando al cartone
della Battaglia di Cascina per il salone di
Palazzo Vecchio reinterpreta l’espressività
nordica innestandola nella misura italiana
attraverso il disarticolarsi anamorfico dei
corpi che non assumono più posizioni
predefinite, ma si muovono come in una
scena in divenire. A questo cartone
guardarono varie generazioni d’artisti, ma
soprattutto quelli della prima maniera come
Pontormo, Rosso, Beccafumi, nonché gli
spagnoli Machuca e Berruguete, affascinati
questi ultimi anche dalle istanze nordiche di
Dürer, soprattutto per quanto riguarda lo
studio dal vivo del paesaggio, e Grünewald
per le tonalità livide che segnano quel
confine tra compostezza e dramma. Fu nel 1541, quindi quasi quarant’anni dopo, che
Michelangelo conobbe la marchesa di Pescara Vittoria Colonna, poetessa sconsolata che
cantava il suo sconforto amoroso in un canzoniere dal forte sapore petrarchesco, che lo
introdusse al circolo viterbese del cardinale Reginald Pole, frequentato, tra gli altri, da
Vittore Soranzo, Apollonio Merenda, Pietro Carnesecchi, Pietro Antonio Di Capua, Alvise
Priuli e la contessa Giulia Gonzaga. Quel circolo culturale, poi accusato di Nicodemismo,
aspirava ad una riforma della Chiesa Cattolica, sia interna, sia nei confronti del resto della
Cristianità, attraverso la quale avrebbe dovuto riconciliarsi. Queste teorie influenzarono
Michelangelo proprio nella composizione della Crocifissione realizzata per la sua amica
contessa, forse dispersa o forse mai dipinta. Di quest'opera restano alcuni disegni
preparatori non tutti di certa attribuzione. Il più famoso è senz'altro quello conservato al
British Museum, mentre copie pittoriche sono conservate nella Cattedrale di Logroño
(Spagna) e a Casa Buonarroti. Queste opere ci danno un'idea di come Michelangelo
avrebbe progettato il dipinto della Crocifissione nel quale un giovane e sensuale Cristo
stava a simboleggiare un'allusione alle teorie riformiste cattoliche che vedevano nel
Sacrificio del sangue di Cristo l'unica via di salvezza individuale. È l’inizio della visione
ormai post tridentina che diede avvio alla grande epopea del barocco.
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