La Crocifissione di Gesù
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La Crocifissione di Gesù
La Crocifissione di Gesù “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Isaia 53,6-7) La Crocifissione è un tema ed un soggetto molto importante nella storia dell'arte, tale quasi da meritare studi specifici non meramente da inquadrarsi nella categoria dell'arte sacra. Molte sono state le motivazioni che hanno persuaso vari artisti ad applicarvisi e davvero cospicuo e prezioso è il patrimonio artistico tramandatoci. La rappresentazione della Passione di Cristo offriva infatti spunto per rendere una gamma di emozioni e sensazioni, e comunque di sommovimenti spirituali, che non trovano un apprezzabile paragone in altre istanze di comune immediatezza e ricevibilità. In più, come per tutta l'arte sacra, vi furono epoche (come certo il Rinascimento) in cui il mecenatismo delle varie Signorie condizionavano la munificenza all'imposizione della tematica, talvolta a fini meramente politico-diplomatici, finalizzati a preservare buoni rapporti con gli Stati della Chiesa; perciò si commissionavano in grande quantità soggetti religiosi che oggi ci restano in buona parte come capolavori. Nonostante tuttavia le si conosca per il loro valore artistico, tali opere contengono anche un importantissimo registro documentario, poiché descrivono, specialmente nella comparazione fra le varie epoche, la variazione della concezione culturale e sociale delle materie sacre (o spirituali in genere), lasciando trasparire la maggiore o minore importanza che taluni dettagli, talune presenze (o assenze), taluni contesti potevano assumere o perdere nell'evolvere delle mentalità. Dalla rappresentazione della Bibbia di Rabbula, alla surreale sintesi di Dalì, passando per diverse sfaccettature del Cinquecento italiano e fiammingo, cattolico o protestante, la Crocifissione marca con la sua costante immutabilità, una smisurata fioritura interpretativa. Il tema del resto, non era riservato ai soli cristiani, né tantomeno ai cattolici: molte opere sono di protestanti, ebrei, agnostici ed atei, mentre anche lo “sporadicamente osservante” Caravaggio fu capace di una Flagellazione che tuttora è una delle più profonde e toccanti visioni dell’argomento. La Crocifissione bianca di Chagall (1938), ebreo chassidico, insieme al trittico Resistenza, Resurrezione, Liberazione segnala che il sacrificio di Cristo è divenuto patrimonio comune delle culture (almeno quelle Occidentali) come simbolo della persecuzione e lo usa quindi per dipingere un Cristo, nato ebreo, che incarna l'eterno destino di quel popolo martoriato e perseguitato da secoli. 1 Il ruolo della crocifissione di Gesù nella cultura occidentale, al di là delle dispute sulla sua storicità, è sicuramente fondamentale, poiché ad un tempo simbolico ed emblematico della nascita del Cristianesimo, che rappresenta di fatto un agente culturale di enorme influenza nella storia. Inoltre, il segno formale stesso della crocifissione, la croce, è diventato un simbolo di cui tuttora si fa ampio uso presso le culture di derivazione cristiana. Nel tempo, in mancanza di elementi scientificamente certi, innumerevoli discussioni sono tuttavia ugualmente scaturite intorno al supplizio, ad esempio sulla sua appropriata qualificabilità come martirio in senso teologico, è tuttavia accettabile che sia stata la conseguenza di una condanna per sedizione, costituzione di banda armata, devastazione di un luogo di culto e lesa maestà nei confronti del potere di Roma. Il tema del Crocifisso, i cui più antichi esempi sono del IV secolo, segue quello della rappresentazione della croce, già presente, come raffigurazione simbolico-escatologica nelle catacombe e nei siti funerari cristiani dei primi secoli, soprattutto durante le persecuzioni. La croce è a volte rappresentata come ancora (Catacombe di Domitilla a Roma) o unitamente ai pesci, una simbologia fortemente connessa con il concetto di salvezza che il martirio portava. Come tale la Crocifissione rimane sconosciuta all'iconografia fino a quando Teodosio il Grande nel IV secolo non soppresse la pena della croce e l'immagine non suscitò più dei analogie negative. La raffigurazione di Gesù crocifisso “scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani” secondo San Paolo (1 Cor 1,23), avrebbe potuto destare scandalo tra gli ebrei e suscitare disprezzo nei pagani. Soppresso questo tipo di supplizio comparvero le prime raffigurazioni. Le più antiche rappresentazioni di Cristo crocifisso sono quella della scatola d'avorio del British Museum databile al 420-430 d.C. e il pannello di Santa Sabina a Roma, che costituisce uno dei rari esempi antichi di scultura paleocristiana. Cristo è rappresentato frontalmente al centro della scena, trai due ladroni, in dimensioni maggiori. Volto barbuto, capelli lunghi e occhi aperti. Le braccia sono semi distese in posizione orante, con solo le mani inchiodate. I piedi, contrariamente alla maggioranza delle rappresentazioni, poggiano saldamente a terra e non sono inchiodati. Il corpo di Cristo appare senza peso ed il suo volto “vivente”. Sul retro dei tre suppliziati è raffigurato un 2 paramento in mattoni scompartito in tre parti verticali da esili lesene scanalate, sormontate da altrettanti timpani, di cui quello sinistro con una apertura. La maggiori dimensioni del Cristo, oltre che denotarne una maggiore importanza rispetto agli altri due secondo una impostazione di carattere esegetico già vista nella scultorea romana di tipo plebeo, ne accentuano l’aspetto escatologico complessivo offrendone una visione oltre che di universis imperator di primus inter pares dell’humanitas. La tripartizione, infatti, che funge da sfondo ai tre costituisce un topos architettonico bizantino e tardo antico, soprattutto negli edifici religiosi atti ad ospitare le funzioni religiose dove prendeva parte l’imperatore o il sovrano. Una ripartizione simile è presente, ad esempio, nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (505) nella raffigurazione del palatium, sede per eccellenza dell’imperatore cristiano. Nella raffigura-zione di Santa Sabina, tuttavia, la testa del Cristo, sedes sapientiae, è rappresentata all’interno del timpano centrale che culmi-na, contrariamente agli altri due, al di fuori della formella, segno evidente che l’humanitas di Cristo è già superata dalla sua stessa resurrezione; mentre l’apertura centinata posta sul timpano sinistro ac-cenna alla salvazione del ladrone buono (Lc 23,43), alla cui anima è permesso uscire dalle strette ed anguste mura umane, intese come prigione corporale più che spirituale. Nel V secolo, soprattutto in affreschi e mosaici comparirà la "Croce gemmata" , simbolo del Cristo in gloria. Nel 451 papa Leone Magno, nel riaffermare le due nature, umana e divina del Cristo, sostenne che era stato “appeso alla croce e trapassato da chiodi”. Successivamente, il Concilio di Costantinopoli (696), si ordinò di rappresentare Cristo nella sua umanità più sofferente. Da allora si ebbero dunque due tipologie di rappresentazioni: il Cristus triunfans ed il Cristus Patiens, raffigurazioni che, in varie forme, sono giunte fino a noi. Una tipologia di Crocifisso, derivata forse dal cosiddetto Volto del Santo Sepolcro, è rappresentata dal Volto Santo di Lucca, un crocifisso ligneo che la leggenda definisce un'immagine acheropita per secoli al centro di una diffusa venerazione in tutta Europa fin dal Medioevo, custodito in un tempietto a pianta centrale del 1484, nella navata sinistra della cattedrale di San Martino a Lucca. Per quanto riguarda questa importante scultura lignea, la critica è concorde nel ritenere che sia una copia della immagine originale, approntata in epoca incerta per sostituire una croce forse gravemente danneggiata. La 3 valutazione cronologica, ostacolata dallo stato attuale della scultura, coperta di nerofumo e su cui non è pensabile di condurre indagini distruttive o restauri di grande portata stante la grandissima venerazione ancora tributatagli, oscilla fra l' XI e il XIII secolo. Secondo la Legenda Leobiniana, diffusasi nel secolo XII per fornire una base documentale alla sempre crescente venerazione tributata all'immagine, fu redatta una Relatio de revelatione sive inventione ac translatione sacratissimi vultus (Racconto della creazione, scoperta e traslazione del santissimo volto) che in realtà, secondo la critica, riunirebbe tre nuclei leggendari diversi comunque riferibili all'epoca del vescovo Rangerio (1097-1112). In questa relatio si racconta dell'arrivo a Luni, poi a Lucca, nel 742, di una immagine, contenente numerose reliquie scolpita da Nicodemo che, con Giuseppe d'Arimatea, depose Cristo nel sepolcro. La leggenda riporta anche che Nicodemo si sarebbe trovato di fronte all'impossibilità di riprodurre il volto del Messia e che l'immagine sarebbe stata da lui ritrovata già scolpita in modo miracoloso. La connotazione dell'immagine come acheropita e per di più contenitore per reliquie, veniva così accentuata per allontanare le accuse di idolatria, non rare nel caso di culto di immagini tridimensionali di tale grandezza. La leggenda continua raccontando che per sfuggire alla minaccia di distruzione essa venisse posta su una nave priva di equipaggio, lasciata libera di navigare a tutti i venti, che infine giunse nel Tirreno, di fronte al porto di Luni. La nave avrebbe resistito ad ogni tentativo di abbordaggio da parte dei lunensi, salvo poi approdare spontaneamente a riva dopo l'esortazione del vescovo di Lucca Giovanni I, giunto nel frattempo nella zona dopo essere stato avvisato in sogno della presenza sulla nave del Volto Santo. Una volta portato a terra, il crocifisso fu ancora disputato da lunensi e lucchesi, ma altri segni divini vollero che il Crocifisso venisse condotto a Lucca, e alla fine i lunensi furono costretti a rinunciare al suo possesso, ricevendo in compensazione un'ampolla del Sangue di Cristo prelevata da dentro il simulacro. Pur non essendo noto il momento in cui l'attuale simulacro fu sostituito al precedente andrebbe comunque correlato con il vescovato di Anselmo da Baggio (1060-70),, che presenziò alla consacrazione della nuova cattedrale il 6 ottobre 1070. Alcuni critici ritengono che il Crocifisso ligneo non sia riferibile alla scultura Occidentale del X-XI secolo, soprattutto perché indosserebbe un colobium, una tunica tipica della Siria. Al contrario, altri studiosi ritengono che non si tratti di un colobium, bensì una tunica manicata di tipo sacerdotale. L’origine occidentale del simulacro lucchese sarebbe altresì giustificata da altre croci monumentali come la Gerokreuz nel Duomo di Colonia, datata all'epoca del vescovo di Gero (969-976), o alle grandi croci ottoniane di Pavia e Vercelli, datate rispettivamente 4 ante 996 e ante 1026. La questione tuttavia non sarebbe da ridurre esclusivamente al fatto dimensionale, infatti tra i due Crocifissi emergono importanti differenze di altro tipo, come, prima fra tutte, il fatto che il Crocifisso lucchese sia vestito, mentre quello di Colonia porti solo un perizoma, come la gran parte dei simulacri di questo tipo. Nonostante ciò, tuttavia occorre osservare come in entrambi lo sguardo si rivolga al riguardante, verso il basso, in atteggiamento tra il compassionevole e il sofferente, un atteggiamento che presuppone la rappresentazione del Cristo comunque vivo e non ancora trapassato, nel quale l’aspetto ascetico risulta preponderante, esattamente come si può osservare nel Crocifisso del Museo Sanna, ma proveniente dalla chiesa di San Sisto a Sassari, per il quale la datazione al XIII secolo parrebbe troppo alta, vista la tipologia così simile al Cristo di Tahull presso Lérida ascritto al primo ventennio del XII secolo. Rimanendo in ambito medievale, ma spingendosi in epoca romanica, alla quale forse appartiene il citato Crocifisso sassarese, occorre sottolineare come assuma particolare importanza, soprattutto nei grandi cicli d’affreschi di derivazione cassinese, la Crocifissione come momento centrale di tutta la rappresentazione degli episodi neotestamentari, a cominciare dal perduto ciclo della basilica costantiniana di San Pietro in Vaticano e di quelli superstiti di Sant’Angelo in Formis, San Vincenzo al Volturno, San Pere de Sorpe (oggi al Museu Nacional d’Art de Catalunya) e San Pietro di Galtellì. Tale centralità della rappresentazione del Calvario fu sottolineata da Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), che la indicava come inizio della meditazione mistica. Si tratta di Crocifissioni nelle quali, pur lasciando trasparire l’imminente morte nel volto leggermente inclinato del Cristo, come indicava Anselmo d’Aosta, nel loro corpo non portano i segni della sofferenza terrena e, come scriveva Ruperto di Deutz (1075-1130), risultano “conformi alla bellezza ideale”. In effetti l’idea di un Cristo intonso sulla croce, che durante il Medio Evo fu abbastanza diffuso fino al gotico, deriva dal Vangelo Apocrifo di Filippo, dove si legge che “chi dice ce il Signore prima morì e poi risuscitò sbaglia, perché prima è risuscitato poi è morto, se prima, infatti, uno non si procura la resurrezione non morirà, come Dio vive, egli sarà morto” (21). 5 I quattro bracci della croce, che soprattutto nel gotico italiano troviamo rinforzati e ricchi di personaggi, rappresentano secondo il Vangelo Apocrifo di Giovanni (25) le quattro grandi luci, ossia le quattro grandi potenze: charis (grazia), synesis (comprensione), aisthesis (percezione) e phronesys (giudizio) del divino Antogene, che si presentano a Cristo. Fu forse questo il motivo per cui prima Cimabue (Cenni di Pepi, 1240-1302), poi Giotto reinventarono proprio i bracci popolandoli di figure che partecipavano più che all’ascesi mistica del Cristo, al suo dolore corporale e alla sua morte, resa sempre più realistica attraverso la contorsione del corpo e gli occhi non più aperti. Così è, per esempio, nello straordinario Crocifisso che Cimabue dipinse per Santa Croce a Firenze (ivi, Museo di Santa Croce) al ritorno da Roma nel 1272, dove nel rinforzo dei bracci laterali inserisce le figure di Maria e Giovanni dolenti su fondo oro per esaltarne maggiormente l’aspetto divino e salvifico, mentre sui lati rinforza la croce per permettere alla figura del Cristo, resa con naturalismo, di torcersi al di fuori dell’asse centrale e trasmettere così la sensazione dell’uomo appeso e suppliziato. Qua, come nel caso del bassorilievo di Santa Sabina a Roma, luogo centrale della rappresentazione è la testa nimbata e reclinata seguendo la direzione di quella di Giovanni, collocato a destra, e specularmente rispetto a quella della Vergine di sinistra, come per sottolineare un dialogo tra madre e figlio, sposa e sposo, padre e figlia, con una compostezza tra charis e synesis, dal forte sapore emotivo. Se nel Gotico italiano si assiste ancora ad una continenza verso la crudezza del dolore, rappresentando ancora Cristo parzialmente intonso sulla croce, come è il caso di Cimabue, Giotto (Crocifissione, Padova, Cappella degli Scrovegni, 1305) o Nicola Pisano, per i quali conta più la stilizzazione della figura e il rinvio all’antico che l’espressionismo incisivo determinato dal memento mori, nel nord Europa e particolarmente nella zona renana prevale invece la volontà di evidenziare nel corpo del Salvatore tutta la sua passione, con una crudezza di dettagli che ne sottolineava tutta l’umanità. Ciò fu forse dovuto, poco dopo il 1300, all’influsso della teologia di Anselmo di Canterbury e alla contemplazione della croce di Bernardo di Clairvaux, per i quali il corpo di Cristo 6 Crocifisso diventa sempre più l’oggetto centrale degli interessi mistici. Partendo dalla Renania e dalla Vestfalia, anche gli altri ambiti centroeuropei dell'Austria, della Boemia e della Silesia, di diffuse l'iconografia della nuova tipologia del crucifixus dolorosus. Il tema del Cristo In Croce subisce un mutamento essenziale: dalla rappresentazione della vittoria sulla morte si arriva alla consapevolezza della realtà delle sofferenze e della morte di Cristo: un profondo naturalismo domina la composizione, al posto del nimbo, una corona di spine cinge la testa china sul petto e Il corpo emaciato proclama a gran voce i segni del martirio com’è retto da quelle esili braccia distese fino allo stremo. L’ossatura pettorale pronunciatissima, il corpo ricoperto di ulcere, il sangue abbondante che corre dalle ferite, la bocca mezza aperta che esala l’ultimo respiro. I modelli più antichi di tale tipologia derivano si trovano tutti in Renania: il crocifisso di Santa Maria in Kapitol a Colonia (1304), dove anche la croce è espressa attraverso due rami a forma di Y, e quella della collezione Mangold di Colmar. Ma le forme si fanno presto più miti e una moderazione naturalistica di accenti realistici pacati subentra nella composizione dei Crocifissi della Cattedrale di Perpignano (1307), di San Georg a Colonia (c. 1333), di Andernach in Renania e il cosiddetto “Ungarkreuz” forse posteriore. La tipologia di questo stile addolcito del crucifixus dolorosus (“Weicher Stil”), di cui esempi ulteriori sono identificabili a Krefeld-Linn ed a San Mauritius sempre a Colonia, troverà poi accoglienza in Italia. Proprio i crocifissi di San Georg e di Andernach costituiscono degli esempi notevolmente prossimi al Crocifisso della Beata Villana a Santa Maria Novella (Firenze) e a quello detto di Nicodemo di Oristano: a parte l'iconografia vicinissima, tali rappresentazioni testimoniano una certa affinità stilistica e risultano animati dal medesimo moderato. Si tratta di modelli che pur nella loro ristretta diffusione costituiscono un topos caratteristico dell’espressività nordica che, anche in tempi molto recenti, ha continuato a maturare nell’opera di Munch, ma che ha riscontri anche in ambito rinascimentale, dove alla tragedia con-sumata e drammatica della Crocifissione dell’Altare di Issenheim (151216) commissionato a Grünewald (1480-1528) dal siciliano Guido Guersi (Colmar, Musée di Unterlinden) o quelle, dello stesso artista, della National Gallery 7 di Washington (1508) e del Kunstsamm di Basilea (1510) si contrappone l’aspetto caricaturale e grottesco di Bosch o Bruegel. “A Grünewald non interessano che l'espressione e il movimento. La norma, la misura, le proporzioni della figura umana (che Dürer perseguì per tutta vita) non lo hanno certamente interessato molto. le sue forme fisiche sono per lo più brutte, malaticce, impossibili o almeno fuori dall'ordinario, anche quando non si sacrifichi niente all'espressione. I volti sono asimmetrici, quasi in ogni dipinto si riscontrano arbitrii di disegno che hanno una giustificazione artistica; oppure tralascia il modellato, come avviene negli schizzi. Già questo fatto, e l'arbitrarietà delle proporzioni, dimostrano che l'artista non si è lasciato turbare da ciò che è anormale” (H. A. Schmid). Evoluzione contraria ebbe il naturalismo italiano dove la composizione era comunque commisurata a proporzioni precise e gamme cromatiche chiare che delineano paesaggi bucolici, degni di una istantanea scattata riprendendo i lievi e verdeggianti paesaggi umbri o marchigiani, certo diversi rispetto a quelli più aspri di Galilea. Così Antonello da Messina, muovendosi dalla Sicilia a Napoli, secondo quanto riferì Pietro Summonte, poi a Venezia, passando per la verde Umbria, e tornando quindi nella sua terra natia, espresse attraverso la divina proporzione, o proporzione aurea, quella bellezza ideale di ascendenza ellenica, degna più che di un uomo crocifisso e torturato, di un Apollo di Belvedere. La misurata proporzionalità del corpo che, come in epoca romanica, diviene intonso è tema centrale, assieme alla prospettiva, del rinascimento italiano, dove alla forza espressiva germanica si sostituisce una visione del mondo scientifica e perfettamente commensurabile. Così alle crocifissioni antonellesche di Sibiu (ivi, Muzeul National Brukenthal), Anversa (ivi, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten) o Londra (ivi, National Gallery), seguiranno quelle di Perugino e Raffaello, rappresentate col medesimo sentimento estatico verso quel Parnaso ideale che andava a sostituire il più drammatico ed oscuro Monte Calvario dove l’esperienza umana di Cristo si era interrotta. Già prima di Antonello, tuttavia, l’attenzione dell’arte italiana di era concentrata sulla questione matematica sia proporzionale che prospettica, come se tutto il mondo potesse essere misurato col raziocinio, compresa la visione ottica. In ciò Masaccio a Firenze e più tardi Piero della Francesca ad Urbino ebbero un ruolo determinante, soprattutto nella 8 definizione delle norme prospettiche. Nel caso di Masaccio, una così forte attenzione alla razionalità sembra contrapporsi con quanto Vasari, biografo che ne documentò la vita oltre un secolo dopo, racconta: “Fu persona astrattissima e molto a caso, come quello che, avendo fisso tutto l'animo e la volontà alle cose dell'arte sola. Si curava poco di sé e manco d'altrui. E perché è non volle pensar già mai in maniera alcuna alle cure o cose del mondo, e non che altro al vestire stesso, non costumando riscuotere i danari da' suoi debitori, se non quando era in bisogno estremo, per Tommaso che era il suo nome, fu da tutti detto Masaccio. Non già perché è fusse vizioso, essendo egli la bontà naturale, ma per la tanta straccurataggine.” Pare incredibile infatti che uno con un temperamento simile sia stato il maggior artefice del razionalismo prospettico e misurato del rinascimento italiano. Simbolo di tale estrema attenzione verso la misura delle cose è senza dubbio l’affresco della Trinità in Santa Maria Novella a Firenze. Dipinta tra il 1426 e il 1428, rappresenta il dogma trinitario inserito in una cappella ispirata agli archi di trionfo romani, con volta a botte cassettonata sostenuta da colonne ioniche, vede al centro la figura di Cristo, sostenuto da Dio Padre, unica figura sottratta alle rigide regole prospettiche, in quanto essere non misurabile e sotto la croce Maria e Giovanni. Più in basso i due committenti, secondo una recente identificazione Berto di Bartolomeo del Banderaio e la sua consorte Sandra, assistono inginocchiati alla scena sacra. Con funzione di base è infine collocato un altare marmoreo, sotto il quale si trova uno scheletro giacente con la scritta “Io fu già quel che voi sete: e quel chi son voi ancor sarete”. L’opera può essere letta verticalmente dal basso verso l’alto come ascesi verso la salvezza eterna: in primo piano il sarcofago con lo scheletro, che ricorda la transitorietà della vita terrena, in secondo piano, le due figure inginocchiate che pregano dei committenti, alla base del triangolo che le figure formano (rappresentano la preghiera, mezzo di salvezza), in terzo piano la cappella con sulla soglia la Vergine e Giovanni (rappresentano l'intercessione), dietro ai quali c’è la Croce, sorretta da Dio Padre, al vertice del triangolo. Sopra il Cristo si trova la colomba dello Spirito Santo (Salvezza). La cappella è rappresentata secondo una rigorosa prospettiva che viene data dai lacunari della volta a botte, dalle lesene e dai capitelli corinzi sullo sfondo. I personaggi sono monumentali, ben definiti spazialmente dal chiaroscuro. 9 Alle forme corpose e naturalistiche di Masaccio si rifece Michelangelo (14751564), che attraverso la rottura con le rigide regole prospettico-ottiche e proporzionali del primo rinascimento italiano, inventò il manierismo. Nel 1504 lavorando al cartone della Battaglia di Cascina per il salone di Palazzo Vecchio reinterpreta l’espressività nordica innestandola nella misura italiana attraverso il disarticolarsi anamorfico dei corpi che non assumono più posizioni predefinite, ma si muovono come in una scena in divenire. A questo cartone guardarono varie generazioni d’artisti, ma soprattutto quelli della prima maniera come Pontormo, Rosso, Beccafumi, nonché gli spagnoli Machuca e Berruguete, affascinati questi ultimi anche dalle istanze nordiche di Dürer, soprattutto per quanto riguarda lo studio dal vivo del paesaggio, e Grünewald per le tonalità livide che segnano quel confine tra compostezza e dramma. Fu nel 1541, quindi quasi quarant’anni dopo, che Michelangelo conobbe la marchesa di Pescara Vittoria Colonna, poetessa sconsolata che cantava il suo sconforto amoroso in un canzoniere dal forte sapore petrarchesco, che lo introdusse al circolo viterbese del cardinale Reginald Pole, frequentato, tra gli altri, da Vittore Soranzo, Apollonio Merenda, Pietro Carnesecchi, Pietro Antonio Di Capua, Alvise Priuli e la contessa Giulia Gonzaga. Quel circolo culturale, poi accusato di Nicodemismo, aspirava ad una riforma della Chiesa Cattolica, sia interna, sia nei confronti del resto della Cristianità, attraverso la quale avrebbe dovuto riconciliarsi. Queste teorie influenzarono Michelangelo proprio nella composizione della Crocifissione realizzata per la sua amica contessa, forse dispersa o forse mai dipinta. Di quest'opera restano alcuni disegni preparatori non tutti di certa attribuzione. Il più famoso è senz'altro quello conservato al British Museum, mentre copie pittoriche sono conservate nella Cattedrale di Logroño (Spagna) e a Casa Buonarroti. Queste opere ci danno un'idea di come Michelangelo avrebbe progettato il dipinto della Crocifissione nel quale un giovane e sensuale Cristo stava a simboleggiare un'allusione alle teorie riformiste cattoliche che vedevano nel Sacrificio del sangue di Cristo l'unica via di salvezza individuale. È l’inizio della visione ormai post tridentina che diede avvio alla grande epopea del barocco. 10