Intervista sul Fascismo risponde Pino Rauti,Fra Croce e il Fascismo
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Intervista sul Fascismo risponde Pino Rauti,Fra Croce e il Fascismo
Rauti, il regime e la "terza via" [La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati] Tra le numerose segnalazioni e recensioni comparve a suo tempo dopo la conferenza stampa di Rauti a Napoli per la presentazione del 1° volume della “Storia del Fascismo”, riteniamo di dover sottolineare quella comparsa su “Il Tempo” di Roma a firma di Cinzia Tralicci. Il titolo dell’articolo è: “Rauti ripercorre il regime alla ricerca di una terza via”. Ed ecco il testo: “Una grande miniera a cielo aperto ancora attuale sotto il profilo culturale. La terza via tra il marxismo e il liberal-capitalismo. Nel primo dei sei volumi sulla storia del fascismo scritto con Rutilio Sermonti, Pino Rauti sintetizza il pensiero di Mussolini, Gentile e degli altri protagonisti dell’Italia del Ventennio, affermando che «tutto sommato il fascismo mantiene una sua specificità rivoluzionaria perché riuscì a creare un suo modello di, Stato e un modello di economia». Nella nuova prefazione l’ideologo della destra valorizza alcuni aspetti del fascismo quali «la forte accelerazione verso una modernizzazione della nazione». «L’Italia era il “terzo mondo” dell’Europa – prosegue l’ autore e si compì in quegli anni uno sforzo poderoso di modernizzazione del Paese che richiedeva ed esigeva una coazione di natura quasi disciplinare e pedagogica. Questo era il fascismo». Ci sono poi quelle che lo scrittore definisce «una singolare massa di premonizioni che si sono verificate». «Ad esempio aggiunge Rauti – il controllo delle migrazioni interne e della crescita esponenziale delle città, la difesa del mondo rurale, il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, la difesa delle specificità». Il fondatore del movimento Fiamma Tricolore, ha pronta la struttura di un altro per raccontare la guerra combattuta dall’Italia tra il 1935-1945: «Fu un solo conflitto iniziato e finito con gli stessi protagonisti – sostiene Rauti -; Nel 1935 l’Italia e la Germania ebbero contro tutti a cominciare da Francia e Inghilterra. Con i «Dieci anni più lunghi» Pino Rauti cerca di precisare le ragioni che indussero Mussolini ad aderire alla volontà belligerante di Hitler. «Bisogna essere ignoranti per non sapere che Mussolini aveva documentato a Hitler l’impreparazione bellica dell’Italia’ – afferma Rauti – il nostro Paese aveva in Etiopia le sue disponibilità logistiche quel poco che era rimasto in Europa era in Spagna. L’Italia, tentò di spiegare Mussolini, sarebbe stata pronta solo nel ‘43, dopo l’Esposizione del ‘42. Ma Hitler gli rispose – “Caro Duce tu hai i tuoi tempi, io ho i miei” – e gli mostrò i piani di riarmo di Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Mussolini sapeva che la guerra era un azzardo ma non poté evitarla». Dal passato al futuro, privo secondo Rauti, di particolari entusiasmi. D’Alema è l’«unico cervello politico della sinistra» mentre il centro-destra gli fa, esclamare: «C’è poco da stare allegri. Moriremo democristiani!» ”. “Storia del Fascismo – Le interpretazioni e le origini” – 578 pgg – Euro 30 – Edizioni “Controcorrente” – Via Carlo de Cesare, 11 – 80132 – Napoli – Tel. 081.421349 – 081.5520024 – Fax 081.4202514. Intervista sul Fascismo risponde Pino Rauti [La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati] Sul Fascismo – come espressione “storica” e sulle sue valenze attuali, c’è , com’è noto benissimo, crediamo, ai visitatori di questo sito, una “letteratura” davvero straripante. Utile, dunque, aver ben chiari i punti di riferimento adeguati! Ed è a tale scopo che pubblichiamo una “intervista sul Fascismo” con Pino Rauti, raccolta da Gianna Venturini qualche tempo fa, e pubblicata da “Oggi 7”. L’intervista è intitolata “il forzista e il fascista”. Eccone qui il testo integrale: “Ennesima raffica di polemiche in Italia per le dichiarazioni su Mussolini rilasciate dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi durante un’intervista con una rivista inglese, la stessa che aveva già scatenato un putiferio per le dichiarazioni sui “giudici matti”. Secondo “The Spectator”, Berlusconi, nel rifiutare un paragone tra la dittatura fascista e quella di Saddam Hussein in Iraq, ha dichiarato che “Mussolini non ammazzava nessuno… lui mandava la gente in vacanza al confine”. “Oggi7” ha intervistato Pino Rauti, leader storico dei nostalgici fascisti italiani, che non ha mai accettato le “defascistazione” del MSI in AN (svolta di Fiuggi, gennaio 95). Rauti è il leader del partito scissionista Fiamma Tricolore. A settantasette anni Pino Rauti appare come un gentiluomo dai capelli candidi, folti e con un accenno di onda argentea sulla fronte. Lo incontro nella redazione del suo settimanale “Linea”, dove pubblica anche la rivista “L’Officina”. E’ in un palazzo alle spalle dell’Ambasciata Americana e di fronte al sindacato UIL. Come giudica l’uscita Berlusconi su Mussolini, un tentativo di andare verso una sua “ducizzazione” oppure quello di sfilare la terra sotto i piedi a Fini alle prossime elezioni? “Anche se va detto che la perentorietà berlusconiana va a scapito dell’esattezza storica, indubbiamente la seconda ipotesi, si va alle Europee e senza una lista comune ognuno pensa a se stesso: Forza Italia cerca di demonizzare l’avversario comunista, ma anche a raccogliere voti tra l’elettorato dei suoi stessi alleati. I sondaggi parlano chiaro e Berlusconi, che può farlo tranquillamente perché non ha il passato di Fini che certe cose non può permettersi di dirle, mette le mani avanti con il suo stile, sapendo che rispondendo a quella domanda interpretava il pensiero del settanta per cento degli italiani”. “Dal punto di vista storico, tutto esatto non ci sono stati delitti di regime? Mussolini stesso assunse in parlamento la responsabilità morale del delitto Matteotti. E poi Amendola, Gobbetti, Gramsci e i fratelli Rosselli più tanti poveri cristi meno noti morti di botte squadriste, le condanne a morte del Tribunale speciale, la persecuzione ebraica niente da dichiarare? “Mussolini si assunse la responsabilità morale del delitto Matteotti nel contesto politico del momento, con coraggio, ma io sono stato in cella un anno con Durini (uno dei condannati per l’assassinio, ndr) ed egli mi ha sempre detto che non c’era intenzione di uccidere Giacomo Matteotti, ma rapirlo e malmenarlo per spaventarlo. Semplicemente gli morì tra le mani perché era malato. Durini ha scritto un libro sull’argomento: “I diciassette colpi”. E poi nessuno si degna di raccontare che poco tempo prima il deputato fascista Bon Signori, medaglia d’oro e cieco di guerra, era stato accoltellato e ucciso sul tram mentre si recava alla Camera. I fratelli Rosselli vennero eliminati per un regolamento di conti in Francia dove erano stati uccisi sei fascisti. E in quanto al confino, se bene fossero altri tempi, tutte le isole di confino sono di gran moda turistica, non erano certo la Siberia, perfino il paese dove sono nato Cardinale in Calabria, settecento metri di altezza aria fresca e cibo genuino dovette accogliere qualche antifascista non era certo un inferno, né lo furono Ustica, Ventotene, Lipari etc”. Insomma, lei è d’accordo con la nipote del Duce, Alessandra Mussolini, che ha difeso Berlusconi ?” “Completamente, e ribadisco che il paragone tra Mussolini e Saddam fatto dall’intervistatore era assolutamente fuor di luogo. Ricevo in questi giorni telefonate di persone che mi invitano a dare a Berlusconi la tessera onoraria del Movimento Sociale”. Come ci si sente fascisti nel 2000? “Io mi sento di grande attualità, perché le tesi di fondo dell’ideologia non sono legate agli uomini, alle strutture del tempo fascista. Io penso che uomini e strutture si sono espressi al meglio nelle condizioni date da quell’epoca, ma non necessariamente voglio restaurarli, come non vorrei riportare gli Asburgo sul trono di Vienna, anche se sono ammiratore della forma di civiltà mitteleuropea e sono amico di Otto d’Asburgo. Si crede nella forma di civiltà e nei valori, che si reincarnano nelle varie epoche a diverse condizioni e arricchite delle esperienze personali”. Ecco, andando sul personale, poiché siamo a sessant’anni dall’armistizio dell’8 settembre, dove era e che faceva quel giorno lontano il giovane Pino Rauti? “Giovane davvero, avevo sedici anni e dieci mesi. Mi trovavo a Roma, con degli amici e non sapevamo che fare. Avevamo cercato di metterci in contatto con l’ambasciata tedesca, sapevamo che fuori Roma c’era ancora la famosa divisione corrazzata “M” e volevamo raggiungerla, ma intanto cominciarono i primi scontri – non contro tedeschi e nazifascisti, come ho sentito dire ieri in una ricostruzione – ma tra tedeschi e truppe italiane. I fascisti ancora non si erano organizzati, molti giovani erano allo sbando come noi, ed anzi ci ritirammo con l’angoscioso quesito: se andiamo con i tedeschi, dovremo sparare su soldati italiani? Ci tirammo indietro. Ma intanto tutti cercavano di armarsi. A piazza Argentina, per esempio, ci fu una distribuzione folle di armi di tutti i tipi, da parte di gruppi popolari, forse di sinistra che avevano saccheggiato le caserme. Li vicino vedemmo la sede dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, accanto al Ministero di Giustizia a piazza Cairoli, volumi buttati per aria che poi hanno rifornito biblioteche improvvisate e mercatini. Mentre vagavamo per Roma, vedemmo passare a Corso Vittorio, vicino al Liceo Apollinaire, un paio di motociclette tedesche, noi li salutammo e quelli ci puntarono le armi addosso, allora capimmo che c’era l’occupazione tedesca. Però noi cercavamo gli italiani, perché volevamo combattere contro gli alleati non contro i nostri, e li trovammo a Piazza Colonna; nel palazzo ora sede del quotidiano Il Tempo, dove sostavano davanti due autoblindo con gagliardetto nero, sede provvisoria del Partito Fascista. Chiedemmo loro se c’era qualche reparto in formazione e ci mandarono a Monte Mario dove ci arruolammo, anche se data l’età ci dissero di pensarci bene. Lì c’era proprio il Battaglione “M che era tornato dalla Russia, con il marchese Zuccari al comando. Ci mandarono prima a Orvieto e poi a Como.” In quale atmosfera vi muovevate in quei giorni convulsi e pericolosi? “Ecco, vede, quello che di cui non ho sentito parlare nelle rievocazioni, era del clima, del pathos che vivevamo in quei giorni. Uno stato d’animo di esaltazione. Anche la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso ci parve un romanzo. Eravamo cresciuti in un clima di guerra, non c’è paragone possibile con i giovani dei nostri giorni”. Quanto alla “fuga” di Mussolini, pare che di eroico non ci fosse molto, un passaggio di consegne spettacolare ma indolore, pochi dubbi sul fatto che venne lasciato portare via…. “Oggi appare in una luce certamente diversa. Ci sono stati convegni di storici per capire quale fu il motivo della riconsegna del Duce, appena mascherata da ‘fuga’. Una ipotesi plausibile per la contiguità geografica dello ‘scambio’ è stata avanzata circa in appeasement fatto per favorire . l’altra ‘fuga’ eccellente di quei giorni:quella del Re e dei badogliani che attraversarono lo stesso Abruzzo per recarsi ad Ortona, da cui si imbarcarono per Brindisi, attraversando la regione come se fossero invisibili alle postazioni tedesche armate fino ai denti. E intanto aumentava il nostro disgusto per la vecchia classe monarchica e badogliana, mentre la liberazione di Mussolini assurgeva a leggenda. Eccolo, lo spirito di quei giorni per noi ragazzi colmi del senso dell’onore, della Patria. .A diciassette anni queste cose incantano”. Ma non avevate sentito montare l’ostilità contro Mussolini che ci aveva trascinati in una guerra terribile ed insensata? “I ragazzi credono nell’ambiente in cui vivono. Io ero cresciuto in una famiglia piccolo borghese, abbastanza povera, e apprezzavamo l’impegno sociale del fascismo. Che ce ne fu tanto, mi ha sempre colpito ed interessato, rimasto legato alla lontanissima radice di questo aspetto del fascismo”. Se dovesse descrivere il fascismo in due parole? “Se dovessi riassumere l’essenza del fascismo direi: Terza via. AI di là del liberismo e del comunismo, mostruoso ed asiatico. Se lo sforzo sociale del fascismo sia riuscito bene o no, dipende molto dal fatto che dovettero fare i conti con la realtà, e specialmente con la presenza pesante della chiesa cattolica, e – dopo il 1929 – con la grande crisi mondiale che impoveriva Inghilterra ed America, e causava in Francia scontri sociali. Secondo me il fascismo ci riuscì bene tra il 29 e il 38″. Che altro ricorda di quel periodo dopo l’armistizio? “Un fatto che ci colpì enormemente: notammo che in Italia le caserme erano piene di armi, di tutti i tipi; centinaia di cannoni, centinaia di carri armati, centinaia di migliaia di mitra. Domanda, perché queste armi non erano al fronte, dove mancavano?” Una fronda dei generali? “Ci fu tradimento, ci fu sabotaggio? Certamente sì, anche se non sufficiente, come scritto nel libro “Navi e Poltrone”, da determinare la perdita della guerra, ma ombre pesanti ci sono sulla conduzione del conflitto”. Ma Mussolini che faceva? “Mussolini? Non sappiamo quanto ormai avesse le mani libere. E poi – parrà strano- in quegli anni, specialmente quando si accorse che la guerra era perduta, coltivò segretamente un suo sogno di trasformazione sociale del paese: da fascista a ‘socialista’. Antonio Tabacchi, che fu di Lotta Continua a Latina, e che ora scrive sulla rivista ‘Limes’ in una rubrica chiamata “Socialità del fascismo”, tre mesi fa ha pubblicato una decina di pagine su un fenomeno poco noto: un esperimento voluto da Mussolini in Sicilia: il tentativo di una colossale riforma fondiaria che prevedeva il rimboschimento dell’isola, per riportarla ai suoi splendori naturali, e la fondazione di una quarantina di insediamenti ‘sociali’. Questo suo ostinato progetto si scontrò con gli interessi locali, dei latifondisti, delle famiglie che comandavano e che vedevano di malocchio questo esperimento. Mussolini, mentre tutti pensavano alla guerra, seguitò in queste costruzioni ‘sociali’ alienandosi tutte le simpatie, anche tra i fascisti stessi che non approvavano questo suo lento riapprossimarsi alle origini socialiste. Tra le altre, anche questo suo progetto và annoverato tra le ragioni del voto e della decisione del Gran Consiglio di sfiduciarlo il 25 luglio”. Mussolini che ritorna al socialismo? “Socialista, comunitario. Antonio Tabacchi, giornalista e uomo di sinistra, è convinto che il voto del 25 luglio fu provocato anche dal fatto che Mussolini, vedendo l’andamento disastroso della guerra volesse lasciare dietro di sé un grande progetto rivoluzionario: la socializzazione. Pertanto chiese al Ministro Bigini ed altri di stendere un progetto ministeriale in tale senso. Figuriamoci, si sono tutti spaventati, a cominciare dal Re. Hanno cominciato a chiedersi se Mussolini – gira gira – non volesse ritornare ai suoi ideali giovanili”. Quindi per due anni dal ’43 al ’45 avete combattuto insieme ai tedeschi, e poi cosa le successe? “Venni fatto prigioniero. Finii in un campo di prigionia ad Algieri, allora colonia francese. Cercammo di raggiungere il Marocco spagnolo per arruolarci nel ‘Tercio’, ma i francesi ci ripresero e consegnarono agli inglesi che dopo un mese; a maggio del 1946 ci rimandarono in Italia, dove mi misi subito a ricucire le fila del partito, e da quel momento non ho fatto altro”. Ma torniamo alla Terza via. “E’ quella che era in nuce nel fascismo come l’aveva concepito Mussolini, e che sarebbe stata la sua naturale evoluzione, come dissi in un convegno anni fa a Taormina. Dissi che le forme di cultura politiche più importanti: socialismo, comunismo, liberismo, e lo stesso fascismo erano messi con le spalle al muro da problemi che l’umanità non aveva prima conosciuto: per esempio l’ecologia, il rapporto con l’ambiente, i cambiamenti climatici, l’invecchiamento della popolazione. Quindi quei progetti politici valgono in quanto capaci di rispondere ai problemi nuovi e diventare di nuovo punti di riferimento validi. E mi pareva che la profonda vena populistica del fascismo corrispondesse ad un modo di affrontare questi problemi”. Lei si sente portatore delle istanze nuove, ma è in minoranza, dopo Fiuggi (il congresso svolta di An del ’95, ndr) “Nella scissione del partito ha giocato molto il miraggio della presa del potere; in linea teorica erano ancora convinti della validità del progetto fascista, ma hanno ritenuto che senza una cancellazione formale del vecchio partito non avrebbero potuto accedere a posizioni di governo. Dovevano pagare quel prezzo. Io non mi sono sentito di fare quel passo, la storia dirà. Il successo dell’operazione Alleanza Nazionale è da dimostrare”. La destra Sociale presente in Alleanza Nazionale, quale funzione ha? “Ritengo che tenti di salvare il salvabile, oppure, se vogliamo essere cinici, che sia la foglia di fico che copre le pudenda dell’operazione finiana. Incontro questi deputati alla camera, in una svolta liberal – conservatrice che riguarda tutto il mondo, in cui è forse possibile salvarsi riciclandosi come Centro Studi. Altro non so, ma accontentiamoci in attesa di tempi migliori”. E l’abbraccio mortale con Berlusconi, non danneggia enormemente un futuro di Fini e gli altri? “Certamente, ma pensano di poterlo fronteggiare se fossero tempi brevi il tentativo potrebbe riuscire, ma con tempi più lunghi è destinato a fallire per lealtà debbo dire che neanche il mio tentativo ha avuto successo. Avevamo ambizioni politiche, partecipato alle elezioni, ma in tempi di maggioritario non è facile vita per i piccoli partiti. Resta una affermazione di principio, bella, ma per ora non incide sulla politica corrente”. Se questa politica improvvisata dovesse finire? “Dipende da quanto resisteranno alla corrente maggioritaria. Secondo me, se esplode in Italia una grave crisi sociale, se esplode il dramma dei pensionati e la piccola borghesia monta sulle barricate, questo può ridare le ali alla sinistra, ma anche la destra sociale può fare la sua parte”. Convergenze parallele? “Entro il 2006 molte cose cambieranno, anche i partiti di centro confluiranno per riformare il grande partito, non vorrei che questo fosse un disegno di Berlusconi. Potrebbe star forse covando qualche situazione, ma ne sarà alla fine usato ed escluso”. Ritorniamo a passi felpati a sessant’anni fa, tanto chiasso per nulla? “Qualche avvisaglia c’è, potrebbero essere i ricorsi della Storia”. Fra Croce e il Fascismo ben più di una "simpatia" [La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati] La “questione” – del rapporto, anzi dei rapporti fra Croce e il Fascismo – com’è noto, non solo è assai antica ma è anche molto complicata e complessa. Anche perché bisognerebbe correlarla alle varie fasi della vita del Fascismo, a cominciare da quella dell’anteguerra e poi del tempo del conflitto mondiale. Il 20 novembre dell’anno scorso – in occasione del 50° anniversario della morte di Croce – se ne è discusso di nuovo. E anche in questo mese di aprile, mentre viene ricordato il 60° anniversario dell’assassinio di Giovanni Gentile, di “Croce e Fascismo” si è tornato a discuterne. In materia – anche perché è il più recente e dunque il più aggiornato – resta a nostro avviso fondamentale, il volume di Giuseppe Tedeschi: “La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico italiano nel Novecento” (Laterza – pagine 450 – Euro 25,00). Badeschi – e qui ci rifacciamo a quanto venne pubblicato alla Vigilia dell’uscita del libro sul “Sole 24Ore” – sostiene che il percorso intercorso tra Croce e il Fascismo “ebbe come conseguenza l’elaborazione di una originale versione del liberalismo politico. Se in Italia non si è comunque affermata una autentica cultura liberale, sostiene Bedeschi, è perché la produzione delle ideologie di opposti orientamenti, cattolica e marxista, ha impedito un discorso sulla realtà sociale autenticamente scientifico e lo sviluppo di analisi sobrie e realistiche dei grandi problemi sociali”. Tedeschi stesso, poi, mentre usciva il suo libro, scriveva: “L’atteggiamento di Croce verso la nascita e 1’avvento del fascismo al potere fu non solo di benevola attesa, ma anche di calda simpatia. Come molti altri esponenti liberali della sua generazione, Croce vide nel fascismo lo strumento necessario, ma temporaneo, per porre termine alle violenze e alle minacce di rivoluzione dei socialisti massimalisti e dei comunisti, che avevano portato il Paese a una situazione di paralisi e di caos. L’Italia, secondo il filosofo napoletano, soffriva di una grave malattia, e le occorreva quindi una medicina energica per guarirne; una volta guarita, non ci sarebbe stato più bisogno della medicina”. D’altronde – argomenta ancora Tedeschi – “Croce non fu certamente l’unico a ritenere che il fascismo, sorto in circostanze eccezionali, sarebbe poi rientrato nella normalità e si sarebbe “costituzionalizzato”, una volta superate quelle circostanze. C’era, in questo giudizio, una evidente sottovalutazione degli effetti della Grande guerra sulla vita sociale e politica italiana, sull’animo di centinaia di migliaia di combattenti ritornati dalle trincee, così come c’era una sostanziale incomprensione della natura più profonda del fascismo, in quanto movimento rivoluzionario di massa, radicato nella piccola borghesia, mirante a sostituire la vecchia classe dirigente. Ma ripeto, Croce non fu certo il solo a sottovalutare o a misconoscere questi problemi. E, una volta resosi conto della natura totalitaria del fascismo, egli passò all’opposizione. Una opposizione la sua, di carattere essenzialmente ideale e culturale, non immediatamente politico (che, peraltro, non gli sarebbe stata permessa), conformemente alle sue inclinazioni e ai suoi interessi, ma proprio per ciò tanto più significativa, incisiva ed efficace. Ma quello che soprattutto mancò al Croce – a nostro avviso – fu la percezione della “carica rivoluzionaria” del Fascismo nel contesto storico (e di storica importanza di una crisi di fondo del sistema partitico – parlamentare, che era frutto non soltanto delle “ricadute”della guerra e non solo delle conseguenze – negli Anni ‘30 – della Grande Crisi del capitalismo, iniziata negli Stati Uniti nel 1929 ma della necessità di non lasciare al comunismo sovietico l’alternativa al liberalcapitalismo. Al di là di quella crisi – ecco il punto di fondo, secondo noi – mentre il comunismo (e il marxismo, come filosofia di supporto al “socialismo realizzato in un solo Paese”) prospettava la sua alternativa radicale, la famosa “seconda via”, il Fascismo portava avanti la sua “terza via”, non meno radicale ed anzi rivoluzionaria, avendo a supporto quella che Croce ignorò del tutto, culturalmente parlando, e cioè una vera e propria “concezione dell’uomo e della vita”, e della società e della economia. Pino Rauti Su "Renato Ricci fascista integrale" [La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati] E’ davvero praticamente impossibile seguire tutto quello che in Italia si pubblica sul Fascismo, sul Ventennio e sulla RSI; e soprattutto sui “personaggi” del Fascismo che vengono adesso come riscoperti, rivisti e “rivisitati”; segno non indubbio, aggiungiamo noi, che essi avevano quasi tutto uno <<spessore>> e delle capacità che l’antifascismo rozzo e becero – soprattutto quello che ha imperversato da Sinistra per decenni! – aveva tentato di negare. Anche su questo versante, è il caso di dire che il tempo è galantuomo e sta lavorando “per noi”; per chi è stato – da sempre – convinto proprio di quello che adesso si sta scoprendo o riscoprendo. Superate le urgenze….elettorali, ci proponiamo però di far conoscere meglio a chi ci segue anche con motivazioni culturali ed è ansioso di approfondimenti storiografici di buon livello, tutto quanto si pubblica sul Fascismo. E in quest’ottica ci sembra utile riproporre per intero la recensione di Marco Innocenti – comparsa su “Il Sole-24 Ore” – di un recente libro su Renato Ricci, il padre-fondatore dei Balilla. Non siamo d’accordo con tutto quello che scrive in merito Innocenti ma l’articolo-recensione è comunque del massimo interesse. (P.R.) “Renato Ricci è un fascista tipico.Tipico perché piccolo-borghese e la piccola borghesia, con le sue rivalse, le sue ragioni e le sue passioni, la sua voglia d’ordine, di patria e di religione, rappresenta il nucleo del fascismo. Il giovane Ricci, nato a Carrara nel 1896, si arruola volontario nel 1915 e riconquista sul campo due medaglie di bronzo. A guerra archiviata, esplode nel Paese la frustrazione della “vittoria mutilata”. Ricci la avverte profondamente e reagisce: non sa stare alla finestra e ama menare le mani. Partecipa agli scontri del dopoguerra, in una terra sanguigna, dove gli odi sono tenaci e le battaglie senza esclusione di colpi. Entra nel partito, comincia a fare strada, da ras locale diventa gerarca nazionale, entra in Parlamento, sale ai massimi vertici del potere. Nel 1926 Mussolini lo mette a capo dell’Opera nazionale balilla (Onb), la “pupilla del regime”. Si impegna sul terreno della disciplina e dell’ educazione fisica, per organizzare il tempo libero dei giovani e costruire l’uomo nuovo fascista, duro e volitivo, pronto a seguire la vocazione della guerra. Inutile dire che sono e resteranno parole. Ma non lo sono le cose migliori dell’Onb, lontane dalla retorica, come le sue realizzazioni sociali: i controlli medici, le vaccinazioni l’attenzione dedicata alla salute e alla crescita dei ragazzi. Ricci, che ama i giovani e lo sport, si trova a suo agio. Asciutto, aitante, energico, buon ginnasta, il labbro inferiore e la fronte sporgenti come in posizione di slancio, è il papà nazionale, un uomo severo, non corrotto, autoritario ma capace di comprendere le esigenze dei giovani. Per dieci anni fa un buon lavoro ma entra in collisione con Starace, potente e caricaturale segretario del partito, e, nel 1937, il Duce lo liquida. Per Ricci, che tanto ha dato, è un colpo doloroso e il rilancio, nel 1939, con la nomina a ministro delle Corporazioni lo sarà solo a metà. Con l’entrata in guerra dell’Italia cambiano tante cose ma si conferma una realtà inequivocabile: il fallimento della grande riforma umana voluta da Mussolini e portata avanti da Ricci. Fascista integrale, uomo tutto d’un pezzo che si considera soprattutto un soldato, Ricci, dopo il crollo del fascismo, aderisce alla Repubblica sociale. Rifiutandosi di rassegnarsi al tramonto del proprio mondo, va fino in fondo, comanda la Guardia nazionale repubblicana e combatte senza fortuna, nel clima fosco e torbido di Salò, una guerra perduta. Sono gli ultimi scampoli della sua avventura. Arrestato nel 1945, sfugge alla condanna a morte, fa alcuni anni di carcere e passa l’ultima breve stagione di vita da uomo povero e pio, per poi soccombere a un tumore a 60 anni, nel 1956, quando i suoi balilla stanno per vivere il boom economico dell’Italia «democratica e antifascista». A Renato Ricci, fedelissimo a Mussolini («come quei preti che quando parlano della Madonna si illuminano»), Giuseppe Zanzanaini, storico e scrittore carrarese, dedica un’articolata biografia. Ne esce la figura di un fascista integrale che va dove lo porta il cuore, un irriducibile, un bel pretoriano, un mastino: l’uomo che inventa i balilla e vive nell’ombra di Mussolini la propria stagione, dallo squadrismo “romantico” di Carrara alle cupe atmosfere di Salò”. (Giuseppe Zanzanaini, «Renato Ricci, fascista integrale», Mursia, Milano 2004, pagg. 168, € 14,00). "Villa Mussolini" [La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati] Tra gli interventi di rilievo compiuti dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini figura l’acquisizione, nel 1997, di un Immobile di valore storico, a Riccione. Si tratta di Villa Mussolini, alle cui vicende è legata una parte Importante della storia turistica della riviera tra le due guerre mondiali. Narrano le cronache che Benito Mussolini cominciò a frequentare la riviera romagnola negli Anni Venti, lanciando una moda che avrebbe in breve tempo fatto accorrere in riva all’Adriatico tutta l’ampia corte degli esponenti del regime fascista, con famiglie, amici, personaggi famosi del tempo e servitù al seguito. Fino al 1925 il Duce scende a Cattolica, poi dal 1926 si sposta a Riccione, dove affitta Villa Terzi nella zona sud. Dal 1927 al 1931 tutta la famiglia Mussolini prende alloggio al Grand Hotel Lido. E’ solo nei primi Anni Trenta che la consorte, donna Rachele, decide di acquistare una villa per le vacanze. Dopo alcune ricerche, punta decisamente su di una residenza situata tra Viale Milano, i giardini centrali e l’attuale Lungomare della Libertà. E’ una costruzione di inizio ‘900, di una ventina di vani, che la signora Galli Bernabei aveva acquistato dal Conte Angeletti di Bologna e che si dice disposta a vendere ai Mussolini. L’operazione è gestita direttamente da donna Rachele. Sul come, i racconti divergono tra loro. Qualcuno sostiene che donna Rachele, all’insaputa del Duce, pagò la Villa con parte di un assegno che Mussolini ricevette per alcuni articoli scritti sulla rivista americana “Fortune'”, versando il rimanente della somma all’Opera Nazionale Balilla; per altri, invece, il denaro fu reperito dai proventi di una sottoscrizione dei fasci romagnoli promossa dal Podestà di Riccione, Frangiotto Pullè. Costui, peraltro, fu l’artefice dell’acquisto, concluso il 21 luglio 1934 per la somma di 170.000 lire. Da quel momento, la Villa diviene teatro delle vacanze balneari dei Mussolini, ospitando personaggi illustri, uomini politici stranieri, diplomatici, grandi feste e spettacoli, così come incontri importanti e riservati. Riccione, e con lei la riviera romagnola, emergono al centro dell’attenzione: anche perché intanto a Rimini scende Claretta Petacci, a Cesenatico il fratello Arnaldo, a Cattolica Italo Balbo. Le estati continuano cosi fino al 1940, quando la famiglia Mussolini decide di acquisire, attraverso il Comune di Riccione, alcune aree confinanti per ampliare la proprietà (portandola a circa 6.000 mq.) e costruirvi sopra la palazzina per le famiglie dei figli Bruno e Vittorio. Alcuni villini vengono abbattuti e l’intera zona muta la sua fisionomia. Nel contempo alla Villa viene aggiunto un piano e al piano terra viene ricavata una veranda, mentre in giardino trovano spazio un campo da tennis, l’orto e un ricovero per gli attrezzi. Il tutto – con ampio uso di “populit”, U materiale autarchico dell’ing. Dario Pater – per una spesa di oltre 6 milioni di lire a carico del Ministero degli Interni. Si dice che nel 1940 la Villa ospitasse anche una sala di proiezione dove si potevano privatamente vedere anche film vietati dal regime. Dopo la guerra, alcuni dei proprietari che avevano venduto alla famiglia Mussolini aree vicine alla Villa riuscirono a tornare in possesso dei loro terreni. La stessa signora Galli Bernabei, eletta sindaco del Comune di Riccione, tentò di ritornare in possesso della Villa, ma donna Rachele riuscì a dimostrare di averla pagata regolarmente. A questo punto su Villa Mussolini si spengono i riflettori. Quelli successivi sono anni di abbandono. Solo nel 1983 il Comune di Riccione decide di intervenire, acquistando il giardino della Villa per trasformarlo in verde pubblico. Ma non basta per fermare il degrado. Si arriva cosi agli anni ’90 con l’interessamento dell’Associazione “Amici di Riccione” e l’accordo (1997) che vede l’acquisizione di Villa Mussolini da parte della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini e la sua cessione in comodato gratuito al Comune di Riccione che si assume il compito di curarne il restauro. A lavori terminati (le previsioni parlano di 2005), la Villa diventerà sede – secondo il progetto che sarà concordato tra Fondazione e Comune – di attività culturali legate alla storia, alla ricerca e alla documentazione sull’attività turistica della riviera. E su Villa Mussolini torneranno ad accendersi i riflettori. Ma quanto è "grande" il Foro Mussolini! [La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati] Tutti i quotidiani, anche quelli di Sinistra, hanno pubblicato, con foto, articoli e servizi sul ritrovamento di un grande e bellissimo mosaico nella Palestra del Foro Mussolini, detta Luigi Moretti perché fu da quel famoso architetto edificata nel 1936 – 1937. La Palestra ebbe come “committente”, Benito Mussolini e allora, venne infatti, chiamata “Palestra del Duce”. Situata al I ° piano dell’edificio di Costantino Costantini – che ospitava le Terme – era posta in posizione simmetrica rispetto all’Accademia di Educazione Fisica. La descriviamo, per nostra – e soprattutto altrui – cultura e documentazione. L’ingresso e un piccolo vestibolo – con un mosaico pavimentale a tessere di marmo bianco, nero e rosso su disegno di Gino Severini – immettono nella zona principale destinata alla ginnastica del Duce. In un angolo di questo ambiente venne ricavato un piccolo spazio per il riposo e il ristoro, separato per mezzo di una composizione di lastre di marmo intarsiate nel linoleum e arredato con poltrone, una ghiacciaia, un porta-frutta e una pianta in vaso. Un grande schermo rivestito di marmo divideva l’ambiente principale dalla fascia dei servizi distribuiti su due livelli: al primo livello trovavano posto gli spogliatoi, il bagno e la doccia, mentre al livello superiore, servito da una scala elicoidale, era alloggiato uno spazio per la cura del sole artificiale. L’arredamento – estremamente semplice – non fu disegnato espressamente. Uno dei lati lunghi presentava una serie di finestre, chiuse da una grande tenda in crespone di tinta ocra forte, che filtrava la luce naturale in modo da illuminare l’ambiente con una luce costante al variare del giorno e della sera. Grande importanza venne invece dedicata all’apparato decorativo: rivestimento marmoreo disposto con le venature a specchio a quadruplice apertura, statue in bronzo dorato di Silvio Canevari, mosaici a tessere di marmo nero e bianco con figure su cartone di Gino Severini. Ubicazione degli archivi cartacei o fotografici: Archivio Centrale dello Stato di Roma, Fondo Luigi Moretti; Archivio Plinio Marconi, Roma. Bibliografia essenziale: F Bucci, M. Mulazzani, Luigi Moretti. Opere e scritti, Milano, Electa, 2000; G. Strappa, G. Mercurio, Architettura moderna a Roma e nel Lazio, 1920-1945. Atlante, Roma, Edilstampa, 1996, p. 184. L. Finelli, Luigi Moretti: la promessa e il debito. Architetture 1926 – 1973, Roma, Officina edizioni, 1989, pp. 36-38; C.Severati (a cura di), L’architettura di Luigi Moretti, in “Parametro”, n. 154, 1987; S.Santuccio (a cura di), Luigi Moretti, Bologna, Zanichelli, 1986, pp. 4243; R. Bonelli, Moretti, Roma, Editalia, 1975; s.a., Palestra del duce alle Terme del Foro Mussolini, in “Architettura”, dicembre 1940, pp. 583-593. Qualche cenno sul Foro Mussolini, il cui “padre” fu, Renato Ricci, sottosegretario all’Educazione nazionale e fondatore dell’Opera Nazionale Balilla (O.N.B.) Nella fase di progettazione furono scartate tre posizioni logistiche potenzialmente disponibili: quella dell’attuale città Universitaria, la zona di Casal Palocco e l’area in cui fu costruito negli anni ’60 il Villaggio Olimpico. La scelta definitiva si concentrò su un’area soggetta alle piene del Tevere, che da pantano fu presto bonificata e resa adatta ad accogliere il progetto. Ricci stesso, attraverso la Sopraintendenza alle Belle Arti,fece poi apporre il vincolo di non edificabilità a tutte le circostanti colline di Monte Mario, promovendo la nascita di quella che ancora oggi rappresenta una cornice verde per il Foro e un’area altrettanto verde per tutta la città di Roma. Gli architetti Costantini e Pintonello (allora ventiquattrenni! furono chiamati per la progettazione e costruzione delle Terme e delle Piscine (delle quali una pensile) e dell’Obelisco. Il progetto del Piazzale dell’Impero fu affidato all’architetto Moretti; la Fontana della Sfera, agli architetti Pediconi e Paniconi. Fra il Lungotevere, Piazza Lauro de Bosis, lo Stadio Olimpico, Viale delle Olimpiadi, Viale dei Gladiatori, Ponte Duca d’Aosta e la Farnesina, sorgono l’Obelisco, il Palazzo del Coni, l’Isef (ora Iusm), lo Stadio del Nuoto, i Mosaici, la Fontana della Sfera, lo Stadio della Pallacorda, lo Stadio dei Marmi. Dal Lungotevere, quartiere Flaminio, se l’ingresso è il Ponte Duca D’Aosta (lungo 220 mt. E largo 30, progetto di V. Fasolo, inaugurato nel 1942, intitolato al Duca Emanuele Filiberto di Savoia – Aosta, eroe della prima guerra mondiale), il primo incontro è con l’Obelisco di Mussolini (opera ideata da Costantini, innalzato nel 1932, costituito da un monolitico in marmo di Carrara rappresentante un fascio littorio, alto 17,5 metri per 350 tonnellate di peso, che raggiunge con il basamento e con la cuspide dorata la dimensione complessiva di m 36,59). Da qui, la visuale presenta a destra il Palazzo del Coni, al Centro il complesso dell’Isef, a sinistra il Palazzo e lo Stadio del nuoto. Proseguendo in avanti, si percorre il Viale dei Mosaici pavimentali. All’interno del Foro, al centro, la Fontana della Sfera, a sinistra lo Stadio della Pallacorda e a destra lo Stadio dei Marmi. Il Foro Italico è naturalmente ancora oggi nel cuore di Roma. Ed ancora oggi, citato nelle guide per turisti e nei libri di storia dell’arte all’estero, ma è pressoché assente dai testi scolastici e storiografici italiani. Le opere d’arte che lo costituiscono sono le stesse dove tutto l’anno è possibile scrivere con vernice spray (i marmi) ed esercitarsi con pattini e skateboard (i mosaici pavimentali). Umberto Giusti "Gentile, un'eredità da rilanciare" di Marcello Veneziani [La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati] (da “Il Messaggero” – 4 marzo 2004) “Sessant’anni fa fu ucciso il maggiore filosofo italiano del Novecento, Giovanni Gentile. A differenza del suo fraterno nemico, Benedetto Croce, Gentile fu dannato nella memoria accademica e civile perché fu fascista e da fascista fu ministro della Pubblica istruzione, ispiratore della dottrina fascista, impresario di cultura. Ma di lui non si ricorda un solo atto di intolleranza: mai condivise la persecuzione degli antifascisti, che anzi protesse e portò a collaborare all’Enciclopedia e alla pubblica istruzione, criticò le leggi razziali e fu detestato dai razzisti, non amò l’alleanza con Hitler. E produsse una grande riforma della scuola, promosse la più grande impresa culturale del nostro Novecento, l’Enciclopedia italiana, guidò le massime istituzioni culturali italiane e scrisse opere destinate a restare nei classici del pensiero. Fu ucciso perché non volle cambiare idea né tirarsi indietro di fronte alle responsabilità, al punto da accettare dopo anni di emarginazione dal regime, di assumere la guida dell’Accademia d’Italia al tempo della Repubblica sociale, in piena guerra civile. Pochi mesi prima aveva scritto: “Il coraggio civile è la ferma fedeltà alla propria coscienza nel parlare e nell’agire secondo i suoi dettami, assumendosene di fronte agli altri tutta la verità”. Infine rivolse, pochi mesi prima di morire, dal Campidoglio, un discorso a tutti gli italiani con un appello accorato alla concordia e al superamento delle fazioni che suscitò l’ammirazione di molti italiani ma anche le ire di fascisti e antifascisti intransigenti. Gentile pensò il fascismo come il braccio secolare dell’Italia; il fascismo passa, l’Italia resta. Ma noi non abbiamo ancora fatto i conti con Gentile e viviamo sulle tracce di quel parricidio rituale che fu consumato non solo nel rito di sangue del 15 aprile di 60 anni fa, ma ancor più negli esorcismi e amnesie degli anni seguenti. Rimozione totale di quel che Gentile ha fatto e scritto pur avendo lasciato una traccia profonda nella cultura italiana. Le più significative culture postfasciste trassero le loro origini da Gentile: l’italo-marxismo, a cominciare da Gramsci, Togliatti, il gruppo di Ordine nuovo e mediante Ugo Spirito larga parte dell’ intellettualità italiana; il pensiero liberalsocialista e azionista, a cominciare da Gobetti per arrivare a Calogero, maestro del presidente Ciampi, e di Capitini; molti filosofi cattolici, da Guzzo a Sciacca a Carlini. E per vie diverse Del Noce, Severino, Antimo Negri, Andrea Emo, e altri ancora. L’unico libro su Marx di un italiano citato positivamente da Lenin fu “La filosofia di Marx” scritta dal ventiquattrenne Gentile; ma quando il saggio di Lenin su Marx fu tradotto in Italia dalle edizioni di Rinascita del 1950, fu cancellato il riferimento a Gentile dal suo curatore italiano. Che era Palmiro Togliatti . in persona.. .Ma Gentile non fu cancellato solo da Togliatti: la repubblica italiana ha evitato di dedicargli strade, epigrafi, luoghi e memorie. Di Gramsci, che pure teorizzava come Gentile un regime totalitario, resta ampia e meritoria traccia nella memoria collettiva, nella toponomastica, ovunque. E di Croce non di meno. Di Gentile poco o nulla. Ora che il fascismo è davvero una cicatrice e nessuna forza politica se ne dichiara discendente, ora che il tempo – grande scultore- è passato, è giunta l’ora di restituire Gentile all’Italia e al mondo. Dico non solo come filosofo, di cui è irrimediabile l’inattualità, il che .non sempre è un demerito, soprattutto se si ha il respiro dei classici. Ma come grande propulsore di cultura italiana. Vera. Non di parte. Perché Gentile fu filosofo della nazione. Mi dicono che c’è una via secondaria a lui dedicata. Ma sarebbe ora che si desse in qualche modo un segnale di apertura alla tradizione italiana, di pietas per gli errori commessi e insieme di ammirazione per un pensiero e un’opera che hanno lasciato un’impronta gigantesca sul nostro paese. La memoria non può ricordare solo gli orrori del passato; e si devono ricordare anche gli uomini migliori che vissero nei tempi peggiori. Non invoco lottizzazioni stradali della memoria, anche se non mi scandalizza che via Gramsci parta da una piazza Gentile (sarebbe perfino coerente). E non alimento revanscismi, o riprese d’odio per quell’assassinio, tanto è vero che rivolgo l’appello in primis al sindaco di Roma, Veltroni: in vista di quell’anniversario del 15 aprile si faccia promotore di un pensiero gentile”. Fascismo: intellettuali tra Partito e Regime [La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati] Gisella Longo: “L’Istituto nazionale fascista di cultura” – Antonio Pellicani Editore – Via Piediluro, 1/a – 00199 – Roma – Tel. 06 8845595 fax 06 8559626 – 318 pagine – Presentazione di Francesco Perfetti. L’autrice: Gisella Longo si è laureata in Scienze politiche con Rnzo De Feice. Si è occupata di storia e politica culturale durante il fascismo e della figura di Camillo Pellizzi. Svolge attività di ricerca presso la Fondazione Ugo Spirito; ha collaborato alla rivista «Storia contemporanea» e attualmente collabora a «Nuova storia contemporanea». Dalla presentazione: La vecchia interpretazione che vedeva quasi contrapposti – su piani etici e politici totalmente differenti – fascismo e cultura non ha più motivo di essere evocata, se non come ricordo di antiche pregiudiziali, tanti sono stati, negli ultimi due decenni, gli studi sul controverso rapporto fra questi due termini. Il fatto è che quelle pregiudiziali scaturivano in primo luogo da ragioni etico – politiche: ammettere un qualsiasi punto di contatto fra cultura e fascismo significava, da un lato, aprire un discorso pericoloso sulla cultura nel ventennio fascista e, dall’ altro, conferire al fascismo una sorta di permesso di ingresso (anche soltanto dalla porta di servizio) nel “salotto buono” della società italiana; in secondo luogo, analizzando meglio la questione, quelle stesse pregiudiziali prendevano le mosse da una persuasione della quale, in questi ultimi anni, è stata fatta almeno parzialmente giustizia. Essa si basava sostanzialmente sulla convinzione che il termine “cultura” avesse un solo significato, accademico e umanistico, ‘e che il termine “fascismo” stesse ad indicare un fenomeno monolitico, senza sfumature e peculiarità interne. In realtà, nel concetto di cultura, anche grazie agli apporti della sociologia e dell’antropologia, oggi con facilità si comprendono le manifestazioni, più varie, da quelle artistiche a quelle comportamentali a quelle tecniche; inoltre, George L. Mosse, a proposito del rapporto fra cultura e storiografia, ne “La nazionalizzazione delle masse” ha illustrato bene come si possano cogliere gli elementi culturali di un movimento o di un regime attraverso aspetti che ben poco hanno a che vedere con l’accademia, la cultura libresca o la vecchia mentalità umanistica. Il fascismo, in particolare, soprattutto nella sua fase iniziale, attraverso l’influsso futuri sta e della grande guerra, propose la macchina e la velocità come modelli in grado di superare il classicismo mutando profondamente i valori di riferimento. Ancora, proprio il fascismo, regime quant’altri mai di giornalisti, ha dimostrato come la società di massa dopo la prima guerra mondiale avesse dato valore al giornalismo, all’informazione quotidiana, essenziale e rapida, alla divulgazione, alla propaganda, avvicinando assai più che non nel passato nuovi soggetti alla lettura, se non alla riflessione, contribuendo contemporaneamente alla mobilitazione e alla politicizzazione di una società che, per la prima volta nei suoi strati meno colti, si avvicinava alla stampa. Si trattava di un nuovo versante culturale sul quale, durante e dopo il fascismo, sempre più si misurerà la capacità della società di coinvolgere, di “socializzare” in una cultura più immediata ma non per questo meno significativa segmenti sempre più cospicui di popolazione. Sull’altro versante, quello della interpretazione del fascismo, è quasi superfluo ricordare come la lezione defeliciana abbia contribuito a far cogliere, all’interno del fenomeno fascista, quell’insieme di correnti, di “anime”, di suggestioni, di prospettive – non sempre organiche e coerenti – che ha cancellato la comoda immagine monolitica e statica di un movimento facilmente definibile e quindi soggetto ad una aprioristica condanna morale prima che storica. Il quadro appare così oggi meno immobile, più vario nelle opzioni interpretative e, perciò stesso, più complesso”. G. L. Mosse, ” La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania dalle guerre napoleoniche al Terzo Reich”, Bologna, Il Mulino, 1974; si vedano i capitoli II – V. Il libro di Gisella Longo esce nella collana “Fascismo/fascismi”; una collana che si articola in tre sezioni: – Studi, dedicata alle interpretazioni del fascismo; – Ricerche, dedicata alle diverse manifestazioni storiche e nazionali del fenomeno fascista; – Materiali, nella quale vengono proposti testi d’epoca, documenti, memorie e studi su aspetti particolari del fascismo (in particolare di quello italiano). VOLUMI GIÀ PUBBLICATI: l) A. James Gregor, Il fascismo. Interpretazioni e giudizi. Introduzione di Alessandro Campi. Traduzione di Paolo Serra, Fabio Brunelli e Ambrogio Santambrogio; 2) Maurice Manning, The Blueshirts. Un fascismo irlandese? Presentazione di Marco Tarchi. A cura di Calogero Lo Re. Traduzione di Cristina Guenzi; 3) Roger Eatwell, Fascismo. Verso un modello generale. Presentazione di Alessandro Campi. Traduzione di Alessandro Campi e Ambrogio Marini; 4) Ludovico Incisa di Camerana, Fascismo, populismo, modemizzazione. Presentazione di Alessandro Campi; 5) Gisella Longo, L’Istituto nazionale fascista di cultura. Da Giovanni Gentile a Camillo Pelizzi (1925-1943). Gli intellettuali tra Partito e Regime. Presentazione di Francesco Perfetti. IN CORSO DI PUBBLICAZIONE: 6) Antonio Costa Pinto, Fascismo e nazional-sindacalismo in Portogallo: 1914 – 1945. A cura di Brunello De Cusatis; 7) Jules Monnerot, Sociologia dei fascismi. A cura di Alessandro Michelucci. Introduzione di Alessandro Campi. IN PREPARAZIONE: 8) Ramiro Ledesma Ramos, Fascismo in Spagna? Introduzione di Pedro Carlos Gonzalez Cuevas. Traduzione di Gianni Ferracuti; 9) Maria Hsia-Chang, Fascismo e sviluppo nazionale. Il fascismo in Cina. Traduzione di Ambrogio Marini; 10) Arnaud Imatz, José Antonio e la Falange spagnola. A cura di Gianni Ferracuti; 11) Hélgio Trindade, L’ Integralismo. La tentazione fascista nel Brasile degli anni Trenta. Introduzione di Juan J. Linz. A cura di Brunello De Cusatis; 12) Eugen Weber, Scritti sul fascismo. A cura di Luigi Chiocchini; 13) Hélgio Trindade (a cura di), Il «fascismo latino». Europa e America Latina: una prospettiva comparata. Saggi di Jean-Paul Brunet, Ricardo Chueca, Renzo De Felice, Manuel de Lucena, Emilio Gentile, Juan Linz, Manuel Ramirez, Alain – Gerard Slama, Hélgio Trindade; 14) Roger Griffin, La nazione fenice. Saggi sulla dinamica ideologica del fascismo, a cura di Angelo Mellone. Presentazione di Alessandro Campi. (P.R.) Combattenti RSI: si va verso il Congresso [La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati] A seguito della morte del Presidente nazionale Mario Sannucci – eroico reduce plurimutilato e decorato, della “X Mas” – il vice-presidente anziano della Unione Combattenti della RSI, Ajmone Finestra, ha assunto la reggenza dell’Unione; e ha indetto il Congresso nazionale della “UNCRSI”, con la conclusione delle operazioni pre-congressuali entro il 30 settembre prossimo. Acquisite le designazioni delle delegazioni provinciali – prosegue un recente comunicato di Finestra – la Direzione provinciale fisserà la data e il luogo di celebrazione del Congresso nazionale”. Questo è quanto viene reso noto dal numero ultimo di “Continuità Ideale”, bimestrale della Unione, di cui è direttore Emilio Cavaterra. Ma, oltra la notizia del prossimo Congresso, il giornale di Cavaterra è “folto” – nelle sue 8 pagine ricche di foto a colori – di articoli quanto mai interessanti e meritevoli – tutti – di essere ripresi e conservati anche in termini di documentazione storica. Nell’Editoriale Finestra affronta il tema della “Verità Storica”, a proposito dell’aspra polemica che si è scatenata sulla proposta di legge 2244, relativa al riconoscimento dello status di belligeranti combattenti a quanti hanno aderito, combattendo, alle Forze Armate della RSI. Finestra risponde duramente ai vari Bocca Viola e Pavone citando quanto accadde: ■ ■ ■ nella battaglia di Gravellona Toce (12 e 13 settimane), dove i comunisti della Divisione “Garibaldi” vennero volti in fuga dal btg. “Venezia Giulia”; l’offensiva delle truppe RSI contro la cosiddetta “Repubblica partigiana dell’Ossola”, i cui gruppi furono costretti a sconfinare in Svizzera; gli ultimi scontri del battaglione “Venezia Giulia” che nell’aprile ’45 si stava ritirando dal Cusio – Verbano – Ossola. Dopo sanguinosi scontri, Anche all’arma bianca, (battaglia di Arona) i garibaldini ebbero la peggio. Numerosi furono i prigionieri e i feriti catturati in combattimento. I partigiani non subirono alcuna persecuzione. La colonna italo tedesca in ritirata, stabilita una tregua con le forze partigiane, entrò nella città di Novara concentrandosi nella caserma “Cavalli” in attesa delle truppe americane. I prigionieri partigiani, oltre 100, furono consegnati al C.L.N: che in cambio fece ricoverare i feriti della colonna nell’ospedale della città. II “Venezia Giulia” depose le armi il 2 maggio del 1945 con l’onore delle armi. Negli episodi citati tutte le leggi internazionali di guerra furono rispettate dalle parti contrapposte. Nel mese di marzo del 1945 si sottrasse a tale leale comportamento il Tribunale partigiano garibaldino con sede nel paese di Boleto, sulle rive del lago di Orta condannando a morte 42 prigionieri, tutti giovanissimi, catturati in combattimento nel paese di Quarna. Quell’esecuzione, ispirata dalla vendetta e dall’odio ideologico, fu illegittima e contro tutte le leggi di guerra. Bellissimo l’articolo che Emilio Cavaterra dedica alla “crisi dell’antifascismo”, come gli stessi antifascisti ammettono. Dopo aver ricordato, con dovizia di riferimenti, quello che rappresentò la ricerca di De Felice, apri pista di una serie di studiosi e scrittori tipo Rosario Ronco, Francesco Perfetti e Nicola Matteucci. (“tanto per citarne alcuni”). Cavaterra così continua: “Il primo grido d’allarme è stato lanciato dall’intellettuale Marxista Sergio Luzzatto, che ha denunciato in un libro la crisi galoppante dell’antifascismo, consentendo agli storici fino allora intimiditi, certo sulle prime silenziosi, di ristabilire la verità … Quella tale valanga è ora diventata un autentico monolite, tanto da indurre oggi certi storici più marxisti di Marx a lanciare ululati d’allarme per risvegliare dal sonno di Aligi i loro compagni di letteraria e storica cordata. Non staremo qui ad approfondire le tappe di questo sinitro allarmismo; tentiamo, semmai, di trarre una prima sintesi da quel che stiamo scrivendo. E questa direttamente ci riguarda e ci coinvolge: abbiamo pazientato per sessanta e passa anni, mantenendo i nostri ideali con relativi principi, adesso, possiamo dire con franca soddisfazione che quei sacrifici non sono stati vani, anzi, ci hanno rafforzato lo spirito inducendoci a sviluppare questo momento epocale per ribadire le nostre posizioni onde portare nella ricostruzione in atto della verità storica, la nostra antica e sempre valida “pietra al cantiere”…”. Ma c’è tanto, ancora, da segnalare; e tanti articoli meriterebbero di essere ripresi per intero e “fatti circolare” nell’ambiente più vasto, specie fra i giovani. Andiamo per rapide segnalazioni: ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ ■ articolo di Gaetano Del Faro sui “Nuotatori paracadutisti” della “X Mas”, uno dei reparti più in gamba della RSI; un “battaglione fedele al di là dell’ostacolo”; “Dove soffia il vento della storia” – articolo di Lelio Funghi, sul volontarismo nazionale dopo l’8 Settembre 1943; un’ampia rievocazione di Ajmone Finestra – che occupa le due pagine centrali sulla figura e l’opera del Maresciallo Rodolfo Graziani, l’unico generale europeo cui i tedeschi fecero condannare, sul fronte ligure, dal 2 agosto 1944, anche consistenti reparti tedeschi; le gesta dei marinai della RSI (e “La marineria nemica volle rispettarli”!), di Natale Di Carini; articolo di Fulvio Candia (“Avremo una legione straniera albanese?”) sugli aspetti negativi della fine della leva obbligatoria; di Gaetano del Faro – con foto bellissime – una vicenda poco conosciuta dell’aprile del 1945, quando “Buttazzoni negò la resa ai partigiani”; un ricordo di Longhini, il pilota RSI che nel novembre del 1944 affrontò il suo ultimo combattimento nel cielo di Treviso; e cadde dopo aver abbattuto una “fortezza volante”. Longhini era stato un campione di sci, aveva partecipato come tale ai Campionati del mondo; guidando aerei aveva compiuto 300 azioni di guerra e abbattuto 40 aerei nemici, di cui 21 individualmente; Vito Bianchini, rievoca l’eroismo della Decima a Tarnova. “Continuità Ideale” – Organo ufficiale dell’Unione nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana – Dir.re: Emilio Cavaterra; via Eleonora Duse, 7 – 00197 – Roma – Tel. e fax: 06-8080697. Versamenti delle quote associative – che hanno diritto a ricevere il giornale – sul c.c.p. numero: 65007007 della UNC – RSI. Appello da accogliere viene da "Volontà" [La data originale di pubblicazione del presente articolo è precedente a quella attuale – © Centro Studi Pino Rauti – Tutti i diritti riservati] Tra le molte riviste e pubblicazioni d’area, il giornale “Volontà” è quello che è ricco di una «specificità» unica, perché è la Rassegna periodica dei “Non” – Cooperatori e cioè – lo scriviamo per i più giovani e per quanti poco conoscono la nostra storia – di quei prigionieri di guerra in mano agli Anglo-Americani che, dopo l’8 settembre 1943, rifiutarono di “cooperare” e quindi idealmente, disseminati nel mondo e a migliaia di chilometri di distanza, aderirono alla RSI. Fecero una scelta difficile e la pagarono duramente, come è ormai storicamente documentato! E “Volontà” ne ha raccontato con dovizia di rievocazioni, la vicenda; tra le più belle, tra le più significative della storia della nostra comunità umana. Adesso abbiamo tra le mani il numero più recente di “Volontà” (pensate che siamo al n. 5/6 di quest’anno e al 44° anno di uscita!) che in un articolo editoriale di Vezio Melegari sottolinea le difficoltà crescenti del giornale, i cui “tempi di uscita” stanno diventando “sempre più diversi dal previsto e dal prevedibile, facendole assumere addirittura scadenze al triplo di quelle che i lettori si aspettano”. Nel numero che abbiamo sott’occhio, ci sono articoli e notizie quanto mai interessanti e “validi”: dal programma del raduno annuale dell’incontro dei “Non” che si è tenuto a metà settembre a Pesaro al «pellegrinaggio in A. O.” di Ferdinando Panciera; la Galleria Rizzon sui…… ricordi artistici dei nostri campi di prigionia ad una rievocazione – di Ricciotti Bornia – sui campi “Non” nelle Hawai. E ancora: “Il Cappellano prigioniero”, tratto da un libro di Padre Berardo Rossi e che riguarda Padre Giacomo Giacobazzi, catturato a Gondar dagli Inglesi e poi, dopo un peregrinare in vari campi africani, prigioniero in un campo nell’estremo nord della Scozia, quello di Lambholm, nell’arcipelago delle Orcadi. E ancora tanto altro… E allora, aiutiamo “Volontà”, facciamo conoscere a tutto il nostro ambiente e specialmente ai più giovani la “memoria storica” di queste vicende, che spesso furono avventure affascinanti e drammatiche di uomini e di interi gruppi. “Volontà” – Direttore Vezio Melegari; Consiglieri: Edoardo Fornaio; Fernando Togni; Emilio Vio – Abbonamento semplice: 26 euro; minimo sostenitore: 39 euro. I contributi possono essere versati sul Conto Corrente Postale n. 33752205, intestato all’Associazione “Amici di Volontà”, Via E. Faà di Bruno, 20 – 20137 Milano; oppure presso: Banca Intesa (già Banco Ambrosiano Veneto), Filiale di Viale Corsica, 1 – 20133 Milano; sul Conto n. 7600/60 (ABI: 03069 – CAB: 09516).