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1 Lavorare bene e con soddisfazione Federico Ricci Psicologo del Lavoro Parte prima, il benessere organizzativo come scelta consapevole o Etica e responsabilità organizzativa o Il benessere all’interno delle organizzazioni Parte seconda, la formazione dei formatori: orientare verso comportamenti salutari sul lavoro o Le fasi del processo formativo o Comportamenti sicuri sul lavoro o Il coinvolgimento per la sicurezza sul lavoro: la formazione dei formatori 2 PARTE PRIMA Il benessere organizzativo come scelta consapevole Un esploratore percorreva le immense foreste dell’Amazzonia, cercava eventuali giacimenti di petrolio, aveva molta fretta. Per i primi due giorni gli indigeni che aveva ingaggiato come portatori si adattarono alla cadenza rapida e ansiosa che il bianco pretendeva di imporre a tutte le cose. Ma al mattino del terzo giorno si fermarono, silenziosi, immobili, l’aria totalmente assente. Era chiaro che non avevano nessuna intenzione di rimettersi in marcia. Impaziente l’esploratore, indicando il suo orologio, con ampi gesti cercò di far capire al capo dei portatori che bisognava muoversi perché il tempo premeva. “Impossibile”, rispose quello, tranquillo. “Questi uomini hanno camminato troppo in fretta e ora aspettano che la loro anima li raggiunga”. Etica e responsabilità organizzativa La Commissione Europea, nel Libro Verde ad essa dedicato, definisce la responsabilità sociale d’impresa come “l’integrazione volontaria delle problematiche sociali ed ecologiche nelle operazioni commerciali e nei rapporti delle imprese con le Parti interessate”, non quindi elemento addizionale alle attività fondamentali dell’impresa, ma correlato alla gestione stessa, alle politiche di governance / conduzione dell’organizzazione. Partendo da tale affermazione, la RSI (o CSR, Corporate Social Responsability) può essere definita come “la responsabilità che un’impresa mostra verso tutti gli “stakeholder” con i quali interagisce direttamente o indirettamente. Con il termine stakeholder si vuole intendere tutti quei soggetti, individuali e collettivi, che sono portatori di una forma d’interesse legittimo verso l’impresa, che sono cioè in qualche modo legati ad essa: in modo passivo, essendo condizionati dalle scelte strategiche dell’impresa nella misura in cui ne subiscono direttamente o indirettamente le conseguenze; in modo attivo, nella misura in cui, con il loro comportamento, possono influenzarne l’andamento e il successo. La RSI si estende, quindi, al di là del perimetro dell’impresa stessa coinvolgendo non solo i lavoratori e gli azionisti, ma integrando la comunità locale e un ampio ventaglio di Parti Interessante: i partner commerciali e i fornitori, i clienti, i consumatori, le istituzioni pubbliche e le associazioni o le ONG (Organizzazioni Non Governative) che rappresentano la comunità locale. In base a questa formulazione del concetto di RSI, un’impresa si ritiene responsabile quando agisce in modo da coniugare i propri interessi con quelli di tutte le parti interessate o legate ad essa. Tutti questi referenti sono stakeholder dell’impresa e nel loro insieme rappresentano interlocutori, ognuno indispensabile, per riconoscere la responsabilità sociale dell’impresa. Non è dunque possibile definire la responsabilità sociale di 3 un’impresa facendo riferimento ad una sola categoria di referenti, né tanto meno definirla al di fuori di una logica di filiera. Il coinvolgimento –necessario- di tutti gli attori interessati avviene attraverso metodologie riconosciute, testate, riproducibili. Lo stesso Libro Verde, “Promuovere un quadro europeo per la Responsabilità Sociale delle imprese”, non indica alcun procedimento a carattere obbligatorio che imponga alle imprese europee l’adozione di forme organizzative etiche. L’appello pone in evidenza, tuttavia, come una gestione etica abbia in realtà anche un chiaro valore economico che può contribuire a generare redditività, all’interno di un percorso a carattere volontario. E’ una scelta dell’impresa nel posizionamento strategico sul mercato, non è beneficenza, ma un investimento intangibile sulla cultura organizzativa (es. formazione etica del personale). Emerge sostanzialmente una convinzione politica che la responsabilità sociale delle imprese “sia intrinsecamente connessa con il concetto di sviluppo durevole” (COM 2002, 347) al quale la Comunità Europea vuole ispirarsi nelle sue scelte politiche e gestionali (Carta dei diritti fondamentali UE, 2000). Una ricerca condotta dall’Università di Roma Torvergata ha permesso di analizzare 1.000 imprese nell’arco di 13 anni, come riferisce il Prof. Leonardo Becchetti docente di Economia Politica, “Trovando una correlazione significativa tra il livello di CSR e la produttività, misurata con il fatturato per addetto. Probabilmente i lavoratori sono più motivati. La redditività del capitale invece è inferiore, ma è migliore il profilo di rischio: i portafogli etici sono meno volatili, dunque più appetibili per investitori di lungo periodo. Infine l’etica aziendale permette di <catturare> importanti nicchie di consumatori sensibili a questi aspetti, che stimiamo intorno al 20%” (Intervista di Ida Cappiello su “Etica & Finanza” settembre 2005). Sul comportamento d’acquisto interviene anche il Prof. Marco Frey, Ordinario di Economia alla Scuola Superiore S.Anna di Pisa, che, attraverso una ricerca sulla RSI nella prospettiva dei consumatori condotta nel 2004, rileva come per gli italiani la RSI sia il secondo criterio d’acquisto subito dopo la valutazione del prodotto. Tuttavia, la stessa ricerca, porta a scoprire che queste dichiarazioni d’intenti non sempre reggono alla prova dei fatti, ovvero sono molti meno gli italiani che hanno realmente acquistato prodotti solo dopo aver verificato che non inquinano e che non vengono da aziende che non rispettano i diritti dei lavoratori (articolo su “Vita – non profit magazine” del 25 marzo 2005). Rimane vero che nella modalità con cui l’impresa produce valore economico acquisiscono sempre più importanza le caratteristiche estranee al prodotto, ma legate alla reputazione dell’impresa e al patto fiduciario che si instaura tra l’organizzazione e i suoi principali interlocutori: “Reputazione, reputazione, reputazione … la parte immortale dell’uomo” (William Shakespeare, Otello). La costruzione di reputazione intende perciò sopperire alla cronica situazione di incompletezza informativa (compriamo la reputazione dell’impresa). 4 Toni Muzi Falconi, professionista delle Pubbliche Relazioni, sottolinea come sia assai diffusa la percezione che la comunicazione della RSI sia per molte organizzazioni una pura operazione di immagine e che alle politiche annunciate non corrispondano fatti e cambiamenti reali, ma, aggiunge “Chi abbia avuto modo di lavorare sul campo sa bene che per una organizzazione il beneficio più duraturo e autentico della rendicontazione [accountability] delle sue politiche di RSI, sta soprattutto nei processi di definizione degli indicatori, della raccolta e descrizione dei comportamenti e nella definizione di nuovi obiettivi da raggiungere al fine di consolidare quella licenza di operare che viene concessa soltanto a un’organizzazione capace di comunicare con sobrietà, sincerità e tempestività con i suoi stakeholder, di ascoltarne le aspettative e di assumerle, nei limiti del possibile, come proprie” (articolo su “Etica & Finanza” aprile 2005). Quali punti di debolezza? Sempre il Prof. Becchetti, nell’intervista già citata, aggiunge: “Il valore per gli azionisti non può essere massimizzato in un’impresa etica, perché essa necessariamente trasferisce valore agli altri stakeholder” e invita a considerare l’eventualità di comportamenti di facciata che ritiene possibili nelle “aziende troppo grandi”, richiamando a tal proposito i “codici etici”. Dati di un’indagine Kpmg del 2005 evidenziano che il 52% delle imprese quotate nei 10 paesi più industrializzati pubblica un bilancio sociale, dietro cui c’è spesso un codice etico che per la quotazione in molte Borse diviene obbligatorio (Prof. Becchetti su “Etica & Finanza” luglio 2006). Pur non avendo valenza normativa il codice etico può rappresentare, come integrazione e interpretazione, una aggravante indiretta, qualora si riscontrassero condotte giuridicamente illecite da parte dei decisori interni. Accrescere la responsabilità sociale “significa per le imprese minimizzare i rischi di conflitti con gli stakeholders, dare un segnale sulla qualità del proprio prodotto ai consumatori, aumentare la motivazione intrinseca dei propri dipendenti con possibili ricadute positive sulla loro produttività e intercettare la crescente quota di cittadini <socialmente responsabili> che nelle loro decisioni di acquisto e risparmio non guardano solo a qualità e prezzo dei prodotti, ma anche al loro valore sociale” (Becchetti, appena citato). La stesura di un codice etico è comunque un costo per l’impresa e la pone in una condizione certamente nuova, infatti determina aspettative più elevate da parte dei diversi portatori d’interesse, tra cui il personale interno. Un altro nervo scoperto lo evidenzia il già citato Toni Muzi Falconi in un suo articolo su “Etica & Finanza” di marzo 2006, ponendo la domanda “Ma siamo proprio sicuri che gli enti locali abbiano la credibilità necessaria” per sollecitare comportamenti di CSR nelle imprese? I comportamenti di molte amministrazioni sono credibili e responsabili? “Pensiamo ad esempio ai rapporti con fornitori e i loro tempi di pagamento; ai rapporti con i dipendenti [collaboratori, lavoratori in somministrazione, …] e il rispetto delle best practices; ai rapporti con i cittadini e la 5 rendicontazione sui risultati raggiunti rispetto alle tante promesse e ai tanti impegni in campagna elettorale … “Quando la fonte non è credibile il messaggio non è efficace”, detto da un professionista delle Pubbliche Relazioni. Una esperienza positiva riscontrata in un ente locale è quella in corso presso l’Amministrazione Provinciale di Modena, dove nel 2003 viene istituito uno sportello interno di ascolto e di orientamento per i dipendenti -il riferimento contenuto nella pubblicazione a cura di Catia Iori (2005) è ai soli dipendenti dell’Ente- che funziona anche come sportello anti-mobbing (finanziato tramite il fondo per la produttività dell’Ente). Tale intervento permette di cogliere consapevolmente i desideri di crescita professionale dei dipendenti: l’operatore dello sportello (psicologo del lavoro) mette a fuoco, unitamente al lavoratore, il percorso di mobilità desiderato e le competenze che si intendono sviluppare. Uno specifico rimando è inoltre doveroso all’”Accordo sulla cultura del lavoro”, per contrastare molestie, vessazioni e discriminazioni all’Azienda Trasporti Municipali (ATM) di Torino, incluso a pieno titolo dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro tra le buone pratiche attive all’interno dell’UE. L’intervento nasce dalla preoccupazione dovuta alla natura spesso occulta del problema (molestie, vessazioni e discriminazioni) e secondo il principio per cui un’atmosfera positiva e buone relazioni sul luogo di lavoro, nonché di una forza lavoro soddisfatta, sono indispensabili per fornire un servizio efficiente e attento alle esigenze dei clienti. L’accordo istituisce una commissione per la cultura del lavoro, i cui membri sono estranei all’azienda, senza legami con la gerarchia aziendale. La commissione per le pari opportunità, mista e indipendente, vigila sull’applicazione dell’accordo. L’Accordo appena citato, in vigore all’ATM di Torino, risulta ancora più significativo se consideriamo che l’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, tramite attenta raccolta dati realizzata da ogni Focal Point (per Italia è ISPESL) nei diversi stati membri dell’UE, ha individuato le questioni psicosociali, l’ergonomia, i fattori di rischio chimico quali principali aree prioritarie per le future attività di ricerca. In materia di questioni psicosociali, poi, lo stress sul lavoro costituisce l’aspetto trattato con maggior enfasi, nella quasi totalità degli stati membri, nell’ambito di varie categorie. Attualmente si può affermare che il rapporto tra etica e singola impresa si concretizza, in generale, in alcuni specifici strumenti quali: certificazione etica dell’impresa (indicatori di conformità); adozione del bilancio sociale (controllo delle politiche d’impresa, dando visibilità alle domande del proprio pubblico di riferimento); codice etico (comportamenti individuali, es. prevenzione mobbing); marketing sociale (es. partnership con enti no profit). La struttura dei codici etici varia normalmente da impresa ad impresa e normalmente si sviluppa su diversi livelli: individuazione ed 6 esposizione dei principi etici stabiliti per i rapporti e le relazioni che i propri collaboratori debbono tenere nei confronti dell’esterno; determinazione delle sanzioni interne per violazioni delle norme del codice; nomina di un Comitato Etico con il compito di vigilare sulla corretta applicazione del codice. Queste nuove professionalità presenti nelle imprese acquisiscono il titolo di “Ethic officer” o “Internal auditor” o “CSR manager”, un ruolo che può diventare anche riferimento per la legge 231 del 2001 che stabilisce la non responsabilità delle aziende coinvolte in illeciti amministrativi, purché abbiano attuato efficaci procedure di controllo (articolo di Vanna Toninelli sul “Corriere della Sera – Economia & Carriere” del 16 dicembre 2005). Su questo ragionamento sarebbe interessante esplorare, per analogia, i vantaggi di ogni organizzazione nell’attuare efficaci procedure di controllo anche per illeciti relativi alla salute, sicurezza, benessere dei lavoratori (es. mobbing, pari opportunità, …). E’ l’Ethic Officer che assume la responsabilità delle necessarie verifiche periodiche di conformità allo standard etico (es. Social Accountability 8000 o SA 8000), sia all’interno dell’organizzazione che presso i fornitori. Un ruolo che trova diversa collocazione organizzativa (articolo di Vanna Toninelli già citato): nel 60% dei casi nell’area Relazioni Esterne (con tutti i dubbi già prima citati da un professionista delle Pubbliche Relazioni, Toni Muzi Falconi); il 30% (trend in crescita) nell’area Risorse Umane; il 10% in staff alla Presidenza (valenza strategica). Dati forniti dal CISE (Centro per l’Innovazione e lo Sviluppo Economico), mettono in chiaro che: 1. L’Osservatorio dell’UE sulle PMI ha realizzato una ricerca su più di 7000 piccole e medie aziende europee sulla RSI. Da questi dati risulta che il 49% delle imprese dichiara di essere impegnata in attività di RSI, che si concretizzano in azioni di sostegno ad attività della comunità (donazioni). La caratteristica principale di questo impegno sembra essere la mancanza di sistematicità. Ovverosia l’assenza di un impatto diretto sull’organizzazione o sulle modalità produttive. Insomma l’attenzione per le PMI verso la Responsabilità Sociale sembrerebbe essere orientata al ritenere il tema come “esterno” al core business dell’impresa. 2. Un’altra ricerca internazionale condotta su un campione di 25.000 cittadini di età superiore ai 18 anni ci informa del fatto che, per quanto riguarda l’Italia, l’80% degli intervistati si dichiara “interessato a conoscere le modalità con cui le imprese stanno cercando di essere più socialmente responsabili”. Tra questi un 33% dichiara di aver già “penalizzato” alcune imprese non acquistandone i prodotti e un 25% dichiara invece di aver “premiato” altre imprese acquistandone i prodotti secondo questa logica. In sintesi questi dati sottolineano, dunque, che sembra esistere una forte differenza tra come le imprese percepiscono e gestiscono la RSI e come invece questo tema viene percepito da coloro che 7 ne consumano prodotti e servizi. E’ a partire dall’impresa che ha il rapporto diretto col consumatore finale che si coinvolge la filiera delle imprese fornitrici che operano BtoB (Business to Business). Secondo una prospettiva “Relazionale” si può affermare che sono le preferenze di ordine morale ed etico che determinano il tipo di impresa e il modello di governace. Gli atti di RSI sono aspetti concreti di una più complessa cultura motivante che sintetizza gli obiettivi condivisi riguardo il fine di sviluppo economico e sociale. Per questo serve una cultura organizzativa, condivisa all’interno e all’esterno dell’impresa, che possa determinare un consenso selettivo di pressione ed evoluzione sociale che incentiva l’adozione di azioni coerenti di RSI. Recenti studi di fattibilità condotti in Emilia Romagna da IPL (Istituto Per il Lavoro, Bologna), relativi a percorsi di certificazione etica, hanno evidenziato che, secondo gli stakeholder (soprattutto di parte imprenditoriale) l’adesione da parte delle imprese, ad un processo di certificazione, effettuato sulla base di standard rigorosi ed esigenti, che investono tutte le aree strategiche in cui opera un impresa (lavoro, rapporto con i fornitori, clienti, strategie gestionali, ecc.), favorisce inevitabilmente l’attivazione di fenomeni di riorganizzazione strategica dei processi organizzativi interni all’impresa, orientati da logiche di razionalizzazione. L’adozione di comportamenti socialmente responsabili verso gli stakeholder interni ed esterni porta inevitabilmente a riesaminare le strategie e i modelli adottati dalle imprese, ad individuare criticità e problematiche, e a cercare di risolverle attraverso un approccio integrato e coerente, che generi maggiore efficacia operativa e strategica. Tuttavia manca ancora, da parte delle imprese, un approccio “organico” alla qualità, un approccio complessivo, che faccia riferimento al concetto di qualità sociale e introduca il principio della responsabilità d’impresa. La maggior parte delle imprese, certificate all’interno di una filiera, ha infatti ottenuto certificazioni di tipo “ambientale” o relative al sistema di gestione, ma molti altri aspetti aziendali risultano “scoperti”. Un marchio a carattere multi dimensionale potrebbe costituire un’occasione per coprire anche quegli aspetti, intervenendo contemporaneamente su varie dimensioni aziendali (lavoro, ambiente, rapporti con i fornitori, rapporto con i clienti, ecc.) e consentirebbe di estendere, in modo organico e coerente, i benefici di razionalizzazione intrinseci ai processi di certificazione, a tutte le dimensioni aziendali. Il processo di certificazione, però, per essere realmente efficace, dovrebbe coinvolgere tutta la filiera produttiva: produttori, trasformatori e distributori. Il benessere all’interno delle organizzazioni La qualità complessiva della vita lavorativa è data da un complesso di aspetti che non si limitano a garantire la sicurezza e la salubrità degli ambienti lavorativi, ma concorrono a far sì che l’individuo che lavora si senta rispettato nei suoi diritti di persona e di lavoratore, si senta valorizzato e 8 adeguatamente retribuito per le sue capacità e per il suo impegno e si senta professionalmente soddisfatto; un’organizzazione responsabile verso i propri lavoratori è un’impresa che si pone come obiettivo quello di contribuire, direttamente o indirettamente (attraverso opportune forme di sostegno) alla crescita e allo sviluppo delle proprie risorse umane non solo in quanto lavoratori ma prima ancora in quanto persone. In un’organizzazione dunque la responsabilità sociale verso il personale è legata alla qualità dell’impiego offerto, alla garanzia dell’istruzione e della formazione lungo l’intero arco della vita lavorativa, alla consultazione e alla partecipazione dei lavoratori, alle pari opportunità, all’integrazione dei disabili e delle categorie più svantaggiate, all’anticipazione delle trasformazioni industriali e delle ristrutturazioni. Non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) definisce la salute non come semplice assenza di malattia, bensì uno stato di completo benessere fisico, psichico, sociale. La stessa efficacia organizzativa sembra essere legata ad aspetti di qualità complessiva della vita lavorativa, come il grado di partecipazione e di coinvolgimento dei lavoratori, non solo relativamente ai propri compiti e mansioni, ma anche su aspetti decisionali e progettuali (Lawler, 1986; Karasek e Theorell, 1990). Le persone sono motivate sia da fattori intrinseci (crescita, significato, partecipazione) che estrinseci (remunerazione, status, sicurezza), eppure le organizzazioni in grado di soddisfare i primi avrebbero maggiori possibilità in termini di motivazione, soddisfazione, efficacia. Maccoby (1988) ha esplorato modelli di gestione efficace in diverse grandi imprese e propone dei fattori funzionali a creare livelli alti di motivazione al lavoro. La ricerca evidenzia come sempre più persone si sentono lavoratori con significative capacità cognitive e con una motivazione legata anche alla soddisfazione lavorativa, all’impegno, alla partecipazione, al desiderio di lasciare un segno nell’organizzazione, al bisogno di maggiori responsabilità. In relazione alla dimensione interna all’impresa, risultati positivi in termini di competitività possono derivare da molteplici fattori: la tutela delle condizioni psicofisiche dei lavoratori, attraverso un miglioramento dell’ambiente e delle condizioni di lavoro, può tradursi in un maggiore impegno e in una maggiore produttività dei lavoratori stessi, dettate da un minore astensionismo per malattia e da una maggiore motivazione ed entusiasmo sul lavoro; la promozione di processi di qualificazione e aggiornamento delle risorse umane interne all’azienda, si può tradurre nell’incremento del potenziale d’innovazione strategica dell’impresa; la gestione più attenta delle risorse energetiche e delle materie prime, attraverso un oculato investimento in tecnologia avanzata, può tradursi nello sviluppo di un sistema produttivo più efficiente ed efficace, in grado di minimizzare gli sprechi e i costi da questi derivanti. La gestione attenta dei processi produttivi in relazione al loro impatto 9 ambientale, favorisce lo sviluppo di processi di riorganizzazione delle attività produttive che implicano spesso un incremento complessivo del livello di efficienza. Il dizionario inglese Merriam-Webster’s Collegiate ha recentemente inserito tra i suoi lemmi il termine “McJob”. Neologismo sancito ufficialmente come lavoro stile McDonald’s. Termine usato per la prima volta formalmente nel romanzo “Generation X” per indicare un lavoro poco prestigioso, poco dignitoso, con pochi vantaggi, senza futuro. Tra i McJob una parte significativa dell’opinione pubblica internazionale include le proposte occupazionali del colosso della grande distribuzione, n° 1 mondiale, Wal-Mart, tanto che questa impresa è stata recentemente insignita di un ”Public eye award”. Il premio”Public eye award” (alla 6^ edizione), da un’idea di alcune ONG svizzere, ha assegnato nel 2005 ben 4 riconoscimenti, corrispondenti ad altrettante categorie di violazioni e abusi: diritti umani, ambiente, fisco, lavoro. Vincitori rispettivi: Dow Chemical (caso Bhopal), Royal Dutch-Shell (inquinamento Niger), Kpmg international (evasione verso paradisi fiscali), WalMart (nessun sindacato). Una recente proposta (Avallone F. e Paplomatas A. “Salute organizzativa” Milano, Raffaello Cortina Editore, 2005) individua 14 dimensioni di salute organizzativa (si veda la tabella conclusiva). Gli autori evidenziano inoltre nella loro indagine, una serie di indicatori soggettivi di benessere (12 item), indicatori soggettivi di malessere (14 item), disturbi individuali riconducibili all’area psicosomatica (9 item). In questo modo costruiscono un questionario multi dimensionale della salute organizzativa (Multidimensional Organizational Health Questionnaire, MOHQ) che consente di intervenire per promuovere migliori condizioni di lavoro e di benessere. Attraverso l’analisi della relazione individuo/contesto si arrivano a desumere elementi di salute organizzativa, il modello di valutazione proposto consente cioè l’esame dell’insieme dei processi e delle pratiche organizzative che incidono sul benessere della comunità lavorativa. Si ritiene che il rischio sia connesso al tipo di convivenza che si realizza nell’organizzazione e l’attenzione è quindi rivolta ai processi e alle relazioni interne. Dalla pubblicazione “Benessere organizzativo”, per iniziativa del Dipartimento della Funzione Pubblica, che integra operativamente il modello proposto dal gruppo di psicologi composto Avallone e collaboratori, possiamo estrarre la seguente definizione di benessere organizzativo: “Insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la dinamica della convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando la qualità della vita e il grado di benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative”. Domenico De Masi affronta lo stesso argomento chiedendosi: esiste l’anima dell’impresa? La risposta è frutto di articolate constatazioni e ardite metafore. Per certi versi, sostiene il sociologo De Masi (“L’anima dell’impresa”), “l’impresa ha il suo corpo (stabilimenti, uffici, materie prime, 10 componentistica, archivi, …), la sua mente (strategie, programmazione, organizzazione, studi e ricerche, pubbliche relazioni e comunicazioni, rapporti con il pubblico e con la stampa, marketing, …), la sua anima (clima, immagine, estetica, missione, valori, coesione, equilibrio, saggezza, emulazione, …)”. De Masi ci invita, però, a non confondere l’anima con ciò che Edgar H. Shein definisce cultura, in quanto “Shein guarda alla cultura d’impresa privilegiando la lente del successo o dell’insuccesso economico del capitale. Io guardo all’anima dell’impresa privilegiando la lente della felicità o dell’infelicità umana di chi vi lavora e di chi con essa si rapporta. (…) Possono esistere gruppi senza anima perché l’anima è frutto intenzionale di un’azione, di un carisma, di un amore. La cultura vive per il fatto stesso che vive il gruppo; l’anima invece va alimentata giorno per giorno, altrimenti appassisce, e con essa sbiadisce la felicità. (…) Anima è visione e missione rivolte al futuro, alla procreazione, alla crescita, alla formazione, alla bellezza” e ancora De Masi le attribuisce il ruolo di madre della creatività felice, costituita di fantasia e concretezza. La mancanza della gioia di lavorare e di vivere, non può che essere frutto di una carenza nell’anima dell’organizzazione (nella bellezza dei luoghi, dei prodotti, nei suoi modi di comunicare e rapportarsi). “L’anima dell’impresa è <noità>: unione più che separazione, sintesi più che analisi, sentirsi tutt’uno non per la paura dell’ignoto ma per la gioia della convivialità. (…) L’anima dell’impresa è fragile, più delicata del corpo che la contiene. Non è mai costruita una volta per tutte, va coltivata giorno per giorno, teneramente e caparbiamente. Per coltivare l’anima dell’impresa, occorre amarla: solo un profondo amore per l’impresa le conferisce un’anima, rendendola creativa e procreativa” (sottolineato mio). Un altro modo, più struggente, per parlare di benessere organizzativo, di una salutare convivenza lavorativa. De Masi, nel libro-intervista “Ozio creativo” (Rizzoli, Milano, 2000), torna sempre sullo stesso tema: “Il lavoro può essere un piacere se è prevalentemente di tipo intellettuale, intelligente, libero. Assieme alla stanchezza fisica può dare esaltazione mentale. La stanchezza psichica segue altre leggi, rispetto a quella fisica. Quella fisica mi spossa, mi impone di smettere. Quella psichica, mentale, se è unita a una grande motivazione, può essere persino inavvertita (…). Nel lavoro intellettuale la motivazione è tutto (…). Prepariamo per venti anni un giovane e poi gli facciamo fare cose che avrebbe potuto imparare in tre mesi. E’ un capitolo del grande romanzo dell’infelicità aziendale: l’azienda troppo spesso produce infelicità e paura (…). Molte aziende, dopo aver selezionato persone mediocri purché duttili e dopo averne soffocato ogni barlume di intraprendenza sotto un cumulo di procedure e controlli, sentono il bisogno di rivitalizzarne la creatività mettendole nelle mani di sedicenti formatori esperti della materia (…). Gli etologi dicono che se tieni a lungo dei pesci rossi dentro una boccia, quando li ributti in mare continueranno per un certo periodo a girare in tondo, come se fossero ancora nel contenitore”. 11 Prima di concludere, proponendo una tabella riassuntiva che permetta un confronto immediato tra le dimensioni integrate di salute organizzativa di Avallone – Paplomatas e alcuni indicatori, applicabili ai membri dell’organizzazione all’interno di un percorso di certificazione etica verso una crescita eccellente e responsabile, elenco brevemente alcuni casi riconosciuti di interventi efficaci per il benessere organizzativo: 1. “Orientamenti sulla prevenzione della violenza psicologica e misure di intervento” alla Outokumpu Poricopper Oy, impresa finlandese operante nel settore dei metalli di base: tra le cause delle vessazioni figuravano le controversie irrisolte, il timore di cambiamenti, la competizione tra individui, la mancanza di chiarezza in merito a responsabilità e autorità. La realizzazione di corsi di formazione a tutti i livelli ha permesso di imparare ad affrontare la questione delle vessazioni e ha anche insegnato a lavorare meglio insieme, con conseguente aumento della produttività, oltre che riduzione dei giorni persi per malattia. 2. “Work positive”, utilizzo di uno strumento pilota per l’esame dello stress sul luogo di lavoro adatto alle PMI (Irlanda): la sperimentazione, attraverso un questionario ai lavoratori, ha permesso di individuare e risolvere tre nodi problematici per il campione esaminato. A) l’orario di inizio lavoro (turni sfalsati) non consentiva a tutto il personale di ricevere informazioni sufficienti per operare: l’orario è stato modificato portando una maggiore collaborazione; B) il personale riteneva di non poter esercitare controllo sull’organizzazione del lavoro: attivazione della consulenza di un esperto; C) inadeguatezza dei servizi sanitari: nuovo allestimento in un’area prima inutilizzata. 3. “GiGA-Iniziativa congiunta per un ambiente di lavoro più salubre” (Germania): l’aggravamento dei fattori di stress connessi al lavoro (pesanti carichi di responsabilità, urgenze temporali, richieste eccessive, mobbing, …) ha imposto una campagna di informazione che incidesse sul giudizio di lavoratori e imprese, per i quali lo stress ha poco o nulla a che fare con la salute e la sicurezza sul lavoro. 4. “Modello concepito per far fronte a casi di vessazione” (Finlandia): metodo per indagare su casi di mobbing e risolverli. Permette di evidenziare difetti nell’organizzazione e nella gestione del lavoro, nell’attività svolta in collaborazione congiunta e nel flusso di informazioni. Fa emergere la mancanza di pianificazione dell’attività da parte dei supervisori, e il mancato intervento in caso di problemi in ambiente di lavoro (mancata supervisione), con conseguente aggravamento di comportamenti problematici, conflitti di potere, scontri tra lavoratori. 12 Tabella di confronto tra le dimensioni integrate di salute organizzativa (Avallone/Paplomatas) e alcuni indicatori per la certificazione etica (applicabili ai membri interni all’organizzazione) BENESSERE ORGANIZZATIVO Allestisce un ambiente di CERTIFICAZIONE ETICA lavoro In relazione allo salubre/igienico, confortevole e accogliente conoscenze nel (funzionale e gradevole) per le esigenze del riferimento, lavoro, dei lavoratori, di eventuali clienti. stato prevalente settore delle industriale di l’organizzazione garantisce un ambiente di lavoro salubre e sicuro per i propri lavoratori e per le proprie lavoratrici?(SA 8000) Pone obiettivi espliciti e chiari ed è coerente tra Sistemi di comunicazione interna e modelli di enunciati e prassi operative, perché sono i fatti relazioni sociali che danno credibilità alle parole. Gli interventi circolazione (L’azienda delle favorisce informazioni la all’interno organizzativi vanno nella direzione di definire e dell’azienda, a tutti i livelli gerarchici, in modo comunicare chiaramente gli obiettivi e, che i lavoratori abbiano la possibilità di essere conseguentemente, di perseguirli nei fatti, costantemente informati sulle caratteristiche attraverso regole e controlli che ostacolino dell’impresa cui appartengono, sulle scelte e comportamenti orientati in altra direzione. strategie aziendali e sull’andamento del settoremercato di riferimento in cui opera l’impresa?) Riconosce e valorizza le competenze, nelle Sistemi e attività di formazione del personale diversità individuali, per ciò che il lavoratore è e (L’azienda garantisce ai propri dipendenti la fa; valorizza gli apporti di ogni lavoratore, possibilità di incrementare le loro conoscenze e facilitando l’espressione del saper fare, e ne competenze professionali, -in relazione alle riconosce il contributo ricevuto; libera nuove esigenze aziendali- organizzando e/o potenzialità, promuovendo lo sviluppo del saper consentendo loro di partecipare, ad attività di fare. formazione/aggiornamento, gratuite -in aula e on the job-, all’interno dell’azienda o presso appositi enti di formazione; sia nella fase iniziale di inserimento sul lavoro, sia nel corso del rapporto di lavoro, per tutto il personale ai vari livelli gerarchici?) Ascolta attivamente, considerando le richieste e Diritti di rappresentanza, le proposte dei dipendenti come contributi da partecipazione dei informazione lavoratori e (L’azienda considerare nei processi decisionali, rinviando riconosce quali soggetti negoziali legittimi nel anche a processi negoziali, di coinvolgimento, processo di contrattazione aziendale anche i di partecipazione. rappresentati 13 degli eventuali lavoratori interinali 1 -qualora ricorrano o meno le condizioni previste dal contratto collettivo per i lavoratori temporanei ad esprimere una loro rappresentanza-?) Sistemi di tutela e protezione del personale (L’azienda garantisce ai propri lavoratori meccanismi e forme di protezione/sostegno in relazione a particolari criticità individuali attraversate dal lavoratore?) Mette a disposizione le informazioni pertinenti Orari, contenuti delle attività lavorative e al lavoro, attraverso strumenti e regole chiare modelli di organizzazione del lavoro (L’impresa per la diffusione delle informazioni. ha uno specifico sistema di conservazione trasmissione delle conoscenze in azienda?) E’ in grado di governare l’espressione della Orari, contenuti delle attività lavorative e conflittualità entro livelli tollerabili di modelli di organizzazione del lavoro (L’azienda convivenza, senza negare la conflittualità stessa, ha adotto specifiche misure organizzative tese a adottando strategie e tecniche di monitoraggio e prevenire i fenomeni del burn out e del mobbing sostegno alla convivialità organizzativa. tramite monitoraggi e/o interventi tesi a promuovere la qualità-varietà L’azienda incoraggia la dei lavori? condivisione- distribuzione del potere, ai vari livelli aziendali, attraverso forme di decentramento decisionale che coinvolgano un elevato numero di lavoratori?) Stimola un ambiente relazionale franco, Sistemi di comunicazione interna e modelli di comunicativo, collaborativi, sia nelle relazioni relazioni sociali (L’azienda promuove processi 1I risultati di un esperimento hanno dimostrato che l’aspettativa di interazione futura fa in generale diminuire l’uso delle strategie di influenza e in particolare quello delle tattiche dure. Si potrebbe supporre che la prospettiva di una interazione prolungata renda meno attraente la scelta di un comportamento che potrebbe mettere la relazione in pericolo. Ad oggi, un numero sempre maggiore di persone è “lavoratore flessibile”. Questa “forza-lavoro flessibile” comprende dipendenti con brevi contratti, lavoratori temporanei, manager ad interim, ecc. La permanenza relativamente breve in un'organizzazione è caratteristica di questo tipo di lavoratori. In altre parole, si ha un’aspettativa di interazione più prolungata con i lavoratori stabili che con quelli con contatto flessibile. Questa tendenza all’utilizzo di diversi tipi di personale provvisorio, può avere conseguenze nel modo in cui i membri di un'organizzazione interagiscono l'uno con l'altro. Più specificatamente, può essere che la tattica di influenza dura sia utilizzata più spesso quando i lavoratori rimarranno temporaneamente nell'organizzazione di quando il lavoratore sia un membro stabile. Può essere verificato che superiori, colleghi o subordinati si sentiranno meno trattenuti nell'utilizzo della tattica più dura di influenza quando si aspettano che un membro lasci l'organizzazione in un futuro prossimo. In questo caso è improbabile che il lavoratore temporaneo sia necessario nel futuro per ottenere i risultati richiesti, quindi il mantenimento di un rapporto armonioso diventa meno importante. Il comportamento che potrebbe mettere in pericolo la relazione sarà più facilmente messo in atto. Di conseguenza, la tendenza a fare maggior uso di personale con contratti provvisori può generare lo sviluppo di una struttura di interazioni più coercitive e poco amichevoli. (B. van Knippenberg – H. Steensma “Future interaction expectation and the use of soft and hard influence tactics” Applied Psychology: an international review, 2003, 52 (1), 55-67) 14 tra pari che tra superiore e subordinato. di socializzazione tra i lavoratori mettendo a disposizione risorse e/o locali per l’incontrointerazione tra i lavoratori e organizzando iniziative ed eventi sociali?) Assicura equità di trattamento a livello Applicazione, norme e convenzioni nazionali e retributivo, di assegnazione di responsabilità, di internazionali sulla tutela dei diritti umani. promozione del personale. Quindi si definiscono Sistemi e meccanismi di reclutamento, criteri e percorsi chiari, espliciti, pubblici, ai selezione, valutazione e gestione delle risorse quali tutti possono accedere in egual misura. umane: politiche e strategie di promozione delle pari opportunità nel lavoro (L’azienda promuove politiche e azioni positive finalizzate a conciliare i tempi di vita e i tempi di lavoro per i propri lavoratori e lavoratrici? L’azienda garantisce la possibilità di definire nastri orari o modalità di lavoro flessibili -telelavoro, part/time- che agevolino lavoratori e lavoratrici con esigenze familiari specifiche? L’azienda organizza o garantisce servizi di aiuto e assistenza per i familiari dei propri dipendenti? L’azienda garantisce la possibilità di fruire di modalità o forme di lavoro flessibile in relazione a specifiche e comprovate esigenze del personale? In azienda la pianificazione delle progressioni di carriera è fondata su criteri definiti, oggettivi e trasparenti?) Retribuzione, sistemi di incentivazione e ricompense del personale (L’azienda prevede sistemi di incentivazione e ricompensa del personale basati sulle progressioni/avanzamenti di carriera e/o cambi di livello?) Meccanismi e sistemi di flessibilità organizzativa adottati (L’azienda garantisce un alto tasso di conversione delle formule contrattuali atipiche in forme di stabilizzazione 15 contrattuale?) Mantiene livelli tollerabili di stress sovraccarico, occupazionale], overload, in determina riferimento al 2 [il Orari, contenuti delle attività lavorative e stress modelli di organizzazione del lavoro (L’azienda livello garantisce ritmi di lavoro psicologicamente e percepito di fatica fisica, mentale, relazionale. fisicamente sostenibili, consentendo ai lavoratori di rispettare il livello di qualità lavorativa da loro ritenuto adeguato?) Stimola nei lavoratori il senso di utilità sociale, Diritti di rappresentanza, contribuendo a dare valore alla giornata partecipazione dei informazione lavoratori e (L’azienda lavorativa di ognuno e al sentimento personale garantisce i diritti di informazione dei propri di contribuire ai risultati comuni, cioè viene dipendenti -in tema di relazioni sindacalisalvaguardato il rapporto funzionale tra attività mettendo a disposizione adeguati strumentidei singoli e obiettivi aziendali. risorse per la diffusione-circolazione delle informazioni? Le logiche che governano le relazioni industriali in azienda, si ispirano ai principi di rispetto, partecipazione e codeterminazione, ovvero l’azienda consulta e coinvolge attivamente le RSU e i lavoratori su materie che tradizionalmente fanno parte delle prerogative del management -strategie aziendali, definizione obiettivi, organizzazione del lavoro, ecc,- riconoscendo loro diritto di veto -es. sulle forme di flessibilità contrattuali da preferire; nelle contrattazioni con aziende di fornitura di lavoro temporaneo, ecc.-?) Adotta le azioni per prevenire gli infortuni e i Tutela e promozione della salute e sicurezza dei rischi professionali, come elemento di cultura lavoratori sui luoghi di lavoro (L’azienda, nel interna. valutare i rischi per la salute/sicurezza dei lavoratori, tiene conto delle differenze biologiche e psico-fisiche tra uomini e donne e del potenziale differente impatto dei medesimi “Work-related stress is a symptom of an organisational problem, not an individual weakness” (European Agency for Safety and health al work “Facts 31”, Bilbao 2002, citato da Evelyne Pichot “Social dialogue and cohesion for the wellbeing at work” Université Européenne du Travail) 2 16 agenti o fattori di pericolo? L’azienda ha attivato sistemi o specifiche metodologie di monitoraggio -sistemi di survey aziendali- per verificare il differente impatto delle attivitàmodalità lavorative sulle donne 3 rispetto ai colleghi uomini? L’azienda garantisce la massima trasparenza e l’impiego di criteri di qualità nella gestione degli appalti? L’azienda attribuisce debita importanza nell’assegnazione di un appalto -aziende fornitrici di semilavorati e/o servizi- alle clausole inerenti il rispetto delle materie specifiche di salute/sicurezza?) Definisce i compiti dei singoli e dei gruppi Orari, contenuti delle attività lavorative e garantendone la sostenibilità, in riferimento al modelli di organizzazione del lavoro (L’azienda livello di intensità percepita dei compiti garantisce al lavoratore, soprattutto in relazione lavorativi e di un eventuale eccessivo livello di a mansioni caratterizzate da un elevato grado di energie necessario per il loro svolgimento. ripetitività, la possibilità di svolgere attività diversificate -rotazione delle mansioni- in azienda, in relazione anche a preferenze individuali espresse dal lavoratore? L’azienda consente ai lavoratori di modificare il proprio turno-orario di lavoro in relazione a specifiche esigenze attivamente individuali alla e/o di sua partecipare definizione- programmazione? L’azienda garantisce ai propri dipendenti un adeguato margine di autonomia e iniziativa nell’organizzazione e nella “Le azioni di prevenzione devono -ad esempio- prendere in considerazione in modo specifico (…) i rischi per i quali le donne presentano una particolare sensibilità”, come evidenziato a livello dei dati rilevati. “Tali azioni rivolte alle donne devono essere basate su ricerche che coprano gli aspetti ergonomici, la realizzazione dei posti di lavoro, gli aspetti dell’esposizione agli agenti fisici, chimici, biologici, nonché la valutazione delle differenze fisiologiche e psicologiche nell’organizzazione del lavoro” (Carlo Bonora “La governance del sistema salute e sicurezza nel lavoro” IPL). “Andrebbero realizzate ricerche che tenessero conto della differente attribuzione delle donne rispetto agli uomini su ruoli e mansioni, per considerarla, accanto agli eventuali determinanti di natura medico-scientifica, come una causa possibile di esposizione al rischio e alla malattia professionale. Da qui potrebbero derivare maggiori attenzioni alla progettazione in generale del luogo di lavoro, negli aspetti ergonomici, e dell’organizzazione del lavoro” (Rita Castaldi e Francesca Sbordone “Donne, salute e lavoro” IPL). 3 17 pianificazione del proprio lavoro promuovendo forme di responsabilità funzionale, in relazione agli incarichi considerati?) E’ aperta all’ambiente esterno e all’innovazione Sistemi e attività di formazione del personale tecnologica e culturale, come risorse per il (L’azienda verifica che le attività formative miglioramento. promosse per il personale, ne prevengano l’esclusione dal mercato del lavoro e anzi ne garantiscano professionale?) 18 la competitività sul piano Bibliografia AA. VV. “Donna, salute e lavoro, in casa, in ufficio, in azienda” Associazione Ambiente e Lavoro (2000) Andreoni P. e Marocci G. “Sicurezza e benessere nel lavoro” Roma, Edizioni Psicologia (1997) Avallone F. e Paplomatas A. “Salute organizzativa” Milano, Raffaello Cortina Editore (2005) Bisio C. “Fattore umano e sicurezza sul lavoro” Milano, Edizioni Unicopli (2003) Casula Consuelo “I porcospini di Schopenhauer” Milano, Franco Angeli (1997) De Masi Domenico “L’anima dell’impresa” su http://www.nextonline.it/archivio/11/06.htm (15/11/2004) Depolo M. “Psicologia delle organizzazioni” Bologna, Il Mulino (1998) Ganapini Daniele (a cura di) “Costruzioni e Responsabilità Sociale” Cassa Edile della Provincia di Reggio Emilia (2005) Iori Catia (a cura di) “Vivere e lavorare con dignità” Roma, Carocci editore (2005) I.S.F.O.L. “Competenze trasversali e comportamento organizzativo” Milano, Franco Angeli (1993) Ricci Federico “La formazione dei formatori: orientare verso comportamenti salutari sul lavoro” in corso di pubblicazione Zamagni S. e Bruni L. “Economia civile, efficienza, equità, felicità pubblica” Bologna, Il Mulino (2004) http://it.osha.eu.int/ (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro) www.improntaetica.org www.ipielle.emr.it (Fondazione Istituto per Il Lavoro) www.lavoroetico.org 19 PARTE SECONDA La formazione dei formatori: orientare verso comportamenti salutari sul lavoro “Le parole insegnano gli esempi trascinano solo i fatti danno credibilità alle parole” Sant’Agostino Premessa Il valore della formazione è quello di favorire processi vitali, sostenerli nei momenti di cambiamento, orientare le potenzialità, offrire strumenti efficaci per operare. La formazione è un intervento intenzionale strutturato con lo scopo di accrescere le competenze professionali dei partecipanti, lo strumento classico del corso non è l’unico possibile, anzi esiste un apprendimento diffuso che si realizza attraverso il fatto stesso di lavorare. La possibilità di apprendere dall’esperienza deriva da una preliminare individuazione di operazioni concrete, verificabili, applicabili/applicate al lavoro, convalidate dal committente/direzione. L'esperienza, però, produce apprendimento solo con la riflessione. Parlando di andragogia, o apprendimento negli adulti (si consiglia “Quando l’adulto impara”, Malcom Knowles, F. Angeli, Milano, 1996), è fondamentale ricordare che l’uomo apprende quando persegue degli obiettivi e dei progetti che hanno un significato per lui (Jourard). L’apprendimento implica un cambiamento nell’individuo, dovuto ad un’interazione con l’ambiente (ciò che chiamiamo esperienza) che soddisfa un bisogno e consente all’individuo stesso di mettere in atto comportamenti più adeguati (si veda Haggard). E’ un cambiamento durevole delle capacità personali (Gagnè) che porta a generare o modificare un’attività (Hilgard e Bower). Qualsiasi cambiamento nel comportamento significa che l’apprendimento sta avendo o ha già avuto luogo (Crow e Crow). Progrediamo quando le gioie della crescita e le ansie di sicurezza sono maggiori delle ansie della crescita e delle gioie della sicurezza (Maslow). “La formazione, dando evidenza ai fatti e ai problemi, prepara il cambiamento: essa può mettere in crisi, ma la crisi è necessaria per evitare la stasi e l’involuzione e diventare così creativa di un’esperienza nuova. Quando la natura del cambiamento è posta oltre la semplice acquisizione di abilità e di tecniche, tutti sono chiamati a modificare i propri criteri, le condizioni, gli schemi per operare nella realtà, primi fra tutti i responsabili dell’organizzazione e dei centri di decisione, intesi come committenza della formazione. Questo è il primo livello di un possibile cambiamento, perché contribuisce a definire in modo chiaro gli obiettivi da porre a fondamento dei processi formativi. Il contratto formativo diventa il luogo in cui sono esplicitati il sistema degli obiettivi, le condizioni organizzative, le compatibilità, i sistemi di formazione, i risultati attesi, le condizioni e gli strumenti per fare valutazione, le ragioni di costo, le responsabilità.” (“Manifesto sulla formazione del Centro Studi e Formazione Sociale Fondazione Emanuela Zancan”, giugno 1993, tra i firmatari: Duccio Demetrio, Francesco Novara, Augusto Palmonari). Nell’intero processo formativo soggetti diversi mettono in gioco interessi complementari, questa fase di negoziazione, e il contratto che ne deriva, sono parte integrante del processo e ne prefigura i risultati. Formare non significa insegnare un mestiere, ma allenare alla partecipazione e allo sforzo cooperativo. Se accettiamo che la cultura sia (Fischer, 1995, citato nel saggio “L’intervento sulla cultura e sui valori per la sicurezza”, Carlo Bisio, 2003) l’insieme di conoscenze, pratiche, esperienze condivise dai membri, i valori ne sono di conseguenza i sistemi di valutazione. Ogni intervento si frappone 20 alle dinamiche organizzative per originare un cambiamento, attraverso una serie di operazioni per conseguire uno scopo. 1. Le azioni formative più efficaci sono quelle focalizzate sul ruolo: priorità, comportamenti, relazioni, valori. Meglio se collegata a interventi di ricerca-azione (si veda K. Lewin). Queste azioni orientano una ridefinizione delle vecchie competenze, lo sviluppo di nuove e la creazione di gruppi di lavoro collaborativi. Essenzialmente un intervento sulla comunicazione. 2. L’individuazione di indicatori della sicurezza e il loro monitoraggio possono orientare il riconoscimento di incentivi economici o di riscontro puntuale e conseguenti azioni partecipative per il miglioramento. In alternativa si può fare riferimento al parere che i responsabili danno dei propri collaboratori relativamente all’adozione di comportamenti sicuri o che i lavoratori danno di se stessi (autovalutazione), per individuare azioni formative e partecipative. 3. Notiziari e bacheche che comunicano impegni e risultati conseguiti; eventi e campagne di sensibilizzazione; i fatti concreti: l’esempio dei manager, la coerenza interna all’organizzazione, gli investimenti, … 4. Gruppi di miglioramento; premi per le idee utili; partecipazione alla redazione di notiziari e alla realizzazione di eventi. 5. Adozione e diffusione di una carta dei valori. Il successo degli interventi deriva dalla coerenza dimostrata dall’organizzazione verso il cambiamento culturale, non basta l’azione singola o un investimento duraturo, si richiede un insieme di azioni, concrete e pubbliche, convergenti, contemporaneamente e nel tempo, su un’unica finalità. I concetti di cultura e valore, spesso sentiti come vincoli al cambiamento, sono quindi variabili importanti su cui è possibile intervenire per ottenere comportamenti più sicuri. 21 1. Le fasi del processo formativo L’obiettivo è sempre un apprendimento, cioè un mutamento intenzionalmente previsto nel progetto formativo condiviso in termini di: conoscenze, abilità, atteggiamenti, auto consapevolezza, cambiamento di prospettiva e di identità di ruolo. I risultati attesi, se raggiunti, comportano comunque conseguenze sull’identità di ruolo dei partecipanti all’attività formativa, quindi sull’identità di lavoratore di ogni persona coinvolta, quella parte dell’identità che, a sua volta, è fortemente determinante per il senso complessivo di identità dell’individuo adulto. Possiamo quindi ritenere che gli interventi formativi accompagnino ad apprende un modo di essere. E’ necessario che l’intervento formativo sia utilizzabile all’interno dello specifico contesto lavorativo, favorendo lo sviluppo di strategie di pensiero e di azione efficaci sul lavoro. Le conoscenze, le abilità, le caratteristiche personali di ogni lavoratore concorrono, con gli obiettivi assegnati e le condizioni di lavoro esistenti, alla realizzazione di attività utili alla prestazione organizzativa finale e che comportano conseguenze individuali per il lavoratore stesso. I risultati attesi devono essere formalizzati in riferimento a operazioni concrete, verificabili, applicabili al lavoro: “Al termine del corso i partecipanti saranno in grado di …”: conoscere nozioni …, utilizzare procedure …, individuare criticità …, comunicare efficacemente …, prendere l’iniziativa … In una prima fase si descrivono quindi i bisogni formativi, le caratteristiche dell’utenza che partecipa alla formazione, gli obiettivi, il piano formativo (anche come insieme coordinato di più interventi) e gli strumenti di intervento. In questo modo si utilizza una logica progettuale unica, non estemporanea, e coerente. La qualità dell’intervento si definisce a partire dalla sua progettazione, soprattutto per come sa integrare caratteristiche dei partecipanti, obiettivi didattici, metodi di intervento, contenuti della formazione, tempo disponibile, aspetti organizzativi (spazi, attrezzature, finanziamenti, …). La qualità è quindi funzione di quanto l’intervento risulta adeguato al contesto. Proprio a causa del fatto che obiettivo finale della formazione e' indurre un cambiamento, dovremo valutare, oltre al gradimento dei destinatari, se il cambiamento vi e' stato, è avvenuto nel senso voluto, è univocamente riferibile all'azione formativa, ha una relazione dimostrabile col raggiungimento dei fini organizzativi generali. Tutto questo per consentire sia di acquisire maggiori certezze sul rendimento dell'investimento fatto, sia per ottenere un feedback di controllo e di adeguamento dello stesso processo formativo. Si evidenzia ora l' importanza del definire e programmare preventivamente le tappe del percorso formativo, in ciascuna delle quali deve esservi un criterio ed una logica di valutazione (fasi cibernetiche). Non dimentichiamo però che condizione di validità dell'azione di valutazione è anche la chiarezza nella contrattazione tra formatore e formandi, nonché la condivisione da parte dei secondi degli obiettivi proposti dal primo. Un possibile modello di valutazione proposto individua tre aree di misurazione dei risultati della formazione e i relativi strumenti di misura: - conoscenze: intervista diretta, check list, questionario a risposte multiple chiuse - capacità: analisi quantitative, interviste indirette, questionari-test, supervisione - atteggiamento (o specifica predisposizione ad una data risposta in presenza di un dato oggetto o evento): test motivazionali pre e post formazione, interviste pre e post formazione La valutazione della formazione consiste essenzialmente nello stabilire in che modo e in quale grado il lavoratore trasferisca le conoscenze, le capacità e gli atteggiamenti imparati attraverso un programma specifico, nell'attività lavorativa. Quanto poi le modifiche di comportamento abbiano una relazione dimostrabile col raggiungimento dei fini organizzativi generali, è problema ancor più complesso perché richiede non una misurazione della situazione pre-intervento e un confronto con quella post-intervento, ma una serie continuata di misurazioni in corrispondenza di un intervento sistematico e durevole. 22 Analisi del contesto e dei bisogni Definizione obiettivi Valutazione finale Realizzazione e monitoraggio Progettazione didattica Calendario attività Sistema di coordinamento Preventivo economico Fig. 1, Il processo formativo Secondo Hamblin esistono diversi tipi di obiettivi di formazione a ciascuno dei quali corrispondono altrettanti differenti risultati. Essi sono ordinabili in base ad una sequenza logica in cui l' effetto di un certo fenomeno e' causa del fenomeno successivo: 1. reazione: il gradimento dei destinatari della formazione nei confronti del programma. 2. apprendimento: l' acquisizione di conoscenze (ovvero del sapere), capacità (saper fare), atteggiamenti (saper essere -autocoscienza e autoanalisi- incide pesantemente sui due punti precedenti). 3. comportamento: l' esercizio effettivo di conoscenze, capacità, atteggiamenti. Nessuna azione educativa modifica in modo diretto il comportamento, ma al meglio crea alcune condizioni, o rimuove alcuni ostacoli, perché vengano adottati certi comportamenti. 4. risultati: comprendono gli effetti sull' organizzazione e il fine ultimo. Il conseguimento di effetti desiderati di performance come conseguenza dell' assunzione di comportamenti. Conseguenza formativa ancora più indiretta della precedente: proprio per questo e' praticamente inattuabile qualunque tipo di indagine e misurazione. Si possono, però, ottenere informazioni indirette sugli effetti organizzativi, proponendo la valutazione del clima organizzativo, ovvero la percezione che le persone ne hanno. Per clima si intende: le credenze dei dipendenti sul modo nel quale l' organizzazione lavora; le credenze ed atteggiamenti sul modo nel quale l' organizzazione dovrebbe lavorare per essere produttiva; la misura della soddisfazione nell' organizzazione. Questa valutazione e' possibile sia indirettamente, attraverso l' analisi di alcuni indici (conflitti lavoratori/direzione, rotazione, 23 assenteismo, incidenti sul lavoro), sia direttamente attraverso appositi "Questionari sul clima". 5. fine ultimo o valori finali dell' organizzazione, verso cui tende in realtà tutta l'attività formativa: il campo d' azione diventa ancora più vago, bisogna definire l' obiettivo finale dell' organizzazione. Se esso e' l' accrescimento degli utili economici, dovremo valutare quale parte ha avuto la formazione nella composizione del profitto d' impresa. Per Hamblin tutti i passaggi devono avvenire necessariamente affinché l'azione di formazione raggiunga l'obiettivo di un cambiamento rispetto agli altri e il valutatore ha il compito di controllare i collegamenti tra un livello e l' altro (si veda fig. 2). Valutare significa poter misurare l'utilità dell' intervento, cioè provare che esso ha cambiato il comportamento di un singolo o di un gruppo di individui in modo tale che la loro prestazione si adegui ad uno standard predeterminato. Il che equivale a dire che la valutazione del training dipende da come si realizza il trasferimento nella situazione di lavoro delle conoscenze, delle capacità, degli atteggiamenti appresi per mezzo di un programma. In generale la validità dell' azione di valutazione dipende dal rapporto di congruenza tra tipo di corso e strumenti di valutazione scelti. Azione di formazione Obiettivi di reazione Risultati di reazione Obiettivi di apprendimento Risultati di apprendimento Obiettivi di comportamento sul lavoro Risultati di comportamento sul lavoro Obiettivi di cambiamento organizzativo Risultati di cambiamento organizzativo Obiettivi finali Risultati finali Fig. 2, Valutare la formazione 24 2. Comportamenti sicuri sul lavoro Nella mitologia degli indios Ishir, come in ogni mitologia, gli uomini rubano qualcosa agli dei, in questo caso i colori. Per questo il mondo non è più grigio. Eduardo Galeano, in un racconto presente nel suo libro “Le labbra del tempo”, descrive la reazione di una bambina indigena che segue un regista francese, dai bellissimi occhi azzurri, incaricato di filmare scene in quei luoghi impervi del Paraguay. “… quando il regista le chiese come mai lo seguiva, la bambina rispose che voleva sapere di che colore vedesse il mondo <Del tuo stesso colore>, le rispose il regista. La bambina indispettita replicò <E lei cosa ne sa di che colore vedo io le cose?>” Anche la sicurezza è questione di punti di vista. Per introdurre il tema della sicurezza sul lavoro è necessario richiamare la definizione di salute e applicarla ai contesti lavorativi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) definisce la salute non come semplice assenza di malattia, bensì uno stato di completo benessere fisico, psichico, sociale. Ci si rende così conto che non è possibile parlare di sicurezza solo da un punto di vista giuridico, ma che altre sono le discipline chiamate coinvolte in fase di prevenzione, intervento, miglioramento, programmazione della sicurezza: psicologi, medici, economisti, ingegneri, esperti di comunicazione, … Non è mai sufficiente una legge, per quanto possibilmente buona e puntualmente applicata, per migliorare lo stato delle cose. L’intervento efficace in questi casi è culturale e sociale, partecipato a tutti i livelli, altrimenti destinato a fallire. Vale la pena qui citare alcune Buone Pratiche riconosciute a livello europeo: TITAN Cement Co. (Grecia), azione a lungo termine per la sicurezza e la salute sul lavoro, prevede: formazione continua per i dirigenti ; 2 seminari di 1h ogni anno per i dipendenti, con utilizzo di materiale audiovisivo e disponibilità di oltre 200 pubblicazioni aziendali (opuscoli, manifesti, libri); premi ai dipendenti che non incorrono in incidenti; concorsi per iniziative comunicative (poster, slogan), aperte anche ai familiari; premio di stabilimento in base alla frequenza infortunistica. TUTTAVA (Finlandia), abitudini di lavoro sicure e produttive nel cantiere navale, le cui fasi sono: creazione di una squadra di attuazione del progetto; definizione di buone pratiche di lavoro; eliminazione di ostacoli di natura tecnica e organizzativa; elaborazione di una lista di controllo; rilevamento dei dati di riferimento iniziali; formazione dei dipendenti; feedback settimanale per un periodo significativo; follow up ogni 3 mesi per consolidamento. Le percentuali di infortuni diminuiscono è fortemente collegata allo spirito di gruppo che si crea durante il programma. Metodo WASP (Svezia), analisi del gruppo di lavoro per la promozione della sicurezza, interviene sull’atteggiamento “A me non succederà”: ogni partecipante espone al gruppo storie sui propri mancati infortuni, che sarebbero occorsi per un comportamento scorretto. In questa sede i partecipanti notano che le situazioni di lavoro pericolose, in cui credono di potersela cavare in base alle proprie capacità, sono in realtà a grave rischio anche per le persone più esperte. Modificando la consapevolezza individuale del rischio, dalla discussione emerge un atteggiamento più sicuro. Al di là degli onerosi, necessari e già da tempo previsti per legge, interventi di adeguamento, ristrutturazione, sostituzione o comunque soddisfazione dei dettati tecnici della norma, la chiave di volta per favorire la salute e la sicurezza sul lavoro risiede nella possibilità di intervenire attraverso l’informazione e la formazione a tutti i livelli organizzativi: datore di lavoro (DDL), responsabile e addetti al servizio di prevenzione e protezione (SPP), rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), lavoratori. Il D.Lgs. 626/94 prevede che il datore di lavoro, al momento dell’assunzione di ogni lavoratore, provveda affinché lo stesso riceva adeguate informazioni riguardo a: i rischi concernenti l’impresa 25 in generale; i pericoli connessi all’uso delle sostanze specifiche; le misure tecniche e organizzative di prevenzione adottate; le procedure di pronto soccorso, di lotta antincendio, di evacuazione; chi è responsabile del servizio di prevenzione e protezione aziendale (interno o esterno all’azienda, nelle piccole imprese assolvibile dal datore di lavoro); chi è e come ricorrere al medico aziendale; chi sono i lavoratori incaricati della lotta antincendio, primo soccorso, gestione dell’emergenza. Analoga informazione dovrà essere fornita in caso di modifica delle tecnologie utilizzate nelle lavorazioni e nel processo produttivo. Tutte le informazioni fornite devono essere chiare e facilmente comprensibili. Il datore di lavoro deve accertarsi che il lavoratore abbia acquisito, tramite una formazione adeguata e sufficiente, tutte le pratiche e le conoscenze legate all’attività che andrà ad espletare. Informazione e formazione come strada principale per la prevenzione, ovvero un intervento centrato sulla percezione del rischio e non sulla semplice soddisfazione di obblighi burocratici o sull’esecuzione precisa di procedure organizzative ritenute perfette ed ideali. Formare quindi alla percezione (soggettiva) del rischio, non fermarsi ad un mero addestramento tecnico, significa passare dalla trasmissione di conoscenze e di esperienze sul campo all’acquisizione, da parte di chi lavora, di una sviluppata sensibilità personale verso ogni categoria di rischio (fisico, chimico, biologico, ambientale, organizzativo). Soggettivo è il vissuto individuale dell’oggettivo, la mappa del territorio. L’informazione è l’insieme delle attività finalizzate alla trasmissione delle informazioni e all’arricchimento della sfera delle conoscenze del destinatario. Comporta una rielaborazione cognitiva, più che applicativa tipica delle istruzioni per l’addestramento. La formazione oltre ad ampliare il saper soggettivo, agisce su concezioni, valori, comportamenti. I rispettivi obiettivi sono quindi distinti e complementari, così come le metodologie didattiche e le durate. Alcuni incidenti tragicamente famosi ci testimoniano come non sia possibile arginare il rischio solo grazie a tecnologie avanzate, anzi spesso in questi casi l’individuo perde consapevolezza della propria responsabilità, confidando nell’onnipotenza tecnologica. Pensa di essere libero di non prestare attenzione, non percepisce il rischio (per approfondimenti ANDREONI P., MAROCCI G., 1997, Sicurezza e benessere nel lavoro, Roma, Edizioni Psicologia). Partendo dalla percezione del rischio per arrivare al benessere organizzativo ci si trova sempre in quello che è l’ambito di studio della psicologia del lavoro: il comportamento di chi lavora. Trattare dei comportamenti sicuri sul lavoro ci aiuta quindi ad approfondire le relazioni tra individui e individui, tra individui e gruppi, tra gruppi e gruppi, ovvero, direbbe qualcuno (si veda, DEPOLO M., 1998, Psicologia delle organizzazioni, Bologna, Il Mulino), è un altro modo per studiare le organizzazioni. Pensare e agire in termini di benessere organizzativo, ovvero attività che individui e gruppi attuano finalizzate al reciproco benessere sul lavoro, è indispensabile per mettere in atto comportamenti sicuri. Prima la percezione del rischio, poi regole, strumenti, responsabilità indicate per legge. I lavoratori, nell’ottica UE, non sono più soggetti passivi, che obbediscono ad una prescrizione, ma artefici della prevenzione. Il datore di lavoro e il Servizio di Prevenzione e Protezione assumono ufficialmente la funzione di promozione e organizzazione della cultura della sicurezza. Prevenire effetti dannosi per la salute vuole dire prestare attenzione non solo al rischio di un trauma improvviso, alla violenza istantanea, ma anche a quelli accertamenti medici che avvengono in assenza di una violenza immediatamente percepibile, consentendo di intervenire sull’insorgere di malattie professionali. Il rischio maggiore è quello di abituarsi a convivere con una determinata situazione pericolosa (“L’ho sempre fatto, non è mai successo niente”). Il tempo passa, il pericolo viene percepito, ma non si interviene per prevenire il rischio che si verifichi un danno. Perdurando queste condizioni si arriva ad un momento in cui il rischio soggettivo e collettivo aumenta per un meccanismo di assuefazione al pericolo. Raggiunta tale soglia l’attenzione soggettiva non riesce più a orientare il comportamento in relazione al pericolo presente. 26 Pericolo: condizione obiettiva in cui l’individuo può subire l’eventualità di un danno (conseguente alle condizioni ambientali). Il rischio è la valutazione probabilistica che un pericolo possa procurare danni (conseguente all’intervento umano). R=PxD Rischio = Probabilità x Danno Recentemente alla classica formula R=PxD è stato inserito il fattore K, ovvero il risultato delle iniziative di informazione, formazione, partecipazione attuate in azienda, per cui il livello di rischio risulta essere inversamente proporzionale al valore K. R = P x D/K Rischio: aspetto negativo della possibilità (Galimberti, dizionario psicologico) La rischiosità è la percezione soggettiva (estetica, nel senso dato da Bateson di basata sulle sensazioni) che i singoli o i gruppi hanno del rapporto tra pericolo e rischio. Il rischio è un elemento ineliminabile la cui desiderabilità, o addirittura la necessità, è influenzata culturalmente attraverso un sistema di premi e punizioni, quindi la rischiosità è data dal rapporto tra soggetto e ambiente. Si comprende quindi come possano esistere atti il cui compimento comporta un rischio (trasgressioni), ma che possono gratificare ed accrescere il senso di autostima. La probabilità non predice nulla, è un dato teorico di possibilità che attiva azioni atte ad evitare gli eventuali danni. Il sentimento del rischio cambia invece l’atteggiamento pratico, positivamente o negativamente: di fronte allo stesso rischio si può evitarlo, affrontarlo, non averne coscienza. La sensazione di rischiosità è il modo di essere personale, basato sulla probabilità e sulla motivazione, che orienta le scelte intenzionali. L’obiettivo da raggiungere, e le sottostanti motivazioni, portano l’individuo a scegliere tra le alternative possibili. L’accettabilità deriva dalle opzioni (descrizione del pericolo e valutazione del rischio) presenti al soggetto di fronte ad un evento rischioso. Essa attiva le energie per rifiutare o affrontare la rischiosità (atto di volontà). Attraverso le sensazioni derivanti dalla rischiosità può modificarsi la percezione che il soggetto si forma (in senso costruttivista). La percezione è un atto naturale e inconsapevole che soggiace a due processi: codificazione delle informazioni esterne (es. stimolo luminoso) e organizzazione nella mente (es. relazioni spaziali). Può capitare che le nostre percezioni non corrispondano alla realtà esterna, cosa che ci stupisce molto (es. figure impossibili). Allo stesso modo può capitare, quasi sempre, che la rischiosità non corrisponda al pericolo descritto e al rischio valutato, ma alla sensazione soggettiva che si ha del rapporto tra di essi. E’ una (altra) realtà, percepita da soggetti singoli o gruppali, che attiva meccanismi di accettabilità e decisione di operare, attraverso la quale è anche possibile intervenire per ottenere comportamenti più sicuri. Il nostro agire è quindi condizionato da una serie di semplificazioni, conseguenti al fatto che ogni atto di coscienza, ovvero guidato da consapevolezza, è fuggevole. Per agire si attivano risposte immediate che non consentono di recuperare contemporaneamente tutte le informazioni necessarie ad una valutazione consapevole. Per riassumere: • Pericolo si descrive • Rischio si valuta • Rischiosità soggettività • Accettabilità rappresentazione Esiste un limite, che cambia tra gli individui e per gli individui, al numero di cose che si possono fare nello stesso tempo. Questo obbliga a selezionare, quelle importanti per uno scopo. I processi cognitivi cercano la strada più economica per guidare il comportamento, in alcuni casi aumentando il grado di incertezza. Inoltre le sequenze di azioni tendono ad assumere una coerenza interna. Questo spiega la ricerca di informazioni che confermano il proprio punto di vista (sistema 27 delle aspettative). Si selezionano quelle risposte che hanno dimostrato di funzionare e diventeranno automatiche. La conseguenza è che alcuni segnali vengono ignorati come ininfluenti, quindi le scelte si basano sempre su poche e ripetitive informazioni attese (prevedibilità). L’ambiente è semplificato dalle limitazioni poste dal personale modo di osservare la realtà. Gli individui tendono a favorire la conservazione piuttosto che il cambiamento, ignorando le falsificazioni, producendo abitudini ed elaborando ovvietà. Ogni evento può essere descritto a partire da punti di vista diversi, del tutto validi all’interno delle loro ovvietà. Avremo quindi ovvietà, cioè conclusioni, diverse sugli stessi fenomeni. Tanti sistemi di osservazione, ognuno parziale e semplificato, tante mappe, ognuna espressione di ripetute interpretazioni, per lo stesso territorio. Quello che sappiamo ci aiuta, ma ci limita. Allo stesso modo ciò che ignoriamo influenza il nostro comportamento. Quindi l’essere umano è un sistema a capacità limitata, non può produrre più di un certo sforzo. In una interpretazione Bio – Psico – Sociale è costituito da 3 sottosistemi interrelati, appunto Corpo – Mente – Relazioni. Mente: sistema di cui l’uomo dispone per trattare l’informazione, in modo consapevole o inconsapevole. o Coscienza o consapevolezza: sottosistema interno alla mente che predispone e coordina piani d’azione, in modo routinario o sotto controllo attentivo. Attenzione: meccanismi e processi utilizzati dalla coscienza per controllare l’attività mentale (se e quando necessario), è selettiva e varia in intensità. Attenzione, facoltà di avvertire gli eventi che accadono nell’ambiente esterno e interno a se stessi o i propri bisogni: eccitabilità del sistema nervoso di fronte alle variazioni energetiche (neurofisiologia); Capacità di reagire agli stimoli (piano comportamentale). Attualmente manca un accordo generale su quali processi mentali siano implicati nel controllo dell’attenzione, però è accertata una tendenza a selezionare l’informazione in arrivo per rispondere ad una strutturale incapacità di far fronte contemporaneamente a tutti gli aspetti ambientali. Di conseguenza è utile distinguere tra reattività fisica e consapevolezza mentale, quando si mette in atto una risposta agli stimoli percepiti. Non vi è sempre consapevolezza degli stimoli cui si risponde, il meccanismo dell’assuefazione tende ad rendere automatiche certe risposte ripetute. Tutte le altre operazioni mentali richiedono invece l’uso di risorse attentive. Questi meccanismi sono centrali nella prevenzione degli infortuni, si pensi ai sogni ad occhi aperti (o preoccupazioni, o competitività) che alleviano la monotonia degli atti automatici, ma spostano risorse attentive dal compito principale rendendo fisicamente vulnerabili. La distrazione effettivamente può essere la causa degli incidenti perché l’attenzione viene ingannata da un falso senso di sicurezza e rivolta altrove. La rischiosità è in questi casi fuorviata e la consapevolezza inibita, le risorse individuali sono rivolte altrove, quindi manca quel comportamento intenzionale che consente di agire in modo responsabile. La conclusione è che gli aspetti soggettivi hanno in realtà tanta importanza quanto le procedure tecniche nell’orientare i comportamenti individuali all’interno dei cicli lavorativi. Un efficace intervento sulla sicurezza coinvolge sia la dimensione individuale che sociale, attraverso azioni che considerano i sistemi di comunicazione tra individui e gruppi, proponendosi il loro miglioramento. La motivazione alla sicurezza è quindi una tendenza ad agire sulla spinta di un bisogno. Il rischio è comunque uno dei meccanismi per raggiungere la sicurezza soggettiva, anche se spesso allontana l’individuo dalla sicurezza oggettiva. Per questo motivo una formazione efficace interviene sul perché l’individuo rischia e non sul come. La dinamica sicurezza-insicurezza regola tutti i comportamenti coscienti, attraverso il coinvolgimento emotivo sei singoli. 28 Uomo - sistema a capacità limitata Bio – Psico – Sociale Mente - Sistema per trattare ’informazione - - Coscienza Predispone e coordina piani d’azione - Attenzione Meccanismi e processi per controllare l’attività mentale FACOLTA’ ATTENTIVE Attenzione PRODUCONO - Meccanismi e processi per MOTIVANO RISORSE ENERGETICHE controllare l’attività mentale Nel modello della finestra di Johary (Fig. 4) qui riportato, la dimensione delle 4 aree è variabile in funzione della quantità e qualità dei processi di relazione tra individui, come esemplificato dalla linea tratteggiata. Attraverso la comunicazione (diremmo efficace) si arricchisce il personale bagaglio di conoscenze, ampliando l’area di dominio pubblico (come esemplificato dalla linea tratteggiata). E’ anche vero che alcune informazioni già presenti nel personale dominio pubblico possono trasformarsi o perdersi. Questo accade quando essa si trasforma in una ovvietà, in conseguenza della routine. La persona tende a percepire come simili situazioni tra loro diverse, come effetto della tendenza a selezionare in modo economico e coerente tra loro le informazioni. Si diventa così paradossalmente meno esperti a prevedere, in particolare le eccezioni che quindi colgono impreparati. Quando un’informazione nota diventa ovvia (consuetudine della ripetitività) essa scompare (rischio potenziale), finché non intervengano altre conseguenze. E’ la propria personale ovvietà che definisce spiegazioni causali e conduce il comportamento. Questi comportamenti presentano aree di Fig. 3, Prospettiva psicologica 29 rischio potenziali che l’individuo non vede o riconosce. Il comportamento risulta persistente al mutare del contesto, ognuno pensa “Non mi riguarda”. In realtà i comportamenti sicuri non sono indipendenti dal contesto, mentre l’agire nell’ovvio è indipendente dal contesto. L’apprendimento quindi consegue ad una ristrutturazione della realtà, ricostruita in modo da considerare le possibili alternative all’ovvio, in gran parte come fenomeno di auto apprendimento reso possibile dal porsi da un altro punto di vista. E’ un atto di coscienza, di intuizione, di insight, un salto logico, il reale cambiamento. Le interpretazioni limitanti sono fondate su una serie di pre/giudizi che riducono la possibilità di considerare le possibili alternative. L’individuo può cercare di riconoscere e limitare i propri personali pregiudizi, comunque l’azione è perlopiù conseguenza di un modo di essere e non frutto di una riflessione (“Semina un pensiero e raccoglierai un’azione, semina un’azione e raccoglierai un’abitudine, semina un’abitudine e raccoglierai un carattere, semina un carattere e raccoglierai un destino”). Aggiungiamo che l’accordo tra le persone che condividono un contesto conferisce ulteriore (presunta) VERITA’ alle azioni dei singoli. • Area pubblica – Noto a sé – Noto agli altri • Area cieca – Ignota a sé – Nota agli altri • Area privata – Noto a sé – Ignoto agli altri • Area inconscia – Ignota a sé – Ignota agli altri Fig. 4, Finestra di Johari 30 3. Il coinvolgimento per la sicurezza sul lavoro: la formazione dei formatori “C’era una volta un famoso oratore, abituato a parlare a grandi platee che viene invitato a tenere una conferenza in un piccolo paese. Quando arriva in paese con suo disappunto vede che nella sala conferenze c’è un unico signore. Non sa bene cosa fare, se valga la pena fare la sua conferenza, ma l’unico spettatore serenamente gli dice <Se una mattina vedo un solo cavallo nella mia stalla perché gli altri 29 sono scappati, a quello io do la biada>. Il famoso oratore comincia e parla, parla, parla e quando si ferma chiede <Allora piaciuta la mia conferenza?>. <Io sono un semplice allevatore di cavalli, se una mattina entro nella stalla e vedo che dei miei 30 cavalli 29 sono scappati, a quel unico rimasto non do tutta la biada destinata ai 30>. (liberamente tratto da C. Casula “I porcospini di Schopenhauer” F. Angeli, p. 26) Il formatore quindi, esperto di specifiche problematiche, è chiamato a intervenire mettendosi nella prospettiva dell’utente finale della formazione, garantendo coerenza tra obiettivi iniziali, metodologie didattiche, risultati finali, così che l’intervento risulti adeguato al contesto in cui si realizza. ANALISI EVENTO CRITICO MODALITA' ORGANIZZATIVE STRUTTURA ANALISI DEI RUOLI ANALISI DEL BISOGNO DOMANDA CONSAPEVOLEZZA POSSEDUTE COMPETENZE PROFESSIONALI BISOGNO DESIDERABILI EVENTO CRITICO Fig. 5, Evento critico Nel caso specifico della sicurezza sul lavoro, propria di ogni lavoratore e altrui rispetto a chiunque altro operi nello stesso luogo di lavoro (indipendentemente dalla tipologia contrattuale), l’evento critico che ci spinge a progettare la formazione è propriamente la volontà di accrescere il livello di salute e benessere sul lavoro di tutti i lavoratori. Questo obiettivo preciso può essere realizzato ricorrendo a formatori interni, così come a formatori esterni, i quali intervengano su contenuti e in fasi diverse del processo formativo. Una formazione che sarà strutturata con momenti d’aula e con momenti “sul campo”, per conseguire quella necessaria integrazione tra approfondimento delle conoscenze, riflessione su esperienze reali e sviluppo di atteggiamenti sicuri e sani. 31 In modo analogo possiamo considerare, in un intervento formativo “a cascata”, evento critico la formazione di chi è chiamato a formare i lavoratori. La formazione dei formatori identifica una modalità organizzativa che condiziona la struttura di un’intera organizzazione, struttura all’interno della quale è insito il bisogno di formare personale che formi i lavoratori. Da una attenta analisi dei bisogni, attraverso l’evoluzione della struttura organizzativa derivante dall’evento critico, si pone l’analisi dei ruoli coinvolti nell’intervento di formazione dei formatori., ovvero l’identificazione di precise competenze professionali in termini di sapere, saper fare, saper essere. Si aggiunga che è anche richiesta consapevolezza dell’evento critico, ovvero della necessità di formare formatori, affinché possano emergere queste competenze professionali proprie del ruolo di formatore. A questo punto saremo in grado di identificare persone idonee al ruolo di formatore, in modo tale da definire puntualmente il bisogno di formazione dei formatori, nella distanza tra competenze possedute e competenze desiderabili. Non solo, nella misura in cui si riesca a comunicare efficacemente il processo in corso di analisi dell’evento critico, ovvero la necessità di formazione formatori, coinvolgendo la struttura, possiamo accorgerci di come il bisogno di formazione venga espresso in domanda dai destinatari stessi dell’intervento formativo, ovvero i futuri formatori. Tra le competenze dei formatori, anche in materia di sicurezza, sicuramente quella di pensare e realizzare la formazione nei termini di risposta ad un evento critico: maggiore salute e benessere sul lavoro. Intervento che il formatore proporrà coerentemente alle modalità organizzative, ai bisogni della struttura interna, alle competenze professionali, attese e possedute, che emergono nell’analisi di ogni ruolo coinvolto nell’evento critico (tutti i lavoratori) e per la consapevolezza che gli stessi destinatari hanno dei rischi professionali presenti nel proprio lavoro. Anche in questo caso il bisogno diventa domanda, attraverso la capacità del formatore di lasciare emergere le singole aspettative dei diversi lavoratori nel contratto formativo che lega docente e discente nel corso dell’attività formativa (d’aula e sul campo). ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO FABBISOGNI FORMATIVI RUOLO ATTRIBUITO ALLA FORMAZIONE PIANO FORMATIVO TEMPI DI REALIZZAZIONE STRUMENTAZIONE DISPONIBILE ATTEGGIAMENTO VERSO LA FORMAZIONE RISORSE ASSEGNATE Fig. 6, Piano formativo La formazione alla sicurezza e la formazione dei formatori alla sicurezza, tassello centrale in una pratica prioritaria di coinvolgimento di tutti i lavoratori nell’adozione di comportamenti sicuri, si inserisce di fatto in quello che può essere il piano formativo aziendale, come parte integrante di esso 32 e tema trasversale alle professionalità presenti nell’organizzazione. L’errore più grave che si potrebbe commettere in questi casi, sarebbe quello di recludere questa formazione nel campo degli obblighi normativi cui ottemperare e non, come è, considerarla un’opportunità di sviluppo organizzativo che non deve rimanere competenza di pochi specialisti, ma integrarsi nel comportamento organizzativo atteso da ogni lavoratore. Altra cosa, pur connessa, è il presidio degli obblighi cogenti, garantito dal personale competente in materia. L’adulto, il lavoratore, come sanno gli esperti di andragogia, è orientato ad un apprendimento centrato sui problemi. Utilizzando una metodologia centrata sul gruppo si possono ottenere, con maggiore efficacia, quei cambiamenti di atteggiamento consoni alla sicurezza, diminuendo la tendenza al rischio. Il gruppo, a livello motivazionale, definisce la desiderabilità sociale dei comportamenti e, a livello di comunicazione, facilita la circolazione delle informazioni. Allo scopo di fornire indicazioni pratiche a chi è chiamato a formare i lavoratori alla sicurezza, così come per proporre alcuni suggerimenti nel campo della formazione dei formatori, è necessario, a questo punto, delineare alcuni elementi utili alla didattica. Scopi della formazione: far conoscere ad ogni lavoratore a quali rischi va incontro esercitando l’attività lavorativa cui è preposto; far si che ogni lavoratore impari come si possono prevenire gli infortuni, i disturbi e le malattie causate dal lavoro; far si che alla fine del corso il lavoratore abbia imparato come lavorare in modo da non nuocere alla propria salute e a quella degli altri suoi colleghi. Per ottenere questi risultati il lavoratore deve apprendere: il processo produttivo dell’azienda; le caratteristiche delle macchine, delle attrezzature e delle eventuali sostanze utilizzate; tutti i rischi che possono essere presenti (anche psicosociali) e come evitarli; come comportarsi in caso di pericolo grave e immediato. Si tratta di imparare a lavorare con gli altri nella complessità delle cose (Prof. Novara, Modena 2004, Convegno “Ambiente Lavoro”), potremmo chiamarla convivenza organizzativa (Prof. Avallone, Modena 2004, Convegno “Ambiente Lavoro”) e cercare di identificare le dimensioni di un’organizzazione in buona salute. In Barilla hanno lavorato sugli stili di leadership in materia di sicurezza, distinguendo tra il capo: impotente sul rischio (non so cosa fare, fatalista), che esternalizza il rischio (è competenza del SPP, “nicchia”), che cambia le attrezzature (tecnicistico, tradizionalista), coinvolto che coinvolge (autorevole, competente). Attraverso la formazione si è riusciti a portare l’85% dei responsabili ad assumere lo stile autorevole. Da questo è derivata una formazione che integra diversi strumenti didattici, tra cui uno strumento grafico attraverso il quale ai lavoratori è richiesto di individuare situazioni di rischio e a partire dal quale si sviluppa una adeguata competenza di percezione del rischio. Si lavora sulla prevenzione, cioè sul prae-venire, il venire prima, anticipare, sviluppare la capacità di pensare. La “vignetta” offre l’occasione per discutere di un atteggiamento personale verso la realtà, attraverso la simbolizzazione del contesto (Prof. Amovilli, Modena 2004, Convegno “Ambiente Lavoro”). Più in generale: Metodi di formazione: in aula, “on the job”, in auto istruzione, outdoor training La formazione in aula può essere classificata come: o Lezione deduttiva, dai principi generali per ricavarne applicazioni particolari; o Lezione induttiva, dallo studio di caso alla regola generale (apprendimento per scoperta); o Seminario, come riflessione su modelli concettuali; o Laboratorio, ovvero piano di lavoro fattibile e condiviso, condotto da una guida esperta o facilitatore; o T-group di Lewin (o altre varianti gruppali parzialmente de-strutturate, Moreno, Balint, Boal, …) per conseguire un apprendimento di competenze psicosociali. Quaglino, “Fare formazione”, distingue tra: 33 • Metodi tradizionali: istruzione programmata, lezione, lettura, discussione, incident/caso, simulazione/business game/ in basket/ role play/ esercitazione, gruppo esperienziale/t-group, gruppo di studio/lavoro di progetto/autocaso. • Metodi emergenti: outdoor development/outdoor bound, learning community/autonomy laboratory, action learning/joint development activities, metodi riflessivi in training autogeno. L’animatore/docente in aula avrà il compito di coordinare la discussione e proporre gli stimoli adatti affinché essa si riveli la più efficace possibile. Questa tecnica permette una partecipazione completa da parte di tutti e quindi aumenta l’interesse e l’attenzione, così che l’apprendimento conseguente ne risulta avvantaggiato sia qualitativamente che quantitativamente. Allo scopo di mantenere alta la partecipazione di tutti i membri del gruppo è previsto l’utilizzo di una serie di tecniche attive. Esse permettono, al di là della semplice acquisizione di nozioni, di raggiungere i seguenti obiettivi: mantenere alto l’interesse e allenare le persone ad ascoltare le opinioni degli altri. Condizione essenziale per realizzare un apprendimento valido è la disponibilità degli individui. Non esiste neppure la figura del maestro. Essa infatti presupporrebbe quanto meno una conoscenza approfondita della materia, mentre invece è più facile pensare che tale conoscenza sia polverizzata nel gruppo. Ogni membro del gruppo ha esperienza, opinioni che può cedere ad altri. Riorganizzando il nostro bagaglio di esperienze secondo una metodologia, è possibile raggiungere soluzioni accettabili del problema. In questo senso è compito dell’animatore favorire lo scambio fra i partecipanti fornendo loro le occasioni per discutere (tecniche attive - casi - esercitazioni - ecc.) e metodologie di lavoro in gruppo che permettono di elaborare soluzioni raggiunte con il consenso. L’animatore, può avere al massimo avuto l’occasione di interessarsi più a fondo del problema sicurezza e questa esperienza dovrà darla al gruppo; però le situazioni reali di lavoro vengono vissute più spesso dai partecipanti che possiedono perciò una massa di esperienze estremamente valide che devono venire utilizzate. L’animatore può altresì integrare i momenti d’aula proponendo il ricorso a supporti in autoistruzione (dispense, ipertesti, VHS, CD-ROM, DVD, connessione/portale internet dedicato …) e project work individuali. La formazione sul campo prevede esattamente le stesse fasi di una formazione realizzata in aula, a titolo esemplificativo si propongono quindi le fasi dell’affiancamento: o Colloquio di accoglienza che permette di rilevare le competenze dell’allievo o Condivisione del contratto formativo che evidenzia le competenze attese o Calendario delle attività che descrive un percorso condiviso di crescita professionale o Inserimento in ruolo: presentazioni, vocaboli, luoghi o Svolgimento del programma previsto per quel ruolo o Verifiche in itinere costanti, con momenti formali di comunicazione tra formatore ed allievo o Supporto per il conseguimento degli obiettivi fissati, con interventi rivolti all’allievo e all’organizzazione o Valutazione finale approvata dall’organizzazione e comunicazione dell’esito all’allievo Sotto la definizione di formazione “on the job” includiamo il Tirocinio/Stage e/o Action Learning, in affiancamento, utile per la circolazione di cultura comune. Questo addestramento risulta per lo più condotto dal datore di lavoro o dal superiore diretto o da un collega esperto, solo raramente interviene un consulente esterno (assai frequente nella formazione d’aula, che richiede competenze specifiche nella gestione del gruppo) o un mentore, ovvero un membro dell’organizzazione esperto, ma non appartenente alla stessa unità operativa. Questa esperienza valorizza la capacità di risolvere problemi che si presentano concretamente. 34 Per Outdoor Training intendiamo, invece, formazione al di fuori dell’aula in situazioni che mettono alla prova competenze trasversali e di problem solving del soggetto (apprendimento motivazionale decontestualizzato). Al momento non applicato in modo evidente per la formazione alla sicurezza. Tecniche attive Possono essere utilizzate in relazione al metodo ritenuto idoneo in fase di progettazione. Qualità = adeguatezza tra strumento e contesto. Casi E’ una applicazione tra le più usate e famose (Business Schools, Istituti di formazione, Scuole manageriali, ecc.) della metodologia attiva nell’addestramento. Si tratta di proporre agli addestrandi la lettura di un testo (di lunghezza molto variabile - da poche pagine a molte decine) contenente la descrizione di una fattore problematico (appunto il “caso”) relativo ad un tema specifico. L’obiettivo è quello di favorire l’analisi e la discussione del caso per ricavarne alla luce delle esperienze dei singoli, gli aspetti significativi ed utili. Favorisce la capacità di cogliere un problema (problem solving). L’Autocaso e/o Incidente: interviene per ridurre la negatività di un caso vissuto. Ecco alcune istruzioni e consigli: somministrare il caso prima di iniziare la trattazione dell’argomento a cui il caso stesso si riferisce; prima di distribuirlo ai discenti presentarlo genericamente, illustrandolo nelle sue caratteristiche (cosa è, a cosa serve, come utilizzarlo); distribuirlo a ciascun partecipante; invitare i partecipanti a leggerlo individualmente; attendere che tutti abbiano terminato la lettura del caso (concedere in media 5 minuti per pagine di testo); l’animatore lo rilegga ad alta voce vivacizzando la lettura con una interpretazione vocale stimolante (questo aiuta i gruppi di minore livello a comprendere esattamente il problema); si passi all’analisi degli aspetti presenti nel caso, invitando il gruppo ad esprimere il proprio parere e favorendo gli interventi dei partecipanti meno attivi con stimoli appropriati. Questa fase richiede mediamente (per un caso di qualche pagina) dai 20 ai 45 minuti circa. Durante questa stessa fase (l’analisi) l’animatore scriva sulla lavagna, man mano che le osservazioni scaturiscono dal gruppo, una breve schematizzazione del concetto apportato (è sufficiente qualche parola), quando anche l’ultima osservazione è stata riassunta sulla lavagna ed il gruppo non presenta più contributi, si chiude la fase di analisi con una panoramica di tutti gli interventi fatti (in dieci minuti circa). esaurito il commento degli aspetti problematici del caso (cioè i contenuti) si può passare al commento della dinamica verificatasi durante la discussione del caso. Si può sottolineare per esempio il manifestarsi di meccanismi di esclusione, scarsa capacità di ascolto degli altri, autoritarismo negli interventi. a questo punto lo studio e la discussione del caso può dirsi esaurita e si passa agli aspetti teorici della lezione prendendo spunto dai contributi dati dal gruppo. Esercitazioni Alcune indicazioni possono risultare utili per la costruzione di esercitazioni semplici che non richiedono né “campionamenti” né una particolare specializzazione per realizzarle. Si può trattare di: liste “disordinate” che devono essere riordinate dai partecipanti; elenchi di situazioni corrette e scorrette, in cui ai partecipanti viene chiesto di individuare le situazioni corrette; liste di comportamenti sicuri ed insicuri, in cui ai partecipanti spetta la scelta dei comportamenti adottati più frequentemente; esercitazioni che contengono situazioni corredate di più ipotesi di soluzione, ai partecipanti spetta di scegliere le più sicure; fotografie, preparate appositamente, riportanti 5/6 situazioni di rischio, ai partecipanti spetta la ricerca, l’individuazione dei rischi e la scelta di priorità per importanza. 35 Quella particolare esercitazione definita Simulazione, o caso simulato dal vivo, permette di evidenziare stereotipi del ruolo, anche con l’attribuzione, ad alcuni partecipanti, del ruolo di osservatori (Acquario). Si tratta di proporre apprendimenti per esercizio, sperimentazioni, riproduzione di problemi e situazioni. E’ un modello esperienziale che segue i passaggi di sperimentazione, analisi, concettualizzazione (modelli sequenziali di Kolb, Pfeiffer, Jones). Possiamo distinguere tra: o S. addestrativa: simulazione di una situazione lavorativa circoscritta che richiede una successione di comportamenti chiusi e prescrivibili o Role play (o S. su casi): rappresentazione di una situazione lavorativa a partire da profili professionali, anche con inversioni di ruolo. Permette di sperimentare dinamiche relazionali in situazione controllata, a volte con videoripresa e analisi della registrazione. o S. dimostrativa: esercitazioni codificate che permettono di evidenziare fenomeni sociali e comportamenti interpersonali o S. di analisi: assegnazione di compiti che sollecita l’analisi in plenaria sull’accaduto, mettendo in luce le relazioni presenti nel gruppo Lavori di gruppo Nel lavoro di gruppo si chiede ai partecipanti di analizzare autonomamente un problema, di discuterlo, di prospettare eventuali idee e soluzioni. L’animatore può impostare tale lavoro secondo alcune modalità: porre se stesso come animatore del gruppo completo fornendo stimoli per la discussione, favorendo l’intervento di tutti, effettuando sintesi, chiedendo di approfondire alcuni punti, scrivendo eventualmente sulla lavagna i contributi del gruppo; lasciare che il gruppo lavori da solo, al più chiedendo che venga nominato un animatore che coordini i lavori e limitando al minimo i propri interventi di stimolo; dividere il gruppo in due - tre sottogruppi che separatamente analizzano lo stesso problema; poi, in una riunione plenaria, si confrontano e discutono le diverse soluzioni per arrivare ad un’unica decisione di gruppo; dividere il gruppo in due - tre sottogruppi che separatamente analizzano aspetti diversi di uno stesso problema; poi nella riunione plenaria si discutono le diverse posizioni per integrare le soluzioni con lo scopo di giungere ad una definizione completa del problema in esame. Il docente fa da animatore al lavoro della plenaria coordinando sia le esposizioni dei rappresentanti del gruppo, sia la discussione generale. I giochi psicopedagogici, mirati al contenuto, permettono di sperimentare i concetti presentati dal docente, rendendoli più pregnanti. In particolare l’”In basket”, strumento formativo che interviene sullo sviluppo di capacità decisionali. Il lavoro in sottogruppi ha lo scopo di stimolare maggiormente la partecipazione generale che un numero elevato di allievi rende difficile. Il lavoro di gruppo può essere usato sia come inizio di un discorso (cioè come base per una lezione) sia come momento riassuntivo di verifica dell’apprendimento. Nel primo caso l’argomento deve presupporre una base di conoscenza precedente dei partecipanti, anche se generica e poco organica: il lavoro di gruppo ha quindi lo scopo di suscitare un confronto di tali idee, un loro approfondimento specifico, una loro sistematizzazione organica, un loro comportamento. Nel secondo caso il tema deve chiaramente riferirsi alle lezioni precedenti e lo scopo è quello di completare eventuali lacune lasciate dalla spiegazione e che la discussione può mettere in luce. Didatticamente è bene incominciare con lavori di gruppo del primo tipo ed usare gli altri solo quando si è già formato un certo ambiente. Ognuno di noi ricorda maggiormente, ed è maggiormente convinto, da ciò che fa in prima persona (dissonanza cognitiva), rispetto a ciò che dice o vede o ascolta. Esattamente in questo ordine decrescente. 36 A questo scopo è possibile che al termine di ogni riunione il docente indichi alcuni fenomeni della dinamica del gruppo particolarmente significativi. Ciò può essere utile soprattutto quando l’animatore si rende conto che vi sono nel gruppo degli ostacoli che impediscono una partecipazione globale ed aperta. Questo tipo di intervento è però estremamente difficile per le reazioni che può scatenare e deve essere effettuato con estrema cautela. Il ruolo dell’istruttore nei metodi attivi Ci sono dei principi di base che, pensiamo, tutti possano condividere, li elenchiamo di seguito: o Gli adulti, in particolare, imparano meno da lezioni e conferenze piuttosto che dallo scambio di esperienze personali. o Difficilmente una idea nata dall’esperienza potrà essere abbandonata in seguito ad una lezione che insegni idee contrarie o quanto meno diverse. Si tratta quindi di riflettere sulla propria esperienza e permettere che l’esperienza di ciascun partecipante possa essere "utilizzata dagli altri”. o In riunione di addestramento, imparano tutti con l’occasione fornita per lo studio di problemi concreti e non astratti. o Occorre mandare avanti la discussione in maniera ordinata coinvolgendo anche gli interventi contraddittori. o E’ necessario essere in grado di porre domande che facciano progredire il pensiero del gruppo e nello stesso tempo mettano in rilievo i risultati conseguiti. o E’ importante ottimizzare il tempo a disposizione impedendo che la discussione si attardi su questioni di secondaria importanza. L’istruttore deve tenere presente: il caso; il gruppo e ciò che succede mentre si discute; l’argomento di discussione. 37 Bibliografia DEPOLO M. (1998), Psicologia delle organizzazioni, Bologna, Il Mulino ANDREONI P., MAROCCI G. (1997), Sicurezza e benessere nel lavoro, Roma, Edizioni Psicologia I.S.F.O.L. 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