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Lavorare bene e con soddisfazione
Federico Ricci
Psicologo del Lavoro
Parte prima, il benessere organizzativo come scelta
consapevole
o Etica e responsabilità organizzativa
o Il benessere all’interno delle organizzazioni
Parte seconda, la formazione dei formatori: orientare
verso comportamenti salutari sul lavoro
o Le fasi del processo formativo
o Comportamenti sicuri sul lavoro
o Il coinvolgimento per la sicurezza sul lavoro: la
formazione dei formatori
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PARTE PRIMA
Il benessere organizzativo come scelta consapevole
Un esploratore percorreva le immense foreste dell’Amazzonia,
cercava eventuali giacimenti di petrolio, aveva molta fretta.
Per i primi due giorni gli indigeni che aveva ingaggiato come portatori
si adattarono alla cadenza rapida e ansiosa che il bianco pretendeva di
imporre a tutte le cose. Ma al mattino del terzo giorno si fermarono,
silenziosi, immobili, l’aria totalmente assente. Era chiaro che non avevano
nessuna intenzione di rimettersi in marcia. Impaziente l’esploratore, indicando
il suo orologio, con ampi gesti cercò di far capire al capo dei portatori che
bisognava muoversi perché il tempo premeva. “Impossibile”, rispose quello,
tranquillo. “Questi uomini hanno camminato troppo in fretta e ora aspettano
che la loro anima li raggiunga”.
Etica e responsabilità organizzativa
La Commissione Europea, nel Libro Verde ad essa dedicato, definisce la responsabilità sociale
d’impresa come “l’integrazione volontaria delle problematiche sociali ed ecologiche nelle
operazioni commerciali e nei rapporti delle imprese con le Parti interessate”, non quindi elemento
addizionale alle attività fondamentali dell’impresa, ma correlato alla gestione stessa, alle politiche
di governance / conduzione dell’organizzazione. Partendo da tale affermazione, la RSI (o CSR,
Corporate Social Responsability)
può essere definita come “la responsabilità che un’impresa
mostra verso tutti gli “stakeholder” con i quali interagisce direttamente o indirettamente. Con il
termine stakeholder si vuole intendere tutti quei soggetti, individuali e collettivi, che sono portatori
di una forma d’interesse legittimo verso l’impresa, che sono cioè in qualche modo legati ad essa: in
modo passivo, essendo condizionati dalle scelte strategiche dell’impresa nella misura in cui ne
subiscono direttamente o indirettamente le conseguenze; in modo attivo, nella misura in cui, con il
loro comportamento, possono influenzarne l’andamento e il successo. La RSI si estende, quindi, al
di là del perimetro dell’impresa stessa coinvolgendo non solo i lavoratori e gli azionisti, ma
integrando la comunità locale e un ampio ventaglio di Parti Interessante: i partner commerciali e i
fornitori, i clienti, i consumatori, le istituzioni pubbliche e le associazioni o le ONG (Organizzazioni
Non Governative) che rappresentano la comunità locale. In base a questa formulazione del concetto
di RSI, un’impresa si ritiene responsabile quando agisce in modo da coniugare i propri interessi con
quelli di tutte le parti interessate o legate ad essa. Tutti questi referenti sono stakeholder
dell’impresa e nel loro insieme rappresentano interlocutori, ognuno indispensabile, per riconoscere
la responsabilità sociale dell’impresa. Non è dunque possibile definire la responsabilità sociale di
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un’impresa facendo riferimento ad una sola categoria di referenti, né tanto meno definirla al di fuori
di una logica di filiera. Il coinvolgimento –necessario- di tutti gli attori interessati avviene attraverso
metodologie riconosciute, testate, riproducibili.
Lo stesso Libro Verde, “Promuovere un quadro europeo per la Responsabilità Sociale delle
imprese”, non indica alcun procedimento a carattere obbligatorio che imponga alle imprese europee
l’adozione di forme organizzative etiche. L’appello pone in evidenza, tuttavia, come una gestione
etica abbia in realtà anche un chiaro valore economico che può contribuire a generare redditività,
all’interno di un percorso a carattere volontario. E’ una scelta dell’impresa nel posizionamento
strategico sul mercato, non è beneficenza, ma un investimento intangibile sulla cultura
organizzativa (es. formazione etica del personale). Emerge sostanzialmente una convinzione
politica che la responsabilità sociale delle imprese “sia intrinsecamente connessa con il concetto di
sviluppo durevole” (COM 2002, 347) al quale la Comunità Europea vuole ispirarsi nelle sue scelte
politiche e gestionali (Carta dei diritti fondamentali UE, 2000).
Una ricerca condotta dall’Università di Roma Torvergata ha permesso di analizzare 1.000 imprese
nell’arco di 13 anni, come riferisce il Prof. Leonardo Becchetti docente di Economia Politica,
“Trovando una correlazione significativa tra il livello di CSR e la produttività, misurata con il
fatturato per addetto. Probabilmente i lavoratori sono più motivati. La redditività del capitale invece
è inferiore, ma è migliore il profilo di rischio: i portafogli etici sono meno volatili, dunque più
appetibili per investitori di lungo periodo. Infine l’etica aziendale permette di <catturare>
importanti nicchie di consumatori sensibili a questi aspetti, che stimiamo intorno al 20%” (Intervista
di Ida Cappiello su “Etica & Finanza” settembre 2005). Sul comportamento d’acquisto interviene
anche il Prof. Marco Frey, Ordinario di Economia alla Scuola Superiore S.Anna di Pisa, che,
attraverso una ricerca sulla RSI nella prospettiva dei consumatori condotta nel 2004, rileva come
per gli italiani la RSI sia il secondo criterio d’acquisto subito dopo la valutazione del prodotto.
Tuttavia, la stessa ricerca, porta a scoprire che queste dichiarazioni d’intenti non sempre reggono
alla prova dei fatti, ovvero sono molti meno gli italiani che hanno realmente acquistato prodotti solo
dopo aver verificato che non inquinano e che non vengono da aziende che non rispettano i diritti dei
lavoratori (articolo su “Vita – non profit magazine” del 25 marzo 2005). Rimane vero che nella
modalità con cui l’impresa produce valore economico acquisiscono sempre più importanza le
caratteristiche estranee al prodotto, ma legate alla reputazione dell’impresa e al patto fiduciario che
si instaura tra l’organizzazione
e i suoi principali interlocutori: “Reputazione, reputazione,
reputazione … la parte immortale dell’uomo” (William Shakespeare, Otello). La costruzione di
reputazione intende perciò sopperire alla cronica situazione di incompletezza informativa
(compriamo la reputazione dell’impresa).
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Toni Muzi Falconi, professionista delle Pubbliche Relazioni, sottolinea come sia assai diffusa la
percezione che la comunicazione della RSI sia per molte organizzazioni una pura operazione di
immagine e che alle politiche annunciate non corrispondano fatti e cambiamenti reali, ma, aggiunge
“Chi abbia avuto modo di lavorare sul campo sa bene che per una organizzazione il beneficio più
duraturo e autentico della rendicontazione [accountability] delle sue politiche di RSI, sta soprattutto
nei processi di definizione degli indicatori, della raccolta e descrizione dei comportamenti e nella
definizione di nuovi obiettivi da raggiungere al fine di consolidare quella licenza di operare che
viene concessa soltanto a un’organizzazione capace di comunicare con sobrietà, sincerità e
tempestività con i suoi stakeholder, di ascoltarne le aspettative e di assumerle, nei limiti del
possibile, come proprie” (articolo su “Etica & Finanza” aprile 2005).
Quali punti di debolezza? Sempre il Prof. Becchetti, nell’intervista già citata, aggiunge: “Il valore
per gli azionisti non può essere massimizzato in un’impresa etica, perché essa necessariamente
trasferisce valore agli altri stakeholder” e invita a considerare l’eventualità di comportamenti di
facciata che ritiene possibili nelle “aziende troppo grandi”, richiamando a tal proposito i “codici
etici”. Dati di un’indagine Kpmg del 2005 evidenziano che il 52% delle imprese quotate nei 10
paesi più industrializzati pubblica un bilancio sociale, dietro cui c’è spesso un codice etico che per
la quotazione in molte Borse diviene obbligatorio (Prof. Becchetti su “Etica & Finanza” luglio
2006). Pur non avendo valenza normativa il codice etico può rappresentare, come integrazione e
interpretazione, una aggravante indiretta, qualora si riscontrassero condotte giuridicamente illecite
da parte dei decisori interni. Accrescere la responsabilità sociale “significa per le imprese
minimizzare i rischi di conflitti con gli stakeholders, dare un segnale sulla qualità del proprio
prodotto ai consumatori, aumentare la motivazione intrinseca dei propri dipendenti con possibili
ricadute positive sulla loro produttività e intercettare la crescente quota di cittadini <socialmente
responsabili> che nelle loro decisioni di acquisto e risparmio non guardano solo a qualità e prezzo
dei prodotti, ma anche al loro valore sociale” (Becchetti, appena citato). La stesura di un codice
etico è comunque un costo per l’impresa e la pone in una condizione certamente nuova, infatti
determina aspettative più elevate da parte dei diversi portatori d’interesse, tra cui il personale
interno.
Un altro nervo scoperto lo evidenzia il già citato Toni Muzi Falconi in un suo articolo su “Etica &
Finanza” di marzo 2006, ponendo la domanda “Ma siamo proprio sicuri che gli enti locali abbiano
la credibilità necessaria” per sollecitare comportamenti di CSR nelle imprese? I comportamenti di
molte amministrazioni sono credibili e responsabili? “Pensiamo ad esempio ai rapporti con fornitori
e i loro tempi di pagamento; ai rapporti con i dipendenti [collaboratori, lavoratori in
somministrazione, …] e il rispetto delle best practices; ai rapporti con i cittadini e la
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rendicontazione sui risultati raggiunti rispetto alle tante promesse e ai tanti impegni in campagna
elettorale … “Quando la fonte non è credibile il messaggio non è efficace”, detto da un
professionista delle Pubbliche Relazioni.
Una esperienza positiva riscontrata in un ente locale è quella in corso presso l’Amministrazione
Provinciale di Modena, dove nel 2003 viene istituito uno sportello interno di ascolto e di
orientamento per i dipendenti -il riferimento contenuto nella pubblicazione a cura di Catia Iori
(2005) è ai soli dipendenti dell’Ente- che funziona anche come sportello anti-mobbing (finanziato
tramite il fondo per la produttività dell’Ente). Tale intervento permette di cogliere consapevolmente
i desideri di crescita professionale dei dipendenti: l’operatore dello sportello (psicologo del lavoro)
mette a fuoco, unitamente al lavoratore, il percorso di mobilità desiderato e le competenze che si
intendono sviluppare.
Uno specifico rimando è inoltre doveroso all’”Accordo sulla cultura del lavoro”, per contrastare
molestie, vessazioni e discriminazioni all’Azienda Trasporti Municipali (ATM) di Torino, incluso a
pieno titolo dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro tra le buone pratiche attive
all’interno dell’UE. L’intervento nasce dalla preoccupazione dovuta alla natura spesso occulta del
problema (molestie, vessazioni e discriminazioni) e secondo il principio per cui un’atmosfera
positiva e buone relazioni sul luogo di lavoro, nonché di una forza lavoro soddisfatta, sono
indispensabili per fornire un servizio efficiente e attento alle esigenze dei clienti. L’accordo
istituisce una commissione per la cultura del lavoro, i cui membri sono estranei all’azienda, senza
legami con la gerarchia aziendale. La commissione per le pari opportunità, mista e indipendente,
vigila sull’applicazione dell’accordo.
L’Accordo appena citato, in vigore all’ATM di Torino, risulta ancora più significativo se
consideriamo che l’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, tramite attenta raccolta
dati realizzata da ogni Focal Point (per Italia è ISPESL) nei diversi stati membri dell’UE, ha
individuato le questioni psicosociali, l’ergonomia, i fattori di rischio chimico quali principali aree
prioritarie per le future attività di ricerca. In materia di questioni psicosociali, poi, lo stress sul
lavoro costituisce l’aspetto trattato con maggior enfasi, nella quasi totalità degli stati membri,
nell’ambito di varie categorie.
Attualmente si può affermare che il rapporto tra etica e singola impresa si concretizza, in generale,
in alcuni specifici strumenti quali: certificazione etica dell’impresa (indicatori di conformità);
adozione del bilancio sociale (controllo delle politiche d’impresa, dando visibilità alle domande del
proprio pubblico di riferimento); codice etico (comportamenti individuali, es. prevenzione
mobbing); marketing sociale (es. partnership con enti no profit). La struttura dei codici etici varia
normalmente da impresa ad impresa e normalmente si sviluppa su diversi livelli: individuazione ed
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esposizione dei principi etici stabiliti per i rapporti e le relazioni che i propri collaboratori debbono
tenere nei confronti dell’esterno; determinazione delle sanzioni interne per violazioni delle norme
del codice; nomina di un Comitato Etico con il compito di vigilare sulla corretta applicazione del
codice. Queste nuove professionalità presenti nelle imprese acquisiscono il titolo di “Ethic officer”
o “Internal auditor” o “CSR manager”, un ruolo che può diventare anche riferimento per la legge
231 del 2001 che stabilisce la non responsabilità delle aziende coinvolte in illeciti amministrativi,
purché abbiano attuato efficaci procedure di controllo (articolo di Vanna Toninelli sul “Corriere
della Sera – Economia & Carriere” del 16 dicembre 2005). Su questo ragionamento sarebbe
interessante esplorare, per analogia, i vantaggi di ogni organizzazione nell’attuare efficaci
procedure di controllo anche per illeciti relativi alla salute, sicurezza, benessere dei lavoratori (es.
mobbing, pari opportunità, …).
E’ l’Ethic Officer che assume la responsabilità delle necessarie verifiche periodiche di conformità
allo standard etico (es. Social Accountability 8000 o SA 8000), sia all’interno dell’organizzazione
che presso i fornitori. Un ruolo che trova diversa collocazione organizzativa (articolo di Vanna
Toninelli già citato): nel 60% dei casi nell’area Relazioni Esterne (con tutti i dubbi già prima citati
da un professionista delle Pubbliche Relazioni, Toni Muzi Falconi); il 30% (trend in crescita)
nell’area Risorse Umane; il 10% in staff alla Presidenza (valenza strategica).
Dati forniti dal CISE (Centro per l’Innovazione e lo Sviluppo Economico), mettono in chiaro che:
1. L’Osservatorio dell’UE sulle PMI ha realizzato una ricerca su più di 7000 piccole e medie
aziende europee sulla RSI. Da questi dati risulta che il 49% delle imprese dichiara di essere
impegnata in attività di RSI, che si concretizzano in azioni di sostegno ad attività della
comunità (donazioni). La caratteristica principale di questo impegno sembra essere la
mancanza di sistematicità. Ovverosia l’assenza di un impatto diretto sull’organizzazione o
sulle modalità produttive. Insomma l’attenzione per le PMI verso la Responsabilità Sociale
sembrerebbe essere orientata al ritenere il tema come “esterno” al core business dell’impresa.
2. Un’altra ricerca internazionale condotta su un campione di 25.000 cittadini di età superiore
ai 18 anni ci informa del fatto che, per quanto riguarda l’Italia, l’80% degli intervistati si
dichiara “interessato a conoscere le modalità con cui le imprese stanno cercando di essere
più socialmente responsabili”. Tra questi un 33% dichiara di aver già “penalizzato” alcune
imprese non acquistandone i prodotti e un 25% dichiara invece di aver “premiato” altre
imprese acquistandone i prodotti secondo questa logica.
In sintesi questi dati sottolineano, dunque, che sembra esistere una forte differenza tra come le
imprese percepiscono e gestiscono la RSI e come invece questo tema viene percepito da coloro che
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ne consumano prodotti e servizi. E’ a partire dall’impresa che ha il rapporto diretto col consumatore
finale che si coinvolge la filiera delle imprese fornitrici che operano BtoB (Business to Business).
Secondo una prospettiva “Relazionale” si può affermare che sono le preferenze di ordine morale ed
etico che determinano il tipo di impresa e il modello di governace. Gli atti di RSI sono aspetti
concreti di una più complessa cultura motivante che sintetizza gli obiettivi condivisi riguardo il fine
di sviluppo economico e sociale. Per questo serve una cultura organizzativa, condivisa all’interno e
all’esterno dell’impresa, che possa determinare un consenso selettivo di pressione ed evoluzione
sociale che incentiva l’adozione di azioni coerenti di RSI.
Recenti studi di fattibilità condotti in Emilia Romagna da IPL (Istituto Per il Lavoro, Bologna),
relativi a percorsi di certificazione etica, hanno evidenziato che, secondo gli stakeholder (soprattutto
di
parte imprenditoriale) l’adesione da parte delle imprese, ad un processo di certificazione,
effettuato sulla base di standard rigorosi ed esigenti, che investono tutte le aree strategiche in cui
opera un impresa (lavoro, rapporto con i fornitori, clienti, strategie gestionali, ecc.), favorisce
inevitabilmente l’attivazione di fenomeni di riorganizzazione strategica dei processi organizzativi
interni all’impresa, orientati da logiche di razionalizzazione. L’adozione di comportamenti
socialmente responsabili verso gli stakeholder interni ed esterni porta inevitabilmente a riesaminare
le strategie e i modelli adottati dalle imprese, ad individuare criticità e problematiche, e a cercare di
risolverle attraverso un approccio integrato e coerente, che generi maggiore efficacia operativa e
strategica. Tuttavia manca ancora, da parte delle imprese, un approccio “organico” alla qualità, un
approccio complessivo, che faccia riferimento al concetto di qualità sociale e introduca il principio
della responsabilità d’impresa. La maggior parte delle imprese, certificate all’interno di una filiera,
ha infatti ottenuto certificazioni di tipo “ambientale” o relative al sistema di gestione, ma molti altri
aspetti aziendali risultano “scoperti”. Un marchio a carattere multi dimensionale potrebbe costituire
un’occasione per coprire anche quegli aspetti, intervenendo contemporaneamente su varie
dimensioni aziendali (lavoro, ambiente, rapporti con i fornitori, rapporto con i clienti, ecc.) e
consentirebbe di estendere, in modo organico e coerente, i benefici di razionalizzazione intrinseci
ai processi di certificazione, a tutte le dimensioni aziendali. Il processo di certificazione, però, per
essere realmente efficace, dovrebbe coinvolgere tutta la filiera produttiva: produttori, trasformatori
e distributori.
Il benessere all’interno delle organizzazioni
La qualità complessiva della vita lavorativa è data da un complesso di aspetti che non si limitano a
garantire la sicurezza e la salubrità degli ambienti lavorativi, ma concorrono a far sì che l’individuo
che lavora si senta rispettato nei suoi diritti di persona e di lavoratore, si senta valorizzato e
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adeguatamente retribuito per le sue capacità e per il suo impegno e si senta professionalmente
soddisfatto; un’organizzazione responsabile verso i propri lavoratori è un’impresa che si pone come
obiettivo quello di contribuire, direttamente o indirettamente (attraverso opportune forme di
sostegno) alla crescita e allo sviluppo delle proprie risorse umane non solo in quanto lavoratori ma
prima ancora in quanto persone. In un’organizzazione dunque la responsabilità sociale verso il
personale è legata alla qualità dell’impiego offerto, alla garanzia dell’istruzione e della formazione
lungo l’intero arco della vita lavorativa, alla consultazione e alla partecipazione dei lavoratori, alle
pari opportunità, all’integrazione dei disabili e delle categorie più svantaggiate, all’anticipazione
delle trasformazioni industriali e delle ristrutturazioni. Non a caso l’Organizzazione Mondiale della
Sanità (O.M.S.) definisce la salute non come semplice assenza di malattia, bensì uno stato di
completo benessere fisico, psichico, sociale.
La stessa efficacia organizzativa sembra essere legata ad aspetti di qualità complessiva della vita
lavorativa, come il grado di partecipazione e di coinvolgimento dei lavoratori, non solo
relativamente ai propri compiti e mansioni, ma anche su aspetti decisionali e progettuali (Lawler,
1986; Karasek e Theorell, 1990). Le persone sono motivate sia da fattori intrinseci (crescita,
significato, partecipazione) che estrinseci (remunerazione, status, sicurezza), eppure le
organizzazioni in grado di soddisfare i primi avrebbero maggiori possibilità in termini di
motivazione, soddisfazione, efficacia. Maccoby (1988) ha esplorato modelli di gestione efficace in
diverse grandi imprese e propone dei fattori funzionali a creare livelli alti di motivazione al lavoro.
La ricerca evidenzia come sempre più persone si sentono lavoratori con significative capacità
cognitive e con una motivazione legata anche alla soddisfazione lavorativa, all’impegno, alla
partecipazione, al desiderio di lasciare un segno nell’organizzazione, al bisogno di maggiori
responsabilità.
In relazione alla dimensione interna all’impresa, risultati positivi in termini di competitività possono
derivare da molteplici fattori: la tutela delle condizioni psicofisiche dei lavoratori, attraverso un
miglioramento dell’ambiente e delle condizioni di lavoro, può tradursi in un maggiore impegno e in
una maggiore produttività dei lavoratori stessi, dettate da un minore astensionismo per malattia e da
una maggiore motivazione ed entusiasmo sul lavoro; la promozione di processi di qualificazione e
aggiornamento delle risorse umane interne all’azienda, si può tradurre nell’incremento del
potenziale d’innovazione strategica dell’impresa; la gestione più attenta delle risorse energetiche e
delle materie prime, attraverso un oculato investimento in tecnologia avanzata, può tradursi nello
sviluppo di un sistema produttivo più efficiente ed efficace, in grado di minimizzare gli sprechi e i
costi da questi derivanti. La gestione attenta dei processi produttivi in relazione al loro impatto
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ambientale, favorisce lo sviluppo di processi di riorganizzazione delle attività produttive che
implicano spesso un incremento complessivo del livello di efficienza.
Il dizionario inglese Merriam-Webster’s Collegiate ha recentemente inserito tra i suoi lemmi il
termine “McJob”. Neologismo sancito ufficialmente come lavoro stile McDonald’s. Termine usato
per la prima volta formalmente nel romanzo “Generation X” per indicare un lavoro poco prestigioso,
poco dignitoso, con pochi vantaggi, senza futuro. Tra i McJob una parte significativa dell’opinione
pubblica internazionale include le proposte occupazionali del colosso della grande distribuzione, n°
1 mondiale, Wal-Mart, tanto che questa impresa è stata recentemente insignita di un ”Public eye
award”. Il premio”Public eye award” (alla 6^ edizione), da un’idea di alcune ONG svizzere, ha
assegnato nel 2005 ben 4 riconoscimenti, corrispondenti ad altrettante categorie di violazioni e
abusi: diritti umani, ambiente, fisco, lavoro. Vincitori rispettivi: Dow Chemical (caso Bhopal),
Royal Dutch-Shell (inquinamento Niger), Kpmg international (evasione verso paradisi fiscali), WalMart (nessun sindacato).
Una recente proposta (Avallone F. e Paplomatas A. “Salute organizzativa” Milano, Raffaello
Cortina Editore, 2005) individua 14 dimensioni di salute organizzativa (si veda la tabella
conclusiva). Gli autori evidenziano inoltre nella loro indagine, una serie di indicatori soggettivi di
benessere (12 item), indicatori soggettivi di malessere (14 item), disturbi individuali riconducibili
all’area psicosomatica (9 item). In questo modo costruiscono un questionario multi dimensionale
della salute organizzativa (Multidimensional Organizational Health Questionnaire, MOHQ) che
consente di intervenire per promuovere migliori condizioni di lavoro e di benessere. Attraverso
l’analisi della relazione individuo/contesto si arrivano a desumere elementi di salute organizzativa,
il modello di valutazione proposto consente cioè l’esame dell’insieme dei processi e delle pratiche
organizzative che incidono sul benessere della comunità lavorativa. Si ritiene che il rischio sia
connesso al tipo di convivenza che si realizza nell’organizzazione e l’attenzione è quindi rivolta ai
processi e alle relazioni interne.
Dalla pubblicazione “Benessere organizzativo”, per iniziativa del Dipartimento della Funzione
Pubblica, che integra operativamente il modello proposto dal gruppo di psicologi composto
Avallone e collaboratori, possiamo estrarre la seguente definizione di benessere organizzativo:
“Insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la dinamica
della convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando la qualità della
vita e il grado di benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative”.
Domenico De Masi affronta lo stesso argomento chiedendosi: esiste l’anima dell’impresa? La
risposta è frutto di articolate constatazioni e ardite metafore. Per certi versi, sostiene il sociologo De
Masi (“L’anima dell’impresa”), “l’impresa ha il suo corpo (stabilimenti, uffici, materie prime,
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componentistica, archivi, …), la sua mente (strategie, programmazione, organizzazione, studi e
ricerche, pubbliche relazioni e comunicazioni, rapporti con il pubblico e con la stampa,
marketing, …), la sua anima (clima, immagine, estetica, missione, valori, coesione, equilibrio,
saggezza, emulazione, …)”. De Masi ci invita, però, a non confondere l’anima con ciò che Edgar H.
Shein definisce cultura, in quanto “Shein guarda alla cultura d’impresa privilegiando la lente del
successo o dell’insuccesso economico del capitale. Io guardo all’anima dell’impresa privilegiando
la lente della felicità o dell’infelicità umana di chi vi lavora e di chi con essa si rapporta. (…)
Possono esistere gruppi senza anima perché l’anima è frutto intenzionale di un’azione, di un
carisma, di un amore. La cultura vive per il fatto stesso che vive il gruppo; l’anima invece va
alimentata giorno per giorno, altrimenti appassisce, e con essa sbiadisce la felicità. (…) Anima è
visione e missione rivolte al futuro, alla procreazione, alla crescita, alla formazione, alla bellezza” e
ancora De Masi le attribuisce il ruolo di madre della creatività felice, costituita di fantasia e
concretezza. La mancanza della gioia di lavorare e di vivere, non può che essere frutto di una
carenza nell’anima dell’organizzazione (nella bellezza dei luoghi, dei prodotti, nei suoi modi di
comunicare e rapportarsi). “L’anima dell’impresa è <noità>: unione più che separazione, sintesi più
che analisi, sentirsi tutt’uno non per la paura dell’ignoto ma per la gioia della convivialità. (…)
L’anima dell’impresa è fragile, più delicata del corpo che la contiene. Non è mai costruita una volta
per tutte, va coltivata giorno per giorno, teneramente e caparbiamente. Per coltivare l’anima
dell’impresa, occorre amarla: solo un profondo amore per l’impresa le conferisce un’anima,
rendendola creativa e procreativa” (sottolineato mio). Un altro modo, più struggente, per parlare di
benessere organizzativo, di una salutare convivenza lavorativa.
De Masi, nel libro-intervista “Ozio creativo” (Rizzoli, Milano, 2000), torna sempre sullo stesso
tema: “Il lavoro può essere un piacere se è prevalentemente di tipo intellettuale, intelligente, libero.
Assieme alla stanchezza fisica può dare esaltazione mentale. La stanchezza psichica segue altre
leggi, rispetto a quella fisica. Quella fisica mi spossa, mi impone di smettere. Quella psichica,
mentale, se è unita a una grande motivazione, può essere persino inavvertita (…). Nel lavoro
intellettuale la motivazione è tutto (…). Prepariamo per venti anni un giovane e poi gli facciamo
fare cose che avrebbe potuto imparare in tre mesi. E’ un capitolo del grande romanzo dell’infelicità
aziendale: l’azienda troppo spesso produce infelicità e paura (…). Molte aziende, dopo aver
selezionato persone mediocri purché duttili e dopo averne soffocato ogni barlume di intraprendenza
sotto un cumulo di procedure e controlli, sentono il bisogno di rivitalizzarne la creatività mettendole
nelle mani di sedicenti formatori esperti della materia (…). Gli etologi dicono che se tieni a lungo
dei pesci rossi dentro una boccia, quando li ributti in mare continueranno per un certo periodo a
girare in tondo, come se fossero ancora nel contenitore”.
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Prima di concludere, proponendo una tabella riassuntiva che permetta un confronto immediato tra le
dimensioni integrate di salute organizzativa di Avallone – Paplomatas e alcuni indicatori,
applicabili ai membri dell’organizzazione all’interno di un percorso di certificazione etica verso una
crescita eccellente e responsabile, elenco brevemente alcuni casi riconosciuti di interventi efficaci
per il benessere organizzativo:
1. “Orientamenti sulla prevenzione della violenza psicologica e misure di intervento” alla
Outokumpu Poricopper Oy, impresa finlandese operante nel settore dei metalli di base: tra le
cause delle vessazioni figuravano le controversie irrisolte, il timore di cambiamenti, la
competizione tra individui, la mancanza di chiarezza in merito a responsabilità e autorità. La
realizzazione di corsi di formazione a tutti i livelli ha permesso di imparare ad affrontare la
questione delle vessazioni e ha anche insegnato a lavorare meglio insieme, con conseguente
aumento della produttività, oltre che riduzione dei giorni persi per malattia.
2. “Work positive”, utilizzo di uno strumento pilota per l’esame dello stress sul luogo di lavoro
adatto alle PMI (Irlanda): la sperimentazione, attraverso un questionario ai lavoratori, ha
permesso di individuare e risolvere tre nodi problematici per il campione esaminato. A)
l’orario di inizio lavoro (turni sfalsati) non consentiva a tutto il personale di ricevere
informazioni sufficienti per operare: l’orario è stato modificato portando una maggiore
collaborazione; B) il personale riteneva di non poter esercitare controllo sull’organizzazione
del lavoro: attivazione della consulenza di un esperto; C) inadeguatezza dei servizi sanitari:
nuovo allestimento in un’area prima inutilizzata.
3. “GiGA-Iniziativa congiunta per un ambiente di lavoro più salubre” (Germania):
l’aggravamento dei fattori di stress connessi al lavoro (pesanti carichi di responsabilità,
urgenze temporali, richieste eccessive, mobbing, …) ha imposto una campagna di
informazione che incidesse sul giudizio di lavoratori e imprese, per i quali lo stress ha poco
o nulla a che fare con la salute e la sicurezza sul lavoro.
4. “Modello concepito per far fronte a casi di vessazione” (Finlandia): metodo per indagare su
casi di mobbing e risolverli. Permette di evidenziare difetti nell’organizzazione e nella
gestione del lavoro, nell’attività svolta in collaborazione congiunta e nel flusso di
informazioni. Fa emergere la mancanza di pianificazione dell’attività da parte dei
supervisori, e il mancato intervento in caso di problemi in ambiente di lavoro (mancata
supervisione), con conseguente aggravamento di comportamenti problematici, conflitti di
potere, scontri tra lavoratori.
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Tabella di confronto tra le dimensioni integrate di salute organizzativa (Avallone/Paplomatas)
e alcuni indicatori per la certificazione etica (applicabili ai membri interni all’organizzazione)
BENESSERE ORGANIZZATIVO
Allestisce
un
ambiente
di
CERTIFICAZIONE ETICA
lavoro In
relazione
allo
salubre/igienico, confortevole e accogliente conoscenze
nel
(funzionale e gradevole) per le esigenze del riferimento,
lavoro, dei lavoratori, di eventuali clienti.
stato
prevalente
settore
delle
industriale
di
l’organizzazione garantisce un
ambiente di lavoro salubre e sicuro per i propri
lavoratori e per le proprie lavoratrici?(SA 8000)
Pone obiettivi espliciti e chiari ed è coerente tra Sistemi di comunicazione interna e modelli di
enunciati e prassi operative, perché sono i fatti relazioni
sociali
che danno credibilità alle parole. Gli interventi circolazione
(L’azienda
delle
favorisce
informazioni
la
all’interno
organizzativi vanno nella direzione di definire e dell’azienda, a tutti i livelli gerarchici, in modo
comunicare
chiaramente
gli
obiettivi
e, che i lavoratori abbiano la possibilità di essere
conseguentemente, di perseguirli nei fatti, costantemente informati sulle caratteristiche
attraverso regole e controlli che ostacolino dell’impresa cui appartengono, sulle scelte e
comportamenti orientati in altra direzione.
strategie aziendali e sull’andamento del settoremercato di riferimento in cui opera l’impresa?)
Riconosce e valorizza le competenze, nelle Sistemi e attività di formazione del personale
diversità individuali, per ciò che il lavoratore è e (L’azienda garantisce ai propri dipendenti la
fa; valorizza gli apporti di ogni lavoratore, possibilità di incrementare le loro conoscenze e
facilitando l’espressione del saper fare, e ne competenze professionali, -in relazione alle
riconosce il contributo ricevuto; libera nuove esigenze
aziendali-
organizzando
e/o
potenzialità, promuovendo lo sviluppo del saper consentendo loro di partecipare, ad attività di
fare.
formazione/aggiornamento, gratuite -in aula e
on the job-, all’interno dell’azienda o presso
appositi enti di formazione; sia nella fase
iniziale di inserimento sul lavoro, sia nel corso
del rapporto di lavoro, per tutto il personale ai
vari livelli gerarchici?)
Ascolta attivamente, considerando le richieste e Diritti
di
rappresentanza,
le proposte dei dipendenti come contributi da partecipazione
dei
informazione
lavoratori
e
(L’azienda
considerare nei processi decisionali, rinviando riconosce quali soggetti negoziali legittimi nel
anche a processi negoziali, di coinvolgimento, processo di contrattazione aziendale anche i
di partecipazione.
rappresentati
13
degli
eventuali
lavoratori
interinali
1
-qualora ricorrano o meno le
condizioni previste dal contratto collettivo per i
lavoratori temporanei ad esprimere una loro
rappresentanza-?)
Sistemi di tutela e protezione del personale
(L’azienda
garantisce
ai
propri
lavoratori
meccanismi e forme di protezione/sostegno in
relazione a particolari criticità individuali
attraversate dal lavoratore?)
Mette a disposizione le informazioni pertinenti Orari, contenuti delle attività lavorative e
al lavoro, attraverso strumenti e regole chiare modelli di organizzazione del lavoro (L’impresa
per la diffusione delle informazioni.
ha uno specifico sistema di conservazione trasmissione delle conoscenze in azienda?)
E’ in grado di governare l’espressione della Orari, contenuti delle attività lavorative e
conflittualità
entro
livelli
tollerabili
di modelli di organizzazione del lavoro (L’azienda
convivenza, senza negare la conflittualità stessa, ha adotto specifiche misure organizzative tese a
adottando strategie e tecniche di monitoraggio e prevenire i fenomeni del burn out e del mobbing
sostegno alla convivialità organizzativa.
tramite monitoraggi e/o interventi tesi a
promuovere
la
qualità-varietà
L’azienda
incoraggia
la
dei
lavori?
condivisione-
distribuzione del potere, ai vari livelli aziendali,
attraverso forme di decentramento decisionale
che
coinvolgano
un
elevato
numero
di
lavoratori?)
Stimola
un
ambiente
relazionale
franco, Sistemi di comunicazione interna e modelli di
comunicativo, collaborativi, sia nelle relazioni relazioni sociali (L’azienda promuove processi
1I risultati di un esperimento hanno dimostrato che l’aspettativa di interazione futura fa in generale diminuire l’uso delle strategie di influenza e in
particolare quello delle tattiche dure. Si potrebbe supporre che la prospettiva di una interazione prolungata renda meno attraente la scelta di un
comportamento che potrebbe mettere la relazione in pericolo. Ad oggi, un numero sempre maggiore di persone è “lavoratore flessibile”. Questa
“forza-lavoro flessibile” comprende dipendenti con brevi contratti, lavoratori temporanei, manager ad interim, ecc. La permanenza relativamente
breve in un'organizzazione è caratteristica di questo tipo di lavoratori.
In altre parole, si ha un’aspettativa di interazione più prolungata con i lavoratori stabili che con quelli con contatto flessibile. Questa tendenza
all’utilizzo di diversi tipi di personale provvisorio, può avere conseguenze nel modo in cui i membri di un'organizzazione interagiscono l'uno con
l'altro. Più specificatamente, può essere che la tattica di influenza dura sia utilizzata più spesso quando i lavoratori rimarranno temporaneamente
nell'organizzazione di quando il lavoratore sia un membro stabile. Può essere verificato che superiori, colleghi o subordinati si sentiranno meno
trattenuti nell'utilizzo della tattica più dura di influenza quando si aspettano che un membro lasci l'organizzazione in un futuro prossimo. In questo
caso è improbabile che il lavoratore temporaneo sia necessario nel futuro per ottenere i risultati richiesti, quindi il mantenimento di un rapporto
armonioso diventa meno importante. Il comportamento che potrebbe mettere in pericolo la relazione sarà più facilmente messo in atto.
Di conseguenza, la tendenza a fare maggior uso di personale con contratti provvisori può generare lo sviluppo di una struttura di interazioni
più coercitive e poco amichevoli. (B. van Knippenberg – H. Steensma “Future interaction expectation and the use of soft and hard influence tactics”
Applied Psychology: an international review, 2003, 52 (1), 55-67)
14
tra pari che tra superiore e subordinato.
di socializzazione tra i lavoratori mettendo a
disposizione risorse e/o locali per l’incontrointerazione tra i lavoratori e organizzando
iniziative ed eventi sociali?)
Assicura
equità
di
trattamento
a
livello Applicazione, norme e convenzioni nazionali e
retributivo, di assegnazione di responsabilità, di internazionali sulla tutela dei diritti umani.
promozione del personale. Quindi si definiscono Sistemi
e
meccanismi
di
reclutamento,
criteri e percorsi chiari, espliciti, pubblici, ai selezione, valutazione e gestione delle risorse
quali tutti possono accedere in egual misura.
umane: politiche e strategie di promozione delle
pari
opportunità
nel
lavoro
(L’azienda
promuove politiche e azioni positive finalizzate
a conciliare i tempi di vita e i tempi di lavoro
per i propri lavoratori e lavoratrici? L’azienda
garantisce la possibilità di definire nastri orari o
modalità
di
lavoro
flessibili
-telelavoro,
part/time- che agevolino lavoratori e lavoratrici
con esigenze familiari specifiche? L’azienda
organizza o garantisce servizi di aiuto e
assistenza per i familiari dei propri dipendenti?
L’azienda garantisce la possibilità di fruire di
modalità o forme di lavoro flessibile in
relazione a specifiche e comprovate esigenze
del personale? In azienda la pianificazione delle
progressioni di carriera è fondata su criteri
definiti, oggettivi e trasparenti?)
Retribuzione,
sistemi
di
incentivazione
e
ricompense del personale (L’azienda prevede
sistemi di incentivazione e ricompensa del
personale basati sulle progressioni/avanzamenti
di carriera e/o cambi di livello?)
Meccanismi
e
sistemi
di
flessibilità
organizzativa adottati (L’azienda garantisce un
alto
tasso
di
conversione
delle
formule
contrattuali atipiche in forme di stabilizzazione
15
contrattuale?)
Mantiene livelli tollerabili di stress
sovraccarico,
occupazionale],
overload,
in
determina
riferimento
al
2
[il Orari, contenuti delle attività lavorative e
stress modelli di organizzazione del lavoro (L’azienda
livello garantisce ritmi di lavoro psicologicamente e
percepito di fatica fisica, mentale, relazionale.
fisicamente
sostenibili,
consentendo
ai
lavoratori di rispettare il livello di qualità
lavorativa da loro ritenuto adeguato?)
Stimola nei lavoratori il senso di utilità sociale, Diritti
di
rappresentanza,
contribuendo a dare valore alla giornata partecipazione
dei
informazione
lavoratori
e
(L’azienda
lavorativa di ognuno e al sentimento personale garantisce i diritti di informazione dei propri
di contribuire ai risultati comuni, cioè viene dipendenti -in tema di relazioni sindacalisalvaguardato il rapporto funzionale tra attività mettendo a disposizione adeguati strumentidei singoli e obiettivi aziendali.
risorse per la diffusione-circolazione delle
informazioni? Le logiche che governano le
relazioni industriali in azienda, si ispirano ai
principi
di
rispetto,
partecipazione
e
codeterminazione, ovvero l’azienda consulta e
coinvolge attivamente le RSU e i lavoratori su
materie che tradizionalmente fanno parte delle
prerogative del management -strategie aziendali,
definizione obiettivi, organizzazione del lavoro,
ecc,- riconoscendo loro diritto di veto -es. sulle
forme di flessibilità contrattuali da preferire;
nelle contrattazioni con aziende di fornitura di
lavoro temporaneo, ecc.-?)
Adotta le azioni per prevenire gli infortuni e i Tutela e promozione della salute e sicurezza dei
rischi professionali, come elemento di cultura lavoratori sui luoghi di lavoro (L’azienda, nel
interna.
valutare i rischi per la salute/sicurezza dei
lavoratori,
tiene
conto
delle
differenze
biologiche e psico-fisiche tra uomini e donne e
del potenziale differente impatto dei medesimi
“Work-related stress is a symptom of an organisational problem, not an individual weakness” (European Agency for
Safety and health al work “Facts 31”, Bilbao 2002, citato da Evelyne Pichot “Social dialogue and cohesion for the wellbeing at work” Université Européenne du Travail)
2
16
agenti o fattori di pericolo? L’azienda ha
attivato sistemi o specifiche metodologie di
monitoraggio -sistemi di survey aziendali- per
verificare il differente impatto delle attivitàmodalità lavorative sulle donne 3 rispetto ai
colleghi
uomini?
L’azienda
garantisce
la
massima trasparenza e l’impiego di criteri di
qualità nella gestione degli appalti? L’azienda
attribuisce debita importanza nell’assegnazione
di un appalto -aziende fornitrici di semilavorati
e/o servizi- alle clausole inerenti il rispetto delle
materie specifiche di salute/sicurezza?)
Definisce i compiti dei singoli e dei gruppi Orari, contenuti delle attività lavorative e
garantendone la sostenibilità, in riferimento al modelli di organizzazione del lavoro (L’azienda
livello di intensità percepita dei compiti garantisce al lavoratore, soprattutto in relazione
lavorativi e di un eventuale eccessivo livello di a mansioni caratterizzate da un elevato grado di
energie necessario per il loro svolgimento.
ripetitività, la possibilità di svolgere attività
diversificate -rotazione delle mansioni- in
azienda, in relazione anche a preferenze
individuali espresse dal lavoratore? L’azienda
consente ai lavoratori di modificare il proprio
turno-orario di lavoro in relazione a specifiche
esigenze
attivamente
individuali
alla
e/o
di
sua
partecipare
definizione-
programmazione? L’azienda garantisce ai propri
dipendenti un adeguato margine di autonomia e
iniziativa
nell’organizzazione
e
nella
“Le azioni di prevenzione devono -ad esempio- prendere in considerazione in modo specifico (…) i rischi per i quali
le donne presentano una particolare sensibilità”, come evidenziato a livello dei dati rilevati. “Tali azioni rivolte alle
donne devono essere basate su ricerche che coprano gli aspetti ergonomici, la realizzazione dei posti di lavoro, gli
aspetti dell’esposizione agli agenti fisici, chimici, biologici, nonché la valutazione delle differenze fisiologiche e
psicologiche nell’organizzazione del lavoro” (Carlo Bonora “La governance del sistema salute e sicurezza nel lavoro”
IPL). “Andrebbero realizzate ricerche che tenessero conto della differente attribuzione delle donne rispetto agli uomini
su ruoli e mansioni, per considerarla, accanto agli eventuali determinanti di natura medico-scientifica, come una causa
possibile di esposizione al rischio e alla malattia professionale. Da qui potrebbero derivare maggiori attenzioni alla
progettazione in generale del luogo di lavoro, negli aspetti ergonomici, e dell’organizzazione del lavoro” (Rita Castaldi
e Francesca Sbordone “Donne, salute e lavoro” IPL).
3
17
pianificazione del proprio lavoro promuovendo
forme di responsabilità funzionale, in relazione
agli incarichi considerati?)
E’ aperta all’ambiente esterno e all’innovazione Sistemi e attività di formazione del personale
tecnologica e culturale, come risorse per il (L’azienda verifica che le attività formative
miglioramento.
promosse per il personale, ne prevengano
l’esclusione dal mercato del lavoro e anzi ne
garantiscano
professionale?)
18
la
competitività
sul
piano
Bibliografia
 AA. VV. “Donna, salute e lavoro, in casa, in ufficio, in azienda” Associazione Ambiente e
Lavoro (2000)
 Andreoni P. e Marocci G. “Sicurezza e benessere nel lavoro” Roma, Edizioni Psicologia
(1997)
 Avallone F. e Paplomatas A. “Salute organizzativa” Milano, Raffaello Cortina Editore (2005)
 Bisio C. “Fattore umano e sicurezza sul lavoro” Milano, Edizioni Unicopli (2003)
 Casula Consuelo “I porcospini di Schopenhauer” Milano, Franco Angeli (1997)
 De Masi Domenico “L’anima dell’impresa” su http://www.nextonline.it/archivio/11/06.htm
(15/11/2004)
 Depolo M. “Psicologia delle organizzazioni” Bologna, Il Mulino (1998)
 Ganapini Daniele (a cura di) “Costruzioni e Responsabilità Sociale” Cassa Edile della
Provincia di Reggio Emilia (2005)
 Iori Catia (a cura di) “Vivere e lavorare con dignità” Roma, Carocci editore (2005)
 I.S.F.O.L. “Competenze trasversali e comportamento organizzativo” Milano, Franco Angeli
(1993)
 Ricci Federico “La formazione dei formatori: orientare verso comportamenti salutari sul
lavoro” in corso di pubblicazione
 Zamagni S. e Bruni L. “Economia civile, efficienza, equità, felicità pubblica” Bologna, Il
Mulino (2004)
 http://it.osha.eu.int/ (Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro)
 www.improntaetica.org
 www.ipielle.emr.it (Fondazione Istituto per Il Lavoro)
 www.lavoroetico.org
19
PARTE SECONDA
La formazione dei formatori: orientare verso comportamenti salutari sul lavoro
“Le parole insegnano
gli esempi trascinano
solo i fatti danno
credibilità alle parole”
Sant’Agostino
Premessa
Il valore della formazione è quello di favorire processi vitali, sostenerli nei momenti di
cambiamento, orientare le potenzialità, offrire strumenti efficaci per operare. La formazione è un
intervento intenzionale strutturato con lo scopo di accrescere le competenze professionali dei
partecipanti, lo strumento classico del corso non è l’unico possibile, anzi esiste un apprendimento
diffuso che si realizza attraverso il fatto stesso di lavorare.
La possibilità di apprendere dall’esperienza deriva da una preliminare individuazione di operazioni
concrete, verificabili, applicabili/applicate al lavoro, convalidate dal committente/direzione.
L'esperienza, però, produce apprendimento solo con la riflessione. Parlando di andragogia, o
apprendimento negli adulti (si consiglia “Quando l’adulto impara”, Malcom Knowles, F. Angeli,
Milano, 1996), è fondamentale ricordare che l’uomo apprende quando persegue degli obiettivi e dei
progetti che hanno un significato per lui (Jourard).
L’apprendimento implica un cambiamento nell’individuo, dovuto ad un’interazione con l’ambiente
(ciò che chiamiamo esperienza) che soddisfa un bisogno e consente all’individuo stesso di mettere
in atto comportamenti più adeguati (si veda Haggard). E’ un cambiamento durevole delle capacità
personali (Gagnè) che porta a generare o modificare un’attività (Hilgard e Bower).
Qualsiasi cambiamento nel comportamento significa che l’apprendimento sta avendo o ha già avuto
luogo (Crow e Crow). Progrediamo quando le gioie della crescita e le ansie di sicurezza sono
maggiori delle ansie della crescita e delle gioie della sicurezza (Maslow).
“La formazione, dando evidenza ai fatti e ai problemi, prepara il cambiamento: essa può mettere in
crisi, ma la crisi è necessaria per evitare la stasi e l’involuzione e diventare così creativa di
un’esperienza nuova. Quando la natura del cambiamento è posta oltre la semplice acquisizione di
abilità e di tecniche, tutti sono chiamati a modificare i propri criteri, le condizioni, gli schemi per
operare nella realtà, primi fra tutti i responsabili dell’organizzazione e dei centri di decisione, intesi
come committenza della formazione. Questo è il primo livello di un possibile cambiamento, perché
contribuisce a definire in modo chiaro gli obiettivi da porre a fondamento dei processi formativi.
Il contratto formativo diventa il luogo in cui sono esplicitati il sistema degli obiettivi, le condizioni
organizzative, le compatibilità, i sistemi di formazione, i risultati attesi, le condizioni e gli strumenti
per fare valutazione, le ragioni di costo, le responsabilità.” (“Manifesto sulla formazione del Centro
Studi e Formazione Sociale Fondazione Emanuela Zancan”, giugno 1993, tra i firmatari: Duccio
Demetrio, Francesco Novara, Augusto Palmonari).
Nell’intero processo formativo soggetti diversi mettono in gioco interessi complementari, questa
fase di negoziazione, e il contratto che ne deriva, sono parte integrante del processo e ne prefigura i
risultati. Formare non significa insegnare un mestiere, ma allenare alla partecipazione e allo sforzo
cooperativo.
Se accettiamo che la cultura sia (Fischer, 1995, citato nel saggio “L’intervento sulla cultura e sui
valori per la sicurezza”, Carlo Bisio, 2003) l’insieme di conoscenze, pratiche, esperienze condivise
dai membri, i valori ne sono di conseguenza i sistemi di valutazione. Ogni intervento si frappone
20
alle dinamiche organizzative per originare un cambiamento, attraverso una serie di operazioni per
conseguire uno scopo.
1. Le azioni formative più efficaci sono quelle focalizzate sul ruolo: priorità, comportamenti,
relazioni, valori. Meglio se collegata a interventi di ricerca-azione (si veda K. Lewin).
Queste azioni orientano una ridefinizione delle vecchie competenze, lo sviluppo di nuove e
la creazione di gruppi di lavoro collaborativi. Essenzialmente un intervento sulla
comunicazione.
2. L’individuazione di indicatori della sicurezza e il loro monitoraggio possono orientare il
riconoscimento di incentivi economici o di riscontro puntuale e conseguenti azioni
partecipative per il miglioramento. In alternativa si può fare riferimento al parere che i
responsabili danno dei propri collaboratori relativamente all’adozione di comportamenti
sicuri o che i lavoratori danno di se stessi (autovalutazione), per individuare azioni formative
e partecipative.
3. Notiziari e bacheche che comunicano impegni e risultati conseguiti; eventi e campagne di
sensibilizzazione; i fatti concreti: l’esempio dei manager, la coerenza interna
all’organizzazione, gli investimenti, …
4. Gruppi di miglioramento; premi per le idee utili; partecipazione alla redazione di notiziari e
alla realizzazione di eventi.
5. Adozione e diffusione di una carta dei valori.
Il successo degli interventi deriva dalla coerenza dimostrata dall’organizzazione verso il
cambiamento culturale, non basta l’azione singola o un investimento duraturo, si richiede un
insieme di azioni, concrete e pubbliche, convergenti, contemporaneamente e nel tempo, su un’unica
finalità.
I concetti di cultura e valore, spesso sentiti come vincoli al cambiamento, sono quindi variabili
importanti su cui è possibile intervenire per ottenere comportamenti più sicuri.
21
1. Le fasi del processo formativo
L’obiettivo è sempre un apprendimento, cioè un mutamento intenzionalmente previsto nel progetto
formativo condiviso in termini di: conoscenze, abilità, atteggiamenti, auto consapevolezza,
cambiamento di prospettiva e di identità di ruolo.
I risultati attesi, se raggiunti, comportano comunque conseguenze sull’identità di ruolo dei
partecipanti all’attività formativa, quindi sull’identità di lavoratore di ogni persona coinvolta, quella
parte dell’identità che, a sua volta, è fortemente determinante per il senso complessivo di identità
dell’individuo adulto. Possiamo quindi ritenere che gli interventi formativi accompagnino ad
apprende un modo di essere.
E’ necessario che l’intervento formativo sia utilizzabile all’interno dello specifico contesto
lavorativo, favorendo lo sviluppo di strategie di pensiero e di azione efficaci sul lavoro.
Le conoscenze, le abilità, le caratteristiche personali di ogni lavoratore concorrono, con gli obiettivi
assegnati e le condizioni di lavoro esistenti, alla realizzazione di attività utili alla prestazione
organizzativa finale e che comportano conseguenze individuali per il lavoratore stesso.
I risultati attesi devono essere formalizzati in riferimento a operazioni concrete, verificabili,
applicabili al lavoro: “Al termine del corso i partecipanti saranno in grado di …”: conoscere
nozioni …, utilizzare procedure …, individuare criticità …, comunicare efficacemente …, prendere
l’iniziativa …
In una prima fase si descrivono quindi i bisogni formativi, le caratteristiche dell’utenza che
partecipa alla formazione, gli obiettivi, il piano formativo (anche come insieme coordinato di più
interventi) e gli strumenti di intervento. In questo modo si utilizza una logica progettuale unica, non
estemporanea, e coerente. La qualità dell’intervento si definisce a partire dalla sua progettazione,
soprattutto per come sa integrare caratteristiche dei partecipanti, obiettivi didattici, metodi di
intervento, contenuti della formazione, tempo disponibile, aspetti organizzativi (spazi, attrezzature,
finanziamenti, …). La qualità è quindi funzione di quanto l’intervento risulta adeguato al contesto.
Proprio a causa del fatto che obiettivo finale della formazione e' indurre un cambiamento, dovremo
valutare, oltre al gradimento dei destinatari, se il cambiamento vi e' stato, è avvenuto nel senso
voluto, è univocamente riferibile all'azione formativa, ha una relazione dimostrabile col
raggiungimento dei fini organizzativi generali. Tutto questo per consentire sia di acquisire maggiori
certezze sul rendimento dell'investimento fatto, sia per ottenere un feedback di controllo e di
adeguamento dello stesso processo formativo. Si evidenzia ora l' importanza del definire e
programmare preventivamente le tappe del percorso formativo, in ciascuna delle quali deve esservi
un criterio ed una logica di valutazione (fasi cibernetiche).
Non dimentichiamo però che condizione di validità dell'azione di valutazione è anche la
chiarezza nella contrattazione tra formatore e formandi, nonché la condivisione da parte dei
secondi degli obiettivi proposti dal primo.
Un possibile modello di valutazione proposto individua tre aree di misurazione dei risultati della
formazione e i relativi strumenti di misura:
- conoscenze: intervista diretta, check list, questionario a risposte multiple chiuse
- capacità: analisi quantitative, interviste indirette, questionari-test, supervisione
- atteggiamento (o specifica predisposizione ad una data risposta in presenza di un dato oggetto o
evento): test motivazionali pre e post formazione, interviste pre e post formazione
La valutazione della formazione consiste essenzialmente nello stabilire in che modo e in quale
grado il lavoratore trasferisca le conoscenze, le capacità e gli atteggiamenti imparati attraverso un
programma specifico, nell'attività lavorativa. Quanto poi le modifiche di comportamento abbiano
una relazione dimostrabile col raggiungimento dei fini organizzativi generali, è problema ancor più
complesso perché richiede non una misurazione della situazione pre-intervento e un confronto con
quella post-intervento, ma una serie continuata di misurazioni in corrispondenza di un intervento
sistematico e durevole.
22
Analisi del contesto e
dei bisogni
Definizione
obiettivi
Valutazione
finale
Realizzazione e
monitoraggio
Progettazione
didattica
Calendario
attività
Sistema di
coordinamento
Preventivo
economico
Fig. 1, Il processo formativo
Secondo Hamblin esistono diversi tipi di obiettivi di formazione a ciascuno dei quali corrispondono
altrettanti differenti risultati. Essi sono ordinabili in base ad una sequenza logica in cui l' effetto di
un certo fenomeno e' causa del fenomeno successivo:
1. reazione: il gradimento dei destinatari della formazione nei confronti del programma.
2. apprendimento: l' acquisizione di conoscenze (ovvero del sapere), capacità (saper fare),
atteggiamenti (saper essere -autocoscienza e autoanalisi- incide pesantemente sui due punti
precedenti).
3. comportamento: l' esercizio effettivo di conoscenze, capacità, atteggiamenti. Nessuna azione
educativa modifica in modo diretto il comportamento, ma al meglio crea alcune condizioni,
o rimuove alcuni ostacoli, perché vengano adottati certi comportamenti.
4. risultati: comprendono gli effetti sull' organizzazione e il fine ultimo. Il conseguimento di
effetti desiderati di performance come conseguenza dell' assunzione di comportamenti.
Conseguenza formativa ancora più indiretta della precedente: proprio per questo e'
praticamente inattuabile qualunque tipo di indagine e misurazione. Si possono, però,
ottenere informazioni indirette sugli effetti organizzativi, proponendo la valutazione del
clima organizzativo, ovvero la percezione che le persone ne hanno. Per clima si intende: le
credenze dei dipendenti sul modo nel quale l' organizzazione lavora; le credenze ed
atteggiamenti sul modo nel quale l' organizzazione dovrebbe lavorare per essere produttiva;
la misura della soddisfazione nell' organizzazione. Questa valutazione e' possibile sia
indirettamente, attraverso l' analisi di alcuni indici (conflitti lavoratori/direzione, rotazione,
23
assenteismo, incidenti sul lavoro), sia direttamente attraverso appositi "Questionari sul
clima".
5. fine ultimo o valori finali dell' organizzazione, verso cui tende in realtà tutta l'attività
formativa: il campo d' azione diventa ancora più vago, bisogna definire l' obiettivo finale
dell' organizzazione. Se esso e' l' accrescimento degli utili economici, dovremo valutare
quale parte ha avuto la formazione nella composizione del profitto d' impresa.
Per Hamblin tutti i passaggi devono avvenire necessariamente affinché l'azione di formazione
raggiunga l'obiettivo di un cambiamento rispetto agli altri e il valutatore ha il compito di
controllare i collegamenti tra un livello e l' altro (si veda fig. 2).
Valutare significa poter misurare l'utilità dell' intervento, cioè provare che esso ha cambiato il
comportamento di un singolo o di un gruppo di individui in modo tale che la loro prestazione si
adegui ad uno standard predeterminato. Il che equivale a dire che la valutazione del training
dipende da come si realizza il trasferimento nella situazione di lavoro delle conoscenze, delle
capacità, degli atteggiamenti appresi per mezzo di un programma. In generale la validità dell'
azione di valutazione dipende dal rapporto di congruenza tra tipo di corso e strumenti di
valutazione scelti.
Azione di formazione
Obiettivi di
reazione
Risultati di
reazione
Obiettivi di
apprendimento
Risultati di
apprendimento
Obiettivi di
comportamento
sul lavoro
Risultati di
comportamento
sul lavoro
Obiettivi di
cambiamento
organizzativo
Risultati di
cambiamento
organizzativo
Obiettivi finali
Risultati finali
Fig. 2, Valutare la formazione
24
2. Comportamenti sicuri sul lavoro
Nella mitologia degli indios Ishir, come in ogni mitologia, gli uomini rubano qualcosa agli dei, in
questo caso i colori. Per questo il mondo non è più grigio.
Eduardo Galeano, in un racconto presente nel suo libro “Le labbra del tempo”, descrive la reazione
di una bambina indigena che segue un regista francese, dai bellissimi occhi azzurri, incaricato di
filmare scene in quei luoghi impervi del Paraguay.
“… quando il regista le chiese come mai lo seguiva, la bambina rispose che voleva sapere di che
colore vedesse il mondo <Del tuo stesso colore>, le rispose il regista. La bambina indispettita
replicò <E lei cosa ne sa di che colore vedo io le cose?>”
Anche la sicurezza è questione di punti di vista.
Per introdurre il tema della sicurezza sul lavoro è necessario richiamare la definizione di salute e
applicarla ai contesti lavorativi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) definisce la salute
non come semplice assenza di malattia, bensì uno stato di completo benessere fisico, psichico,
sociale. Ci si rende così conto che non è possibile parlare di sicurezza solo da un punto di vista
giuridico, ma che altre sono le discipline chiamate coinvolte in fase di prevenzione, intervento,
miglioramento, programmazione della sicurezza: psicologi, medici, economisti, ingegneri, esperti di
comunicazione, …
Non è mai sufficiente una legge, per quanto possibilmente buona e puntualmente applicata, per
migliorare lo stato delle cose. L’intervento efficace in questi casi è culturale e sociale, partecipato a
tutti i livelli, altrimenti destinato a fallire.
Vale la pena qui citare alcune Buone Pratiche riconosciute a livello europeo:
 TITAN Cement Co. (Grecia), azione a lungo termine per la sicurezza e la salute sul
lavoro, prevede: formazione continua per i dirigenti ; 2 seminari di 1h ogni anno per i
dipendenti, con utilizzo di materiale audiovisivo e disponibilità di oltre 200
pubblicazioni aziendali (opuscoli, manifesti, libri); premi ai dipendenti che non
incorrono in incidenti; concorsi per iniziative comunicative (poster, slogan), aperte
anche ai familiari; premio di stabilimento in base alla frequenza infortunistica.
 TUTTAVA (Finlandia), abitudini di lavoro sicure e produttive nel cantiere navale, le cui
fasi sono: creazione di una squadra di attuazione del progetto; definizione di buone
pratiche di lavoro; eliminazione di ostacoli di natura tecnica e organizzativa;
elaborazione di una lista di controllo; rilevamento dei dati di riferimento iniziali;
formazione dei dipendenti; feedback settimanale per un periodo significativo; follow up
ogni 3 mesi per consolidamento. Le percentuali di infortuni diminuiscono è fortemente
collegata allo spirito di gruppo che si crea durante il programma.
 Metodo WASP (Svezia), analisi del gruppo di lavoro per la promozione della sicurezza,
interviene sull’atteggiamento “A me non succederà”: ogni partecipante espone al gruppo
storie sui propri mancati infortuni, che sarebbero occorsi per un comportamento
scorretto. In questa sede i partecipanti notano che le situazioni di lavoro pericolose, in
cui credono di potersela cavare in base alle proprie capacità, sono in realtà a grave
rischio anche per le persone più esperte. Modificando la consapevolezza individuale del
rischio, dalla discussione emerge un atteggiamento più sicuro.
Al di là degli onerosi, necessari e già da tempo previsti per legge, interventi di adeguamento,
ristrutturazione, sostituzione o comunque soddisfazione dei dettati tecnici della norma, la chiave di
volta per favorire la salute e la sicurezza sul lavoro risiede nella possibilità di intervenire attraverso
l’informazione e la formazione a tutti i livelli organizzativi: datore di lavoro (DDL), responsabile e
addetti al servizio di prevenzione e protezione (SPP), rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
(RLS), lavoratori.
Il D.Lgs. 626/94 prevede che il datore di lavoro, al momento dell’assunzione di ogni lavoratore,
provveda affinché lo stesso riceva adeguate informazioni riguardo a: i rischi concernenti l’impresa
25
in generale; i pericoli connessi all’uso delle sostanze specifiche; le misure tecniche e organizzative
di prevenzione adottate; le procedure di pronto soccorso, di lotta antincendio, di evacuazione; chi è
responsabile del servizio di prevenzione e protezione aziendale (interno o esterno all’azienda, nelle
piccole imprese assolvibile dal datore di lavoro); chi è e come ricorrere al medico aziendale; chi
sono i lavoratori incaricati della lotta antincendio, primo soccorso, gestione dell’emergenza.
Analoga informazione dovrà essere fornita in caso di modifica delle tecnologie utilizzate nelle
lavorazioni e nel processo produttivo. Tutte le informazioni fornite devono essere chiare e
facilmente comprensibili.
Il datore di lavoro deve accertarsi che il lavoratore abbia acquisito, tramite una formazione adeguata
e sufficiente, tutte le pratiche e le conoscenze legate all’attività che andrà ad espletare.
Informazione e formazione come strada principale per la prevenzione, ovvero un intervento centrato
sulla percezione del rischio e non sulla semplice soddisfazione di obblighi burocratici o
sull’esecuzione precisa di procedure organizzative ritenute perfette ed ideali. Formare quindi alla
percezione (soggettiva) del rischio, non fermarsi ad un mero addestramento tecnico, significa
passare dalla trasmissione di conoscenze e di esperienze sul campo all’acquisizione, da parte di chi
lavora, di una sviluppata sensibilità personale verso ogni categoria di rischio (fisico, chimico,
biologico, ambientale, organizzativo). Soggettivo è il vissuto individuale dell’oggettivo, la mappa
del territorio.
L’informazione è l’insieme delle attività finalizzate alla trasmissione delle informazioni e
all’arricchimento della sfera delle conoscenze del destinatario. Comporta una rielaborazione
cognitiva, più che applicativa tipica delle istruzioni per l’addestramento. La formazione oltre ad
ampliare il saper soggettivo, agisce su concezioni, valori, comportamenti. I rispettivi obiettivi sono
quindi distinti e complementari, così come le metodologie didattiche e le durate.
Alcuni incidenti tragicamente famosi ci testimoniano come non sia possibile arginare il rischio solo
grazie a tecnologie avanzate, anzi spesso in questi casi l’individuo perde consapevolezza della
propria responsabilità, confidando nell’onnipotenza tecnologica. Pensa di essere libero di non
prestare attenzione, non percepisce il rischio (per approfondimenti ANDREONI P., MAROCCI G.,
1997, Sicurezza e benessere nel lavoro, Roma, Edizioni Psicologia).
Partendo dalla percezione del rischio per arrivare al benessere organizzativo ci si trova sempre in
quello che è l’ambito di studio della psicologia del lavoro: il comportamento di chi lavora. Trattare
dei comportamenti sicuri sul lavoro ci aiuta quindi ad approfondire le relazioni tra individui e
individui, tra individui e gruppi, tra gruppi e gruppi, ovvero, direbbe qualcuno (si veda, DEPOLO
M., 1998, Psicologia delle organizzazioni, Bologna, Il Mulino), è un altro modo per studiare le
organizzazioni.
Pensare e agire in termini di benessere organizzativo, ovvero attività che individui e gruppi attuano
finalizzate al reciproco benessere sul lavoro, è indispensabile per mettere in atto comportamenti
sicuri. Prima la percezione del rischio, poi regole, strumenti, responsabilità indicate per legge.
I lavoratori, nell’ottica UE, non sono più soggetti passivi, che obbediscono ad una prescrizione, ma
artefici della prevenzione. Il datore di lavoro e il Servizio di Prevenzione e Protezione assumono
ufficialmente la funzione di promozione e organizzazione della cultura della sicurezza.
Prevenire effetti dannosi per la salute vuole dire prestare attenzione non solo al rischio di un trauma
improvviso, alla violenza istantanea, ma anche a quelli accertamenti medici che avvengono in
assenza di una violenza immediatamente percepibile, consentendo di intervenire sull’insorgere di
malattie professionali.
Il rischio maggiore è quello di abituarsi a convivere con una determinata situazione pericolosa
(“L’ho sempre fatto, non è mai successo niente”). Il tempo passa, il pericolo viene percepito, ma
non si interviene per prevenire il rischio che si verifichi un danno. Perdurando queste condizioni
si arriva ad un momento in cui il rischio soggettivo e collettivo aumenta per un meccanismo di
assuefazione al pericolo. Raggiunta tale soglia l’attenzione soggettiva non riesce più a orientare il
comportamento in relazione al pericolo presente.
26
Pericolo: condizione obiettiva in cui l’individuo può subire l’eventualità di un danno (conseguente
alle condizioni ambientali).
Il rischio è la valutazione probabilistica che un pericolo possa procurare danni (conseguente
all’intervento umano).
R=PxD
Rischio = Probabilità x Danno
Recentemente alla classica formula R=PxD è stato inserito il fattore K, ovvero il risultato delle
iniziative di informazione, formazione, partecipazione attuate in azienda, per cui il livello di rischio
risulta essere inversamente proporzionale al valore K.
R = P x D/K
Rischio: aspetto negativo della possibilità (Galimberti, dizionario psicologico)
La rischiosità è la percezione soggettiva (estetica, nel senso dato da Bateson di basata sulle
sensazioni) che i singoli o i gruppi hanno del rapporto tra pericolo e rischio. Il rischio è un elemento
ineliminabile la cui desiderabilità, o addirittura la necessità, è influenzata culturalmente attraverso
un sistema di premi e punizioni, quindi la rischiosità è data dal rapporto tra soggetto e ambiente. Si
comprende quindi come possano esistere atti il cui compimento comporta un rischio (trasgressioni),
ma che possono gratificare ed accrescere il senso di autostima.
La probabilità non predice nulla, è un dato teorico di possibilità che attiva azioni atte ad evitare gli
eventuali danni. Il sentimento del rischio cambia invece l’atteggiamento pratico, positivamente
o negativamente: di fronte allo stesso rischio si può evitarlo, affrontarlo, non averne coscienza. La
sensazione di rischiosità è il modo di essere personale, basato sulla probabilità e sulla motivazione,
che orienta le scelte intenzionali. L’obiettivo da raggiungere, e le sottostanti motivazioni, portano
l’individuo a scegliere tra le alternative possibili.
L’accettabilità deriva dalle opzioni (descrizione del pericolo e valutazione del rischio) presenti al
soggetto di fronte ad un evento rischioso. Essa attiva le energie per rifiutare o affrontare la
rischiosità (atto di volontà). Attraverso le sensazioni derivanti dalla rischiosità può modificarsi
la percezione che il soggetto si forma (in senso costruttivista).
La percezione è un atto naturale e inconsapevole che soggiace a due processi: codificazione delle
informazioni esterne (es. stimolo luminoso) e organizzazione nella mente (es. relazioni spaziali).
Può capitare che le nostre percezioni non corrispondano alla realtà esterna, cosa che ci stupisce
molto (es. figure impossibili). Allo stesso modo può capitare, quasi sempre, che la rischiosità non
corrisponda al pericolo descritto e al rischio valutato, ma alla sensazione soggettiva che si ha del
rapporto tra di essi. E’ una (altra) realtà, percepita da soggetti singoli o gruppali, che attiva
meccanismi di accettabilità e decisione di operare, attraverso la quale è anche possibile intervenire
per ottenere comportamenti più sicuri.
Il nostro agire è quindi condizionato da una serie di semplificazioni, conseguenti al fatto che ogni
atto di coscienza, ovvero guidato da consapevolezza, è fuggevole. Per agire si attivano risposte
immediate che non consentono di recuperare contemporaneamente tutte le informazioni
necessarie ad una valutazione consapevole.
Per riassumere:
• Pericolo
si descrive
•
Rischio
si valuta
•
Rischiosità
soggettività
•
Accettabilità
rappresentazione
Esiste un limite, che cambia tra gli individui e per gli individui, al numero di cose che si possono
fare nello stesso tempo. Questo obbliga a selezionare, quelle importanti per uno scopo. I processi
cognitivi cercano la strada più economica per guidare il comportamento, in alcuni casi aumentando
il grado di incertezza. Inoltre le sequenze di azioni tendono ad assumere una coerenza interna.
Questo spiega la ricerca di informazioni che confermano il proprio punto di vista (sistema
27
delle aspettative). Si selezionano quelle risposte che hanno dimostrato di funzionare e diventeranno
automatiche. La conseguenza è che alcuni segnali vengono ignorati come ininfluenti, quindi le
scelte si basano sempre su poche e ripetitive informazioni attese (prevedibilità). L’ambiente è
semplificato dalle limitazioni poste dal personale modo di osservare la realtà. Gli individui tendono
a favorire la conservazione piuttosto che il cambiamento, ignorando le falsificazioni,
producendo abitudini ed elaborando ovvietà.
Ogni evento può essere descritto a partire da punti di vista diversi, del tutto validi all’interno delle
loro ovvietà. Avremo quindi ovvietà, cioè conclusioni, diverse sugli stessi fenomeni. Tanti sistemi
di osservazione, ognuno parziale e semplificato, tante mappe, ognuna espressione di ripetute
interpretazioni, per lo stesso territorio. Quello che sappiamo ci aiuta, ma ci limita. Allo stesso
modo ciò che ignoriamo influenza il nostro comportamento.
Quindi l’essere umano è un sistema a capacità limitata, non può produrre più di un certo sforzo. In
una interpretazione Bio – Psico – Sociale è costituito da 3 sottosistemi interrelati, appunto Corpo –
Mente – Relazioni.
 Mente: sistema di cui l’uomo dispone per trattare l’informazione, in modo consapevole o
inconsapevole.
o Coscienza o consapevolezza: sottosistema interno alla mente che predispone e
coordina piani d’azione, in modo routinario o sotto controllo attentivo.
 Attenzione: meccanismi e processi utilizzati dalla coscienza per controllare
l’attività mentale (se e quando necessario), è selettiva e varia in intensità.
Attenzione, facoltà di avvertire gli eventi che accadono nell’ambiente esterno
e interno a se stessi o i propri bisogni: eccitabilità del sistema nervoso di
fronte alle variazioni energetiche (neurofisiologia); Capacità di reagire agli
stimoli (piano comportamentale).
Attualmente manca un accordo generale su quali processi mentali siano implicati nel controllo
dell’attenzione, però è accertata una tendenza a selezionare l’informazione in arrivo per rispondere
ad una strutturale incapacità di far fronte contemporaneamente a tutti gli aspetti ambientali. Di
conseguenza è utile distinguere tra reattività fisica e consapevolezza mentale, quando si mette in
atto una risposta agli stimoli percepiti. Non vi è sempre consapevolezza degli stimoli cui si risponde,
il meccanismo dell’assuefazione tende ad rendere automatiche certe risposte ripetute. Tutte le
altre operazioni mentali richiedono invece l’uso di risorse attentive.
Questi meccanismi sono centrali nella prevenzione degli infortuni, si pensi ai sogni ad occhi aperti
(o preoccupazioni, o competitività) che alleviano la monotonia degli atti automatici, ma spostano
risorse attentive dal compito principale rendendo fisicamente vulnerabili. La distrazione
effettivamente può essere la causa degli incidenti perché l’attenzione viene ingannata da un falso
senso di sicurezza e rivolta altrove. La rischiosità è in questi casi fuorviata e la consapevolezza
inibita, le risorse individuali sono rivolte altrove, quindi manca quel comportamento intenzionale
che consente di agire in modo responsabile. La conclusione è che gli aspetti soggettivi hanno in
realtà tanta importanza quanto le procedure tecniche nell’orientare i comportamenti individuali
all’interno dei cicli lavorativi. Un efficace intervento sulla sicurezza coinvolge sia la dimensione
individuale che sociale, attraverso azioni che considerano i sistemi di comunicazione tra individui e
gruppi, proponendosi il loro miglioramento.
La motivazione alla sicurezza è quindi una tendenza ad agire sulla spinta di un bisogno. Il rischio è
comunque uno dei meccanismi per raggiungere la sicurezza soggettiva, anche se spesso allontana
l’individuo dalla sicurezza oggettiva. Per questo motivo una formazione efficace interviene sul
perché l’individuo rischia e non sul come. La dinamica sicurezza-insicurezza regola tutti i
comportamenti coscienti, attraverso il coinvolgimento emotivo sei singoli.
28
Uomo
- sistema a capacità limitata Bio – Psico – Sociale
Mente
- Sistema per trattare ’informazione -
-
Coscienza
Predispone e coordina
piani d’azione -
Attenzione
Meccanismi e
processi per
controllare l’attività
mentale
FACOLTA’
ATTENTIVE
Attenzione
PRODUCONO
- Meccanismi e
processi per
MOTIVANO
RISORSE
ENERGETICHE
controllare
l’attività mentale
Nel modello della finestra di Johary (Fig. 4) qui riportato, la dimensione delle 4 aree è variabile in
funzione della quantità e qualità dei processi di relazione tra individui, come esemplificato dalla
linea tratteggiata. Attraverso la comunicazione (diremmo efficace) si arricchisce il personale
bagaglio di conoscenze, ampliando l’area di dominio pubblico (come esemplificato dalla linea
tratteggiata). E’ anche vero che alcune informazioni già presenti nel personale dominio pubblico
possono trasformarsi o perdersi. Questo accade quando essa si trasforma in una ovvietà, in
conseguenza della routine. La persona tende a percepire come simili situazioni tra loro diverse,
come effetto della tendenza a selezionare in modo economico e coerente tra loro le informazioni. Si
diventa così paradossalmente meno esperti a prevedere, in particolare le eccezioni che quindi
colgono impreparati.
Quando un’informazione nota diventa ovvia (consuetudine della ripetitività) essa scompare (rischio
potenziale), finché non intervengano altre conseguenze. E’ la propria personale ovvietà che
definisce spiegazioni causali e conduce il comportamento. Questi comportamenti presentano aree di
Fig. 3, Prospettiva psicologica
29
rischio potenziali che l’individuo non vede o riconosce. Il comportamento risulta persistente al
mutare del contesto, ognuno pensa “Non mi riguarda”.
In realtà i comportamenti sicuri non sono indipendenti dal contesto, mentre l’agire nell’ovvio è
indipendente dal contesto. L’apprendimento quindi consegue ad una ristrutturazione della realtà,
ricostruita in modo da considerare le possibili alternative all’ovvio, in gran parte come fenomeno di
auto apprendimento reso possibile dal porsi da un altro punto di vista. E’ un atto di coscienza,
di intuizione, di insight, un salto logico, il reale cambiamento.
Le interpretazioni limitanti sono fondate su una serie di pre/giudizi che riducono la possibilità di
considerare le possibili alternative. L’individuo può cercare di riconoscere e limitare i propri
personali pregiudizi, comunque l’azione è perlopiù conseguenza di un modo di essere e non
frutto di una riflessione (“Semina un pensiero e raccoglierai un’azione, semina un’azione e
raccoglierai un’abitudine, semina un’abitudine e raccoglierai un carattere, semina un carattere e
raccoglierai un destino”). Aggiungiamo che l’accordo tra le persone che condividono un contesto
conferisce ulteriore (presunta) VERITA’ alle azioni dei singoli.
•
Area pubblica
– Noto a sé
– Noto agli altri
•
Area cieca
– Ignota a sé
– Nota agli altri
•
Area privata
– Noto a sé
– Ignoto agli altri
•
Area inconscia
– Ignota a sé
– Ignota agli altri
Fig. 4, Finestra di Johari
30
3. Il coinvolgimento per la sicurezza sul lavoro: la formazione dei formatori
“C’era una volta un famoso oratore, abituato a parlare a grandi platee che viene invitato a tenere
una conferenza in un piccolo paese. Quando arriva in paese con suo disappunto vede che nella
sala conferenze c’è un unico signore. Non sa bene cosa fare, se valga la pena fare la sua
conferenza, ma l’unico spettatore serenamente gli dice <Se una mattina vedo un solo cavallo nella
mia stalla perché gli altri 29 sono scappati, a quello io do la biada>.
Il famoso oratore comincia e parla, parla, parla e quando si ferma chiede <Allora piaciuta la mia
conferenza?>.
<Io sono un semplice allevatore di cavalli, se una mattina entro nella stalla e vedo che dei miei 30
cavalli 29 sono scappati, a quel unico rimasto non do tutta la biada destinata ai 30>.
(liberamente tratto da C. Casula “I porcospini di Schopenhauer” F. Angeli, p. 26)
Il formatore quindi, esperto di specifiche problematiche, è chiamato a intervenire mettendosi nella
prospettiva dell’utente finale della formazione, garantendo coerenza tra obiettivi iniziali,
metodologie didattiche, risultati finali, così che l’intervento risulti adeguato al contesto in cui si
realizza.
ANALISI
EVENTO
CRITICO
MODALITA'
ORGANIZZATIVE
STRUTTURA
ANALISI
DEI RUOLI
ANALISI
DEL BISOGNO
DOMANDA
CONSAPEVOLEZZA
POSSEDUTE
COMPETENZE
PROFESSIONALI
BISOGNO
DESIDERABILI
EVENTO CRITICO
Fig. 5, Evento critico
Nel caso specifico della sicurezza sul lavoro, propria di ogni lavoratore e altrui rispetto a chiunque
altro operi nello stesso luogo di lavoro (indipendentemente dalla tipologia contrattuale), l’evento
critico che ci spinge a progettare la formazione è propriamente la volontà di accrescere il livello di
salute e benessere sul lavoro di tutti i lavoratori. Questo obiettivo preciso può essere realizzato
ricorrendo a formatori interni, così come a formatori esterni, i quali intervengano su contenuti e
in fasi diverse del processo formativo. Una formazione che sarà strutturata con momenti d’aula e
con momenti “sul campo”, per conseguire quella necessaria integrazione tra approfondimento
delle conoscenze, riflessione su esperienze reali e sviluppo di atteggiamenti sicuri e sani.
31
In modo analogo possiamo considerare, in un intervento formativo “a cascata”, evento critico la
formazione di chi è chiamato a formare i lavoratori. La formazione dei formatori identifica una
modalità organizzativa che condiziona la struttura di un’intera organizzazione, struttura all’interno
della quale è insito il bisogno di formare personale che formi i lavoratori. Da una attenta analisi dei
bisogni, attraverso l’evoluzione della struttura organizzativa derivante dall’evento critico, si pone
l’analisi dei ruoli coinvolti nell’intervento di formazione dei formatori., ovvero l’identificazione di
precise competenze professionali in termini di sapere, saper fare, saper essere. Si aggiunga che è
anche richiesta consapevolezza dell’evento critico, ovvero della necessità di formare formatori,
affinché possano emergere queste competenze professionali proprie del ruolo di formatore.
A questo punto saremo in grado di identificare persone idonee al ruolo di formatore, in modo tale da
definire puntualmente il bisogno di formazione dei formatori, nella distanza tra competenze
possedute e competenze desiderabili. Non solo, nella misura in cui si riesca a comunicare
efficacemente il processo in corso di analisi dell’evento critico, ovvero la necessità di formazione
formatori, coinvolgendo la struttura, possiamo accorgerci di come il bisogno di formazione venga
espresso in domanda dai destinatari stessi dell’intervento formativo, ovvero i futuri formatori.
Tra le competenze dei formatori, anche in materia di sicurezza, sicuramente quella di pensare e
realizzare la formazione nei termini di risposta ad un evento critico: maggiore salute e benessere sul
lavoro. Intervento che il formatore proporrà coerentemente alle modalità organizzative, ai bisogni
della struttura interna, alle competenze professionali, attese e possedute, che emergono nell’analisi
di ogni ruolo coinvolto nell’evento critico (tutti i lavoratori) e per la consapevolezza che gli stessi
destinatari hanno dei rischi professionali presenti nel proprio lavoro. Anche in questo caso il
bisogno diventa domanda, attraverso la capacità del formatore di lasciare emergere le singole
aspettative dei diversi lavoratori nel contratto formativo che lega docente e discente nel corso
dell’attività formativa (d’aula e sul campo).
ORGANIZZAZIONE
DEL LAVORO
FABBISOGNI
FORMATIVI
RUOLO ATTRIBUITO
ALLA FORMAZIONE
PIANO FORMATIVO
TEMPI DI
REALIZZAZIONE
STRUMENTAZIONE
DISPONIBILE
ATTEGGIAMENTO
VERSO LA FORMAZIONE
RISORSE ASSEGNATE
Fig. 6, Piano formativo
La formazione alla sicurezza e la formazione dei formatori alla sicurezza, tassello centrale in una
pratica prioritaria di coinvolgimento di tutti i lavoratori nell’adozione di comportamenti sicuri, si
inserisce di fatto in quello che può essere il piano formativo aziendale, come parte integrante di esso
32
e tema trasversale alle professionalità presenti nell’organizzazione. L’errore più grave che si
potrebbe commettere in questi casi, sarebbe quello di recludere questa formazione nel campo degli
obblighi normativi cui ottemperare e non, come è, considerarla un’opportunità di sviluppo
organizzativo che non deve rimanere competenza di pochi specialisti, ma integrarsi nel
comportamento organizzativo atteso da ogni lavoratore. Altra cosa, pur connessa, è il presidio degli
obblighi cogenti, garantito dal personale competente in materia.
L’adulto, il lavoratore, come sanno gli esperti di andragogia, è orientato ad un apprendimento
centrato sui problemi. Utilizzando una metodologia centrata sul gruppo si possono ottenere, con
maggiore efficacia, quei cambiamenti di atteggiamento consoni alla sicurezza, diminuendo la
tendenza al rischio. Il gruppo, a livello motivazionale, definisce la desiderabilità sociale dei
comportamenti e, a livello di comunicazione, facilita la circolazione delle informazioni.
Allo scopo di fornire indicazioni pratiche a chi è chiamato a formare i lavoratori alla sicurezza, così
come per proporre alcuni suggerimenti nel campo della formazione dei formatori, è necessario, a
questo punto, delineare alcuni elementi utili alla didattica.
Scopi della formazione: far conoscere ad ogni lavoratore a quali rischi va incontro esercitando
l’attività lavorativa cui è preposto; far si che ogni lavoratore impari come si possono prevenire gli
infortuni, i disturbi e le malattie causate dal lavoro; far si che alla fine del corso il lavoratore abbia
imparato come lavorare in modo da non nuocere alla propria salute e a quella degli altri suoi
colleghi. Per ottenere questi risultati il lavoratore deve apprendere: il processo produttivo
dell’azienda; le caratteristiche delle macchine, delle attrezzature e delle eventuali sostanze utilizzate;
tutti i rischi che possono essere presenti (anche psicosociali) e come evitarli; come comportarsi in
caso di pericolo grave e immediato.
Si tratta di imparare a lavorare con gli altri nella complessità delle cose (Prof. Novara, Modena
2004, Convegno “Ambiente Lavoro”), potremmo chiamarla convivenza organizzativa (Prof.
Avallone, Modena 2004, Convegno “Ambiente Lavoro”) e cercare di identificare le dimensioni di
un’organizzazione in buona salute.
In Barilla hanno lavorato sugli stili di leadership in materia di sicurezza, distinguendo tra il capo:
impotente sul rischio (non so cosa fare, fatalista), che esternalizza il rischio (è competenza del SPP,
“nicchia”), che cambia le attrezzature (tecnicistico, tradizionalista), coinvolto che coinvolge
(autorevole, competente). Attraverso la formazione si è riusciti a portare l’85% dei responsabili ad
assumere lo stile autorevole. Da questo è derivata una formazione che integra diversi strumenti
didattici, tra cui uno strumento grafico attraverso il quale ai lavoratori è richiesto di individuare
situazioni di rischio e a partire dal quale si sviluppa una adeguata competenza di percezione del
rischio. Si lavora sulla prevenzione, cioè sul prae-venire, il venire prima, anticipare, sviluppare la
capacità di pensare. La “vignetta” offre l’occasione per discutere di un atteggiamento personale
verso la realtà, attraverso la simbolizzazione del contesto (Prof. Amovilli, Modena 2004, Convegno
“Ambiente Lavoro”).
Più in generale:
Metodi di formazione: in aula, “on the job”, in auto istruzione, outdoor training
La formazione in aula può essere classificata come:
o Lezione deduttiva, dai principi generali per ricavarne applicazioni particolari;
o Lezione induttiva, dallo studio di caso alla regola generale (apprendimento per scoperta);
o Seminario, come riflessione su modelli concettuali;
o Laboratorio, ovvero piano di lavoro fattibile e condiviso, condotto da una guida esperta
o facilitatore;
o T-group di Lewin (o altre varianti gruppali parzialmente de-strutturate, Moreno, Balint,
Boal, …) per conseguire un apprendimento di competenze psicosociali.
Quaglino, “Fare formazione”, distingue tra:
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• Metodi tradizionali: istruzione programmata, lezione, lettura, discussione, incident/caso,
simulazione/business game/ in basket/ role play/ esercitazione, gruppo esperienziale/t-group,
gruppo di studio/lavoro di progetto/autocaso.
• Metodi emergenti: outdoor development/outdoor bound, learning community/autonomy
laboratory, action learning/joint development activities, metodi riflessivi in training
autogeno.
L’animatore/docente in aula avrà il compito di coordinare la discussione e proporre gli stimoli
adatti affinché essa si riveli la più efficace possibile. Questa tecnica permette una partecipazione
completa da parte di tutti e quindi aumenta l’interesse e l’attenzione, così che l’apprendimento
conseguente ne risulta avvantaggiato sia qualitativamente che quantitativamente.
Allo scopo di mantenere alta la partecipazione di tutti i membri del gruppo è previsto l’utilizzo
di una serie di tecniche attive. Esse permettono, al di là della semplice acquisizione di nozioni,
di raggiungere i seguenti obiettivi: mantenere alto l’interesse e allenare le persone ad ascoltare
le opinioni degli altri.
Condizione essenziale per realizzare un apprendimento valido è la disponibilità degli individui.
Non esiste neppure la figura del maestro. Essa infatti presupporrebbe quanto meno una
conoscenza approfondita della materia, mentre invece è più facile pensare che tale conoscenza
sia polverizzata nel gruppo. Ogni membro del gruppo ha esperienza, opinioni che può cedere ad
altri.
Riorganizzando il nostro bagaglio di esperienze secondo una metodologia, è possibile
raggiungere soluzioni accettabili del problema.
In questo senso è compito dell’animatore favorire lo scambio fra i partecipanti fornendo loro le
occasioni per discutere (tecniche attive - casi - esercitazioni - ecc.) e metodologie di lavoro in
gruppo che permettono di elaborare soluzioni raggiunte con il consenso.
L’animatore, può avere al massimo avuto l’occasione di interessarsi più a fondo del problema
sicurezza e questa esperienza dovrà darla al gruppo; però le situazioni reali di lavoro vengono
vissute più spesso dai partecipanti che possiedono perciò una massa di esperienze
estremamente valide che devono venire utilizzate.
L’animatore può altresì integrare i momenti d’aula proponendo il ricorso a supporti in
autoistruzione (dispense, ipertesti, VHS, CD-ROM, DVD, connessione/portale internet
dedicato …) e project work individuali.
La formazione sul campo prevede esattamente le stesse fasi di una formazione realizzata in aula,
a titolo esemplificativo si propongono quindi le fasi dell’affiancamento:
o Colloquio di accoglienza che permette di rilevare le competenze dell’allievo
o Condivisione del contratto formativo che evidenzia le competenze attese
o Calendario delle attività che descrive un percorso condiviso di crescita professionale
o Inserimento in ruolo: presentazioni, vocaboli, luoghi
o Svolgimento del programma previsto per quel ruolo
o Verifiche in itinere costanti, con momenti formali di comunicazione tra formatore ed
allievo
o Supporto per il conseguimento degli obiettivi fissati, con interventi rivolti all’allievo
e all’organizzazione
o Valutazione finale approvata dall’organizzazione e comunicazione dell’esito
all’allievo
Sotto la definizione di formazione “on the job” includiamo il Tirocinio/Stage e/o Action
Learning, in affiancamento, utile per la circolazione di cultura comune. Questo addestramento
risulta per lo più condotto dal datore di lavoro o dal superiore diretto o da un collega esperto,
solo raramente interviene un consulente esterno (assai frequente nella formazione d’aula, che
richiede competenze specifiche nella gestione del gruppo) o un mentore, ovvero un membro
dell’organizzazione esperto, ma non appartenente alla stessa unità operativa. Questa esperienza
valorizza la capacità di risolvere problemi che si presentano concretamente.
34
Per Outdoor Training intendiamo, invece, formazione al di fuori dell’aula in situazioni che
mettono alla prova competenze trasversali e di problem solving del soggetto (apprendimento
motivazionale decontestualizzato). Al momento non applicato in modo evidente per la
formazione alla sicurezza.
Tecniche attive
Possono essere utilizzate in relazione al metodo ritenuto idoneo in fase di progettazione.
Qualità = adeguatezza tra strumento e contesto.
Casi
E’ una applicazione tra le più usate e famose (Business Schools, Istituti di formazione, Scuole
manageriali, ecc.) della metodologia attiva nell’addestramento. Si tratta di proporre agli
addestrandi la lettura di un testo (di lunghezza molto variabile - da poche pagine a molte decine)
contenente la descrizione di una fattore problematico (appunto il “caso”) relativo ad un tema
specifico.
L’obiettivo è quello di favorire l’analisi e la discussione del caso per ricavarne alla luce delle
esperienze dei singoli, gli aspetti significativi ed utili. Favorisce la capacità di cogliere un
problema (problem solving). L’Autocaso e/o Incidente: interviene per ridurre la negatività di un
caso vissuto.
Ecco alcune istruzioni e consigli: somministrare il caso prima di iniziare la trattazione
dell’argomento a cui il caso stesso si riferisce; prima di distribuirlo ai discenti presentarlo
genericamente, illustrandolo nelle sue caratteristiche (cosa è, a cosa serve, come utilizzarlo);
distribuirlo a ciascun partecipante; invitare i partecipanti a leggerlo individualmente; attendere
che tutti abbiano terminato la lettura del caso (concedere in media 5 minuti per pagine di testo);
l’animatore lo rilegga ad alta voce vivacizzando la lettura con una interpretazione vocale
stimolante (questo aiuta i gruppi di minore livello a comprendere esattamente il problema); si
passi all’analisi degli aspetti presenti nel caso, invitando il gruppo ad esprimere il proprio parere
e favorendo gli interventi dei partecipanti meno attivi con stimoli appropriati.
Questa fase richiede mediamente (per un caso di qualche pagina) dai 20 ai 45 minuti circa.
Durante questa stessa fase (l’analisi) l’animatore scriva sulla lavagna, man mano che le
osservazioni scaturiscono dal gruppo, una breve schematizzazione del concetto apportato (è
sufficiente qualche parola), quando anche l’ultima osservazione è stata riassunta sulla lavagna
ed il gruppo non presenta più contributi, si chiude la fase di analisi con una panoramica di tutti
gli interventi fatti (in dieci minuti circa). esaurito il commento degli aspetti problematici del
caso (cioè i contenuti) si può passare al commento della dinamica verificatasi durante la
discussione del caso. Si può sottolineare per esempio il manifestarsi di meccanismi di esclusione,
scarsa capacità di ascolto degli altri, autoritarismo negli interventi. a questo punto lo studio e la
discussione del caso può dirsi esaurita e si passa agli aspetti teorici della lezione prendendo
spunto dai contributi dati dal gruppo.
Esercitazioni
Alcune indicazioni possono risultare utili per la costruzione di esercitazioni semplici che non
richiedono né “campionamenti” né una particolare specializzazione per realizzarle.
Si può trattare di: liste “disordinate” che devono essere riordinate dai partecipanti; elenchi di
situazioni corrette e scorrette, in cui ai partecipanti viene chiesto di individuare le situazioni
corrette; liste di comportamenti sicuri ed insicuri, in cui ai partecipanti spetta la scelta dei
comportamenti adottati più frequentemente; esercitazioni che contengono situazioni corredate di
più ipotesi di soluzione, ai partecipanti spetta di scegliere le più sicure; fotografie, preparate
appositamente, riportanti 5/6 situazioni di rischio, ai partecipanti spetta la ricerca,
l’individuazione dei rischi e la scelta di priorità per importanza.
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Quella particolare esercitazione definita Simulazione, o caso simulato dal vivo, permette di
evidenziare stereotipi del ruolo, anche con l’attribuzione, ad alcuni partecipanti, del ruolo di
osservatori (Acquario). Si tratta di proporre apprendimenti per esercizio, sperimentazioni,
riproduzione di problemi e situazioni. E’ un modello esperienziale che segue i passaggi di
sperimentazione, analisi, concettualizzazione (modelli sequenziali di Kolb, Pfeiffer, Jones).
Possiamo distinguere tra:
o S. addestrativa: simulazione di una situazione lavorativa circoscritta che richiede una
successione di comportamenti chiusi e prescrivibili
o Role play (o S. su casi): rappresentazione di una situazione lavorativa a partire da profili
professionali, anche con inversioni di ruolo. Permette di sperimentare dinamiche
relazionali in situazione controllata, a volte con videoripresa e analisi della registrazione.
o S. dimostrativa: esercitazioni codificate che permettono di evidenziare fenomeni sociali
e comportamenti interpersonali
o S. di analisi: assegnazione di compiti che sollecita l’analisi in plenaria sull’accaduto,
mettendo in luce le relazioni presenti nel gruppo
Lavori di gruppo
Nel lavoro di gruppo si chiede ai partecipanti di analizzare autonomamente un problema, di
discuterlo, di prospettare eventuali idee e soluzioni.
L’animatore può impostare tale lavoro secondo alcune modalità: porre se stesso come animatore
del gruppo completo fornendo stimoli per la discussione, favorendo l’intervento di tutti,
effettuando sintesi, chiedendo di approfondire alcuni punti, scrivendo eventualmente sulla
lavagna i contributi del gruppo; lasciare che il gruppo lavori da solo, al più chiedendo che venga
nominato un animatore che coordini i lavori e limitando al minimo i propri interventi di stimolo;
dividere il gruppo in due - tre sottogruppi che separatamente analizzano lo stesso problema; poi,
in una riunione plenaria, si confrontano e discutono le diverse soluzioni per arrivare ad un’unica
decisione di gruppo; dividere il gruppo in due - tre sottogruppi che separatamente analizzano
aspetti diversi di uno stesso problema; poi nella riunione plenaria si discutono le diverse
posizioni per integrare le soluzioni con lo scopo di giungere ad una definizione completa del
problema in esame.
Il docente fa da animatore al lavoro della plenaria coordinando sia le esposizioni dei
rappresentanti del gruppo, sia la discussione generale.
I giochi psicopedagogici, mirati al contenuto, permettono di sperimentare i concetti presentati
dal docente, rendendoli più pregnanti.
In particolare l’”In basket”, strumento formativo che interviene sullo sviluppo di capacità
decisionali.
Il lavoro in sottogruppi ha lo scopo di stimolare maggiormente la partecipazione generale che un
numero elevato di allievi rende difficile.
Il lavoro di gruppo può essere usato sia come inizio di un discorso (cioè come base per una
lezione) sia come momento riassuntivo di verifica dell’apprendimento.
Nel primo caso l’argomento deve presupporre una base di conoscenza precedente dei
partecipanti, anche se generica e poco organica: il lavoro di gruppo ha quindi lo scopo di
suscitare un confronto di tali idee, un loro approfondimento specifico, una loro
sistematizzazione organica, un loro comportamento.
Nel secondo caso il tema deve chiaramente riferirsi alle lezioni precedenti e lo scopo è quello di
completare eventuali lacune lasciate dalla spiegazione e che la discussione può mettere in luce.
Didatticamente è bene incominciare con lavori di gruppo del primo tipo ed usare gli altri solo
quando si è già formato un certo ambiente.
Ognuno di noi ricorda maggiormente, ed è maggiormente convinto, da ciò che fa in prima
persona (dissonanza cognitiva), rispetto a ciò che dice o vede o ascolta. Esattamente in questo
ordine decrescente.
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A questo scopo è possibile che al termine di ogni riunione il docente indichi alcuni fenomeni
della dinamica del gruppo particolarmente significativi.
Ciò può essere utile soprattutto quando l’animatore si rende conto che vi sono nel gruppo degli
ostacoli che impediscono una partecipazione globale ed aperta. Questo tipo di intervento è però
estremamente difficile per le reazioni che può scatenare e deve essere effettuato con estrema
cautela.
Il ruolo dell’istruttore nei metodi attivi
Ci sono dei principi di base che, pensiamo, tutti possano condividere, li elenchiamo di seguito:
o Gli adulti, in particolare, imparano meno da lezioni e conferenze piuttosto che dallo
scambio di esperienze personali.
o Difficilmente una idea nata dall’esperienza potrà essere abbandonata in seguito ad
una lezione che insegni idee contrarie o quanto meno diverse. Si tratta quindi di
riflettere sulla propria esperienza e permettere che l’esperienza di ciascun
partecipante possa essere "utilizzata dagli altri”.
o In riunione di addestramento, imparano tutti con l’occasione fornita per lo studio di
problemi concreti e non astratti.
o Occorre mandare avanti la discussione in maniera ordinata coinvolgendo anche gli
interventi contraddittori.
o E’ necessario essere in grado di porre domande che facciano progredire il pensiero
del gruppo e nello stesso tempo mettano in rilievo i risultati conseguiti.
o E’ importante ottimizzare il tempo a disposizione impedendo che la discussione si
attardi su questioni di secondaria importanza.
L’istruttore deve tenere presente: il caso; il gruppo e ciò che succede mentre si discute;
l’argomento di discussione.
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Sussidi integrati: P. 170, 190, 195, 196, 198; INAIL: 236, 245), Roma, Rodamedia
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