Accademia degli Alterati

Transcript

Accademia degli Alterati
http://accademiadeglialterati.com/
Posted on 28 agosto 2012 at 08:08 in Alterati
Mischione
di Giancarlo Marino
Trevinano è una frazione del Comune di Acquapendente e conta duecento anime. Siamo
nella sottile lingua di terra dove il Lazio si insinua tra la Toscana e l’Umbria. È dominata
dal Castello, da secoli di proprietà dei Principi Boncompagni Ludovisi, e a nord-ovest
vede distintamente il Monte Amiata.
È uno di quei posti dove non arrivi per caso, perché la Cassia oltrepassa velocemente
Acquapendente mentre si appresta a entrare in Toscana senza neanche volgere lo
sguardo verso la strada che, con modi tortuosi ma svelti, si inerpica agli oltre 600 metri
del crinale che divide questa vallata da quella che declina dolcemente verso Orvieto,
attraversando la riserva naturale del Monte Rufeno.
Uno dei motivi per lasciarsi alle spalle la Cassia, accettando il consiglio di un amico
gourmet, è la visita al Ristorante La Parolina, poco prima di Trevinano. Ma non è questo il
motivo che mi ha portato qui i primi di agosto, in una giornata che da par suo già
suggeriva la ricerca di luoghi con temperature e umidità meno insopportabili di quelle
cittadine.
Giuliano Salesi è un compagno di bevute da molti anni. Riflessivo, di poche parole,
amante del bello e del buono in tutte le declinazioni possibili, dopo anni di florida attività
imprenditoriale si è ritrovato quasi per caso da queste parti. Pochi mesi dopo aveva già
acquistato un casale poco oltre Trevinano. La vigna, quasi un ettaro esposto a
ovest/nord-ovest che accompagna il casale quasi fin su, in cima alla collina, è nata con
parto naturale, frutto della medesima visione della vita che lo aveva portato fin qui.
Sapevo del casale e sapevo della vigna e mi ripromettevo da tempo di andarlo a trovare.
Ovviamente per far visita all’amico, ovviamente per la curiosità di vedere cosa stava
“combinando”, ma soprattutto perché l’ultima volta che ci eravamo sentiti avevo colto
nelle sue parole quello stesso miscuglio di affascinazione, mistero e timore che può
ingenerare l’eruzione di un vulcano in un bambino. Il casale è ormai ristrutturato, con
grande eleganza e buon gusto, e comprende anche poche stanze adibite a B&B. Tutto
porta il nome di Podere Orto, lo stesso che in origine era stato dato alla costruzione e alle
terre che lo circondano. Ma questo vuol dire innanzitutto che Giuliano ha deciso di
lasciare Roma e di trasferirsi a vivere qui con tutta la famiglia, e a me ha fatto un certo
effetto.
Passeggio su e giù per la vigna. La parte più alta racchiude le varietà a bacca rossa
(grechetto rosso, sangiovese e ciliegiolo). Raccolgo un chicco di ciliegiolo e lo assaggio:
mi mangerei l’intero grappolo ma mi contengo, anche per non fare concorrenza ai
cinghiali che da queste parti scorrazzano liberamente e gradiscono, all’alba, fare
colazione con l’uva. La parte mediana è dedicata al Moscato “à petits grains” (o moscato
d’Alsazia), quella più in basso ad altre varietà locali (rossetto, romanesco, verdello,
grechetto, greco, malvasia di Candia e malvasia toscana).
Dal primo raccolto, un anno fa, sono state prodotte pochissime bottiglie con attrezzature
e metodi di vinificazione che eufemisticamente potremmo definire “approssimativi”. Fra
pochi giorni vedrà la luce la prima “vera” vendemmia, e il vino verrà fatto nella nuova
cantina, con attrezzature ben oltre il minimo sindacale e quindi più che sufficienti per
ottenere buoni risultati. Il resto verrà con il tempo.
A pranzo mi fa assaggiare i tre vini del 2011, un rosso e due bianchi. Il primo non riesce
a nascondere tutti i difetti di una vinificazione che potrei definire “eroica”, Giuliano
novello Enrico Toti, che pur in mancanza di armi non si arrende e combatte con quello
che ha, la sua stampella. Sotto la spessa coltre dei difetti pulsa però una bella materia, a
dimostrare quello che avrebbe potuto essere se in luogo della stampella ci fosse stato
qualcosa di più utile alla bisogna. Il bianco da moscato, pensando alla stampella, è quasi
un miracolo, tanto che durante il pasto me ne sono bevuti un paio di bicchieri. Anche qui
diverse imprecisioni, azzarderei anche una raccolta fin troppo ritardata, e il vino, con fare
indisciplinato, si allarga al naso e in bocca su toni caldi di frutta e di fiori gialli, cedendo a
metà bocca per una leggera mancanza di acidità. Piacevole, però, nonostante tutto si
lascia bere. Con l’immaginazione vedo in lontananza un possibile vino dolce e ne faccio
timidamente cenno a Giuliano.
Dopo un po’ mi porge la terza bottiglia di bianco. Di traverso sul vetro, su una piccola
striscia di carta adesiva leggo “mischione 2011”; è il vino realizzato con tutte le altre
varietà bianche. Ho assaggiato ripetutamente, in silenzio, per essere certo che l’affetto
per Giuliano e per la sua nuova avventura non disperdesse in me anche l’ultima traccia di
lucidità e obbiettività. Anche qui qualche imprecisione, ma il vino è fresco, dritto, lungo,
complesso e, se me lo perdonate, minerale. Ripenso al terreno della vigna, che nella parte
superficiale mostra una struttura sabbiosa più che argillosa, con abbondante ciottolame
intarsiato di quarzite (che fa sospettare un substrato di arenaria metamorfica), e mi viene
spontaneo pensare che le varietà bianche del mischione siano riuscite a “leggere” meglio
di tutte le altre varietà la natura più intima e vera di quel pezzo di terra.
Mi parla del vino con grande pudore, e mi viene spontaneo pensare che con il termine
“mischione” abbia inconsciamente voluto evitare di chiamarlo “vino”. Non gli faccio cenno
di queste mie elucubrazioni e, temendo di dargli l’impressione di compiacerlo, mi limito a
un banale “mi piace di più”.
È l’ora di rituffarmi nell’afa romana. Lancio l’ultimo sguardo alla cima della collina,
scapigliata dal vento che si è fatto più intenso, e lascio che scorra lungo il pendio per
abbracciare l’intera vigna e catturarne nella memoria l’immagine. Chissà se da questa
vigna uscirà mai un vino degno di essere chiamato vino. Ma già mi immagino la piccola
figlia di Giuliano che tra pochi anni prenderà a correre tra i filari, rubando ai cinghiali
qualche chicco di uva zuccherina e cogliendo le differenze tra le diverse varietà. Chissà se
Giuliano è consapevole di aver già vinto la sua scommessa. A prescindere, come avrebbe
detto Totò. Saluto Giuliano e la moglie (prima o poi vi parlerò della sua confettura di
peperoncino, 100/100), salgo in macchina e mentre riparto ripenso al mischione.
Mi
sfugge un sorriso.