52. L`Ottocento (8)
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52. L`Ottocento (8)
Blitz nell’arte figurativa 52. L’Ottocento (8) La centralità artistica di Parigi è indiscutibile nell’Ottocento. Il fenomeno maggiore, sorto ufficialmente sulla fine del secolo, vale a dire l’impressionismo, permea di sé l’intero operato degli artisti europei, superando, pur con molta fatica, il fascino delle opere accademiche. Gli Impressionisti sono più determinati dei Macchiaioli perché non soffrono il provincialismo degli italiani. Questo provincialismo permette di evitare le suggestioni troppo avanzate della nuova pittura francese. La conseguenza è un linguaggio artistico contenuto, portato all’involuzione per un insieme di dubbi e incertezze inammissibili ma inevitabili. È la scrittura, la robusta estetica del linguaggio a condizionare l’espressione italiana, ormai marginale rispetto a quella europea e poco considerabile, talvolta ingiustamente, nei confronti del concetto di progresso artistico. La pittura italiana dell’Ottocento conosce variazioni e vibrazioni mutuate da modelli maggiori, con qualche originalità dettata dalla personalità individuale ma limitata dalla mentalità culturale nazionale, molto sostanzialmente conservatrice e gretta. In Italia non mancarono eccellenze, ma furono isolate. Lo stesso movimento della “Scapigliatura” – preminente nel campo letterario – trovò poco ascolto e finì con il morire su se stesso, avvolto dal Decadentismo: una sorta di accettazione forzata e quindi di negazione della possibile validità di spunti intellettuali nuovi, lontani, anche se non lontanissimi, dalla tradizione. I fermenti romantici non mancarono, ma furono sopiti da preoccupazioni accademiche, votate formalmente all’esaltazione del classicismo, perché sua patria eccellente. In pittura, arte comunque solare, di facile evidenza, le opere controcorrente non furono poche. Artisti coraggiosi cercarono di dare retta al proprio animo, ispirandosi alle correnti che portavano ad argomentare diversamente, con maggiore spazio per lo spirito umano, e provarono a esprimere il loro punto di vista sulle cose del mondo, non sempre esitando troppo. La “Scapigliatura” è un movimento artistico senza regole nato a Milano intorno agli anni Sessanta dell’Ottocento. Epicentro del suo interesse è la letteratura. Riferimento, la bohéme parigina. Scopo dichiarato: combattere la conservazione, il sistema borghese. Il movimento nasce da un gruppo d’intellettuali emarginati decisi a far valere la ragione dell’intelletto. Essi avversano, quindi, anche il Romanticismo. Il nome viene ufficializzato nel 1862 da Cletto Arrighi (Caro Righetti in realtà) con il romanzo “La Scapigliatura e il 6 febbraio”. Maggiore esponente letterario fu Carlo Dossi, pavese, che nel suo bel libro “Note azzurre” adotta una prosa limpida, con toni veristici, molto simile a quella del grande giornalista e critico francese Charles-Augustin de Sainte-Beuve che gli fu contemporaneo. Dossi non ha la stessa profondità di Sainte-Beuve, ma è lodevole il suo tentativo di togliersi dall’accademismo. La differenza fra i due è data anche dai diversi ambienti culturali, l’uno di respiro internazionale e l’altro, quello italiano di allora, condannato a visioni ristrette dalla sua vita piccolo-borghese, imprigionata da qualche tempo in un’economia di bassa conservazione e di modesti orizzonti. Giuseppe Rovani, nello stesso periodo licenzia il libro “Le tre arti”, la cui teoria di fondo, per cui tutta l’arte finisce con il perseguire l’armonia ben rappresentata dalla musica, ispira la pittura scapigliata, quella soprattutto di Tranquillo Cremona (1837-1878) e di Daniele Ranzoni (18431889), peraltro amici. Questa pittura, al suo acme, si fa conquistare da un certo patetismo che riversa nelle immagini quasi non osando definirle, preferendo ricorrere a cenni emotivi e sentimentali seri che si celano in esse. Cremona e Ranzoni, più il primo del secondo, operano per sottrazione razionale, favorendo una spiritualità che ha qualcosa di religioso, ma che va oltre il dogma ecclesiastico per tentare l’approdo verso la radice dell’atteggiamento spirituale. Più che una ricerca approfondita è una reazione avvertita come doverosa, e giusta, alla piattezza del sistema artistico vigente in Lombardia (ritenuto all’avanguardia) basato sul verismo esangue di Giuseppe Bertini. Cremona e Ranzoni sottopongono agli occhi distratti del sistema (non sospettando occhi indifferenti) una questione morale essenziale, quasi scusandosi di farlo, ovvero di osare troppo, sembrando, fondamentalmente, agli stessi un andare troppo oltre. Ma nel mezzo dell’impresa, la passione prende il sopravvento e consente la realizzazione di una sorta di confessione ideale dell’avvento di una realtà altrettanto ideale, o per lo meno del suo affacciarsi con buone speranze di considerazione. Di Cremona, l’acquerello “Ripassando la lezione”; di Ranzoni l’olio su tela “Ritratto di bambino” (Forse Luigi Troubetzkoy, presso la cui famiglia il pittore passò le ore migliori della sua vita). Lo spirito bohémien condizionò e tradì entrambi: Cremona morì intossicato dal piombo delle biacche a soli quarantuno anni, Ranzoni soffrì di gravi disturbi nervosi e venne ricoverato per qualche mese in un ospedale psichiatrico, morendo a Intra una decina d’anni dopo di quasi totale inattività. Caratteristica di Ranzoni è una malinconia insistita, talvolta eccessivamente languida; ma certo non in questo ritratto, improntato di poesia e fierezza. Gli Scapigliati ebbero per lo meno due importanti predecessori: Giovanni Carnovali, detto il Piccio (1804-1873) e Federico Faruffini (1833-1869). Il primo era un personaggio originale, indipendente, bizzarro. A soli undici anni venne accolto dall’Accademia Carrara di Bergamo, sotto la protezione di Giuseppe Diotti, pittore neoclassico. Nel 1831 intraprese un viaggio in l’Italia, soffermandosi a Parma, Roma e Milano. Più tardi fu a Parigi, con l’amico Giacomo Trecourt, anche lui pittore, dove conobbe Delacroix. Tornò a Roma e visitò Napoli. Il Piccio (il piccolo) amava viaggiare a piedi e fare lunghe nuotate; l’ultima gli fu fatale. Il nostro pittore non era molto amato dal pubblico, sebbene i colleghi ne invidiassero il talento. Il suo era un realismo anticonformista che disturbava il sonno culturale della borghesia. Hayez diceva di lui ogni bene, ma si riferiva alle prime opere romantiche. Per l’amico Trecourt, il Piccio era il miglior pittore dell’Ottocento, ma anche lui si riferiva alle opere tradizionali e a quel talento che, usato tradizionalmente, avrebbe oscurato ogni concorrente. Solo nel 1909, in occasione di una mostra milanese, egli fu riscoperto e rivalutato. Il suo anticonformismo fu considerato una premessa al movimento della Scapigliatura e a quello dei Simbolisti. Due le immagini proposte: un “Paesaggio con grandi alberi” (i suoi paesaggi piacevano) e una “Sacra Famiglia”, incomprensibile ai tempi per il senso di non finito. Del Piccio, Federico Faruffini fu uno dei maggiori seguaci. Dopo un periodo purista, Faruffini si fece amico di Tranquillo Cremona e seguì il proprio carattere bizzarro e instabile, attratto dal particolare e dal movimento significativo. Non ebbe una vita facile. Nato a Sesto S. Giovanni, alle porte di Milano, morì a Perugia suicida ingerendo cianuro. Gli si deve un piccolo capolavoro: “La lettrice”: un’opera baciata dalla spontaneità. Un guizzo, un’intuizione, un riconoscimento alla bellezza di una cosa semplice: fatto incredibile in quegli anni. Suggestivo il Naturalismo di Filippo Carcano (1840-1914) per la combinazione fra realismo e scapigliatura, la seconda intesa come disinvolta rappresentazione delle figure. Milanese, allievo di Hayez e di Bertini, compagno di corso di Faruffini, Cremona e Ranzoni (con i quali condivise uno studio per qualche tempo), fu a Parigi e a Londra per rendersi conto dei nuovi fermenti culturali europei. Disegnava splendidamente. Dovette abbandonare il realismo vero e proprio perché accusato di avvalersi della tecnica fotografica. Il suo naturalismo è dunque frutto più di un caso, di una necessità commerciale, che di una scelta intellettuale. Il quadro proposto è “ L'ora del riposo durante i lavori dell'Esposizione del 1881”. È del 1887, nel pieno della maturità dell’artista. Vi si nota una notevole capacità scenografica e una pittura quasi pietrificata, ma senza ricorsi realistici accademici. Il pittore dipinge ciò che vede, trasformato in ciò che sente o dovrebbe sentire. Gaetano Previati (1852-1920), di Ferrara, si formò a Milano, nella Pinacoteca di Brera. Nel 1881 entrò in contatto con la Scapigliatura che tuttavia abbandonò presto, anche se non del tutto, per abbracciare il Divisionismo, di cui divenne anche un teorico. Ebbe un’esperienza parigina. Nel 1911 fondò con il fratello Vittorio la “Società per l’arte Gaetano Previati”, divenendo imprenditore di se stesso. La sua è una pittura di stampo decorativo, con poco sangue e molta fantasia di contorno a immagini convenzionali tradotte in speciali da interventi spettacolari accurati. Si veda questa sua “Madonna dei gigli”, decadente con accettazione e remoto incantesimo per l’immagine sacra. Il Divisionismo italiano, va ricordato, è figlio del Puntinismo francese. No ha regole se non l’impiego esclusivo di punti e linee accostati l’uno all’altro. Il principio fondamentale si deve al mosaico, nel caso del Divisionismo con “tessere” molto piccole, invisibili da lontano. Il fine è l’animazione del dipinto. Si tratta di una sorta di espediente per movimentare maggiormente la scena e per dare più vita al soggetto. Benché provenga dal neo-impressionismo, finisce con l’allontanarsi da esso in quanto operazione artificiale, quasi scientifica nell’applicazione, non nella ricerca come in Monet, adottata per sollecitare l’attenzione. La superficialità che ne deriva viene talvolta superata da sensibilità particolari, anche se il divisionismo italiano non raggiunge mai intensità intellettuali e sentimentali di grande rilievo, come si può notare in quest’opera di Previati, “Nel prato”. Due gli altri pittori più rappresentativi del movimento divisionista: Giuseppe Pellizza da Volpedo e Giovanni Segantini. Pellizza da Volpedo era figlio di agricoltori. Grazie ai fratelli Grubicy (uno, Vittore, era anche pittore romantico) fu ammesso all’Accademia di Brera e andò a lezione da Hayez e Bertini. Umile e modesto, Pellizza da Volpedo (aggiungerà alla firma “da Volpedo”, dopo esserci ritornato, da Roma, da Firenze – dove aveva studiato con Fattori - nel 1892 è aver sposato una contadina del suo paese) dichiarava apertamente che Segantini era il suo maestro. Prima di incontrare Segantini a Firenze, il nostro pittore aveva studiato con Cesare Tallone (un ritrattista classico di talento) a Bergamo, presso L’Accademia Carrara. Le varie esperienze – arricchite dai confronti con i divisionisti Emilio Longoni, Plinio Nomellini, Angelo Morbelli, Gaetano Previati, oltre a Segantini - confluirono tuttavia in un realismo sociale sollecitato dalle lotte degli operai per una paga migliore verso la fine del secolo. Pellizza da Volpedo ne fu il cantore per eccellenza, realizzando nel 1901, dopo dieci anni di lavoro, l’olio su tela il “Quarto Stato” cm. 293x545, Museo del Novecento, Milano. L’opera fu molto contestata. Questa contestazione, unita all’improvvisa morte della moglie, fecero cadere il pittore in una depressione tremenda che infine lo portò al suicidio. Poco più tardi, l’opera divenne il simbolo del proletariato. Giovanni Segantini (1858-1899) di Arco, in provincia di Trento, fu giovanissimo a Milano, affidato alla sorella maggiore Irene, dopo la morte prematura del padre. La sorella faticò a seguirlo. Il ragazzo spariva per ore, finché fu arrestato per ozio e vagabondaggio. Messo in un riformatorio, nel 1870, tentò di fuggirne, ma venne ripreso e vi rimase sino al 1873. Più tardi fu a Milano e grazie a piccole occupazioni riuscì a seguire i corsi serali all’Accademia di Brera, con Bertini: qui incontrò Emilio Longoni e ne divenne amico, così come divenne amico di Vittore Grubicy, pittore a sua volta e mecenate, che lo aiutò in tutti i modi ad affermare il suo talento. Per Grubicy realizza scene di genere, si dà al realismo romantico. Avrà fortuna nel 1888 in una mostra londinese. Me è qualche anno dopo soggiornando in Engadina, nel paese di Maloggia, non lontano da St. Moritz, che Segantini trova la sua maggiore cifra espressiva, fatta di naturalismo e di poesia che la sua pittura divisionista rende vivissima, commovente e malinconica. Il misticismo, a livello istintivo, scopre con Segantini un valore notevole, ben maggiore di quello dovuto a elucubrazioni romantiche e a pose intellettualistiche. La semplicità del nostro pittore, in un ‘opera come “Le due madri” (pur considerando la facilità dell’accostamento e dell’allusione), è disarmante, esalta con naturalezza la necessità assoluta del rispetto per gli esseri viventi, per la vita, per l’esistenza. Segantini amò anche il Simbolismo, nel quale eccelse, sempre sotto la spinta mistica, come si nota in questo delicatissimo “Angelo della vita” (il tema della maternità gli era congeniale, lo ribadì più volte). Modo espressivo prevalente della pittura italiana dell’Ottocento è il naturalismo, reso possibile da una rivisitazione accademica del vero condizionata dalle variegate visioni romantiche. Il Romanticismo vi entra trasformato spesso in melodramma (si vedano, solo per citarne pochissimi, Antonio Ciseri, i fratelli Induno, Eleuterio Pagano, Emilio Gola, Eugenio Gignous, gli scultori Paolo Troubetzkoy e Giuseppe Grandi). Mosè Bianchi (1840-1904), di Monza (aveva un omonimo a Lodi, pure pittore) non si discostò molto, all’inizio, da questo stile, ma dopo le esperienze con i futuri Scapigliati (con alcuni di essi condivise uno studio a Milano per qualche tempo) e un soggiorno a Venezia (aveva vinto un premio, guadagnandosi il viaggio) la sua tavolozza si arricchì di più motivi e di maggiori approfondimenti speculativi e di più ampio respiro espressivo. La pittura di Bianchi diventò più intensa, più incisiva, attraverso una cura dell’immagine che lavora all’interno di una spregiudicatezza (per i tempi) che gli consente di ottenere suggestioni immediate ma non superficiali. Bianchi aveva appreso molto dai grandi veneziani e aveva apprezzato il furore ordinato di Mariano Fortuny, spagnolo, allora molto richiesto in Italia, soprattutto a Roma (si veda la terza immagine, un particolare della sua opera “La vicaria”). Le capacità pittoriche di Bianchi non erano inferiori a quelle di Fortuny: il nostro pittore lo dimostra ampiamente impegnandosi a fondo nella realizzazione di opere ben fatte e palpitanti, pur entro una logica di contenimento emotivo determinata dal clima accademico (all’inizio Bianchi aveva studiato con Bertini a Brera e la “bella maniera”, cioè la calligrafia a prescindere dai concetti, come sottofondo, non lo lascerà mai). Il nostro pittore dipinse di tutto, dalle vedute (qui c’è “Traversata in laguna”) alle figure invasate di torbido romanticismo (non sempre, ecco – seconda immagine – “Donna di fronte allo specchio”). Mosè Bianchi, anche acquafortista pregevole, è un pittore complesso, da riscoprire e rivalutare adeguatamente, di sicuro all’altezza dei grandi dell’Ottocento, francesi inclusi. Egli ebbe anche il merito di seguire il nipote Pompeo Mariani (1857-1927). Mariani era avviato alla carriera bancaria, dipingeva segretamente. Quando lo zio Mosè Bianchi se ne accorse, lo invitò a dipingere all’aria aperta e si fece mediatore con la famiglia per accettare il figlio pittore. Nel 1880 Mariani fu in Egitto, da cui portò opere che ebbero un notevole successo commerciale. Studiò con Eleuterio Pagano e con Emilio Borsa (un pittore di scene di genere) ma il suo riferimento fu sempre lo zio. Nel 1885 espone a Parigi e a Londra. Fa ritratti, fra cui quello del re d’Italia Umberto I, dipinge paesaggi (possedeva una casa a Gignese sul Lago Maggiore); nel 1893 eccolo a Chicago, invitato a una grande esposizione delle sue opere. Infine, Mariani si ritirò a Bordighera. Il pittore era molto amato dalla nobiltà lombarda, era bravo a riproporre scene di vita mondana: fu la sua fortuna economica. Correntemente, Pompeo Mariani è definito “L’impressionista italiano”, ma la sua è una ricerca formale non sostanziale, è la sua abilità pittorica a prevalere sempre – ed è sovente una grande abilità, a dimostrazione di quanto l’accademia, direttamente e indirettamente conti per l’artista italiano dell’epoca -. Le allusioni sono una sorta di contorno moderno, ferme all’enunciazione, sostanzialmente molto di riporto. Il suo bello è in opere come il “Villaggio di campagna con figure” e “Giovane donna in salotto”. La seconda opera è una specie di compendio fra visione classica e visione rivisitata secondo canoni richiesti dalla nuova cultura francese importata per moda. Una personalità davvero originale è quella di Rubaldo Merello (1872-1922). Valtellinese trapiantato in Liguria, Merello entrò in contatto con il pittore divisionista Plinio Nomellini, che gli fece apprezzare le opere di Segantini e di Pellizza da Volpedo, dandosi così alla pittura dopo la scultura. Aveva studiato all’Accademia delle Belle Arti di Genova, ma quasi disimparò ciò che aveva imparato. Merello visse una vita isolata, girovagando nell’entroterra di Camogli, di S. Fruttuoso e di Margherita Ligure. Era inebriato dalla natura selvaggia di quei luoghi che immortalò in vedute affacciate sul mare, in particolare dei dintorni di Portofino. La sua è una pittura discreta, umile, stravolta da accensioni improvvise di colore, come una dichiarazione passionale alla visione. Il suo divisionismo è funzionale allo scopo, non dichiarato, del pittore. Alla fine, nel suo caso, vince la natura sulla reinvenzione artistica della stessa, lui partecipe e consenziente. Lo s’indovina bene in questi suoi “Pini”, d’istintiva, liricità. Assolutamente straordinaria la sensibilità di Armando Spadini (1883-1925, una nefrite cronica lo fece morire giovane). La sua pittura è originale, personale, dotata di enorme calore umano, non ammissibile a questa o quella corrente, per quanto il suo nome fu accostato alla Scuola Romana (un insieme di volonterosi innovatori, legati fra loro da amicizia e rispetto, non da regole). Spadini era bene informato su ciò che avveniva nell’arte del suo tempo, ma non fu espressionista, non fu impressionista. Si appassionò ai Macchiaioli, ma l’esito delle sue opere è piuttosto dovuto alle frequentazioni letterarie, ben filtrate dalla sua personalità. Il nostro pittore, fiorentino di nascita, una volta a Roma ebbe l’amicizia, fra gli altri, di Cardarelli (un rinnovatore del classicismo), Cecchi, Baldini; De Chirico, il fratello Savinio (che lo aiutò); Ojetti (il grande giornalista del Corriere della Sera, che organizzò una mostra per lui). Collaborò con le riviste del tempo, fra cui “La Ronda”, “Valori Plastici” (diretta da Mario Broglio, pittore e critico, più critico di pittore, la moglie Edita era la vera pittrice di famiglia; Broglio tacciò tuttavia Spadini di conservatorismo). Solo verso la fine della sua vita il nostro pittore ebbe qualche soddisfazione economica. Divenne ricercato come ritrattista e vedutista. Ma Spadini non era pittore di maniera e soprattutto non era ripetitivo. Le sue opere migliori sono quelle che riguardano il proprio ambiente, la propria famiglia presa a paradigma dell’intera umanità. Colori accesi, corposi, intensi, rivelano nei suoi quadri sentimenti intimi radicati, offerti non allo sguardo, bensì alla coscienza dello spettatore. Spadini raggiunge risultati simili a quelli di Renoir, ma le sue opere hanno maggiore vita, senza minimamente esibirla. Vediamo qui: “”Lillo che dorme” (d’incredibile e profonda naturalezza), “L’edera nel bosco di Villa Borghese” (un omaggio sentito alla natura) e “Mamma con bambini”, di una tenerezza irraggiungibile. Spadini supera di slancio il provincialismo italiano, un freno per l’espressività, parlando col cuore (senza reticenze di sorta) di ciò che è il mondo umano.