Pierantonio Costa di Luciano Scalettari Ho conosciuto

Transcript

Pierantonio Costa di Luciano Scalettari Ho conosciuto
Pierantonio Costa
di Luciano Scalettari
Ho conosciuto Pierantonio Costa come tutti i giornalisti italiani che si recavano in Ruanda, in quei
drammatici giorni del genocidio del 1994. Mi aggregavo a una delle sue numerose missioni
all’interno del Paese, mentre erano in corso i massacri. Viaggiammo insieme per soli tre giorni, dal
19 al 21 maggio 1994. Andavamo con un missionario rogazionista, padre Giorgio Vito, e un
pediatra di Varese, il dottor Luigi Mussi, all’orfanotrofio di Nyanza. La spedizione comprendeva
anche un paio di colleghi giornalisti.
Padre Giorgio e il dottor Mussi si sarebbero fermati là, e con noi sarebbero tornati altri due
missionari, il padre rogazionista Eros Borile e don Vito Misuraca, prete diocesano. Eros e Vito
erano distrutti da un mese e mezzo di fatica e di tensioni per cercare di salvare i sempre più
numerosi bambini dell’orfanotrofio (quando arrivammo erano 568; al termine della guerra
diventarono più di 600). Mussi e padre Giorgio, che davano loro il cambio, andavano
volontariamente a infilarsi in una vicenda rischiosa e delicatissima: sfamare e proteggere quei
bambini, molti dei quali -- di etnia tutsi -- erano allora le prede preferite delle bande di assassini
responsabili del genocidio.
In quei viaggi si fanno molte ore in fuoristrada, si mangia e si vive costantemente insieme. In
quella spedizione da Bujumbura a Nyanza, poi, si condivisero pure le tensioni, le paure, le
decisioni vitali. Insomma, si diventa amici, in quelle circostanze, di un’amicizia del tutto singolare.
E infatti, ricordo con affetto tutti quei compagni di viaggio.
Ebbene, tutti i partecipanti avevano uno scopo ben preciso per rischiare la pelle in mezzo ai
posti di blocco dei miliziani ruandesi. Mi era chiara la scelta di ciascuno, ideale e/o professionale.
Meno che di uno. Perché Costa accompagnava quella spedizione? Come imprenditore, no di
sicuro. Come console non era certo tenuto a farlo. Quindi?
Infatti glielo chiesi. Ma il burbero benefico personaggio liquidava la faccenda con qualche
borbottio. Non riuscii a sapere perché si stava prodigando. In compenso scoprii (singolare
circostanza) che eravamo nati a un centinaio di metri l’uno dall’altro: entrambi a Mestre, stessa
zona, stesso quartiere. Scoprirlo in Ruanda, durante una delle peggiori apocalissi del ventesimo
secolo, fa nascere forse una simpatia e un quid di complicità in più.
Dopo la guerra venni a sapere dettagli e brandelli delle sue imprese: colleghi, volontari,
missionari mi raccontavano di quanto si era dato da fare Pierantonio, dei rischi personali che aveva
corso, delle tante persone che aveva aiutato a uscire dal Ruanda. Venni a sapere che era stato
insignito della medaglia d’oro al valore civile per aver portato in salvo gli italiani presenti in
Ruanda all’inizio della guerra. E che un’altra onorificenza gli era stata attribuita, per analoghe
ragioni, dal Belgio. Insomma, c’era indubbiamente qualcosa di particolare nel comportamento di
questo atipico e “poco diplomatico” console.
In tutto questo periodo, dal 1994 in poi, rimanemmo in contatto, saltuariamente: una
telefonata, un breve incontro, anche a distanza di anni tra l’uno e l’altro. Ma fin da allora mi ero
convinto che la sua era una storia da raccontare e che, prima o poi, l’avrei fatto, se solo lui avesse
avuto voglia di narrarmela.
Così, un bel giorno di dicembre 2003, gli mandai un’e-mail, proponendogli di scrivere un
libro sul «suo» Ruanda, sui suoi cento giorni del genocidio. Mi rispose subito, sollecito e cortese. Il
senso della risposta era: «Perché? Ne vale la pena?»
In realtà non sapevo se ne valeva la pena. Rincorrevo un’intuizione, nulla più. Alla fine
accettò, superando la ritrosia e la discrezione che lo contraddistinguono.
Dovevamo passare qualche tempo insieme, lui a raccontare, io a registrare e a tempestarlo di
domande. «D’accordo, ma se vuoi che ci vediamo in Belgio posso farlo solo tra Natale e
Capodanno. Sennò, vieni a Kigali».
Detto e fatto, trascorremmo qualche giornata nella sua casa di Bruxelles. Conobbi la sua
straordinaria moglie Mariann e il minore dei figli, Matteo. Gli altri due vivono in giro per il mondo.
La figlia, Caroline, in Germania. Il maggiore, Olivier – manco a dirlo -- in Ruanda.
Soprattutto, venni a conoscere, finalmente, l'intera sua storia. «Per la verità», esordì, «non l’ho
mai raccontata a nessuno. È uno sforzo terribile riparlare di quegli avvenimenti». Mentre lo diceva,
aveva gli occhi lucidi. E li ebbe in tanti altri momenti mentre narrava gli episodi più strazianti.
C.so Colombo 5 - 20144 Milano | tel 02 83241397 | fax 02 99987409 | [email protected] | www.gariwo.net
La sua ex segretaria del consolato, Renata Tomini, che contattai in seguito per avere qualche
altro dettaglio, mi disse: «Sono contenta che tu scriva questo libro. Pierantonio se lo merita. Ha un
cuore immenso».
Sì, è così. Avevo intuito bene. Ma non si tratta solo di una persona dotata di una grande
generosità. Secondo me, è un giusto, nel senso che danno a questo termine gli ebrei. «Ho solo
risposto alla mia coscienza. Quello che va fatto lo si deve fare», ha continuato a ripetere durante
quelle lunghe conversazioni. Ha sempre minimizzato sia i rischi sia il valore del suo contributo. La
mia principale difficoltà, in quei giorni, è stata di capire la reale portata di quello che ha fatto e dei
pericoli che ha corso.
Le pagine della sua storia raccontano, certo, un uomo al di fuori del normale e imprese che
destano assoluta ammirazione. Ma raccontano anche, attraverso gli occhi e le riflessioni di
Pierantonio, uno dei più terribili avvenimenti del secolo appena trascorso: il Ruanda del genocidio,
la violenza, la barbarie, l’immenso dolore che quei fatti hanno provocato.
Trovo che la sua vicenda abbia una forza straordinaria. Per due motivi.
Il primo. Ha una grande potenza simbolica: è la classica goccia di bene nell’immenso
mattatoio che fu il Ruanda di quei giorni. È la vicenda di un moderno Davide contro Golia, nella
quale Davide non può combattere Golia, ma solo cercare di strappargli qualcuna delle vite umane
che sta divorando. Un Davide, però, che ritiene alla fine di aver perduto, e che ancora dopo dieci
anni è roso dal tarlo del «si poteva fare di più».
Infine, la seconda ragione. Costa è un uomo normale che ha saputo comportarsi in modo
straordinario. Non aveva ambizioni al martirio, non si considera un eroe, non ritiene di aver fatto
un granché. Non è il missionario che ha totalmente votato la vita agli altri, né il rambo pronto a
opporre il proprio petto ai proiettili. Perciò, in teoria, la sua impresa era alla portata di tutti. Perché
-- come lui stesso insiste a dire -- ha fatto solo ciò che riteneva essere nelle sue possibilità,
ponendo la massima attenzione a tornare a casa vivo.
Per questo la sua storia è di quelle che fanno riflettere. Costa è semplicemente un
imprenditore, un console onorario in un minuscolo Paese africano, è sposato, ha tre figli, vive
preoccupazioni e desideri simili a quelli di tanti altri. Ma, in quei giorni, in quei difficilissimi
momenti, ha usato i propri soldi, l’influenza, le capacità per fare il bene e per dare una mano agli
altri, dove e come ha potuto.
Oggi conosciamo figure simili alla sua: Oscar Schindler, Giorgio Perlasca, e diversi altri.
Uomini che in analoghe drammatiche circostanze hanno dato una sconvolgente prova di
generosità e di umanità, cercando di fare ogni sforzo possibile per salvare almeno alcune delle
tante vite umane che vedevano spazzate via ogni giorno. In Ruanda – ricordiamolo – è morto,
secondo le stime, un milione di persone in poco più di tre mesi. Cioè 416 persone all’ora, 7 ogni
minuto.
Per la cronaca, “quel poco” che ha fatto Costa ha permesso di salvare oltre 500 ruandesi,
portati in salvo con i convogli organizzati direttamente da lui, senza contare i 123 italiani, i belgi,
gli svizzeri, i francesi e gli altri europei. E ha contribuito in modo determinante alla protezione e al
salvataggio di altri 1.000 e più bambini.
Mentre faceva questo, militari e interahamwe (le bande di assassini che davano la caccia ai
tutsi), ladri e sciacalli, l’hanno depredato e rapinato di tutto ciò che aveva. Le quattro aziende che
aveva sono state spazzate via. E lui, nelle stesse settimane, elargiva mance a destra e a manca per
ottenere i permessi, formare i convogli, superare i barrage, i posti di blocco dei miliziani:
«All’inizio del genocidio avevo preso con me il denaro delle casse e quello che avevo in casa. Erano
300.000 dollari. Alla fine, a luglio, me n’erano rimasti meno di 1000. Avevo dato via tutto». Non
l’ha detto (e non l’avrebbe mai detto) a registratore acceso. Me l’ha confidato a tarda sera, davanti
a un bicchiere di vino.
«Beato il Paese che non ha bisogno di eroi», recita la famosa frase. Credo che sia beato anche
quel Paese che ha tanti giusti, cioè uomini straordinariamente normali o, se vogliamo,
normalmente straordinari.
Per quel che mi riguarda, posso solo considerare una fortuna aver conosciuto uno di questi
giusti. Ed essere onorato della sua amicizia.
C.so Colombo 5 - 20144 Milano | tel 02 83241397 | fax 02 99987409 | [email protected] | www.gariwo.net
DUŠKO KONDOR 1947-2007
di Tanja Sekulić
Duško Kondor è nato a Bijeljina, Bosnia Erzegovina, nel 1947; e a Bijeljina è stato assassinato il 27
febbraio 2007.
Professore di filosofia, sociologia e scienze politiche alla scuola media superiore "Mihajlo Pupin"
nella sua città, attivista nel campo dei diritti umani, co-fondatore del Comitato di Helsinki in
Bosnia Erzegovina, direttore della Scuola del coraggio civile dell'ONG GARIWO. Una missione:
educare i giovani, da una generazione
all'altra, al pensiero critico ed autonomo. Un compito
difficile in tempi difficili.
Diceva di lui uno dei suoi alunni più amati, Asmir Vodenčarević:
“Era un uomo di sessant'anni con la forza fisica di Tyson, lo spirito di Gandhi, la volontà di Martin
Luther King. Sempre aperto al pensiero degli altri, pronto a esprimere il suo con coraggio e
discrezione. Nei suoi messaggi di pace citava spesso Franklin: “mai potrebbe esserci una guerra
giusta o una pace cattiva”; oppure Dostojevski, “nessun ideale al mondo vale una lacrima di un
bambino”. Ai suoi studenti raccontava il sentimento di profonda sconfitta che provava, ogni qual
volta uno dei suoi ex alunni tornasse a Bijeljina dal fronte chiuso in un feretro. Dichiarava di essere
un grande credente e un nazionalista: la sua fede i giovani, la sua nazione l'umanità.”
La sua città, Bijeljina, è stata una delle ribalte dei crimini di guerra e contro l'umanità eseguiti dalle
forze etnonazionaliste dei serbi-bosniaci. Duško Kondor, serbo anche lui, non ha esitato a opporsi
al crimine; nel caso concreto, a deporre la sua testimonianza al Tribunale internazionale per la ex
Jugoslavia all'Aja, contro chi ha ucciso, all'inizio della guerra, un gruppo di suoi concittadini
musulmani.
Dopo la sua morte, sgomento, incredulità, ma anche la grande forza dei suoi alunni di diverse
generazioni, radunatisi a Bijeljina da ogni parte della Bosnia il giorno del suo funerale; per
dimostrare, insieme ad altri cittadini, quello che hanno imparato dal loro professore - il coraggio
civile e le forme di resistenza a un potere politico capace di proteggere e perpetuare il crimine.
Proprio come aveva scritto Majda Balić, studentessa della Scuola del coraggio civile, dopo aver
saputo della morte del suo professore:
“Ci ha radunati di nuovo. Di nuovo ci ha dimostrato quanto tiene a noi. Di nuovo ci ha costretti a
rivolgerci gli uni agli altri per dare e ricevere appoggio; a prenderci cura l'uno dell'altro. Di nuovo
ha sconfitto i cattivi ...
C.so Colombo 5 - 20144 Milano | tel 02 83241397 | fax 02 99987409 | [email protected] | www.gariwo.net
Però questa volta sappiamo che non entrerà nella stanza a gridare il suo saluto e abbracciarci
forte. Non potremo più registrare con i sensi la sua presenza, ma il suo messaggio d'amore
riceviamo in modo ancor più diretto - con i nostri cuori!
Carissimo Dule, ancora una volta lo ripeto, ... siamo orgogliosi di averti conosciuto, di aver fatto
parte almeno per un po' della tua vita ricca e fruttuosa. Nostro Kondor, è stato un onore volare con
te. Noi continueremo, per te; ti racconteremo fin dove siamo arrivati, delle mete che abbiamo
raggiunto. Quello che non hai potuto fare di persona, lo farà uno di noi, poichè tu ci hai insegnato,
tu ci hai indicato la strada.”
Alle sue figlie Nina, alla moglie, auspicio: che la giustizia possa raggiungere i veri colpevoli e che
la loro città e il nostro paese possa diventare quel mondo per il quale combatteva Duško Kondor,
in cui i giusti non debbano temere per la propria vita.
C.so Colombo 5 - 20144 Milano | tel 02 83241397 | fax 02 99987409 | [email protected] | www.gariwo.net
Anna Stepanovna Politkovskaja (1958-2006)
di Francesco M. Cataluccio
Questa giornalista russa, tenace e coraggiosa, che è stata assassinata per interrompere il suo
lavoro, è la seconda figura di Giusto che ricordiamo e onoriamo oggi.
Stamattina, al Monte Stella, il Sindaco e gli altri oratori hanno ricordato che i giusti sono degli eroi
ma soprattutto delle persone comuni. Saremmo veramente messi male se i Giusti fossero delle
persone eccezionali! Questo significherebbe, come ha ricordato Gabriele Nissim, che a queste
figure ha dedicato anni di ricerche e iniziative, che poche sono le speranze di trovare qualcuno che
dica un si o un no per salvare delle persone perseguitate.
I Giusti sono dei buoni esempi alla portata di tutti! Non è, fortunatamente, necessario essere
ammazzati per essere dei Giusti! Il sacrificio della vita per salvare un altro, e quindi salvare un
mondo intero, è un gesto che si può pretendere dagli altri, ma solo da se stessi.
Ciascuno di noi deve compartarsi da Giusto nella vita quotidiana: ci sono mille occasione nelle
quali salvare gli altri. E non necessariamente salvarli dalla morte.
Salvare significa anche, qui da noi e in un tempo non tanto futuro, ad esempio, fare qualcosa
perché dei disperati abbandonati in mezzo al mare non vengano lasciati morire senza soccorso,
anche se non hanno un permesso o un passaporto.
Significherà, per un preside, non denunciare e cacciare un alunno perchè i suoi genitori non sono
cittadini regolari, o per un medico, rifiutare il diritto sacrosanto alle cure.
Significherà, come ha sempre significato: salvare chi è perseguitato, respinto, emerginato. Perchè
spesso purtroppo, da questi comportamenti, è molto breve il passo verso la caccia all’uomo
indiscriminata, il linciaggio, l’uccisione.
Per evitare questo bisogna cercare di praticare quotidianamente l’amore e il rispetto per l’Altro e
stare vigili e pronti a denunciare i soprusi e le ingiustizie, ricercare e dire la Verità.
Questo faceva Anna Stepanovna Politkovskaja, che era nata il 30 agosto del 1958 con il nome di
Anna Mazepa, a New York, figlia di due diplomatici sovietici di nazionalità ucraina di stanza
presso l'ONU. Studiò giornalismo all'Università di Mosca, dove si laureò nel 1980 con una tesi (e
già questa fu una particolarità) sulla poetessa Marina Cvetaeva.
La sua carriera iniziò nel 1982 al famoso giornale moscovita “Izvestija” (Notizie), che lascerà nel
1993. Dal 1994 al 1999, lavora come cronista, come responsabile della Sezione Emergenze/
Incidenti e come assistente del direttore Egor Jakovlev alla “Obščaja Gazeta”, oltre a collaborare
con altre radio e TV libere.
Nel 1998, si reca per la prima volta in Cecenia come inviata della “Obščaja Gazeta” per intervistare
Aslan Maskhadov, all'epoca neo-eletto Presidente di Cecenia.
A partire dal giugno 1999 fino alla fine dei suoi giorni, lavorò per la “Novaja Gazeta”. Nello stesso
periodo, pubblica alcuni libri fortemente critici su Vladimir Putin, sulla conduzione della guerra in
Cecenia, Daghestan ed Inguscezia. Spesso per il suo impegno viene minacciata di morte.
Nel 2001, la Politkovskaja fu costretta a fuggire a Vienna in seguito a ripetute minacce ricevute via
e-mail da Sergei Lapin, un ufficiale dell'OMON (la polizia dipendente direttamente dal ministero
degli Interni con emanazioni nelle varie repubbliche russe) da lei accusato di crimini contro la
popolazione civile in Cecenia. Lapin venne arrestato per un breve periodo e poi rilasciato nel 2002.
Il processo riprese nel 2003 per concludersi, dopo numerose interruzioni, nel 2005 con una
condanna per l'ex-poliziotto per abusi e maltrattamenti aggravati e per falsificazione di
documenti.
In Cecenia la Politkovskaja si recò molto spesso, sostenendo le famiglie delle vittime civili,
visitando ospedali e campi profughi, intervistando sia militari russi che civili ceceni. Nelle sue
pubblicazioni, non risparmiò critiche violente all'operato delle forze russe in Cecenia, sui numerosi
e documentati abusi commessi sulla popolazione civile e sui silenzi e le presunte connivenze degli
ultimi due Primi Ministri ceceni, Ahmad Kadyrov e suo figlio Ramsan, entrambi sostenuti da Mosca.
La Politkovskaja godeva anche di notevole considerazione negli ambienti ceceni: il suo nome
apparve spesso apparso fra i "negoziatori privilegiati" dalla guerriglia, così come fu fra le
personalità impegnate a condurre le trattative durante la crisi del Teatro Dubrovka, che si concluse
nel massacro dei terroristi e degli ostaggi. In quei giorni la si vide nelle televisoni di tutto il mondo
indiffarata nella mediazione e poi piangere per non esser riuscita ad evitare la tragedia.
Nel 2003 pubblicò il libro, A Small Corner of Hell: Dispatches From Chechnya (tradotto in Italia con
il titolo: Cecenia, il disonore russo, Fandango, Roma 2003), in cui denunciava la guerra brutale in
C.so Colombo 5 - 20144 Milano | tel 02 83241397 | fax 02 99987409 | [email protected] | www.gariwo.net
corso in Cecenia, in cui migliaia di cittadini innocenti furono torturati, rapiti o uccisi dalle autorità
federali russe o dalle forze cecene. I suoi libri non sono mai usciti in Russia.
Nel 2005 pubblicò La Russia di Putin (Adelphi, Milano 2005) nel quale sosteneva che le elezioni
politiche del 2003 erano state un trionfo dell’assolutismo di Putin.
Nel 2007 pbblicò in inglese Diario russo 2003-2005 (Adelphi, Milano 2007). Nella conclusione,
intitolata significativamente Ho o non ho paura?, diceva:
“Mi dicono spesso che sono pessimista, che non credo nella forza della gente, che ce l’ho con
Putin e non vedo altro. Vedo tutto, io. E’ questo, il mio problema. Vedo le cose belle e vedo le
brutte. Vedo che le persone vogliono cambiare la propria vita per il meglio ma che non sono in
grado di farlo, e che per darsi un contegno continuano amentire a s e stesse per prime,
concentrandosi sulle cso epositive e facendo finta che le negative non esistano. (…) Oggi come
oggi il potere è solo un modo per far soldi. E basta. Del resto non ci si cura”.
Fu assassinata il 7 ottobre 2006 nell’ascensore del suo palazzo, mentre stava rincasando.
L'8 ottobre, la polizia russa sequestra il computer della Politkovskaja e tutto il materiale
dell'inchiesta che la giornalista stava compiendo.
Il 9 ottobre, la “Novaja Gazeta”, pubblicò i suoi appunti per il lungo articolo che stava per
pubblicare sulle torture commesse dalle forze di sicurezza cecene legate al Primo Ministro
Ramsan Kadyrov.
I funerali si svolsero il 10 ottobre presso il cimitero Troekurovskij di Mosca. Più di mille persone
partecipano alla cerimonia funebre: colleghi e semplici ammiratori della giornalista. Un unico
italiano: il leader del Partito radicale Marco Pannella.
Nel 2007 le fu conferito alla memoria il Premio Internazionale Tiziano Terzani (che fu molto
caldeggiato dal giornalista polacco Kapuscinski).
Come disse il filosofo francese André Glucksmann, ricordandola: «Anna Politkovskaja era sensibile
al dolore degli oppressi, incorruttibile, glaciale di fronte alle nostre compromissioni. E’ stata, ed è
ancora, un modello di riferimento. Ben oltre i riconoscimenti, i quattrini, la carriera: la sua era sete
di verità, e fuoco indomabile. »
C.so Colombo 5 - 20144 Milano | tel 02 83241397 | fax 02 99987409 | [email protected] | www.gariwo.net