Riformista 9 Marzo 2010 - Pangea News – America Latina Quotidiana

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Riformista 9 Marzo 2010 - Pangea News – America Latina Quotidiana
MARTEDÌ
9 MARZO 2010
Mondo
13
! ISRAELE. Nel giorno della
visita del vicepresidente Usa Joe
Biden, il governo ha autorizzato
112 nuove case nella colonia di
Beitar llit, in Cisgiordania.
Tra bombe false
e veri elettori
La svolta forse c’è
! SCRUTINIO. La conta è iniziata ieri, i primi risultati ufficiali sono previsti per giovedi, i dati definitivi entro fine marzo
IRAQ. Le esplosioni, rivela il generale Odierno,
perlopiù erano causate da tric-trac jihadisti. L’affluenza del 62,4% e il precedente del 2005, consigliano prudenza. Ma i sunniti questa volta hanno partecipato. E secondo i primi risultati, il partito sciita più confessionale avrebbe perso.
DI
LUIGI SPINOLA
! La soglia del 50%, quella che
scaccia la paura del flop, è stata ampiamente superata, garantisce già in mattinata il presidente dell’Alta Commissione
Elettorale Faraj al-Haidari. La
prima stima ufficiale sull’affluenza alle urne nelle seconde
elezioni parlamentari dell’Iraq
post-Saddam è una forchetta,
tra il 55% e il 60%, che viene
corretta al rialzo dal dato definitivo: 62,4%.
Non è un trionfo ma è un risultato positivo, tanto più se valutato nel contesto della presunta pioggia di colpi di mortaio sotto la quale gli iracheni
sarebbero andati a votare. Presunta perché non sempre è letale ciò che esplode, ha spiegato
ieri il Comandate delle truppe
Usa sul campo Generale Ray
Odierno. Quel rumore incalzante che doveva imporre il co-
prifuoco qaedista ai terrorizzati elettori, era provocato soprattutto da “bottiglie-bomba”,
la versione jihadista dei trictrac. I 38 morti sono stati uccisi da bombe piazzate dentro a
due case. Ma domenica in Iraq
- assicura il militare americano
- non ci sono stati né attentatori suicidi, motorizzati o a piedi,
né colpi di mortaio o razzi.
La più grande operazione di
sicurezza della storia dell’Iraq
democratico, un milione tra militari e poliziotti mobilitati per
proteggere diciannove milioni di
elettori, è stata quindi un insperato successo. La “irachizzazione” della gestione della sicurezza - il processo di transizione
che permetterà agli Usa di rispettare il calendario dell’exit
strategy - almeno domenica è
parsa un fatto compiuto. E il
bluff dei qaedisti nulla toglie al
coraggio degli elettori.
Ma il 62,4 % di partecipazione non basta per parlare di
svolta. Nelle prime elezioni parlamentari, il 15 dicembre 2005,
il dato era assai più alto, oltre il
79%. E anche quel giorno le violenze erano state sporadiche.
L’amministrazione Bush si affrettò a rivendicare la “missione
compiuta”. Ma l’Iraq post-elettorale, incapace per cinque mesi di darsi un governo,
sprofondò di nuovo nel caos.
Il precedente è noto e per
questo, a Washington come a
Baghdad, la prudenza è d’obbligo. Fonti anonime dell’amministrazione Obama alla vigilia del
voto hanno avvertito che ci
LA VERSIONE DI MILIBAND: «SENZA LA GUERRA IN IRAQ DANNI PER L’ONU»
! Le Nazioni Unite avrebbero visto «seriamente
danneggiata» la loro autorità, nel caso in cui agli sforzi diplomatici non si fosse accompagnata un’azione
militare contro l’Iraq nel 2003. Lo ha dichiarato ieri David Miliband. Il ministro degli Esteri britannico è stato
ascoltato a Londra dalla Commissione Chilcot, l’organo parlamentare d’inchiesta sulla guerra irachena.
Prima di lui erano intervenuti l’ex premier Tony Blair e,
la scorsa settimana, l’attuale numero 10 di Downing
Street, Gordon Brown, che sette anni fa ricopriva l’incarico di ministro del Tesoro. Secondo il capo della Diplomazia inglese, il pericolo rappresentato dal dittatore di Baghdad, Saddam Hussein, «per la pace e la sicurezza globali» rappresentava «una sfida per l’autorità del sistema internazionale» e doveva, quindi, essere affrontato attraverso un intervento militare.
«vorranno mesi, non settimane»
per avere un governo. E le contestazioni sulla regolarità del voto - la prima denuncia è dell’ex
premier Iyad Allawi - contribuiranno a levare legittimità al mercato delle vacche necessario per
mettere in piedi una coalizione.
I dati intercettati ieri all’inizio della conta da alcune fonti di
stampa, Agence France Presse
in testa, danno l’Alleanza per lo
Stato di Diritto (Aed) del premier Nuri al-Maliki in testa nelle nove province sciite del sud e
la lista Irakiya di Allawi, l’unica realmente non-comunitaria,
prima nelle zone sunnite. Sono
dati da prendere con le molle,
per i primi, parziali risultati ufficiali tocca aspettare mercoledìgiovedì, fine marzo per quelli
definitivi. Ma se fossero buoni,
si delineerebbe una netta sconfitta dell’Alleanza Nazionale
Irachena, la formazione sciita
più confessionale e vicina a
Teheran. Un esito che confermerebbe il superamento del test
più importante: quello sulla capacità di trascendere la frattura
etnico-confessionale per dare
avvio a una vera dinamica politica nazionale.
L’alta affluenza alle urne degli elettori sunniti, che nel 2005
avevano boicottato le elezioni, è
una svolta vera. Sfidando le minacce qaediste, nelle province di
Diyala e Salaheddin è andato a
votare il 70% degli aventi diritto, il 67% in quella di Ninive. Il
ripudio dei jihadisti stranieri non
è una novità, conferma nelle urne quella spaccatura tra “insorgenza sunnita” e “terrorismo
straniero” che permise il relativo
successo della “surge strategy”
disegnata dal Generale Petraeus.
Ma domenica i sunniti hanno
scommesso sul nuovo Iraq malgrado il potere sciita abbia fatto
il possibile per compromettere
la riconciliazione nazionale. Prima lasciando cadere le milizie
tribali dei Consigli per il Risveglio, poi eliminando dalle liste
elettorali centinaia di candidati,
accusati di collusione con il vecchio regime baathista.
Non basta per tirare un sospiro di sollievo, perché non sarà
facile - se anche questi risultati
fossero confermati -tenere insieme il nazionalismo pluri-confessionale di Iyad Allawi e il polo sciita laico di al-Maliki. Più
degli orientamenti ideali peserà
lo scontro degli interessi e l’aspra rivalità personale tra i due
candidati premier. E il lungo
vuoto di potere darà nuove opportunità al terrore che, la domenica elettorale non deve illudere, dalla scorsa estate ha ritrovato l’impressionate potenza di
fuoco dei giorni peggiori. Ma un
passo avanti c’è stato.
Cinquanta milioni, la taglia
di Washington sui narcos
LOS ZETAS. Ex militari, un tempo
esercito del Cartello del Golfo, ora
agiscono in proprio. E accendono
la guerra nel cortile di casa Usa.
DI
GIULIA DE LUCA
! Una nuova guerra è cominciata tra i Cartelli della droga messicani per il controllo del territorio dopo che le vecchie alleanze sono state infrante. I Los
Zetas, conosciuti ora anche come La Compagnia,
non sono più il temibile braccio armato del cartello del Golfo, tra i più potenti del Messico insieme
a quello di Juarez, Tijuana e Sinaloa, ma sono diventati un’organizzazione autonoma che combatte per il monopolio delle vie del narcotraffico.
La loro potenza è cresciuta a tal punto da portare il governo degli Stati Uniti a offrire una
ricompensa, complessiva, fino a 50 milioni di
dollari a chiunque fornisca «informazioni che conducano alla cattura di questi narcotrafficanti». Ma
più della notevole ricompensa, stabilita nel rapporto del dipartimento di Stato americano sulla
strategia per il controllo del narcotraffico - International Narcotics Control Strategy Report -, dovrebbe far preoccupare la nuova rete di alleanze tra
gli stessi narcotrafficanti creata esclusivamente per
contrastare i Los Zetas: tre cartelli della droga (Sinaloa, del Golfo e la Familia) conosciuti e temuti
per la loro potenza, hanno ritenuto opportuno allearsi e lasciarsi alle spalle le vecchie divergenze
per riuscire a contrastare i nuovi nati.
Non a caso il rapporto, che analizza lo stato
del narcotraffico a livello mondiale, pone una
particolare attenzione sul Messico, che rappresenta per gli Usa il problema principale soprattutto perchè, a causa della vicinanza, le due economie sono strettamente legate. Senza contare
che il 90 per cento della droga consumata nelle
città americane proviene proprio dal Messico.
«È sempre difficile stabilire delle priorità, siamo
ovviamente preoccupati per l’illegalità in tutto il
mondo, dall’Africa all’Afghanistan - afferma
Anthony Placido, capo della Dea, l’agenzia anti-droga statunitense che più si oppone al dominio dei trafficanti - ma naturalmente vi è una certa urgenza quando si tratta di un territorio, come
il Messico, così vicino al nostro».
Nessuno sa chi abbia iniziato per primo, se lo
sgarro sia arrivato dal Cartello del Golfo o se i Los
Zetas avessero semplicemente voglia di mettersi
in proprio. Ma di certo hanno l’organizzazione, e i
mezzi, per imporre il loro volere.
Il gruppo è stato creato anni fa da 31 membri
delle forze speciali dell’esercito messicano ed è
oggi considerato la banda di killer più violenta e
pericolosa nella storia dei trafficanti di droga. Fon-
! BOSS. La cattura di Jaime Gonzalez Duran, alias «il martello», uno dei capi dei Los Zetas, da parte di agenti federali
datore e padre dell’organizzazione, ucciso nel
2002 mentre si trovava in un ristorante, fu Arturo
Guzman Decena, soldato di fanteria addestrato
nella Scuola delle Americhe (Soa), un’accademia
di combattimento a Fort Benning in Georgia (Usa)
che prima si trovava a Panama. Nei suoi 56 anni di
vita, l’istituto ha insegnato a più di 60.000 soldati
latinoamericani tecniche di repressione, di guerra
d’assalto e psicologica, di spionaggio militare e
tattiche per gli interrogatori. Alcuni alunni, tra i
quali spiccano i generali argentini Leopoldo Galtieri o Manuel Noriega, hanno raggiunto la celebrità compiendo di crimini contro l’umanità.
Sono stati il salario basso e turni di lavoro
massacranti a convincere Guzman Decenache
l’esercito non era per lui conveniente e, reclutati altri militari, in poco tempo passò da combattere il narcotraffico a difenderlo, aumentando rapidamente i propri introiti. I componenti della
banda, un tempo stimati in circa 200, adesso
avrebbero superato i duemila. Un esercito crudele che, secondo molti, non rispetta i vecchi co-
dici d’onore che pur esistevano tra criminali.
Nessuno si limita più a uccidere: l’obbiettivo è il
totale annientamento fisico e psicologico degli
avversari. Senza distinzioni di sesso o età.
Il presidente messicano Felipe Calderon, che
ha fatto della lotta alla criminalità il primo obiettivo del suo governo, dal 2006 ha mandato circa 40mila uomini dell’esercito negli stati del
nord - quelli confinanti con gli Usa e quindi più
ambiti - per cercare di tenere sotto controllo una
situazione che ha portato fino a oggi alla morte
di almeno 15mila persone.
Al suo fianco, gli Stati Uniti. Negli ultimi
quattro anni sono stati arrestati più di diecimila
tra capi, sicari, alleati e collaboratori dei Los Zetas e degli altri cartelli che, però, non sono ancora stati sconfitti. Come la stessa amministrazione Obama ha capito, c’è il forte rischio che il
Messico, un paese enorme di 110 milioni di abitanti, diventi definitivamente un narco-stato, più
violento e ingovernabile della stessa Colombia,
ormai quasi passata in secondo piano.