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BATTESIMO
(2002-2004)
Un Dio fu potente un tempo,
traboccante di un’audacia pronta a ogni impresa:
un giorno neppure più si dirà che esistette...
Eschilo
A Ivan (1979-2004)
I.
Battesimo
Fui iniziato all’arte nell’illusione
di portare un po’ di luce a me
medesimo ed al mondo; mi sbagliavo.
Non so di preciso cosa ho sbagliato:
se certe letture o quell’erudizione
che ricercavo in biblioteche e scuole
tralasciando l’intensità che duole
ad ogni passo sulla riva impura.
Ma il duri finché dura la costanza
è già finito, consunta quella rabbia
aristocratica che mi portavo sulla
schiena, come un masso, quella teatrale
messa in scena che è la vita e non è
la vena, né la poesia…
Ma in questo dopo dopo dopo guerra,
dove la terra è fragile ed i piedi
esausti, a prima mattina serra
la voce un diniego soffuso sotto
pelle, nella carne ardente. E come
vedi non scrivo più poesie d’amore,
né rubo rose alle coltivazioni
industriali per donarmi in qualche modo
un breve lapsus accidentale.
Si va, anzi, si va nell’acqua sporca,
si continua la ricerca nell’epoca
delle fermezze, delle decisioni
inesorabili, mentre inesorabile
per noi è solo il mattino, è questo
scarno tentativo che nel sangue
cerca di salire alle arterie, al cuore.
Ma è un’aspettativa schizofrenica
che in fondo il fondo di rinuncia sfiora
spesso, quando a sera per esempio guarda
il popolo rientrare dalle feste
al mare, dagli chalet che si riempiono
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di luci e battiti animali: che si vive
giovani per già dimenticare qualche
cosa di non visto, non vissuto.
Eppure il trauma ce lo troviamo impresso
dentro, come un marchio a fuoco,
come un battesimo insaputo
che soltanto a tarda notte conosciamo.
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Embrione
So che in me l’embrione della ragione
arde, freme, si divincola (coda
di lucertola mozzata) si snoda
per poi morire in questa castrazione
che in sé è forza e condanna. L’azione,
in questo cielo glicine che cova
una dolcissima e tiepida storia
di morte, si riduce a condizione
necessaria per un vile ripiego
nella storia comune, quotidiana,
dove solo l’incoscienza, immune
da ogni nuovo strategico diniego
di scienza, riconquista la sovrana
vitalità dell’atto, oscuro lume...
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Il temperino
Domani, temperino, non sarai
altro che un souvenir in un astuccio
storico; tu che adesso più che mai
mostri la tua lama come un cruccio
di potenza, domani morirai...
Sarai mansueto, come un oggetto
caro ed affettuoso, più non potrai
gridare, stridere; sarai costretto
tra le mani di chi non ti conosce,
inetto essere privato d’ogni
storia, vita, rabbia; quasi un diletto,
tu che vantarti potresti di sogni
di gloria e invece nell’ombra svilisci...
Ritorna a ferire, mite legnetto,
rigetta il tuo disdegno contraddetto.
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Sonetti pornografici
I.
Formazione
Sempre torna, dal mio vanito canto,
la sua sottile forza che mi china
come la foglia debole la brina
che già dalla mattina senza impronta
la sua pressante gioia scioglie in pianto.
Così la tua malizia certosina,
che atroce il tempo ha divorato prima
d’ogni feroce incanto, sin dall’onda
dell’infantile trama il passo cede
ad una plumbea erede, ch’altro non brama
che possedere quell’oscura fede.
Così già si trasforma fata in dama,
nell’aria angusta d’ogni marciapiede
proclama, mite, il sesso, la puttana…
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II.
Prima prostituzione
Con felina malizia la sottana
trascina a suggerire, lieve, il sesso,
e dall’oscura mutandina che emana
un ossesso profumo di cipresso
l’intenso livido lascia fiorire...
Poi lo percuote, con il caro disprezzo
inumano che ne fa gonfio uno scettro
che in mano stretto vuol far trasalire...
Dimentica, l’umana specie, spesso, il tempo,
e in orgiastica serie lo divora
questa ed altre sere in cui nell’ora
in cui s’accorge di fuggire al senso
spaventoso di sua vita ignora
il tutto e oggetto fattosi onora
in implacabile banchetto carnale
l’anale suo destino d’animale.
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III.
Passione
Lubrifica gentile il turpe fallo,
a renderlo del volto suo regale
quasi degno, facendo di quel giallo
arbusto un violaceo strumento del male.
Con orgoglio signorile, poi, sale
sopra il patibolo matrimoniale
ed offre dalla posa d’animale il vallo
ombroso, con superba gloria anale.
Così attende, bramando la sua morte
principale, che il sesso entri in lei,
che la divori, crudele, il seme;
con occhi logori, sulle risorte
appese vesti d’un Cristo senza speme
annulla la sua premura iniziale,
folle ghignando d’un riso sacrale
che solo i santi conoscono bene
al penetrare torbido del male
che gloria suole unire ad altre pene...
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Ad una madre
I.
Non sai di essere eppure esisti;
nel tuo metro quadrato di giardino
dai nuova acqua a antichi fiori, misti
elementi puri al terricciuolo infido,
tramuti fango in vita e lì desisti
a crederti un artefice divino
perché lo sei davvero,
tu che coltivi in vero
la limpida sapienza del sentiero,
che già concili muta la presenza
con l’irrisolto dubbio antico e senza
crederlo resisti, ignara santa,
che cieca innalzi al cielo il tuo destino
con la tacita fede della pianta...
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II.
Quasi con sacrale educazione
al movimento dei tuoi neri gesti
disegni un fatuo fuoco tra quei resti
che restano, la sera; la questione
irrisolta dei mutamenti terrestri
ti continua a sconvolgere; l’azione
del tempo nel tempo comune che ti pone
in una condizione di campestri
ricordi che mancano, di contesti
che non ritrovi, ti chiude in rassegnazione;
tu che potresti tanto dare, e invece stai...
Gli altri condòmini riuniti in questi
tristi palazzetti assembleari il tuo nome
fanno ridendo, dicendo ciò che già sai...
E tu invece pulisci la credenza,
è un eroico il tuo gesto quotidiano,
sotto il goffo sole di una demenza
senile che ti soffoca, la mano
che si ribella a questa condizione
istituita è una fresca scoperta...
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II.
Discoteca
A volte occorre prendere la penna al balzo
e scrivere come uno scarico industriale
perché il mondo è il torso nudo di un ragazzo
senza grazia sulla pista, brutale...
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Il muro
S’arregnano le nuvole ‘sta notte.
Un uomo fa a cazzotti contro un muro.
Poi sale su una Panda e questa notte
c’è solo un po’ di sangue sopra a un muro.
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Alba
Si srotola il mattino; l’aria pesta.
La pelle decomposta mista ai peli
s’appiccica sul cazzo semieretto.
Di un cesso lo sciacquone in lontananza.
Paesaggio
Dentro cieli bianchicci di cadavere
scandite in lividi violacei e grumi
stanno le nuvole rapprese in croste.
Derivano nei fiumi cittadini
corpi d’ogni genere: decomposte
trote, straccetti trucidi, lattine.
Come coltelli ficcati nel ventre
delle colline indicano il niente
cartelli ed antenne televisive.
Maggio 2004
Cielo di catarro e urina sopra il travertino sporco.
Neanche piove, si condensa questa febbre che
ti chiude gli occhi. Fiumicino è nel caos.
A Melfi continuano i blocchi della Fiom.
La salma di Quattrocchi rotola dall’alto dei cieli
spalancando la sua bocca enorme sopra il mondo.
Elemosina
Sotto le logge di Piazza Immacolata
suona un giovane slavo la fisarmonica;
è una musica dolce, che distrugge.
È il primo dopo pranzo, e arduo è il piangere
sotto un sole che più che al pianto si addice
alla morte. Eppure mi affaccio, come all’improvviso
segnato da un febbrile riflesso, tra la gente
che pure è affacciata o che segue. Si aprono
le ante come tante bare dai balconi scoperchiate
in una musica lieve, che uccide... Io,
zombie tra gli zombie affacciati, lo guardo
trascinarsi con quegli occhietti falsi che fanno
tenerezza quasi e quel sorriso duro, a denti marci
per tutti i piazzaletti del quartiere... Ed oggi
ancora più lieve sarebbe il morire, lasciarsi
cadere; toccare il selciato col sole e la
musica, morire in odor di Balcani...
Cadono le prime monetine come un pianto
metallico, inumano, pegno
che un dio in azioni saprà certo raccogliere.
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La carne
Mah... non so cosa mi muova a quest’ora lungo queste dissestate strade.
Le quattro di mattina la Bonifica si illumina di una luce spettrale
e una livida esigenza di carne si ramifica come un mattinale orgasmo.
In fila come ad un mercato di pesce stanno corpi di ragazze:
fanno cenno di accostare, sorridono, i denti gialli e il trucco in viso viola
slabbrato come da un sudore acido, mortale. Oltre la prima rotonda
del centro commerciale, poco dopo il parcheggio della Barilla, stanno i trans
seduti sopra seggiole o in macchine accostate, mostrando seni da ormoni
gonfiati, siliconati, calze in nylon sopra mascoline gambe e labbra dure,
brasiliane, pronte al male. Davanti a me una Punto bianca accosta,
di giovani ragazzi piena, liceali forse da poco patentati che ubriachi e ironici
qualcosa gridano dal finestrino ripartendo di seconda, subito, in sgommata...
Ah, la polvere che alzata sopra il corpo del ragazzo dai due sessi posa
una fuliggine pare che quasi annulla questo mare di carne brulla
dentro il quale entrambi andiamo... Così giro, a una seconda rotonda,
facendo come per tornare a casa dopo un vano viaggiare,
con l’alba che minaccia una presenza che no, nessuno sarebbe ora capace
di accettare con serenità... La strada è un mattatoio di macellate speranze
che la pioggia lava con una lucidità che no, non mente. Oh, perdono,
paese mio che ti percorro come un indifferente malato, come se non
ventidue anni ma secoli, millenni di vite fallite trafiggessero un cammino
ormai casuale, paese, paese mio che finalmente vedo come un amico
aprirti in terminale confidenza, come sei potuto cadere in questo pantano
di stracci di merda e di sangue mestruale sui bordi gettati di questo pallido
litorale adriatico, come hai potuto? Sì, ricordo le domenicali gite
su queste contrade come si ricorda un cadavere all’improvviso dissepolto.
Madre, madre... tu fosti una giovane e bella
comunista... Ma ora la Russia non c’è più.
Il muro si è aperto come il ventre di un morto sprofondato nel mare
le cui viscere maciullate già dai vermi si inalberano come meduse tra le acque
dell’Occidente attonito; mio nonno, il fascista buono, neppure lui c’è più!
Sulla destra Ascoli è una scacchiera di cementate lapidi su cui il primo
raggio di sole si posa come una lama sui polsi di una adolescente. Cinguettano
gli uccellini dagli alberi a un indifferente cielo che si apre su questa giornata
nuova. Le puttane sono tutte andate a casa, all’improvviso, come gufi.
Le prime macchine che incontro, operai o manager, dove poche ore fa un
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banchetto di carni sudate ergeva a richiamo capezzoli e mutande,
ora organizzano un altrettanto desolante parcheggio aziendale, tra tute
da lavoro, camicie... Ma no, non è la produzione industriale che mi terrorizza
ma le finalità mancanti! Democratica penisola, la tua politica
mi sta logorando la fanciullezza; e l’ansia che solo tu sai dare
come dono ai tuoi concittadini già mi addenta le caviglie come un cagnaccio
sghembo: è l’alba, e l’insonnia è un altro fattore sociale. Per questo ti odio,
democrazia liberale, liberismo, occidentale benessere, ossessione
della prosperità, televisione commerciale, stronzate! Tutte stronzate questo
Stato. Puah! Io mi vergogno di essere italiano...
*
Forse dovrei smetterla di scrivere poesie, questo insinua il ponte
sopra cui passo come un sospirante condannato a morte
e vivere, per dio vivere senza nausee la vita, laurearmi
come tanto vorrebbe mia madre, diventare professore, sposarmi!
Domenicale scriverei saggi critici su Montale e filastrocche
sulla vita finalmente parlando d’amore come un beato cristiano
spaparanzato su un divano letto lieto a scoreggiare uh là là! Il suicidio
sociale avrebbe compiuto il suo corso. E invece scatarrerò i miei umori
giù come un vecchiaccio raggrinzito dal tabacco e mi depurerò
da voi, tumori nazionali, cacandovi su questi fogli ruvidi che come
carta igienica strofino sul mio cervello-ano fino a fiaccare ogni forza.
No, non sono mica scemo! La mente è un ano che pensa invece di cacare.
Hai mai pensato alla madonna che appare a un tubo digerente? Miracoli...
No, caro mio, eccoli i miracoli di oggi! Un ragazzo che ha il pisello
e pure le tette. Che se apparisse altrove lo chiamerebbero angelo!
In tribù sarebbe consacrato idolo, venerato come un semidio prudente
e generoso. Santo è il camionista che lo carica e lo bacia ignaro.
Penso a tutto questo varcando come un paesaggio sublime il ponticello
rialzato che divide la zona industriale dalla città. Monticelli è il primo
quartiere che rincasando si trova. Il muro che conduce alla salita
di casa è pieno fitto di cartelli elettorali, scritte, offese: «VALE E ELISA
TROIE», «COMUNISTI EBREI», «ANCONETANI FROCI», ok...
Ma non giro come dovrei girare per il piazzale della palazzina,
come un ossesso stregato da un gelido albeggiare continuo
ancora in terza la stradina che conduce sulla principale strada.
Qua i lampioni iniziano a scemare già le loro luci e qualche edicola
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ha da poco alzato teneramente le serrande, accostando
i giornali vecchi sul marciapiede, come valigie da disfare.
Sulla locandina del Corriere provinciale spiaccicata sta la foto
di un incidente: «SCHIANTO SULLA NAZIONALE,
MUORE GIOVANE VENTITREENNE». L’idea
tra le lamiere della carne accartocciata mi percuote, l’aroma
del motore fuso che si mescola alla morte, al sangue; e la carne,
la carne spiacciccata tra le porte e la strada, a mattina presto,
davanti alle grandi aziende, ai centri commerciali; come potranno
grandi dirigenti, impiegati, ignorare domani tutto questo? Come potranno dire
che tutto ancora sia da vivere quando un corpo gli si è appena
spappolato come un pomodoro fracico davanti seminando come grappoli
d’uva marcia tutti gli organi malconci come straccetti di sangue accantonati lì
in mucchietti di carne che qualche spazzino spazzolerà via presto? No,
non si può essere più quelli di una volta. Ed io che ho vissuto solo una notte
e già esausto torno come da una guerra civile, come potrò abbandonarmi
domani al mondo, con quali speranze, con quali aspettative?
Le elezioni amministrative sono già qualcosa che neppure mi ricordo, getterò
una mezza croce su una sinistra mezza senza sapere neppure il perché
primordiale del mio gesto. No, non sono le occasioni ma le finalità
che mancano, le ragioni... E in questo modo torno a casa, solo,
come un pezzo di carne, per le strade della nuova Europa...
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III.
A Claudia
Stanotte Claudia mangerò tutti i panini
che con cura mi hai preparato, in parrocchia.
Ha un non so che di gioia il pane dal vento d’estate seccato,
croccante; fa piangere il salame, dal colore
desolante delle terre marchigiane, e il cocomero,
il cocomero, spuntando irriverente tra gli adiacenti piattini
è un sorriso forte come il sesso, dolce. Proverò
piccola mia a vivere come questo spuntino rimediato,
con l’innocenza con cui scivolano le molliche di pane
sopra gli abiti lindi dei ragazzi, nelle chiese.
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Ferragosto
Eccola l’alba che scolora l’Adriatico;
il cielo è carico come dopo un temporale estivo;
mima il lento scivolare delle auto
l’onda insonne che s’arrotola nell’antro della riva.
Di lato come trascinando al vento i piedi leggermente
paiono gli anziani, a coppie, con recidiva
noia; già s’addentra negli chalet una gente
nuova, scolaretta, dentro la luce viva...
«Sigaretta?» chiedo al primo, un ragazzino
biondo, magro, «certo» dice, offrendomi
il pacchetto intero e in cambio di un sorriso porge
l’accendino, pure, acceso, unendo
concave le mani a difendere dal vento
una fiammina, deliziosa, che non muore né risorge...
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