Del Biondo - Consenso, dissenso, rappresentanza nel governo
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Del Biondo - Consenso, dissenso, rappresentanza nel governo
Diego Del Biondo La partecipazione dei lavoratori ai risultati produttivi dell’impresa Introduzione. 1. Il collegamento tra salario e produttività e tra produttività e benessere. 2. Premi di produttività nel panorama italiano. 3. Gli strumenti giuridico-economici utilizzabili per legare il salario dei lavoratori ai risultati dell’azienda. 4. I diritti di informazione, controllo e partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa. 5. Considerazioni conclusive. Introduzione Il mio intervento ha ad oggetto la partecipazione dei lavoratori ai risultati produttivi delle imprese realizzata mediante la contrattazione aziendale e finalizzata a generare un collegamento tra produttività e retribuzione, tale da fungere da volano per un rilancio dell’economia nazionale. In primis viene brevemente analizzato il collegamento tra salario e produttività e tra produttività e benessere per comprendere come e se tali variabili si influenzano a vicenda. Si passerà quindi ad analizzare gli strumenti giuridico-economici utilizzabili per legare il salario ai risultati produttivi dell’azienda, così da evidenziare il loro indissolubile legame ai diritti di informazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa. Pertanto, si conclude che solo laddove i lavoratori, per il tramite delle organizzazioni sindacali, risultino titolari di un effettivo potere di controllo e di indirizzo sulle decisioni del management si può attuare un sistema retributivo partecipativo che sia realmente in grado di smuovere in senso positivo la produttività del Paese. 1. Il collegamento tra salario e produttività e tra produttività e benessere Benché sia pacifica l’esistenza di una relazione tra salario e produttività, la sua natura si ritiene molto complessa, tanto da suscitare opinioni divergenti tra gli studiosi1. È intuitivo che, quanto meno nel breve periodo, una diminuzione del costo del lavoro possa portare ad un aumento della produttività, sia in via diretta, conseguentemente alla diminuzione dei costi di produzione, sia in via indiretta, a seguito di un vantaggio competitivo dell’azienda sui competitors. 1 CICCARONE G., SALTIERI E., 2008 (2) 1 Diego Del Biondo In tal senso è facile pensare alle retribuzioni come un semplice fattore di costo2 da mantenere il più basso possibile al fine di risollevare (o non far affondare) la produttività delle imprese. Tale impostazione, peraltro, è stata perseguita (con scarsi, per non dire pessimi, risultati) dalla maggior parte dei Paesi negli ultimi anni, adottando politiche mirate al ribasso dei costi del lavoro intesi nella loro accezione più ampia: sia diretti, ossia in termini di retribuzioni, sia indiretti, ossia in termini di welfare aziendale3. L’influenza che le retribuzioni esercitano nella produttività, tuttavia, è ben più complessa di quanto si è appena detto, e non certo unidirezionale4. Per quanto non sia opportuno in tal sede dilungarsi, è importante soffermarsi, anche se brevemente, su come la produttività cambi al variare delle retribuzioni e come viceversa cambino le retribuzioni (e quindi il benessere in primis, ma non solo, dei percettori di redditi da lavoro) al variare della produttività, quanto meno per interrogarci se sia effettivamente opportuno o meno intervenire su di essi ed in che modo. Una lettura della dottrina scientifica in merito rileva che la politica salariale influenza la produttività non solo in via diretta, operando sul costo del lavoro, ma anche indirettamente, influenzando il progresso tecnico (di prodotto e di processo)5 e stimolando il personale6. Dal punto di vista dello stimolo (o freno) all’innovazione, una diminuzione dei salari, spinge le imprese ad adottare tecniche di produzione a maggiore intensità di lavoro per sfruttare il minor prezzo relativo di questo fattore rispetto al capitale e risparmiare sugli investimenti7. La tendenza a ridurre il costo del lavoro, operata negli ultimi anni, infatti, ha scoraggiato gli investimenti8, 2 In senso critico ANTONIOLI D., PINI P., 2013 Ma se i risultati ottenuti non sono stati soddisfacenti la strada da perseguire, per molti, sembra esser sempre la stessa, e, in occasione del Consiglio Europeo di marzo 2013, il Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, comparando l’andamento delle retribuzioni nominali con quello della produttività reale del lavoro nei diversi Paesi dell’Unione, ha esortato gli Stati membri a legare le retribuzioni alla produttività stando ben attenti a mantenere le prime costantemente più basse della seconda. Ricetta definita da Pini la “regola di piombo” delle retribuzioni, contrapposta alla “regola d’oro” che lega il salario reale alla produttività reale. Pini P., 2013 4 ANTONIOLI D., PINI P., 2013; CAPPARUCCI M., 1994 5 VIVIANI D., FANELLI L., 2009. CICCARONE G., SALTIERI E., 2008 6 ANTONIOLI D., PINI P., 2013 7 CICCARONE G., SALTIERI E., 2008 (1) 8 CICCARONE G., SALTIERI E., 2008 (2), ma anche CICCARONE G., SALTIERI E., 2008 (3). VIVIANI D., FANELLI L., 2009. 3 2 Diego Del Biondo sfavorendo il progresso tecnico, di processo e di produzione, e generando quella che da qualcuno è stata definita la “trappola della stagnazione”9. Puntare su una politica che valorizzi la mera produttività del lavoro senza un idoneo investimento in capitali, ricerca, innovazione tecnologica e organizzativa, formazione del personale, e senza una partecipazione (non finanziaria) dei lavoratori alla gestione aziendale, può addirittura condurre ad un cd. paradosso economico con effetti controproducenti tali da diminuire la produttività per via di un disallineamento del rapporto capitale/lavoro10. A ciò si deve peraltro aggiungere che, essendo i salari non solo un costo per le imprese, ma anche e soprattutto un reddito spendibile per i lavoratori, una loro diminuzione ha riflessi diretti sul benessere delle famiglie, quindi sul mercato interno11, e, di conseguenza, sulle imprese stesse12. Una politica al ribasso dei costi del lavoro, come quella che si è operata in Italia dagli Anni ’90, pertanto, genera nel lungo periodo, riflessi negativi su tutti gli attori economici, tanto da far parlare di “scambi politici masochistici”13. Al contrario, invece, secondo il cd “effetto Ricardo”14 un aumento dei salari provocherebbe una spinta ad investire su nuovi macchinari, nuove tecnologie e nuove forme di organizzazione. L’aumento del costo del lavoro rispetto al prezzo delle macchine, quindi, spingerebbe le imprese a spostare i propri capitali dal lavoro all’investimento tecnologico15, e tale scelta genererebbe, nel 9 CICCARONE G., SALTIERI E., 2008 (1), contraria CONFINDUSTRIA, 2008. COSTABILE L., 2009. CICCARONE G., SALTIERI E., 2008 (1). Si veda anche CICCARONE G., 2009. 11 ANTONIOLI D., PINI P., 2013. TRONTI L., 2009 12 CAPPARUCCI M., 1994. TRONTI L., 2009. 13 Termine già utilizzato da Tarantelli (TARANTELLI E., 1995) e ripreso da Tronti (TRONTI L., 2009 e TRONTI L., 2013). In termini simili Pini che utilizza il termine “fallimento dello scambio politico” di vent’anni di non governo delle relazioni industriali, delle politiche sindacali delle associazioni portatrici degli interessi delle categorie economiche e sociali e del ceto politico. PINI P., 2013 (2). 14 Per un approfondimento si veda TRONTI L., 2009. 15 Tuttavia, come viene giustamente ammonito da Ciccarone e Saltieri, non è automatico che un aumento del costo del lavoro incentivi gli investimenti, attuando un processo di sostituzione del lavoro con il capitale. Il rischio nell’attuale situazione è che un aumento “eccessivo” del salario generi processi di delocalizzazione all’estero piuttosto che favorire processi produttivi a maggiore intensità di capitale, con caduta dell’occupazione e senza un significativo aumento della produttività. Così CICCARONE G., SALTIERI E., 2008 (3). 10 3 Diego Del Biondo medio lungo periodo un aumento della produttività e indirettamente un ritorno anche in termini di benessere dei lavoratori stessi16. A ciò si deve aggiungere che le scelte di politica salariale riescono ad incidere sulla produttività non solo influenzando le imprese verso un progresso tecnico ma anche incentivando la massimizzazione delle abilità lavorative17. Al riguardo non si fa riferimento solo all’aspetto quantitativo della retribuzione ma anche a quello qualitativo, in considerazione del fatto che una medesima massa salariale a seconda della voce contrattuale a cui è legata produce effetti diversi sui lavoratori, principalmente in termini di tutela di capacità di acquisto (minimi contrattuali) ovvero di incentivazione alla produttività ed alla partecipazione in azienda (retribuzione variabile)18. In particolare sono molteplici le teorie al riguardo secondo cui un collegamento dei salari alla produttività può stimolare una maggiore efficienza produttiva da parte dei lavoratori19. Un aumento delle retribuzioni legate alla produttività delle imprese, infatti, potrebbe motivare maggiormente il personale e spingere al tempo stesso le imprese a valorizzare le competenze di cui dispone; entrambi, motivazione del personale e valorizzazione delle competenze, componenti fondamentali per una crescita della produttività20. Così come la dinamica salariale influenza la produttività, inoltre, come in un circolo vizioso, le retribuzioni (e quindi il benessere sociale) sono a loro volta influenzate dalla produttività stessa21, e 16 D’altra parte, da molti è stato sottolineato il rischio che una scelta del genere possa incidere negativamente sulle imprese più piccole, magari non in grado di innovarsi e competere nel mercato esterno. Come evidenziato dalla Banca d’Italia (Banca d’Italia, 2013), infatti, la ridotta dimensione delle imprese condiziona il livello e la dinamica della produttività rendendo più difficile sostenere i costi e i rischi insiti nelle attività di innovazione e di espansione sui mercati internazionali. Tuttavia, lo stesso istituto riconosce che tale effetto potrebbe avere i suoi lati positivi, riallocando i fattori produttivi verso imprese più efficienti ed in grado di mantenere la propria quota di mercato. 17 CICCARONE G., SALTIERI E., 2008 (3) 18 CARINCI F., CARUSO B., ZOLI C., 1992. 19 Al riguardo si veda, CAPPARUCCI M., 1994. YELLEN J., 1984. AKERLOFF G.A., 1984. LUCIFORA C., 1990. Nell’Occasional Paper della Banca d’Italia sulle Tendenze nel sistema produttivo italiano vengono citati numerosi studi che individuano una correlazione positiva tra l’adozione di sistemi di valutazione e incentivazione individuale e l’aumento della produttività con incrementi di produttività che vengono stimati anche del 7-8%. 20 Si veda VIVIANI D., FANELLI L., 2009 E CICCARONE G., SALTIERI E., 2008 (3) 21 In realtà non è sempre certo che un aumento della produttività determini un aumento del salario. Nei settori dove vengono effettuati investimenti labour – saving, come nell’industria, l’aumento della produttività può portare ad una riduzione della forza sindacale per effetto del relativo minor impiego di lavoro e di conseguenza un minor potere contrattuale degli occupati. CAPPARUCCI M., 1994. Antonioli e Pini (ANTONIOLI D., PINI P., 2013.), tuttavia, hanno rilevato da un’analisi dei rapporti Wages and Equitable Growth dell’International Labour Organization (ILO, 2013), e Employment and Social Developments in Europe 2012 della Commissione Europea (EC, 2012) aspetti 4 Diego Del Biondo ciò, peraltro, anche in assenza di salari espressamente collegati alla produttività dell’impresa. Questo collegamento ovviamente diventa più marcato se i salari vengono legati direttamente ai risultati aziendali. Da quanto detto sopra, e quindi dall’inscindibile collegamento circolare salari / benessere sociale / produttività / salari, è chiaro che sia auspicabile un aumento della produttività e per raggiungere ciò è comprensibile la volontà di puntare (anche) su scelte di politica salariale che siano in grado di innescare quel meccanismo virtuoso in grado di sviluppare e sostenere la crescita della produttività e di conseguenza il benessere sociale. Le politiche salariali da perseguire devono pertanto essere in grado di: motivare il personale, rafforzare il legame di fiducia tra azienda e lavoratori, non sacrificare (ma al contrario dare la possibilità di aumentare) le capacità economiche dei possessori di reddito da lavoro dipendente, stimolare le imprese a valorizzare la loro forza lavoro e ad investire in nuove tecnologie, e ribaltare parte dei risultati produttivi sui salari così da rimettere in moto il circolo virtuoso. La via maestra è stata quindi individuata nell’introduzione di componenti salariali legati all’impegno e al risultato mediante una valorizzazione della contrattazione aziendale che preveda una partecipazione dei lavoratori ai risultati economici dell’impresa. La partecipazione dei lavoratori ai risultati produttivi dell’azienda rappresenterebbe quindi un asset strategico22 finalizzato a rafforzare il legame di fiducia tra impresa e personale ed in grado di instaurare un coinvolgimento dei lavoratori agli interessi aziendali mediante un’assunzione di rischi e responsabilità. 2. Premi di produttività nel panorama italiano Dall’Accordo Quadro del 2009 il tema della partecipazione dei lavoratori ai risultati produttivi dell’impresa ha assunto un ruolo fondamentale per il rilancio dell’economia; ruolo confermato e interessanti sulla dinamica produttività e retribuzione, evidenziando un’apparente rottura del legame tra la dinamica della produttività e delle retribuzioni reali. 22 GUARRIELLO F., 2013. 5 Diego Del Biondo rafforzato nei vari accordi interconfederali che si sono susseguiti fino all’Accordo sulla Produttività del 2012. Nei suddetti documenti le parti sociali hanno convenuto di incentivare e sostenere una retribuzione variabile caratterizzata da premi o quote legati alla produttività delle imprese. Tali premi, tuttavia, non sono una novità nel panorama italiano e non sempre hanno condotto ai risultati sperati. Gli schemi previsti nei recenti accordi, infatti, non sembrano distaccarsi di molto da quelli individuati a suo tempo dall’Accordo del 23 luglio 199323 che, stando alle statistiche ufficiali, non pare che abbiano apportato risultati significativi in termini di produttività24. Il loro modesto rendimento è riconducibile alla loro scasa rilevanza assunta, sia in termini quantitativi, vale a dire di diffusione tra le imprese, sia in termini qualitativi, vale a dire di capacità effettiva di stimolare i lavoratori e rilanciare la produttività. Se si vuole scommettere sulla partecipazione dei lavoratori ai risultati produttivi dell’impresa, si devono quindi esaminare le ragioni del loro “fallimento” negli anni passati per correggere e rimediare, ove possibile, ed evitare di ripetere quanto già avvenuto. Da un punto di vista quantitativo dell’utilizzo della retribuzione variabile, è noto che, nonostante la sollecitazione del Protocollo a “stimolare una flessibilità positiva delle retribuzioni, cioè un suo andamento correlato ai risultati aziendali (produttività, redditività), così da valorizzare il contributo del lavoratore alla competitività”, il grado di diffusione non fu particolarmente elevato. Da una parte, nelle imprese di piccole dimensioni, che costituiscono la maggior parte del substrato economico del nostro Paese, una scarsa diffusione della contrattazione aziendale e territoriale e un modesto peso delle organizzazioni sindacali hanno reso difficoltoso attuare un collegamento tra produttività e salario. In questi contesti si è invece preferito utilizzare strumenti connessi al rendimento del singolo, incentrati su un rapporto diretto tra lavoratore e datore di lavoro con l’utilizzo di promozioni e superminimi individuali. D’altra parte, nelle grandi imprese con una elevata sindacalizzazione, pur registrando una maggiore diffusione di strumenti partecipativi, le organizzazioni sindacali dimostravano una evidente avversione all’introduzione di modelli 23 24 LASSANDARI A., 2009. ACOCELLA N., LEONI R., 2009 6 Diego Del Biondo meritocratici, a favore di sistemi di retribuzione egualitari ed in grado di accontentare le aspettative del maggior numero di lavoratori25 (o sarebbe più opportuno dire di iscritti o potenziali iscritti). In queste imprese venivano preferiti strumenti di retribuzione variabile legati all’anzianità di servizio o altri meccanismi automatici il più delle volte indipendenti dall’impegno o dalla professionalità impiegata e tali da ridurre al minimo il loro grado di aleatorietà. Ma se la diffusione degli strumenti partecipativi era limitata, il loro apporto sulla produttività, ove presenti, il più delle volte non era certo entusiasmante. La nota avversione al rischio dei lavoratori dipendenti, che di malgrado accettano di legare parte del loro salario alle alterne vicende dell’azienda, spingeva infatti le organizzazioni sindacali e i datori di lavoro ad una sorta di compromesso che spesso snaturava gli istituti in esame. Anche dopo il Protocollo Giugni in molte aziende si fece contrattazione ricalcando il modello precedente il 1993 quando gli aumenti retributivi concordati erano di natura prevalentemente fissa e non variabile (come il vecchio premio di produzione), così che anche i premi che venivano chiamati variabili, lo erano spesso solo sulla carta26. I premi da distribuire al raggiungimento dei risultati, anche quando valutati ex ante, il più delle volte potevano considerarsi scontati; il loro ammontare era volutamente modesto e, una volta raggiunti i risultati, era frequente consolidare la loro presenza così da “confondersi” con aumenti di minimi contrattuali27. D’altra parte, anche dove il salario variabile veniva effettivamente utilizzato con l’intento di stimolare i lavoratori, i risultati ottenuti nel lungo periodo non sembravano essere quelli sperati. Se è vero che forme di retribuzione variabile possono avere potenziali effetti positivi sulla produttività aziendale, è pur vero che tali effetti si verificano solo quando gli strumenti o gli indici di riferimento utilizzati per determinare l’entità della retribuzione variabile siano realmente rappresentativi e idonei a valorizzare la produttività del lavoro e, soprattutto, che siano percepiti come tali dai lavoratori. Il più delle volte, invece, le aziende si sono limitate a collegare la retribuzione a meri dati 25 PANTANO F., 2012. DELL’ARRINGA C., 2006. 27 DELL’ARRINGA C., 2006. LASSANDARI A., 2009. 26 7 Diego Del Biondo di bilancio (i cd. indici di bilancio), utili solo a fornire una distribuzione a pioggia dei premi che non è servita a realizzare gli obiettivi prefissati. Altre volte, al contrario, la parte di retribuzione variabile è stata collegata ad indici legati esclusivamente alla quantità del lavoro prestato (ore lavorate, permessi, assenteismo ecc.), con il solo effetto di incentivare la presenza sul posto di lavoro e non l’impegno del singolo lavoratore, confermando così una tendenza prevalentemente italiana a puntare sulla quantità del lavoro piuttosto che sulla sua qualità. Se la via prescelta per il rilancio della produttività predilige l’utilizzo del salario variabile, è necessario che le organizzazioni dei lavoratori da una parte e le imprese dall’altra si impegnino: ad adottare strumenti retributivi che siano realmente in grado di valorizzare e stimolare l’operato dei lavoratori, a creare le condizioni per un loro proficuo utilizzo anche e soprattutto in considerazione delle dimensioni medie delle imprese italiane, ma principalmente a cambiare atteggiamento nei loro confronti, mettendo da parte le reciproche avversioni e la loro “naturale tendenza” a consolidare nel tempo i risultati raggiunti. 3. Gli strumenti giuridico-economici utilizzabili per legare il salario dei lavoratori ai risultati dell’azienda. Dopo aver ricostruito il collegamento tra salario e produttività e tra produttività e benessere, e ripercorso brevemente le ragioni di un modesto utilizzo negli anni passati dei premi di produttività, passiamo ad analizzare gli strumenti giuridico-economici utilizzabili per legare il salario ai risultati produttivi dell’impresa, evidenziandone i vari punti di forza e di debolezza e individuando se possibile gli strumenti da prediligere. In primo luogo deve essere sottolineata la differenza tra forme che legano la retribuzione alla valutazione della prestazione lavorativa, individuale o di gruppo, e forme che legano la stessa alla partecipazione finanziaria, vale a dire all’accettazione del rischio di impresa con riferimento alla produttività e/o alla redditività aziendale. 8 Diego Del Biondo La prima tipologia in esame premia l’impegno individuale, comprendendo al suo interno trattamenti più tradizionali, legati alla quantificazione dell’attività lavorativa, primo fra tutti, in ordine non solo cronologico, il cottimo individuale, e più raffinati, legati alla valutazione della prestazione in termini di qualità e di risultato28. I modelli di retribuzione più tradizionali, che oramai tendono ad essere abbandonati a vantaggio di strumenti legati alla qualità del lavoro, si basano sulla convinzione che dall’aumentare della quantità di prodotto in una determinata dimensione temporale discende un incremento del rendimento aziendale.29 Tale impostazione tuttavia, fondata su schemi eccessivamente rigidi e datati, non può essere accolta, in quanto, riprendendo le parole di Treu solo “una prestazione esatta e funzionale ad una migliore organizzazione del lavoro e al clima aziendale costituisce un risultato utile per l’impresa, suscettibile come tale di essere valutato e apprezzato anche con incentivi retributivi”30. Se tali strumenti possono essere efficaci in quelle imprese dove viene data priorità alla mera quantità ed alla tempistica di produzione, al contrario non sono sufficienti laddove la qualità del prodotto o della prestazione è più o parimenti importante rispetto alla quantità, in quanto i lavoratori sarebbero portati a trascurare la prima a vantaggio della seconda31. L’impresa quindi, deve cercare, mediante strumenti di retribuzione flessibile, di indirizzare i comportamenti del lavoratore nel senso che ritiene più proficuo per realizzare il suo progetto imprenditoriale32 ossia valorizzare l’efficacia, intesa come capacità di conseguire l’obiettivo prefissato, e l’efficienza, intesa come capacità di svolgere un’attività ottimizzando l’impiego delle risorse33. Un’eccessiva individualizzazione, derivante dall’utilizzo di premi individuali, rischia tuttavia di generare malcontento e demotivazione per i soggetti penalizzati indebolendo lo spirito di collaborazione tra i dipendenti34. Al loro posto sono quindi preferibili salari legati alla valutazione di gruppo35 che, 28 CARINCI F., CARUSO B., ZOLI C., 1992. PANTANO F., 2012. 30 TREU T, 2010. Negli stessi termini anche PANTANO F., 2012. 31 PANTANO F., 2012. 32 PANTANO F., 2012. 33 CUGINI A., 2001. 34 CARINCI F., CARUSO B., ZOLI C., 1992. 29 9 Diego Del Biondo riprendendo quanto detto precedentemente, siano comunque legati a parametri qualitativi. Tali strumenti tuttavia rischiano di accentuare differenze retributive all’interno dell’azienda indipendentemente dalle mansioni effettivamente svolte, rendendo così il singolo lavoratore incapace di influire sulla realizzazione dei presupposti36, e dai risultati complessivi prodotti dall’azienda in termini di redditività e produttività. Ai suddetti premi vengono quindi non di rado preferite strutture salariali legate alla partecipazione finanziaria dell’intera azienda che, facendo riferimento alla produttività e/o redditività dell’impresa, rafforzano il senso di identità e di attaccamento dei lavoratori all’azienda. Al riguardo si tende a differenziare i premi profit sharing da quelli gain sharing e premi misti37. I premi profit sharing legano la parte variabile della retribuzione al buon andamento economico dell’impresa, quindi alla redditività aziendale desumibile da bilancio mediante indici quali: il margine operativo lordo, l’utile operativo o l’utile netto. I premi gain sharing invece legano il salario variabile ad una misura del risultato economico conseguito dall'impresa nel suo complesso, quali ad esempio, la produttività dell’azienda, la saturazione degli impianti o la percentuale di scarti. Nei sistemi misti invece si dà rilevanza sia a parametri tipici del gain sia del profit sharing. I primi tuttavia essendo principalmente idonei a calcolare ex-post le condizioni della cosiddetta ability to pay dell’impresa non sembrano idonei a dar luogo ad incentivi che siano ex-ante percepibili dai lavoratori come riconducibili ai loro sforzi38. Tali premi vengono infatti definiti “redistributivi” o “di partecipazione”, differenziandosi dai cd. premi incentivi. Il loro collegamento agli indici di bilancio39 rendono i premi in oggetto incontrollabili dalla massa dei lavoratori, facendo dipendere la possibilità di ottenere benefici in misura prevalente da scelte produttive, di 35 Cottimo di squadra, rendimenti di gruppo, problem solving, risparmio costi, soddisfazione del cliente ed altri parametri legati a determinati reparti, squadre, settori ecc. PANTANO F., 2012. CARINCI F., CARUSO B., ZOLI C., 1992. 36 Con il rischio di probabile abuso da parte dei cd. free riders. CARINCI F., CARUSO B., ZOLI C., 1992. 37 Si veda al riguardo LASSANDARI A., 2009. 38 Al riguardo anche la Banca d’Italia nella relazione annuale del 31-5-2008, ha affermato, con riferimento a schemi basati su profit-sharing, che “i premi aziendali mostrano spesso una scarsa differenziazione all’interno dell’impresa e sembrano poco correlati alla produttività”. ACOCELLA N., LEONI R., 2009. 39 In particolar modo quando vengono utilizzati parametri relativi alla gestione finanziaria. 10 Diego Del Biondo mercato e finanziarie che l’imprenditore pone in essere40. La scelta ottimale dal punto di vista dei lavoratori è quindi quella di adottare strumenti che siano legati alla produttività dell’impresa e non alla sua redditività41, ovvero in alternativa, adottare sistemi di compartecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali che vadano ben oltre il mero diritto di informazione42. In merito ai premi gain sharing, che legano la parte variabile della retribuzione alla produttività dell’azienda, nonostante la loro minor dipendenza da mere scelte imprenditoriali rispetto ai premi legati alla redditività, permangono ugualmente punti di debolezza, individuati principalmente nella loro scarsa percezione da parte dei lavoratori e nella difficoltà ad individuare i parametri di bilancio da utilizzare. Relativamente alla percezione dei lavoratori, questi ultimi tendono tradizionalmente ad identificare nel loro apporto quantitativo, orario e disponibilità allo straordinario, la corretta via per raggiungere gli obiettivi prefissati, senza considerare il giusto rapporto tra input e output prodotti. Relativamente alla scelta dei parametri di bilancio utilizzabili, aluni di essi non sembrano registrare correttamente gli incrementi di produttività, sia in ragione di performance aziendali dipendenti da elementi esterni al processo o connesse ad operazioni finanziarie, sia in considerazione del fatto che non di rado tali “indici [sono] decisamente affidati all’arte di arrangiare il bilancio aziendale”43. Ma quel che più conta è che, in ogni caso, per far sì che tali strumenti siano funzionali a stimolare i lavoratori, questi ultimi devono avere piena fiducia nella gestione aziendale44. Non vi è quindi dubbio che, anche in presenza di istituti retributivi legati alla produttività, la loro parziale indipendenza dalla qualità/quantità delle singole prestazioni a 40 Se un discorso a parte può essere fatto per i top manager, che con le loro scelte riescono ad influenzare la redditività dell’azienda, la massa dei lavoratori non ha potere sulla gestione finanziaria, sulle operazioni straordinarie e sulle varie scelte che determinano direttamente o indirettamente l’utile o i profitti dell’imprese. 41 GARIBALDI P., PANUNZI F., 2009. 42 Una compartecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali viene peraltro ad essere ancor più indispensabile nell’ipotesi di strumenti retributivi sotto forma di concessioni di azioni e altri titoli legati all’andamento finanziario dell’impresa come le classiche stock option. In tal caso peraltro sembrerebbe affievolirsi la funzione incentivante della retribuzione in quanto può essere estremamente difficile verificare il legame tra il rendimento della prestazione lavorativa ed il valore di mercato delle azioni che per sua natura è legato a fattori esogeni ed endogeni all’azienda ma comunque sottratti al controllo della maggior parte dei dipendenti. Al riguardo fanno eccezione gli incentivi azionari individuali che, a differenza di quelli collettivi o di “azionariato operaio”, mirano a fidelizzare e motivare determinati lavoratori, generalmente apicali e ritenuti fondamentali per l’impresa, che in quanto tali con le loro scelte potrebbero influenzare il prezzo delle azioni in un preciso momento. Al riguardo si veda SANTAGATA R., 2008. 43 In questi termini GHEZZI G., 1993. Al riguardo si veda LASSANDARI A., 2009. 44 BLANPAIN R., 2002. 11 Diego Del Biondo vantaggio di una dipendenza da elementi esterni e incontrollabili dai lavoratori rendono indispensabile un coinvolgimento delle organizzazioni sindacali che svolgano quantomeno un controllo sulla gestione dell’impresa, ponendo così le premesse per lo sviluppo di sistemi maggiormente partecipativi dei lavoratori45. 4. I diritti di informazione e partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa Dall’analisi degli strumenti giuridico-economici utilizzabili per legare il salario alla produttività dell’impresa risulta chiaramente che una partecipazione dei lavoratori ai risultati produttivi, che sia funzionale a realizzare gli effetti sperati, debba essere indissolubilmente legata ad opportuni diritti di informazione, controllo, ovvero di effettiva partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa. Partecipazione all’amministrazione ed ai rischi aziendali devono quindi costituire le rotaie di uno stesso binario, e solo correndo in parallelo potranno sperare di raggiungere l’obiettivo comune dell’aumento della produttività aziendale. In tal senso “quanto più si altera l’equilibrio fra retribuzione e prestazione, tanto devono essere riconosciuti ai lavoratori corrispettivi di controllo e di partecipazione nelle scelte dell’impresa”46. Solo laddove i lavoratori per il tramite delle organizzazioni sindacali risultino titolari di un effettivo potere di controllo e di indirizzo sulle decisioni del management, infatti, si potrebbe attuare un sistema retributivo che non sia solo redistributivo dei rischi aziendali ma percepito dai dipendenti come stimolo e senso di appartenenza all’impresa. A tal fine è indispensabile rimuovere i deficit informativi dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali, in parte legati alla cultura imprenditoriale (e non solo), in parte alle modeste dimensioni delle imprese nazionali. I lavoratori, ovviamente mediante le loro organizzazioni sindacali, devono quindi esser messi in condizione di conoscere, interpretare e soprattutto sindacare le scelte di gestione e di bilancio, anche mediante propri consulenti di fiducia. Ai lavoratori, pertanto, deve esser garantita in primo luogo un’informazione (e consultazione) effettuata in “tempo utile” (così 45 46 ZILIO G., 1996. ZOPPOLI L., 1991. 12 Diego Del Biondo come previsto per i Comitati Aziendali Europei e per gli organismi interni di rappresentanza del personale secondo la direttiva-quadro 14/2002), nella previsione di realizzare una vera riforma della Governance Societaria in tal senso. È inevitabile a tal fine far riferimento alla disciplina comunitaria47 e alla necessità per il nostro Ordinamento di eliminare quegli ostacoli giuridici che ci impediscono di realizzare quanto previsto in merito a livello sovrannazionale e recuperare il gap con gli altri Paesi. La partecipazione dei lavoratori ai risultati produttivi delle imprese deve quindi fungere da viatico ad introdurre nel nostro Paese meccanismi più incisivi di influenza dei lavoratori sulle decisioni d’impresa, attraverso forme di presenza negli organi societari di gestione o di sorveglianza. A tal fine è apprezzabile quanto disposto dal 2° comma dell’art. 4, della legga 92/2012, cd. Legge Fornero, che delega il Governo ad adottare, entro nove mesi, uno o più decreti legislativi finalizzati a favorire forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, attraverso la stipulazione di un contratto collettivo aziendale, così da conferire organicità e sistematicità alle norme in materia di informazione, consultazione e partecipazione dei dipendenti agli utili e al capitale. Al di là del rischio che tale previsione rimanga inattuata, deve essere tuttavia lamentata una perdita di chance, nel momento in cui la legge si limita a rimettere l’istituzione di ogni strumento partecipativo nelle mani della negoziazione collettiva a livello aziendale “che non ha favorito il radicamento di una cultura partecipativa e che ha giustificato il mancato attecchimento nel nostro paese dei modelli proposti in via opzionale dalle normative europee”48. Al riguardo invece, in considerazione della chiara avversione del mondo imprenditoriale, e dello scarso potere negoziale delle organizzazioni sindacali nelle piccole realtà, sarebbe stato opportuno procedere con nuovi assetti normativi in sintonia con gli indirizzi europei49. 47 In particolare all’art. 153 TFUE che stabilisce una competenza concorrente in materia di informazione e consultazione dei lavoratori, alla Carta di Nizza ed al Trattato di Lisbona che ne hanno declamato il rango di diritto sociale fondamentale, alle direttive sulla Società Europee e Società Cooperative Europee fino ai progetti di costituzione di una Società Privata Europea (SPE). 48 GUARRIELLO F., 2013. 49 GUARRIELLO F., 2013. 13 Diego Del Biondo 5. Considerazioni conclusive In considerazione di quanto detto può apparire comprensibile scommettere su una partecipazione dei lavoratori ai risultati produttivi dell’impresa per innescare quel meccanismo virtuoso che stimoli l’aumento della produttività, delle retribuzioni e del benessere sociale. Quel che tuttavia appare ancor più chiaro è che tali strumenti non possono esser svincolati da forme di partecipazione all’amministrazione dell’impresa da parte dei lavoratori. Partecipazione ai risultati produttivi dell’impresa e partecipazione nella gestione devono quindi necessariamente coesistere, e questo non (solo) perché la Carta di Nizza abbia conferito il rango di diritti sociali fondamentali all’informazione e consultazione dei lavoratori o dei loro rappresentanti, o perché il più “vicino” art. 46 della Costituzione riconosce il diritto di collaborare alla gestione dell’azienda, e neanche semplicemente perché a rigore di logica se i lavoratori debbano condividere le sorti dell’impresa appare del tutto ragionevole che gli stessi possano in qualche modo influenzare le scelte dell’impresa, ma perché una partecipazione ai risultati produttivi dell’azienda senza una parallela partecipazione alla gestione della stessa non sarà mai in grado di sortire gli effetti sperati di incentivazione, fidelizzazione, stimolo dei dipendenti ed aumento della produttività. Tutto ciò, quanto meno nel medio lungo periodo, in quanto la storia ci ha insegnato che, se nel breve periodo le forme di retribuzione variabile sono state accolte (non facilmente) dai lavoratori e dalle organizzazioni sindacali, nel tempo, a causa di una diffidenza latente, di una inadeguatezza degli strumenti e di una consapevole incapacità delle organizzazioni sindacali di controllare il loro corretto utilizzo, tali strumenti sono stati spesso trasformati in quote costanti perdendo completamente le finalità originarie. La partecipazione dei lavoratori nella gestione aziendale, pertanto, deve essere stabilita con strumenti legislativi e non lasciata alla volontà negoziale delle parti sociali, almeno fin quando non siano le stesse organizzazioni imprenditoriali a comprenderne il valore aggiunto. In alternativa, qualsiasi forma di partecipazione dei lavoratori ai risultati produttivi delle imprese non riuscirà a perseguire i risultati attesi, limitandosi a fungere semplicemente da strumenti utili 14 Diego Del Biondo talvolta a defiscalizzare una parte della retribuzione (mediante i premi di produttività), talvolta a procurare risorse finanziarie alle aziende (mediante concessione di azioni o altri titoli su di esse50) difficilmente procurabili nel mercato esterno. 50 Si veda SANTAGATA R., 2008. 15 Diego Del Biondo Bibliografia AKERLOFF G.A., Gift Exchange and Efficiency Wage Theory: Four Views, in “American Economic Rieview P&P, Vol.74, 1984. ACOCELLA N., LEONI R., La riforma della contrattazione: una valutazione e soluzioni innovative. Un ruolo attivo per la politica economica, Working Papers, No 54, Dipartimento di Studi Geo-economici, Università di Roma ‘La Sapienza’, 2009. 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