Produttività e occupazione
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Produttività e occupazione
Produttività e occupazione: i misteri dell’Italia di Innocenzo Cipolletta Produttività, salari, occupazione e crescita: l’Italia sta conoscendo un rimescolamento delle carte che rende difficile la lettura dei dati medi. Andiamo per ordine. La caduta della produttività era stato un obiettivo della politica del lavoro perseguito dalle parti sociali negli anni passati. Chi ricorda gli anni ’80 e ’90, ricorda anche il problema della “crescita senza occupazione”, ossia quello che oggi chiameremmo invece un crescita con una forte produttività. Infatti in quegli anni occorreva una crescita di almeno il 2% annuo per avere qualche limitato incremento di occupazione, mentre la disoccupazione, specie quella giovanile, era particolarmente alta. Si diceva allora che la rigidità del mercato del lavoro spingeva le aziende a puntare sul modello capital-intensive, ciò che spiegava la crescita senza occupazione: ed infatti i dati dell’UE ponevano l’Italia ai vertici della classifica del prodotto per addetto, stimato in PPP (parità di potere d’acquisto), a testimonianza di questa anomalia. A partire da questa analisi, abbiamo realizzato diversi accordi per la flessibilità del mercato del lavoro negli anni ’90. In particolare, il pacchetto Treu che introduceva il lavoro interinale e dava di fatto il via libera ai Co.Co.Co. La maggiore flessibilità, unitamente all’ingresso crescente di forza lavoro immigrata, ha consentito l’assorbimento di manodopera anche per funzioni che un tempo erano dismesse o relegate al mercato nero. In queste nuove condizioni, le statistiche non potevano che registrare una minore produttività (intesa come rapporto tra prodotto e numero di lavoratori) ed anche una minore crescita dei salari, dato che molte funzioni incluse nel lavoro erano a remunerazione più contenuta. Si può dire che le parti sociali di allora raggiunsero i loro obiettivi (ed io, che ne facevo parte, ne sono ben contento) e la crescita non è stata più povera di occupazione. Al contrario, tanto che oggi ci lamentiamo per la scarsa produttività. Ma il rimescolamento delle carte non si è limitato, a mio avviso, solo alla flessibilità del mercato del lavoro. Con l’avvento dell’euro e il prorompere della globalizzazione, le imprese italiane hanno messo in moto un processo di ristrutturazione forzato, perché guidato dalla selezione del mercato. In estrema sintesi, sono uscite progressivamente dal mercato quelle produzione e quelle imprese che facevano beni standardizzati a costi bassi (commodities) e sono emerse e cresciute le produzione e le imprese che facevano prodotti di più alta qualità. C’è stato, quindi, un innalzamento della gamma delle produzioni italiane, pur rimanendo negli stessi settori di produzione (scarpe, abiti, mobilio, macchinari, ecc.). La naturale resistenza alle ristrutturazioni (che mantiene sul mercato le imprese meno efficienti per un po’ di tempo), assieme alla difficoltà della statistica a cogliere le mutazioni quando avvengono all’interno dei settori produttivi, ha contribuito, a mio avviso, a questo calo della produttività nelle statistiche (ma non nella realtà, almeno non nella stessa misura). Basti pensare che, per produrre migliaia di paia di scarpe di plastica a basso prezzo occorrono pochi lavoratori, mentre per produrre poche centinaia di paia di scarpe di marca (ad alto prezzo) servono molti più lavoratori. Si capisce allora che, se la produttività è misurata dal rapporto tra scarpe prodotte e lavoratori impiegati, allora il processo di upgrading di cui ho parlato si traduce, nelle medie statistiche, in una riduzione della produzione (numero di paia di scarpe), in un aumento dell’occupazione (numero dei lavoratori impiegati), quindi in una riduzione della produttività ed in un aumento del prezzo medio delle scarpe. Poiché questo processo è progressivo, discontinuo e mal colto dalla statistica ufficiale, non mi meraviglia che oggi assistiamo ad un calo della produttività. Sono convinto che nel corso del prossimo periodo avremo la possibilità di vedere alcuni miglioramenti. L’Italia produttiva sta cambiando pelle, azienda per azienda, e questo è il motivo per cui la crescita dei salari, sempre più, deve seguire le vicende delle singole aziende e non già quelle medie del settore, che non significano molto. Innocenzo Cipolletta [email protected] Roma 15 settembre 2008