l`attualità de gli atti dell`amore
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l`attualità de gli atti dell`amore
UMBERTO REGINA L’ATTUALITÀ DE GLI ATTI DELL’AMORE (Introduzione alla nuova edizione italiana di: Søren Kierkegaard, Gli atti dell’amore. Alcune riflessioni cristiane in forma di discorsi, a cura di U. Regina, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 5-11) Mai come oggi gli uomini si sono trovati a vivere tanto «prossimi» gli uni agli altri, in tempo reale, nel bene e nel male, tutti insieme. Il prossimo si è fatto a noi tanto prossimo da non consentire più di sentirci liberi di scansarlo o di accostarlo quando lo si incontra, come allora, sulla strada da Gerusalemme a Gerico. Per riacquistare la giusta distanza e la doverosa lungimiranza può giovare l’aiuto di un grande pensatore e di un grande credente: Søren Kierkegaard. Negli Atti dell’amore [Kjerlighedens Gjerninger], l’opera che pubblicò nel 1847, al culmine della sua produzione letteraria, egli tratta del problema del «prossimo» a partire dalla capacità e dal dovere di ogni uomo di compiere atti vittoriosi su ogni egoismo. Il suo percorso è originale: egli non considera l’uomo come naturalmente egoista, nemmeno nel senso di egoismo come «amore di sé» [Selvkjerlighed], che pensatori sia antichi sia moderni pongono come presupposto più che legittimo per indicare poi le vie virtuose idonee a fare evolvere in senso altruistico tale connaturato egoismo. Kierkegaard parte dall’alto, da ciò che è «supremo» [det Høiste] in ciascun uomo, dagli atti dell’amore, e proprio in questi riscopre la presenza dell’umano-in-tutti [det Almene-Menneskelige]: un tesoro nascosto, tutt’altro dall’incorreggibile «legno storto» di kantiana memoria. Queste «riflessioni» sono filosofiche, ma possono avere come oggetto gli atti dell’amore solo in quanto esse sono «cristiane». Kierkegaard è convinto, e lo dimostra qui a più riprese confrontandosi con «i pagani», ossia con la filosofia greca, che solo il cristianesimo ha scoperto che esistono atti d’amore, e soprattutto che questi possono e debbono essere compiuti da ogni uomo, dunque anche dai non credenti, in ogni tempo. La scoperta è cristiana, ma ciò che viene scoperto appartiene all’umano-in-tutti. In ciascuno di questi Discorsi Kierkegaard sceglie come traccia un’affermazione dal Nuovo Testamento, non per fornire un contributo esegetico, anche se questo c’è e ed è spesso di eccezionale valore. Non intende propriamente spiegare il testo sacro, ma trarne frutto per la riscoperta dell’interiorità e degli atti che questa è chiamata a compiere; è convinto che solo così le parole della Scrittura non faranno la fine della semente buttata fra i rovi o sulla strada. «La nascosta interiorità dell’uomo» [det skjulte Menneskes Inderlighed], la vera natura dell’uomo, è il nuovo continente che emerge attraverso gli atti dell’amore. Sono atti per tutti ugualmente possibili, per tutti ugualmente difficili, per tutti ugualmente doverosi. L’etica scopre in essi questo nuovo continente, di cui il vecchio mondo, il mondo classico, il mondo «pagano», non sospettava nemmeno l’esistenza. Senza il cristianesimo gli atti dell’amore non sarebbero mai divenuti «faccenda di coscienza» [Samvittighedens Sag]. Acquisire questa coscienza non è facile; essa comanda le cose più difficili, anche se possibili per tutti. Nella Postilla conclusiva non filosofica alle «Briciole di filosofia», uscita l’anno precedente, Kierkegaard, per bocca di Johannes Climacus, il suo pseudonimo immaginato non ancora cristiano, dichiara: «Confido di assumermi la responsabilità, secondo le mie povere doti, di rendere difficile il diventare cristiani, difficile il più possibile, senza però renderlo più difficile di quel ch’esso è». Negli Atti dell’amore il tono cambia. Kierkegaard non esaspera più la difficoltà del cristianesimo, non lo porge più in termini di «paradosso» e di «assurdo», bensì di atti d’amore; e dell’amore già tutti sanno qualcosa, almeno come «bisogno» di amore. Vuole che il lettore tragga profitto dall’amore cristiano, già sul piano semplicemente umano. Affronta questo compito con umiltà, se si considera il piglio dei filosofi e dei teologi hegeliani del suo tempo, ma anche con la consapevolezza di compiere un lavoro e di dare un contributo che nessun altro fra gli scrittori contemporanei poteva dare: «Poiché il mio unico lavoro e il mio unico compito consiste nell'essere scrittore, ho la capacità e il dovere di procedere con precisione meticolosa, se vuoi anche piccina, ma anche veramente vantaggiosa, una meticolosità che altri non sono in grado di adottare». Scrive in nome proprio, senza alcun particolare riferimento né alla sua precedente produzione pseudonima, né alle sue vicende personali, anche se in filigrana è certo possibile intravedere qualcosa della vicenda del suo fidanzamento interrotto, sulla quale forse fin troppo si è insistito nell’interpretare il suo pensiero, rischiando di appiattirlo a curiosità biografica. Negli Atti dell’amore Kierkegaard si presenta espressamente come pensatore cristiano. Comunica i risultati della sua meditazione in forma dialogica, con frequenti esempi, spesso tratti dalla vita comune, ma esige anche che il suo lettore-ascoltatore lo legga con la stessa cura con cui egli ha pensato e scritto ciò che gli porge. Per questo, nella Premessa, formula un severo avvertimento: «Queste riflessioni cristiane, che sono il frutto di molta meditazione, vorrebbero essere capite lentamente, ma allora anche facilmente, mentre certo diventerebbero molto difficili se uno le rendesse tali con una lettura fuggevole e curiosa». La «forma», come dice il sottotitolo dell’opera, è quella del «discorso» [Tale], ma il contenuto è costantemente il prodotto di ponderata «riflessione» [Overveielse], di «sop-pesamento» a tutto campo delle ragioni favorevoli e contrarie alla possibilità di atti dell’amore da parte dell’uomo. Il procedere filosofico di Kierkegaard è testimoniato dal rigore nel rispetto dei termini e del significato che viene loro conferito all’inizio dei singoli piccoli trattati che compongono quest’opera. Il libro non tratta di azioni determinate, non tratta delle virtù, di «abiti» , ma di «atti». In sintonia con Agostino e i Padri, Kierkegaard ricorda spesso che le «virtù dei pagani», alla luce degli atti dell’amore, sono solo «splendidi vizi». Nemmeno Socrate, quel «semplice saggio» cui Kierkegaard fa qui sovente riferimento quale paradigma imperituro di onestà intellettuale e di incondizionata dedizione alla ricerca filosofica, ha avuto sentore dell’esistenza di atti d’amore; sapeva bene che l’imperativo fondamentale era il «conosci te stesso», ma affrontava questo compito solo dal lato negativo. Negli Atti dell’amore Kierkegaard si assume l’onere di affrontarlo anche da quello positivo. L’impresa si presentava particolarmente ardua, dato che molti, da entusiasti hegeliani, erano allora convinti che in fatto di soggettività pienamente realizzata, sia per contenuto sia per forma, tutto fosse ormai conquistato, anche in materia di amore, o fosse lì lì per esserlo non appena il «Sistema» fosse stato completato. Nel libro, «amore» è detto con due diversi termini danesi: Elskov e Kjerlighed. Nel titolo, Kjerlighedens Gjerninger, compare solo il secondo termine al genitivo determinato. Kjerlighed è l’amore in quanto «atto» compiuto da chi è mosso da 2 nient’altro che dall’amore stesso, cioè da quell’amore che è in grado di vincere l’egoismo, anche quando questo si sublima nelle forme del più convinto altruismo e diventa addirittura incondizionata «abnegazione» [Hengivenhed] per amore di qualcuno. Per Kierkegaard, solo il «rapporto-con-Dio» [Guds-Forhold] è la condizione e il fondamento degli «atti dell’amore». Se l’amore prescinde da questo rapporto, allora il termine usato è Elkov, che sempre traduco con «amore affettivo». I diciotto piccoli trattati possono risultare difficili proprio perché impegnano il lettore a camminare sulla sottilissima cresta che separa l’amore affettivo dagli atti dell’amore, una via che si può percorrere solo restando «davanti a Dio» [for Gud]. Kierkegaard respinge tutte quelle «dimostrazioni» dell’esistenza di Dio che evitano questo tragitto; le considera solo espressioni di pigrizia spirituale: «Se uno, proprio con lo scegliere la direzione verso l'interno, non sforza le proprie forze spirituali come tali, allora non scopre affatto che esiste Dio, o non lo scopre nel senso più profondo; e, se è così, ha perduto o gli è sfuggita la cosa più importante». Vivere davanti a Dio e compiere gli atti dell’amore sono la stessa cosa. In ambedue i casi si verifica nell’uomo il «mutamento dell’eternità» [Evighedens Forandring]. Il genitivo è soggettivo. È la stessa eternità, Dio stesso, che rende l’uomo interiore capace di compiere nel tempo atti aventi l’importanza dell’eterno. L’amore comandato come dovere è l’amore che l’eternità stessa si incarica di far durare per sempre. Il «mutamento dell’eternità», di per sé un’autocontraddizione, è ciò che salva l’amore sia dalla contraddizione di un amore che, in quanto spontaneità, non potrebbe venire comandato, sia da quella di un amore che, volendo durare sempre, non potrebbe per questo trovar posto nel tempo. Dover amare è amare di più, è amare davvero. Riecheggiando le parole di Paolo (cfr. 1 Cor 2, 9-10), Kierkegaard osserva ripetutamente che il dovere di amare «non sorse mai in nessun cuore di uomo». Era necessario l’aiuto della rivelazione divina perché si potesse avere notizia di questo comandamento, anche se di per sé «non difficile da comprendere nel senso della capacità umana di approfondire ed analizzare». D’altra parte, egli non nasconde che il comandamento di amare il prossimo è difficilissimo da mettere in pratica. Questo dovere non equivale forse a quello, improponibile, di amare ciò che in nessun caso può essere proposto all’«inclinazione» e alla «passione»? Infatti, il prossimo è per definizione il nonamabile, «il brutto», come Kierkegaard, sulla scorta di un discorso che sarebbe stato tenuto da Socrate, finisce provocatoriamente per affermare: «Si deve amare quello di cui quel semplice saggio non sapeva nulla; egli non sapeva che esisteva il prossimo e che lo si deve amare». Se Socrate avesse saputo dell’esistenza del prossimo, allora, lascia intendere Kierkegaard, anch’egli avrebbe convenuto che amare il prossimo, indipendentemente dal suo essere bello o brutto, è «edificante». Kierkegaard dedicò circa la metà della sua produzione, già a partire da Enten-Eller, a scritti da lui stesso classificati come «edificanti». Ma solo nel primo Discorso della Seconda Serie degli Atti dell’amore, «L’amore edifica», egli spiega la portata filosofica che l’«edificante» assume nei suoi scritti. Il termine, tratto dal Nuovo Testamento, va inteso alla lettera: l’amore edifica, costruisce l’edificio dell’interiorità, che è la vera realtà umana; può elevare questo edificio sempre più in alto perché l’amore può gettarne le fondamenta scavando sempre più in profondità. L’uomo che va al fondo di se stesso rompe la barriera di ogni chiusura in sé, apparentemente annichilisce il suo stesso io, ma proprio così edifica compiutamente se stesso: «Chi ama lavora tanto calmo e sereno, eppure qui sono 3 all'opera le forze dell'eternità [Evighedens Kræfter]; l'amore, umilmente, non si fa notare proprio quando lavora di più; sì, lavora, ma è come se non facesse nulla». L’«Inno all’amore» di Paolo (1 Cor 13, 1-8) diviene il riferimento scritturistico di ben quattro Discorsi della Seconda Serie. Ciò che Paolo attribuisce all’agàpe diviene la traccia per portare alla luce atti d’amore da cui la saggezza umana dovrebbe solo dissuadere. Perché mai si dovrebbe «sperare tutto», o «credere tutto»? mai possibile sperare qualcosa di buono da chi sappiamo per consolidata esperienza essere un malvagio? E come credere a tutto ciò che ci vuol far credere una persona che per esperienza sappiamo bene essere un mentitore? Eppure si può e si deve sperare tutto e credere tutto, quando si hanno a propria disposizione le forze dell’eternità! L’uomo che compie gli atti dell’amore ha come suo «collaboratore» Dio stesso, ha costantemente a sua disposizione una strategia di vittoria, «crede» in questa strategia. Questo suo credere non è un pigro tenere per vero ciò che di per sé non sarebbe all’altezza della verità, ma è un credere che la verità si manifesta e vince, proprio come verità, se l’uomo interiore si pone al servizio della strategia dell’amore: una strategia di vittoria che è per il mio vero bene, dunque una strategia che è anzitutto a favore della verità in quanto tale. Questo credere è un fare veri atti d’amore, e questo fare ha una legge ben precisa e puntuali riscontri: il «pari a pari dell’eternità» [Evighedens Lige for Lige]. Questo è il tema della Conclusione dell’opera. «Ti sia fatto come hai creduto» (Mt, 8, 13). Le parole dette da Gesù al centurione di Cafarnao sono criterio e verifica del credere e dell’agire. «Sembra tanto sbrigativo questo “ti sia fatto”, ma quanto forte esso a sua volta stringe il vicino “come tu credi”!». Sta all’uomo fare spazio alla parità che Dio gli offre nell’ambito della sua strategia d’amore. Invero, è una parità tutta ritmata dal traboccare dell’amore: «Infatti amare Dio è in verità amare se stessi; aiutare un altro uomo ad amare Dio è amare un altro uomo; venire aiutati da un altro uomo ad amare Dio è essere amati». Il centurione non riceve da Gesù la certezza di avere la fede; gli viene solo promesso solennemente che, se si porrà a disposizione della fede, allora potrà a sua volta disporre delle forze dell’eternità, farsi da queste guidare verso il suo vero bene, e venire veramente esaudito. Se non ci si vuole chiudere nelle proprie certezze, allora a queste va tolta la loro pretesa «oggettività», giacché, come si afferma nella Postilla conclusiva non filosofica alle «Briciole di filosofia», la verità «è l’incertezza oggettiva mantenuta nell’appropriazione della più appassionata interiorità». Quanto più di incertezza «oggettiva», tanto più di verità interiore. Non vi sono limiti per i modi con cui l’uomo, compiendo atti d’amore, corrisponde al pari a pari dell’eternità. Uno di questi modi è quel «rendere onore all’amore» che Kierkegaard pensa di avere compiuto con lo scrivere proprio questo libro. Non si vanta dell’impresa, ringrazia Dio, anche per avergli consentito di compierla con la dovuta umiltà, quasi nascondendosi spesso come autore nel modo più impensabile e sorprendente, cioè dietro una semplice lineetta di stacco [ — ]: un espediente tipografico così tacitamente coinvolgente, anch’esso un atto d’amore: «Vedi, ci sono molti scrittori che ad ogni occasione si servono di una lineetta di stacco [Tankestreg], quale la precedente, per difetto di pensiero; e ci sono anche quelli che la usano in modo appropriato e con gusto». L’osservazione viene fatta a proposito dell’arte maieutica con cui Socrate, con la sola ironia, aiutava i suoi interlocutori a fare da soli. Infatti la lineetta di stacco obbliga il lettore a restare da solo, a concludere personalmente l’argomentazione avviata 4 dallo scrittore; è un modo per consentirgli di porsi, per un attimo, alla pari dello scrittore, quasi di mettersi al suo posto: «Chi ama […] cerca, fin dove può, di aiutare una persona a diventare se stessa, padrona di sé […]. Quale strano ricordo riceve chi ama come riconoscenza per tutto il suo lavoro! Ho lavorato come mai nessuno ha fatto, da mattina a sera, ma quel che ho prodotto è — una lineetta di stacco! […] Ho sofferto, sopportando tutto ciò che un uomo può sopportare, penando nel mio intimo come solo l'amore sa soffrire; ma ho guadagnato una lineetta di stacco! Ho proclamato il vero, in modo chiaro e meditato più di ogni altro; ma chi se l'è appropriato? — una lineetta di stacco!». 5