kierkegaard: un viaggio filosofico nelle emozioni

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kierkegaard: un viaggio filosofico nelle emozioni
KIERKEGAARD: UN VIAGGIO
FILOSOFICO NELLE EMOZIONI
Roberto Zintl
“La mia disgrazia, ovvero ciò che rende la mia vita così ardua, è il fatto che la mia tensione
è di un tono più alta di quella degli altri uomini; e dove sono io, ciò che intraprendo non ha
niente a che fare con la cosa singola, ma sempre con un principio e un’ idea.”
Chiunque prova ad avvicinare direttamente i testi originali della produzione kierkegaardiana
avverte subito che si tratta di un’attività letteraria singolare che non trova riscontro in
nessun’altra letteratura. Si tratta di un giro di pensiero che elude gli schemi di qualsiasi
scuola filosofica: è un’ impressione di sgomento come di fronte a una montagna irta e
impervia senza sentieri o nel turbinare di una tempesta dove sembra venga a mancare ogni
punto di riferimento (Cornalio Fabro, L’enigma di Kierkegaard).
C’è certamente anche in Kierkegaard la complessità dell’opera del genio, ma essenziale
nella comprensione del suo pensiero la concezione di ciò che da senso alla vita, che lui
naturalmente sottolinea in un’ottica di fede. Ecco, l’importante nella vita: aver visto una volta
qualcosa, aver sentito una cosa tanto grande, tanto magnifica che ogni altra sia nulla al suo
confronto e anche se si dimenticasse tutto il resto, quella non la si dimenticherebbe mai più
(Diario di Kierkegaard, 1837).
Appare chiaro quanto ci sia un vincolo tra emozione e pensiero, che spinge la ragione ad
oltrepassare se stessa, a diventare memoria. Pochi hanno compreso come lui il fascino
incontenibile della ricerca in nome del sentimento. In quest’ottica il suo pensiero si è teso
costantemente oltre le sue espressioni, “paradossale”, sempre consapevole dei propri limiti,
sempre attento a ciò che è negato o comunque è lasciato fuori da ogni ambito puramente
logico. Può dirsi opposto del pensiero prettamente contemplativo.
Non si interessa dell’uomo in generale, al contrario vuole interessarsi dell’uomo che siamo
io e tu, e come siamo tutti quanti noi, ciascuno per suo conto, nella sua irripetibile
individualità. Con questa affermazione nasce l’esistenzialismo.
Su che cosa poggia sostanzialmente Kierkegaard la nostra individuale comprensione delle
cose: sulle emozioni. Proviamo ad analizzare ad esempio quell’emozione che Kierkegaard
individua come angoscia. Per il filosofo danese l’angoscia si può paragonare alla vertigine.
Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno
nel suo occhio che nell’abisso, perché deve guardarvi. Così l’angoscia è il vertice della
libertà, che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi e la libertà, guardando giù nella
propria possibilità, afferra il finito per fermarsi in esso. In questa vertigine la libertà cade.
Nell’angoscia è l’infinità della possibilità, che non tenta come una scelta, ma angoscia col
laccio del decidere, del de-cedere e quindi nel focalizzarsi a tagliare via una parte, non ad
individuare una parte. L’uomo acquista la coscienza che tutto è possibile, ma quando tutto è
possibile, è come se nulla fosse possibile. Se i sentimenti guidano il modo con cui ci
facciamo coinvolgere da quel che viviamo e nel sentimento vi è un movimento del sentire,
che pre-dispone conoscenze, comportamenti ed emozioni allora l’angoscia è il sentimento
che ci predispone a dover eliminare una parte o a doverne individuare una possibile. Sta a
noi individuare questa emozione che forse superficialmente ed erroneamente individuiamo
come stress ed ansia e darle un’etichetta cognitiva differente: infinita possibilità di scelta che
va ricondotta al finito.
Il termine intelligenza emotiva usato da Goleman si riferisce alla “capacità di riconoscere i
nostri sentimenti e quelli degli altri e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto
interiormente, quanto nelle relazioni sociali”. Ci pare che in questo il creatore
dell’esistenzialismo non si distanzi, ma che lo anticipi con imbarazzante puntualità.
Come facciamo allora a comprendere lo spirito del genio di Kierkegaard. La chiave
dell’interpretazione è soggettiva, ossia dipende da una decisione radicale da parte nostra di
mettersi in sintonia con la nostra emozione e non rifiutarla o temerla per quanto negativa
possa essere, ma fermarla e per lo meno esprimerla a noi stessi e se possibile agli altri,
questo può consentire di portare alla luce aspetti che possono condizionare il successo di
un processo decisionale.
La conoscenza umana, dice Kierkegaard, si dà tanto da fare per capire, ma se vuole capire
se stessa deve semplicemente stabilire il paradosso: 'L' assurdo, il paradosso, è costruito in
modo che la ragione da sola non può risolverlo e mostrare che non ha senso. Esso è un
segno, un enigma, un enigma di sintesi, di cui la ragione deve dire: è irriducibile,
incomprensibile, ma non perciò un non senso". La malinconia di questo filosofo ci appare
come la notte paradossale della vita che può essere letta per mezzo di una conoscenza
comprensiva e intuitiva che passa tanto attraverso l'affettività, che l'intelletto.