Interventi_files/La Verità è il Singolo
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La Verità è il Singolo (Quaestio quodlibetalis tenuta con S. E. Arcivescovo Bruno Forte nell’Aula Magna dell’Università di Chieti il 05. 03. 2010) La filosofia moderna, da Cartesio fino al postmoderno, ha voluto purificare la soggettività dai limiti propri della finitudine umana, nella prospettiva di un progresso inarrestabile. Da qui le ideologie nate nell’Ottocento e protagoniste della realtà tragica di gran parte del Novecento, con la successiva crisi del soggetto propria del postmoderno. Anche Kierkegaard è un moderno. Non gli sta a cuore l’oggettività ma la soggettività; ma non intende purificarla dai limiti umani, bensì arricchirla andando al fondo di questi. Come gli è stato possibile? Ponendo attenzione a quel particolare soggetto che è il Singolo. È anzitutto la stessa Verità ad essere sommamente interessata al Singolo: non vuole farne un accidente rispetto alla superiore e definitiva sostanzialità di una verità in sé e per sé, ma si pone al suo servizio «accentuandone» proprio l’irriducibile singolarità. Per Kierkegaard «la Verità è il Singolo» nel senso che essa stessa vuole che il Singolo si salvi dalla non verità. Conformemente all’«elasticità dell’eterno» [Evighedens Spændkraft], la Verità vuole che il singolo le sia intimo già intanto che cammina nel tempo, attimo per attimo. Kierkegaard comprese anzitempo i rischi ideologici del pensiero moderno e della cristianità moderna. In lui possiamo trovare riflessioni decisive per ricostruire la soggettività (non per nulla Kierkegaard scrisse innumerevoli Discorsi edificanti, ossia discorsi costruttivi), al riparo non solo dalle ideologie moderne ma anche delle insidie del relativismo postmoderno. Il contributo di Kierkegaard si estende anche alla filosofia classica. Egli è cresciuto alla scuola dei Greci, e ci insegna oggi a guardare ad essi con riconoscenza ma anche con l’impegno critico che la novità cristiana offre al filosofare più rigoroso. Cominciamo con un flash back. Nell’agosto 1835 Kierkegaard, ventiduenne, si chiese cosa fare delle sue doti intellettuali e volitive, che sapeva essere eccezionali. La ricerca della verità gli si impose come meta. Non poteva essere una verità da cercare nel passato o da realizzare nel futuro, ma una verità che fosse una «verità per me», veramente a mio favore, ora e per sempre, a qualsiasi costo, e soprattutto indipendentemente da quello che io penso o vorrei che fosse la verità e il bene per me. La verità per me non potrà dunque essere una mia invenzione ma un dono che mi può essere fatto solo da chi fa solo «doni buoni e perfetti», solo «dal Padre della luce, nel quale non c’è variazione né ombra di cambiamento» (Gc 1, 17), come Kierkegaard pone in luce in due splendici Discorsi edificanti del 1843. Per rendersi capace di accogliere questi doni, che sono in fondo doni di capacità autocritica, Kierkegaard partì da Socrate, non però dal Socrate di Platone, ma dal «grande ironista» che fu pronto a morire non tanto per sfuggire a questa vita (come male lo interpretò Nietzsche), ma per poter continuare anche nell’aldilà a far domande vivendo da ignorante anche nell’aldilà, mai rassegnato a sacrificare la propria singolarità in cambio del possesso di verità oggettive, universali, eterne. Che vantaggio ci sarebbe fruire in un aldilà di una verità che mi imponesse di dimenticarmi di tutto ciò che io sono stato nell’aldiqua, cioè di non essere più me stesso, di essere nessuno? Il Singolo di Kierkegaard non è l’individuo che si chiude in se stesso, ma è l’io che si dispone a incontrare tutto e tutti a condizione di restare se stesso: quel Singolo che è la polarità imprescindibile per ogni rapportarsi. Non si tratta di un’affermazione soggettivistica. Al contrario. Il vero Singolo non vuole imporre la propria soggettività agli altri, ma tener fermo il proprio io per stare di fronte a quello degli altri, e fondamentalmente per restare «davanti a Dio» [for Gud]: quell’Altro che proprio in quanto Trascendente è irriducibile al Singolo in quanto tale, e che per questo costituisce il fondamento della singolarità del Singolo stesso1. Il rapporto Il Singolo è il polo irrinunciabile di ogni rapporto e per il sussistere del rapporto stesso. Solo se c’è il Singolo ci può anche essere qualcosa di altro dal Singolo. Heidegger, introducendo il Dasein quale fondamento dell’«ontologia», ha fatto gran tesoro del Singolo kierkegaardiano, ma con scarsi riconoscimenti da parte sua! Il Singolo è rapporto, «un rapporto che si rapporta a se stesso, e che nel rapportarsi a se stesso si rapporta a un Altro». Questo Altro è Dio «che ha posto l’intero rapporto». In quanto rapporto, il Singolo risulta posto di fronte a ciò che è irriducibile a lui. Il Singolo è un rapporto protagonista: il suo porsi in rapporto con l’altro non è governato dal primato della «sostanza» (Spinoza, Hegel, la tecnica, lo sviluppo senza fine, e ogni forma di ideologia e di evoluzionismo) ma dal primato del rapporto stesso, e in definitiva dal primato dell’amore. Un rapporto d’amore che mirasse all’identità degli amanti sarebbe la morte degli amanti e del loro stesso amore. Per illustrare questo punto Kierkegaard propone un «esperimento poetico». Si immagini che un re (Dio), nel pieno della sua magnificenza, si innamori di una ragazza di umilissima condizione (la creatura umana). Quando tutto è pronto per il fastoso matrimonio, il re viene preso da una «preoccupazione»: la ragazza penserà forse di essere stata semplicemente «fortunata» per essere stata scelta dal re? In questo caso, lei riterrà di non aver propriamente meritato di venire tanto elevata; e un giorno – teme il re - potrebbe addirittura rimpiangere di non aver potuto fruire dell’amore di qualcuno della sua stessa condizione. Il re non può rassegnarsi al pensiero che nel cuore di lei possa insediarsi un tale rivale sempre pronto a ripresentarsi, e non vorrà assolutamente, per evitarle un tale rimpianto, farle dimenticare le sue umili origini: non solo non sarebbe degno di lui ingannarla, ma soprattutto ciò andrebbe proprio contro il fatto che lui la ama come lei, solo lei, è e deve restare nella sua esclusiva singolarità. Nel racconto torna a più riprese il termine «franchezza», «naturalezza» [Frimodighed], ad indicare la qualità della ragazza che il re non vuole che venga assolutamente compromessa dal suo essere stata elevata alla dignità regale. Non si tratta di una dote che lei possieda in particolare e che la renda degna più di ogni altra ragazza di diventare regina. Proprio per evitare che qualche differenza estrinseca alla sua dignità umana possa incrinare la naturalezza, cioè la singolarità, della ragazza, il re dovrà allora abbassarsi a lei, umiliarsi, diventare un «servo», ma non dovrà per questo travestirsi da servo; dovrà invece diventare Per questo Kierkegaard coglie con ironia l’inutilità e la goffaggine delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio, che nel migliore dei casi sono semplicemente inutili: «Se Dio non esiste, allora è certamente impossibile dimostrarne l’esistenza; ma se esiste, è una vera scemenza volerlo dimostrare; poiché precisamente nel momento in cui incomincio la dimostrazione, io l’ho già presupposto non come una cosa dubbia - perché ciò che è dubbio non può essere un presupposto proprio perché è un presupposto – ma come cosa già pacifica, perché altrimenti non avrei incominciato a dimostrarlo, perché si comprende facilmente che tutto ciò sarebbe impossibile se Dio non esistesse» (Z I, 130). 1 2 realmente servo, alla pari di lei. Da questa parità l’amore del re non può prescindere. Egli è pronto a condannare a morte per «lesa maestà contro l’amata» quel consigliere che gli facesse notare che la sua proposta d’amore risulterà irresistibile per un’umile ragazza. L’inter-esse Sennonché in tal modo la preoccupazione del re aumenterà: riuscirà la ragazza a capire che è proprio lei, con tutta la sua «naturalezza», colei di cui il reservo si è innamorato? Non proverà «scandalo» di fronte a un tale «paradossale» pretendente? Questo appunto è il «Paradosso» che viene in luce quando la singolarità del Singolo sta davanti a Dio, a tu per tu con lui, non nonostante, ma in virtù dell’«infinita differenza qualitativa» che separa e mantiene in rapporto Dio e l’uomo. L’irriducibilità a me della verità per me è ciò che più deve starmi a cuore se voglio essere me stesso, esistere come quel Singolo che vuole essere veramente se stesso, diverso da ogni altro, e che per questo è vitalmente interessato a porsi e a restare in rapporto con tutto, disposto a sacrificare ogni tentazione che gli possa venire di identificarsi o di venire identificato con qualcosa di altro da sè. Il Paradosso è la passione del pensare del Singolo perché ne costituisce l’interesse vitale. L’essere del Singolo sta tutto nel suo essere inter-esse, cioè inter-essente con ciò cui si rapporta. Ed anzitutto inter-essente con Dio, perché «il rapportocon-Dio [Guds-Forhold]» è il fondamento di ogni altro possibile rapportarsi. Il Paradosso, lungi dall’essere una concessione all’irrazionalità, è il principio di quel potere critico, ed anzitutto autocritico, che mi consente di porre la vita al servizio della verità per me. Pensare l’essere a prescindere dall’inter-esse vuol dire condannare il mio pensiero a dover fare astrazione da ciò che costituisce la mia passione. Non l’identità, ma il rapporto con il Trascendente è ciò che consente all’uomo di introdurre la nozione dell’essere, di «semantizzarla» in modo radicalmente diverso dal come viene introdotta da Parmenide, e riproposta oggi insistentemente da Severino, spesso con il consenso, in linea di principio, con chi d’altra parte sostiene il creazionismo. La «metafisica» potrà cessare di essere mortificazione della finitudine umana e tornerà ad essere via di edificazione umana se avrà il coraggio di correggere Parmenide, non con il «parricidio» compiuto da Platone e nemmeno con la «sostanza» di Aristotele, e tanto meno con la «dialettica» di Hegel, ma pensando sin dall’inizio l’esse come inter-esse. Per l’uomo «ne va dell’essere» (Heidegger) solo se l’essere viene originariamente articolato come inter-esse (Kierkegaard). L’accadimento cristiano, un fatto storico in nessun modo riducibile a necessità storica, un accadimento che per la maggior parte dei contemporanei di Gesù o dei posteri è stato solo «la novità del giorno» oppure curiosità erudita, per il «discepolo», di ieri e di oggi, è «l’inizio dell’eternità»; sì, è l’inizio nel tempo, in ogni suo attimo, della verità eterna: è quel «mutamento dell’eternità» [Evighedens Forandring] che, lungi dal perpetuare ed approfondire il nichilismo che Severino imputa all’Occidente dimentico di Parmenide, introduce nel mondo l’interesse per lo stesso essere, dà senso all’esistere. Il Paradosso Il credente «comprende» che Il Paradosso, «l’incontro nel tempo con l’Eterno nel tempo», gli consente, in ogni momento del suo esistere nel tempo, di avere a che fare con l’Eterno a tu per tu: «Il Paradosso è ciò che rende eterno ciò che è 3 storico e rende storico l’eterno». (263). Il Paradosso dà tutto se stesso dando all’uomo anche la «condizione» [Betingelse] per venire accolto. Questa condizione è il dono della fede che Dio stesso per amore fa alla ragione che accetta di essere una ragione appassionata di una verità che sia per lei, e per la quale essa è dunque incondizionatamente disposta a morire in ogni attimo. «Ciò accade quando l’intelletto e il Paradosso cozzano l’un l’altro nell’attimo, quando l’intelletto si trae in disparte [skaffer sig selv til Side] e il Paradosso tutto vi si dà [giver sig hen]; e il terzo dove ciò accade (poiché ciò non accade presso l’intelletto che è messo da parte, e nemmeno presso il Paradosso che si offre – dunque accadrà in qualcosa) è quella felice passione […] che vogliamo chiamare la: fede» (261). La fede ha un posto e crea un posto. È un posto grande abbastanza per consentire che il «cozzo» fra ragione e Paradosso sia in verità una «passione felice», ossia il luogo di un amore senza fraintendimenti da parte dell’egoismo. Il luogo della fede è fatto per il rapporto, lo difende dall’imporsi dell’uno o dell’altro di quelli che si mettono in rapporto, è un luogo d’amore, non di violenza. Quale icona di questa felice passione Kierkegaard propone la «peccatrice» di cui racconta il Vangelo di Luca (7, 37-50). Ai piedi di Gesù, che lei lava con le sue lacrime e asciuga con i suoi capelli, la peccatrice, della quale Luca non ci dice nemmeno il nome, dimentica tutta se stessa, persino i suoi molti peccati, ma proprio in tal modo si rende capace di amare molto e così molto le viene perdonato. Davanti al Paradosso la ragione, la ragione del Singolo, non si annulla: il Singolo scopre anzi di avere una ragione capace di amare molto e di venire molto amata. La passione fra la ragione del Singolo e il Paradosso è «felice» solo se non viene velata da alcun possibile fraintendimento. L’irriducibile trascendere di Dio fa sì che l’uomo gli possa stare veramente davanti «nell'appropriazione della più appassionata interiorità», con tutta la sua consistenza esistenziale, dunque con tutto se stesso, così come Dio pone a rischio tutto se stesso in quanto amore incondizionato per l’uomo. L’uomo e Dio sono inter-essenti, alla pari interessati al rapporto che nell’amore li lega in virtù del loro stesso infinito differire. Il loro rapportarsi non sarebbe possibile se fosse tale solo «fino a un certo punto». Il pari a pari dell’eternità Vi è una precisa ed inderogabile legge a tutela di questo rapporto fra rapporti protagonisti di rapporti. È la legge del «pari a pari» [lige for lige], una legge «altrettanto severa quanto mite». Kierkegaard la ricava dalle parole con cui Gesù rispose alla richiesta di aiuto del centurione: «Ti sia fatto come hai creduto» (Mt 8, 13). Questa legge è stata scoperta dal cristianesimo, e di essa il cristianesimo ha fatto un cardine di quella «nuova etica» che Kierkegaard chiama anche «scienza nuova»: «Il cristianesimo ha cancellato il pari a pari giudaico dell'«occhio per occhio e dente per dente»2, ma ha messo al suo posto il pari a pari cristiano dell'eternità. Il cristianesimo […] fa di ogni tuo rapporto con gli altri uomini un rapporto-con-Dio: la conseguenza è che il pari a pari ti verrà applicato sia nell'uno sia nell'altro di questi due riferimenti»3. Nel caso del perdono, ad esempio, l’uomo dovrà tenere presente che verrà da Dio perdonato «come» egli avrà perdonato al suo prossimo: 2 3 Cfr. Mt 5, 38-42. Kierkegaard, Gli atti dell’amore, cit., p. 401. 4 «Il pensiero del cristianesimo è: perdono è perdono; il tuo essere perdonat è il tuo perdonare; il tuo perdono a un altro è il perdono tuo proprio; il perdono che dai lo ricevi, e non, alla rovescia, il perdono che ricevi lo dai. […] Dio ti perdona né più né meno né diversamente da come tu perdoni ai tuoi debitori. È solo un'illusione dei sensi ritenere che si possa avere il perdono per se stessi ed essere pigri nel perdonare agli altri»4. Il pari a pari cristiano non smentisce «l’infinita differenza qualitativa» fra l’uomo e Dio, ne fonda anzi la possibilità; non pone sullo stesso piano la sostanza-uomo e la sostanza-Dio», bensì istituisce «la parentela dell’uomo con Dio» [Menneskets Slægtskab med Gud]5 che diviene efficace ogni volta che l’uomo compie un atto d’amore, ma che è sempre a disposizione di ogni uomo proprio perché ogni uomo, in quanto amato da Dio, è fatto per essere divino sul piano dell’amore. Il prossimo Se Dio ha stretto parentela d’amore con ogni uomo, allora ogni Singolo uomo è parente in amore di tutti i singoli uomini, e tutti gli uomini sono in Dio uguali a lui: «uguaglianza dell’eternità». La novità cristiana introduce nell’antropologia la scoperta che nella definizione stessa di uomo si deve immettere il suo essere «il prossimo»: il prossimo in amore di ogni altro uomo. Da solo l’uomo non sarebbe mai riuscito a scoprire di essere capace di vincere l’egoismo e di amare il prossimo, anzi, non avrebbe nemmeno sospettato l’esistenza de «il prossimo», anche se ogni altro uomo è il prossimo di ogni singolo uomo «perché «il prossimo» è proprio ogni uomo» (59): «A distanza ognuno conosce il prossimo, eppure è impossibile vederlo a distanza; finché non lo vedi così vicino da vederlo in ogni uomo, incondizionatamente, davanti a Dio, tu non lo vedi affatto» (85). Il «prossimo» e il «dovere» di amarlo diventano elementi imprescindibili per la definizione stessa di uomo: «Il cristianesimo non ha nulla in contrario al fatto che il marito ami la moglie in modo particolare; ma non la deve amare in modo tanto particolare da farne un'eccezione rispetto al fatto che lei è il prossimo»6. Il dovere di amare il prossimo salva ogni differenza terrena dall’autoinganno della chiusura egoistica in sé, la fa essere veramente se stessa, e così la «eleva» per la via più breve all’incondizionata capacità di amare e di essere amata. Diversamente da ogni uguaglianza proposta e predicata in precedenza, il cristianesimo, «mediante la scorciatoia dell'eternità [Evighedens Gjenvei], è subito alla meta: lascia che restino tutte le differenze, ma insegna l'uguaglianza dell'eternità [Evighedens Ligelighed]. Esso insegna che ognuno deve elevarsi al di sopra della differenza terrena», […] lascia che restino tutte le differenze della vita terrena; ma nel comandamento dell'amore, nell'amare il prossimo, è contenuta proprio questa uguaglianza dell'elevarsi al di sopra del differire della vita terrena»7. L’uguaglianza cristiana si raggiunge «subito» in ogni atto d’amore, ed è uguaglianza al vertice. Ogni uomo, anche il più misero, è in grado di compiere atti d’amore. 4 5 6 7 Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, p. 404. pp. 84-85. p. 163. p. 94. 5 Questa uguaglianza al vertice è già data nello stesso comandamento dell’amore del prossimo, formulato dall’Evangelo in modo tale da porre a disposizione di chi ama nientemeno che il suo stesso egoismo: «Che meraviglia! Si possono certo tenere ampi ed acuti discorsi sul come un uomo debba amare il suo prossimo; ma l’egoismo, dopo che li ha uditi, potrebbe ancora inventare scuse e trovare scappatoie […]. Ma questa parola, “come te stesso” — sì, nessun lottatore è capace di avvinghiare chi sta lottando con lui così come sa fare questo precetto con l’egoismo, immobilizzandolo»8. Presupporre amore Kierkegaard dà a questo pensiero uno sviluppo decisivo: se devo amare il prossimo come me stesso, allora devo volere bene anzitutto a me stesso, ma vorrò tanto più bene a me a stesso se presupporrò che nell’altro che amo è presente più amore di quanto è in me stesso; dovrò presupporre amore nell’altro, presupporre che nell’altro ci sia più amore che in me stesso, anche qualora l’altro mi ingannasse e io lo sapessi. Chi ama deve presupporre un’eccedenza d’amore, che potrà fungere da riserva critica affinché il suo amore non sia in definitiva celato egoismo. Quanta più sarà l’eccedenza d’amore presupposta nell’altro e tanto maggiore sarà la verità su di sé che il Singolo potrà acquisire, una verità che non potrà non essere amara, ma indispensabile per vincere con l’amore l’egoismo che è nel fondo di ogni uomo. Una vittoria radicale sarà possibile solo se il Singolo presupporrà che il Trascendente, Dio, è l’Amore, e deciderà anzitutto di amare Dio per vincere il proprio egoismo e divenire così capace di amare anche il prossimo: «Amare Dio è in verità amare se stessi; aiutare un altro uomo ad amare Dio è amare un altro uomo; venire aiutati da un altro uomo ad amare Dio è essere amati» (111). Gli atti dell’amore sono una scoperta cristiana. Essi esprimono un dovere che è già azione, un debito che è già fruizione, un imperativo che viene da Dio ma che è anche «accentuazione dell’interiorità» umana. Sono la realizzazione e il contenuto di quella «verità per me» che il ventiduenne Kierkegaard si era proposto come obiettivo quando decise il modo di impegnare davanti a Dio le proprie doti di filosofo, di scrittore e di cristiano. Il cammino che porta dall’amore alla verità è il filo conduttore dei diciotto Discorsi contenuti in Gli atti dell’amore: «Credo che l'amore sia questo: nel comunicare la verità essere disposti a fare personalmente ogni sacrificio, ma senza sacrificare nemmeno un briciolo della verità» (364). L’edificante Davanti all’incommensurabile e irriducibile eccedenza dell’amore di Dio il Singolo ha sempre torto, non fosse altro perché Dio lo ha amato per primo. Ma questo aver sempre torto, lungi dall’annichilirlo, edifica il Singolo. L’«edificare» e «l’edificante» sono espressioni ricorrenti nel NT. Kierkegaard nota che sono frutto dell’uso metaforico cui il linguaggio umano fa ricorso, spesso in modo felice, come in questo caso da parte del NT. Una casa viene edificata in senso vero e proprio non quando viene semplicemente innalzata di un piano, ma quando viene innalzata a partire dalle fondamenta. Così accade anche per l’edificazione dell’io, che non può avvenire che sulla base di fondamenta che devono essere sempre più profonde quanto più l’io deve innalzarsi di fronte a Dio. Lo scavo delle 8 Ivi, p. 38. 6 fondamenta sta nell’«avere sempre torto davanti a Dio»9 Questo scavo è edificante per due motivi: in primo luogo mi pone in rapporto costante con Dio, non importa se avendo sempre torto di fronte a lui, e così scopro di essere capax Dei; in secondo luogo, il costante pensiero di avere sempre torto davanti a Dio mi libera dalla tentazione di soffermarmi a misurare circa il dove finisce il mio aver ragione e comincia il mio avere torto; se so di avere sempre torto davanti a Dio, allora non mi resta che amare chi incondizionatamente mi ama nonostante il mio aver torto proprio davanti a Lui. Quanto più grande è il «dovere» di amare e tanto più aumenta la traduzione in «atto» dello stesso amore, senza che mai venga meno il debito, senza che mai il debito d’amore cessi di venire onorato dal dono dello stesso amore: ripetizione dello stesso amore nel debito e nella donazione: «Raddoppiamento». Nessuno potrà sottrarmi a tanto amore, ed io mi guarderò bene dal porre limiti ad esso commisurandolo al mio. L’unica mia preoccupazione sarà amare subito e sempre di più «perché solo la verità che edifica è verità per me» (cfr. SV3, III, p. 400; tr. Cortese, I, p. 274). Fede come arte dell’esistere Il postmoderno ha voluto «decostruire» la soggettività, ritenuta responsabile di quelle «grandi narrazioni» [Lyotard] che sono poi servite da fondamento alle ideologie. Il Singolo, invece, costruisce se stesso sulla base di un sapere autocritico – Kierkegaard lo chiama «autopsia della fede» - che gli consente di sottrarsi alla tentazione del possesso della verità, cioè di una verità resa oggetto delle pretese del soggetto: «La verità è l’incertezza appassionata interiorità». oggettiva mantenuta nell’appropriazione della più Il mantenimento dell’incertezza oggettiva è giusto l’opposto dello scetticismo o dell’agnosticismo; implica certo la rinuncia al possesso della Verità, ma affinché il soggetto possa starle davanti, in continuo rapporto con essa, impegnando tutta la propria integra soggettività, mai disposta ad alienarsi, nemmeno a favore di verità eterne, se impersonali. L’interiorità si appropria di se stessa solo se resta in rapporto con una verità eterna avente natura radicalmente diversa dall’incontrovertibilità del vero inseguita dall’episteme dei greci e dallo scientismo moderno, solo se essa non è più da sola alla ricerca di certezze eterne. La «predica dimissoria» che abilitò Kierkegaard alla professione di pastore si intitola La sapienza segreta, e si tratta dell’esegesi di 1 Cor 2, 6-9 (cit. da Is.): «Quelle cose che occhio non ha visto e orecchio non ha udito, e che non sorsero in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano». Questa sapienza segreta, conclude Kierkegaard, «vuole riconciliarti con te stesso, ma non per mezzo di te stesso». Il massimo di interiorità viene raggiunto con l’apertura incondizionata a ciò a cui il Singolo si apre non scandalizzandosi del Paradosso. Ne viene una nuova concezione dell’atto di fede: non più un «tenere per vero» qualcosa in mancanza di verità sperimentate o dimostrate, ma un farsi tenere dal vero. La fede del Singolo e nel Singolo non può più essere sospettata di essere dovuta ad un gesto rinunciatario nei confronti delle capacità della ragione; va 9 Al termine di Enten-Eller, la predica che lo pseudonimo giudice Wilhelm dice di avere ricevuto per lettera da un suo amico, prete di campagna nella brughiera dello Jylland, appunto intitolata L’edificante che sta nel pensiero che di fronte a Dio noi abbiamo sempre torto. 7 invece valutata come un’accentuazione dell’interiorità, certamente come un dono, ma un dono che rende il singolo ancor più se medesimo. La fede nel Paradosso è «l’arte dell’esistere [Existents-Kunst]», un’arte che il cristiano, non fosse altro che per «amor del prossimo», metterà con gioia a disposizione anche dei non credenti, purché «cercatori di Dio». Con sant’Agostino Kierkegaard spesso afferma che i vertici raggiunti dall’etica classica sono solo «splendidi vizi» se paragonati all’etica dell’amore di Dio e del prossimo dell’annuncio cristiano. Infatti, l’egoismo non può essere vinto finché la soggettività si sforza di uscire da sé con i suoi soli mezzi. Nessuna mediazione intellettuale, né se basata sul principio di non contraddizione né sul suo superamento ed inveramento dialettico, riuscirà mai a portarsi oltre la barriera trascendentale del pensare. Non la mediazione della soggettività con se stessa, ma la fede nel Paradosso può aprire alla soggettività lo spazio adeguato per un rapporto con il Trascendente che non sia condannato a ricadere nell’immanenza: «La saggezza mondana ritiene che l'amore è un rapporto fra uomo e uomo, il cristianesimo insegna che l'amore è un rapporto fra uomo — Dio — uomo, cioè che Dio è la determinazione-che-media» (111). Il singolo di Kierkegaard e la filosofia di oggi Il cristianesimo insegna all’uomo, anche se non credente, che può fare cose che senza il cristianesimo non sarebbe mai venuto a conoscere di essere in grado di compiere. Gli fa conoscere, fra l’altro, che può «credere tutto» (cfr 1 Cor 13) senza venire mai ingannato; che può «sperare tutto» senza mai doversene vergognare; che può essere misericordioso «anche quando non può fare nulla e dare nulla», e soprattutto che può amare il prossimo non solo indipendentemente da ogni reciprocità, ma che lo può amare di amore eterno, come esige ogni vero amore. Con il cristianesimo accade quella «serietà dell’eternità» [Evighedens Alvor], quella «misura dell’eternità», quella «maturità dell’eternità» [Evighedens Kraftmaal], quel «differente linguaggio dell’eternità» [Evighedens Sprogforskjel] che consentono anche alla filosofia tout court di depurare ed accentuare la portata di concetti di cui non possiamo non servirci, ma che oggi sono sospettati di essere solo strumenti della volontà di potenza dell’Occidente. Il contributo propriamente filosofico di Kierkegaard può essere condensato in alcune tesi fondamentali. Fra le più attuali indico le seguenti: 1) Il vero soggetto è il Singolo che, a differenza del soggetto della modernità, ha sempre torto davanti alla Verità, e che proprio per questo è sempre in compagnia di questa; 2) «L’essere» è originariamente inter-esse, ama la differenza e sta a fondamento di quel divenire che è accentuazione del differire della differenza; 3) L’uomo non è animal rationale, concezione sempre in procinto di far prevalere l’una o l’altra di queste componenti (per Heidegger solo dell’animalitas!), ma un rapporto protagonista di rapporti con altri rapporti protagonisti, è un rapporto anzitutto con Dio, e con il prossimo sulla base del rapporto con Dio; 4) L’uomo è capace di atti dell’amore, che a differenza delle «virtù», tanto etiche quanto dianoetiche, mai possono essere sospettati di autoreferenzialità, di egoismo; 8 5) Fede e ragione devono essere poste sul banco di prova del Paradosso, e così il loro confronto viene sottratto al rischio di risolversi in fideismo o razionalismo, oppure nell’improponibilità del confronto stesso10. Dello spessore filosofico dell’opera di Kierkegaard si accorse ben presto il giovane Heidegger quando, facendo le bucce allo Jaspers della “Psychologie der Weltanschauungen”, portò proprio Kierkegaard quale modello di rigore filosofico: «Per quanto concerne Kierkegaard, si deve richiamare l'attenzione sul fatto che non di frequente si è pervenuti in filosofia o in teologia (qui non importa dove) a una tale elevatezza di rigorosa coscienza del metodo [eine solche Höhe strengen Methodenbewußtseins] quale è stata raggiunta proprio da lui. Se si trascura questa coscienza del metodo, o meglio se la si considera secondaria, ci si priva proprio di ciò che in Kierkegaard è la cosa decisiva. […] L’appropriazione degli oggetti della filosofia dipende da un rigore nel compimento del metodo [eine Strenge methodischen Vollzugs] che si lascia alle spalle quello di ogni scienza, poiché nella scienza è decisiva solo l’esigenza contenutistica, mentre coappartiene alle cose della filosofia anche lo stesso filosofante [der Philosophierende] e la (sua) notoria penuria».11 Queste tesi, e anzitutto il costante riferimento al Singolo, favoriscono anche l’approfondimento, di cui oggi si sente particolarmente bisogno, del concetto di persona, non fosse altro per sottrarlo al sospetto di essere la proiezione di una concezione unilaterale dei diritti e dei doveri dell’uomo, o di una visione dell’uomo unilateralmente occidentale (cfr. R. Esposito). 11 Martin Heidegger, Anmerkungen zu Karl Jaspers' “Psychologie der Weltanschauungen”, in Id., Wegmarken, Gesamtausgabe 9, Frankfurt a. M. 1976, pp. 41-42. Questo testo fu pubblicato per la prima volta dopo la morte di Jaspers nel volume celebrativo, a cura di H. Sahner, Jaspers in der Diskussion, München 1973, pp. 70-110. 10 9