Perché non basta tagliare il debito di Atene

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Perché non basta tagliare il debito di Atene
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Perché non basta tagliare il debito di Atene
07.07.15
Nicola Borri e Pietro Reichlin
La crisi del debito insegna che è più facile realizzare le riforme strutturali quando la permanenza nell’Eurozona è messa in discussione. Ed è
la disponibilità a farle che il governo greco deve dimostrare, mentre torna a chiedere con forza la riduzione del debito dopo la vittoria del
“no”.
Perché non basta tagliare il debito
Dopo la vittoria del “no” al referendum, Syriza chiederà con più forza il taglio del debito per risolvere la crisi greca. E molti commentatori
sembrano condividere la richiesta. L’idea è semplice: tagliare (o ristrutturare) il debito imponendo perdite consistenti ai creditori può essere
la soluzione migliore se poi spinge i governi a realizzare riforme strutturali, e, così, dare impulso alle loro economie. Perché, quindi, non
fare la stessa cosa con la Grecia, accettando quanto chiede Tsipras? A noi sembra che questa analisi sia discutibile. In primo luogo, il
paragone con esperienze passate di successo come quelle del piano Brady non ci sembra calzante (si veda per esempio qui). Il principale
obiettivo di quel piano fu di permettere alle banche commerciali di cartolarizzare i propri prestiti, illiquidi, ai paesi in via di sviluppo (in
particolare dell’America Latina) in modo da potere poi più facilmente eliminarli dai bilanci. Nel caso della Grecia, invece, la quasi totalità del
debito è a carico di poche istituzioni pubbliche. In secondo luogo, Atene ha già beneficiato di un bail-out tra i più consistenti nella storia
dell’ultimo mezzo secolo, nel 2011. Il profilo delle scadenze del debito residuo, e i tassi d’interesse medi, implicano oneri relativamente
bassi rispetto alla consistenza del debito, e certamente inferiori a quelli di altri paesi periferici, tra cui l’Italia. Secondo i calcoli del 2012 di
Jeromin Zettelmeyer, Christoph Trebesch e G. Mitu Gulati, l’haircut imposto ai creditori privati della Grecia è stato superiore a quello attuato
con il piano Brady e, a questo, si devono aggiungere, a partire dal 2010, circa 200 miliardi di finanziamenti dalle istituzioni internazionali a
tassi di interesse di favore, oltre che l’allungamento delle scadenze e i crediti della Banca centrale europea al sistema finanziario greco.
La domanda è come mai tutto ciò non abbia prodotto i frutti sperati?
L’origine dei problemi della Grecia
Una prima ipotesi è che la dimensione del bail-out sia stata insufficiente. In alternativa, vi è la possibilità che l’alleggerimento del debito non
induca necessariamente i governi a scegliere programmi pro-crescita. La dimensione del salvataggio greco, come per molti altri episodi
simili, è stata il risultato di una trattativa tra creditori privati e stato sovrano, supportata da vari organismi ufficiali (come il Fondo monetario
internazionale), il cui esito è dipeso dal diverso potere contrattuale e dall’intreccio di interessi molto diversi. Per esempio, molte delle
politiche di consolidamento fiscale che il governo greco ha dovuto adottare, per quanto dolorose, erano il minimo indispensabile per
impedire che il costo del fallimento per i contribuenti europei lievitasse oltre misura. Inoltre, non è credibile la tesi secondo cui tutto ciò che
succede ora in Grecia sia conseguenza delle politiche di austerità. L’economia greca era tornata a crescere nel 2014 e il brusco ritorno alla
recessione, unito al calo del gettito fiscale e alla fuga dei depositi, sembra essere principalmente l’effetto dell’incertezza e delle strategie
caotiche del nuovo governo. Alcuni sostengono che senza il peso del debito, e dei suoi interessi, il governo greco avrebbe il respiro per
riformare in maniera autonoma l’economia, partendo da pensioni, evasione fiscale e razionalizzazione del sistema amministrativo. Questa
tesi non ci convince. Innanzi tutto, come mostra il susseguirsi degli eventi delle ultime settimane, il governo greco non è un interlocutore
credibile: basti pensare al programma elettorale di Syriza, secondo cui tutte le riforme del precedente governo dovrebbero essere riviste. In
secondo luogo, l’esperienza della crisi del debito sovrano europeo ha fornito sufficienti prove che è più facile fare le riforme strutturali
quando la permanenza nell’Eurozona è messa in discussione. E questo vale non soltanto per la Grecia, ma anche per gli altri paesi della
periferia, Italia inclusa. In una recente ricerca, Jesus Fernandez-Villaverde, Luis Garicano e Tano Santos suggeriscono come l’adozione
dell’euro abbia ritardato, anziché accelerato, le riforme nella periferia dell’area, proprio per il rilassamento del vincolo di bilancio.
Alcuni osservatori, anche molto autorevoli, ritengono che le richieste dei creditori europei e dell’Fmi siano un attentato alla democrazia. Non
c’è dubbio che un governo, sostenuto dal mandato dei propri elettori, debba potere scegliere in libertà quali riforme strutturali portare
avanti. Allo stesso tempo, quando lo stesso governo richiede l’aiuto, o la solidarietà, di altri paesi, pecca per lo meno di ingenuità nel
pensare che questi ultimi non possano chiedere il rispetto di determinate condizioni.
Le istituzioni europee dovranno aiutare la Grecia ancora a lungo, anche accettando, probabilmente, un’ulteriore ristrutturazione del debito,
ma la trattativa di questi giorni riguarda in primo luogo la disponibilità e le garanzie che il governo greco è disposto a offrire per tornare alla
crescita. Non dimentichiamo che i problemi dell’economia greca non sono causati da uno shock reale temporaneo, o da un calo della
domanda. Il paese vive al di sopra dei propri mezzi almeno dall’inizio degli anni Ottanta, e nessuna strategia finanziaria darà ai cittadini
greci la ricchezza, gonfiata da aiuti massicci e credito facile, che credevano di avere.
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In questo articolo si parla di: crisi, debito, eurozona, grecia, referendum, riforme, Tsipras
BIO DELL'AUTORE
NICOLA BORRI
E' ricercatore della Luiss Guido Carli dal 2009. Dopo laurea e master in Economia Politica all’Università Bocconi, ha conseguito il PhD in
Economics presso la Boston University. Le sue principali aree di ricerca sono asset pricing e finanza internazionale. Il suo paper
Sovereign Risk Premia (con Adrien Verdelhan) ha vinto il premio come miglior paper del ABI Country Risk Forum e il 2010 WRDS Best
Paper Award della European Financial Management Association.
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PIETRO REICHLIN
Professore Ordinario di Economia Politica presso la LUISS G. Carli, Research Fellow del CEPR, Senior Fellow RCEA, CoEditor di Research in Economics. Ha conseguito il PhD in Economia presso la Columbia University, New York. E' stato
professore di ruolo presso le università di Roma La Sapienza, Chieti, Napoli Federico II, visiting professor presso la
Columbia University, UCLA, University of Pennsylvania, Jean Monnet Fellow presso l'Istituto Universitario Europeo,
prorettore alla ricerca della LUISS G. Carli dal 2011 al 2012.
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