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D I A L E T T O E POESIA N E O D I A L E T T A L E Franco Brevini è nato nel 1951. Ha pubblicato fra l'altro: Pasolini (Mondadori, 1981), Lo stile lombardo. La tradizione letteraria da Bonvesin da la Riva a Franco Loi (Pantarei, 1984), Poeti dialettali del Novecento (Einaudi, 1987), La biblioteca di Mercurio. Interventi critici 1982-1988 (Martesana, 1989), Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo (Einaudi, 1990), L'orologio di Noventa (Guerini e Associati, 1992). Ha allestito le edizioni critiche delle Poesie milanesi del Parini (Scheiwiller, 1987) e delle Poesie milanesi e toscane di Francesco Girolamo Corio (Scheiwiller, 1988) e ha curato i testi dei maggiori autori dialettali contemporanei, oltre ai volumi: La scoperta dell'America e altri sonetti di Pascarella (Mondadori, 1989), L'astronomo di Nino Pedretti (Mondadori, 1992), Tutte le novelle di De Marchi (Mondadori, 1992). Suoi studi sono apparsi su Belfagor, Otto-Novecento, Lengua, Diverse Lingue, Sigma, Il Ponte, l'indice, La Rivista dei Libri, Nuovi Argomenti. Insegna nelle università di Urbino e di Bergamo. Collabora a Panorama e al Corriere della Sera. QUATTRO DOMANDE A FRANCO BREVINI: Dove nasce il suo interesse per la letteratura in dialetto? Primo scenario. Il più antico ricordo della mia casa è legato a un bilocale border-line, in un edificio pieno di sussiego piccolo-borghese in faccia alla confusa allegria dei rioni popolari. Dalla finestra del tinello (così lo sentivo chiamare) lo sguardo spaziava sull'ingrato 121 panorama delle case popolari, che si stendevano oltre i tigli del viale. Capivo che i miei genitori avevano piacere che io frequentassi i bambini che abitavano come noi al di qua di quel labile confine fatto solo di verde. Ma come spiegargli che era solo con quelli di là, non con gli altri, tutti Märklin e Lego, che al gioco si aggiungeva qualche temerario brivido picaresco? Ancora oggi, quando sento pronunciare i nomi di quelle vie e piazze vietate — Preneste, Zamagna, Tracia, Selinunte — devo fare uno sforzo per associarvi la calma immagine della Klassik. Secondo scenario. L'estate ci trasferivamo in un paese della bergamasca, dove era nata mia madre. La casa della zia era nuova e anonima, ma dietro era rimasto il fienile, quartier generale di quelli che, con inoppugnabile lezione anglo-bergamasca, si chiamavano i cauboi de la buschina (la buschina era una ripida costa ricoperta di vegetazione dove ci scontravamo con le bande del paese di fronte). Superata la fase del milanes col cül de pes (traduco solo il finale "pizzo"), fui accolto, garante mio cugino, tra quella banda di giovani scavezzacolli. E quando videro che anch'io aspramente eruttavo le sillabe di quell'irta lingua materna, Γ iniziazione potè dirsi conclusa. La mia naturale supremazia di cittadino, con televisione in casa e dunque consumata competenza rin-tin-tinica, mi valse presto il comando. Se quel fienile, ricolmo di un meraviglioso disordine — cassette, copertoni, assi, attrezzi agricoli — era il quartier generale, le capanne sugli alberi della buschina erano gli avamposti. Ci si inerpicava di ramo in ramo, il fido tirasassi pendulo nella tasca posteriore, inevitabilmente appesantita da qualche munizione, e si raggiungeva la precaria piattaforma. Il fiume che splendeva nella vallata mandava il suo fragore, mentre vento e foglie, il vento del pomeriggio, oscillavano interminabilmente. Dai paesi intorno suonavano le ore. Più tardi, con le prime ombre, saremmo scesi per sorprendere tra i sassi della corrente i gamberi. Ma ora il nostro orecchio si tendeva per cogliere il fruscio del piede nemico, che veniva a portare la rovina in quei nostri nascondigli fatti d'aria. Terzo scenario. Adolescenza e giovinezza le trascorsi a Milano in una casa del quartiere Gallaratese, ancora una volta di frontiera: alle spalle l'incerto decoro del quartiere Comina, di fronte gli immensi casermoni dei meridionali. Per vent'anni ho studiato avendo davanti un "cinque-ante-svedese-due-stagioni," secondo Γ icastica definizione del mobiliere di Lissone, con quel finale che sapeva di pizzeria e di "asporto." In mezzo ai due letti venne collocata una scrivania metallica color albicocca, forse per accompagnare le venature del tek. Alle spalle 122 due operai di mio padre installarono un giorno un monumentale scaffale in legno come ne avevo visti tante volte alla mutua. L'Alfa Romeo, con illuminato mecenatismo, svendeva vecchi mobili d'ufficio, in modo che i dipendenti, dopo averli avuti davanti agli occhi per tante ore al lavoro, potessero ritrovarseli anche a casa. Oggi i libri mi sono inviati per le recensioni, ma allora per procurarmeli spendevo tutti i risparmi. L'inesorabile espansione della biblioteca mi aveva suggerito, con sprezzatura tutta sessantottesca, di elevare sopra il famoso catafalco Alfa Romeo un castello di mattoni e tavole di legno che sfiorava il soffitto. La ricerca di un volume all'ultimo piano richiedeva delicate manovre. Per anni ho vissuto con l'inconfessato terrore che quel precario edificio culturale rovinasse sul suo ideatore, punendolo per tanta superbia. Il rimprovero per i miei debordanti interessi culturali, che mi sottraevano all'impegno politico, mi era spesso rivolto dai compagni d'università. Sabati sera trascorsi in appassionate discussioni su tappeti preziosamente esotici a scelti indirizzi milanesi. Il ritorno in motorino da quelle severe case di via Lanzone, di via Mozart, di via Conservatorio era un viaggio. Andando a riporre il Ciao in cantina osservavo i casermoni dei meridionali perduti nella nebbia, dove era accesa solo la luce di qualche gabinetto, e mi chiedevo cosa dovessi fare per servire il popolo. Conclusione. Oggi abito anch'io a un discreto indirizzo, la mia libreria è meno precaria di un tempo, non giro più in motorino. Forse, tuttavia, capisco cosa c'era dietro al fatto che già allora preferivo Porta e Belli ad Alfieri e Foscolo. Mi hanno chiesto spesso perché abbia dedicato i miei interessi di studioso alla tradizione letteraria in dialetto. Ho dato risposte diverse, ma ogni volta a ricomparire dentro di me erano il viale dei tigli, il mio esitante bergamasco, il casermone nella nebbia. Il dialetto è lingua materna ο può essere anche paterna? È lingua della memoria ο lingua tuttora attuale? La polarità uso materno-uso paterno del dialetto è certo molto rilevante. Il secondo aspetto, quello paterno ο fraterno, è quello sul quale meno si è riflettuto, mentre, a fronte della lingua-zombie dei media e della grande kermesse dello spettacolo e del consumo (merendina, zainetto, pretensionatore, blobbare, ecc.), il dialetto oppone il suo storico rapporto 123 con il mondo del corporeo, della concretezza, dell'economico e del fabbrile. In tal senso riesce proprio l'opposto della lingua materna: è il codice dell'incoercibilità e del limite in senso freudiano. Questa consapevolezza si ritrova soprattutto nei grandi dialettali del passato, che si sono mantenuti fedeli alla prosa struggente e irredenta del quotidiano. "Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu." La dissipazione su cui si concludono I Malavoglia è della stessa natura di tanto "inessenziale" che occupa i versi di Porta, Belli, Tessa. Nella visione tragica il quotidiano è dispersione. Ciò che conta è il manifestarsi di un vero che lo trascende. Nel dialettale, invece, non c'è alcun dualismo platonico, non c'è scelta tra immersione e distacco, non ci sono ascesi, né sorrisi di superiorità, al modo, per intenderci, del Panzini di Il padrone sono me. I cieli dei dialettali sono quelli di travi annerite dal fumo delle case dei loro personaggi: grevi come coperchi, non certo squarciati sui cieli biblici ο pagani degli affreschi delle dimore signorili. Se c'è un significato nel mondo del dialettale, va ricercato nello "scempio di triti fatti," nell'"opaca trafila delle cose." La vita non è redenta da un logos, l'ordine infranto non sarà ripristinato. Se I promessi sposi approdano a uno scioglimento, annunciando il disegno provvidenziale, La Ninetta del Verzee conclude la sua storia di creatura tradita e violata sigillando con gli atti minuti della professione il proprio destino di vinta. Nel grande autore quella realtà materiale non è più il mondo alla rovescia, che si colora di comico: è l'unico, immodificabile orizzonte accordatogli dalla sua lingua. Al dialettale spetta testimoniare questi inferi, questa esperienza, per citare di nuovo Sereni, "avvinta alla catena della necessità." Dove c'è cura, lì attende la verità, sembra la sua conclusione. Ma su un altro piano, più strettamente legato alla dimensione retorico-letteraria, mi pare non meno decisiva una diversa opposizione. Da una parte sempre il dialetto come Muttersprache, strumento ricco di risonanze autobiografiche, lingua del profondo, tendente verso il balbettio, l'onomatopea, il fantasma fonosimbolico, il petél. Siamo vicini a quello che Pascoli aveva definito il pre-grammaticale. Dall'altra il dialetto vissuto invece come lingua speciale, postgrammaticale, idioma raffinato, raro, squisito, dunque parnassiano ο alessandrino, destinato alla sperimentazione letteraria. Il che ci 124 riconduce nell'alveo della più accreditata tradizione del decadentismo. Quanto alla seconda parte della domanda — il dialetto lingua d'uso ο reperto? — porrei un discrimine cronologico. Fino agli anni Cinquanta il gioco linguistico del parlante si svolgeva su due piani: il dialetto per i rapporti privati e per talune occasioni della vita pubblica in cui sottolineare i valori di ascription* e l'italiano nelle situazioni ufficiali ο in cui fosse richiesta una certa formalità. Dopo di allora le cose cambiano. La corrosione dei dialetti va di pari passo con la distruzione delle culture tradizionali operata dalla modernizzazione, dal boom come si diceva. Certamente per i neodialettali lo scrivere in dialetto coincide irrimediabilmente con una fuga nel passato. Se ancora lo si usa, il dialetto non è certo quello di cui si serve il poeta. Il romanesco è quello di Moravia ο del cinema. Per dare più spessore alla propria lingua, per rimarcare lo scarto dall'italiano il poeta sente il bisogno di risalire verso i dialetti dei padri e dei nonni. La pratica dell'arcaismo diviene strumento di "fedeltà al dialetto." Si tenga presente che questa pratica dell'arcaismo si coniugava con una scelta letteraria vistosamente controcorrente. Mentre tutto un settore della nostra letteratura rompeva con la convenzione novecentesca (si pensi alla neoavanguardia), importando sulla pagina il magma dei nuovi codici sociali, la poesia dialettale opponeva un modello di integrità linguistica e antropologica. Gli uni si opponevano al novecentismo guardando più avanti, gli altri guardando più indietro. Il dialetto è lingua contadina ο anche urbana, usata dai ceti non subalterni? Il dialetto è stata per secoli una lingua caratterizzata dalla massima latitudine diastatica. Lo parlavano Giovannin Bongee non meno che il conte Alessandro Manzoni. Non c'è bisogno di ricordare come per secoli i dialetti furono semplicemente le lingue dei diversi stati in cui era suddivisa la penisola. Lingue a pieno titolo, impiegate ogni giorno nella comunicazione da tutte le classi sociali. Manzoni scriveva nel Sentir messa: E chi pur tiene che i dialetti siano circoscritti a poche materie e le più volgari, non avverte a quella proprietà che hanno tutti gli idiomi vivi e parlati di ricevere in ogni occorrenza, e, per dir così, senza avvedersene, i termini che siano necessari al discorso qual che sia, quando manchino loro e manchin davvero. Tuttodì si parla in 125 questo e in quel dialetto di storia, di metafisica, di economia politica, d'astronomia, di chimica, di meccanica, di ogni scienza ed arte, senza che a chi parla con cognizion di causa vengan meno i termini occorrenti, e senza che agli ascoltatori cada pure in pensiero che una gran parte di quei termini possono esser di fatto stranieri al dialetto di cui quegli si serve. Nella relazione Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla troviamo altre osservazioni in proposito: Ci possono essere bensì, e ci sono dei dialetti, nel senso di parlari che si trovino in opposizione e in concorrenza con una lingua. E ciò accade presso quelle nazioni, dove una lingua positiva, riconosciuta unanimamente, e diventata comune a una parte considerabile e particolarmente alla parte più colta delle diverse province, sia riuscita a restringere in un'altra parte di esse più rozza, e che va scemando ogni giorno, l'uso di quelli che, prima dell'introduzione d'una tal lingua, erano gli unici linguaggi delle diverse province. A questi sta bene il nome di dialetti. Ma tra di noi, invece, i vecchi e vari idiomi sono in pieno vigore, e servono abitualmente a ogni classe di persone, per non esserci in effettiva concorrenza con essi una lingua atta a combatterli col mezzo unicamente efficace, c h e è quello di prestare il servizio che essi prestano. Nella seconda "introduzione" al Fermo e Lucia Manzoni avrebbe così ricordato la sua competenza del milanese: È ben certo che v'ha molte lingue particolari a diverse parti d'Italia, che in una sfera molto ristretta di idee certamente, ma hanno quell'università e quella purità. Io per me, ne conosco una, nella quale ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa arriva, tanto da stancare il più paziente uditore, senza proferire un barbarismo; e di avvertire immediatamente qualunque barbarismo che scappasse altrui: e questa lingua, senza vantarmi, è la milanese. Un poeta della prima metà dell'Ottocento, Giovanni Raiberti, ci ha lasciato questa testimonianza: Supponete d'essere ad un gran pranzo a leggere una bella poesia italiana. Tre quarti dei commensali fingono di capire; i servitori stanno lì immobili e freddi come cariatidi: se la storia è un p o ' lunghetta, qualche mano educata va tra la b o c c a ed il naso a coprire 126 il solecismo d'uno sbadiglio: tutti poi applaudono con molto più di serietà che di persuasione. Leggete poi una poesia milanese. E un tripudio ed uno schiamazzare infinito: ridono i fanciulli, ridono i camerieri, ridono il cuoco ed il guattero che in berretta bianca si vedono a far capolino da un antiporto per godere la scena. Insomma la poesia in dialetto milanese è buona per tutte le età e le condizioni. Anche a un osservatore esterno come Stendhal non era sfuggita la peculiarità della situazione linguistica italiana, se nel 1817 aveva annotato: "Parlare toscano nella conversazione risulta ridicolo." Solo quando l'italianizzazione diventerà davvero operante, cioè nel nostro secolo e ad altezze diverse a seconda delle aree, il dialetto acquisirà il suo statuto di lingua subalterna, ghettizzata negli strati inferiori della società. Si sono talvolta accusati i neodialettali di muoversi su registri troppo preziosi, senza rispettare le caratteristiche del mezzo. È un'accusa a suo avviso fondata? La poesia neodialettale matura all'interno della svolta lirica novecentesca. Sviluppando talune premesse che si ritrovavano già nei poeti della prima metà del secolo, i nuovi autori si caratterizzano per Γ incondizionata fedeltà al registro sublime. La loro pratica consiste spesso nel tentativo di rifare nelle varietà più remote i poeti della grande tradizione lirica europea, da Mallarmé a Trakl. Se ancora nel primo Novecento, soprattutto ai livelli della produzione meno avvertita (ma con la grande eccezione di Tessa), figuravano esperienze di tipo comico-realistico, con la stagione neodialettale la componente lirica conosce un successo ormai incontrastato. L'unica significativa eccezione è rappresentata, che io sappia, dal genovese Roberto Giannoni, che ha formulato infatti la più severa critica alle poetiche neodialettali. È legittimo servirsi di una lingua tanto condizionata dalla "curvatura" del suo universo, sottraendola ai suoi referenti antropologici e culturali o, nei casi peggiori, piegandola a usi manieristico-preziosi? Esaminando la nuova produzione poetica, a colpire il lettore, più che una specifica opzione stilistica, è un tratto riguardante la stratificazione sociale degli autori. La novità della poesia neodialettale discende dall'inedita composizione dei produttori. Quando Gozzano scriveva "odori d'aglio di cedrina tanto tanto per me consolatori" descrive l'incursione di un borghese entro gli spazi della condizione servile. Scendendo dal sublime degli appartamenti padronali nella cucina 127 della Signorina Felicita, lo scrittore si calava nel regno di un ennesimo amore ancillare. Lo stesso accadeva a Totò Merumeni, che, tradito dagli amori di "attrici e principesse," nel silenzio notturno della sua casa possedeva animalescamente "beato e resupino" la cuoca diciottenne. Del tutto opposto il caso di Franco Scataglini, che in un testo chiave per intendere la sua operazione, Frescobaldi ricorda la scoperta sconvolgente della musica del compositore barocco "drento le care puze / de la grande cucina." Lo scenario non è molto diverso da quello gozzaniano, ma qui a mutare è l'estrazione sociale del poeta, che ora appartiene alla stessa umanità della cuoca dello scettico esule ο della spenta signorina canavesana. Non c'è discesa dal sublime verso il comico, ma salita dal comico verso il sublime. E, mentre il poeta borghese, scendendo le simboliche scale che lo separavano dalle sue più ο meno attraenti partner, incontrava l'eros, il poeta di origine proletaria, che risale quelle stesse scale, incontra il privilegio della cultura. E si badi che nel caso di Scataglini la mediazione è topica: il "vecchio Telefunken," cioè la radio, ossia l'industria culturale, che tanta importanza ha avuto nella promozione culturale delle classi subalterne. Si potrebbe disegnale una sorta di psicoanalisi della cultura, dove il varcare la soglia di classe coincide con il ritrovamento di ciò sulla cui rimozione si fonda il privilegio. L'operazione del neodialettale consiste dunque nella conquista prometeica, resa possibile dai processi di diffusione del sapere che hanno segnato il dopoguerra, di quel privilegio culturale che era stato appannaggio delle classi superiori. È diffusa in questi autori l'esperienza di un'incursione nell'hortus conclusus della cultura, l'assaporamento della beatitudine e della grazia che essa offre, la fine dell'esperienza umiliante di chi si sente oggetto del mondo e ora può finalmente essere soggetto. Ma cosa significa in questo quadro utilizzare il dialetto? Significa mantenersi fedeli alle "care puze" e al "Telefunken," significa testimoniare la condizione di chi ha sostato con struggimento fuori dal giardino di delizie del sapere. Si veda alla luce di queste considerazioni l'ultimo bellissimo poemetto di Scataglini, La rosa (Einaudi). Con i neodialettali compare per la prima volta sulla scena della storia una dialettalità che testimonia, e non solo descrive, i segni della condizione subalterna. La dialettalità aristocratica e borghese era mossa dall'intento di acquisire il mondo popolare con il suo fervido disordine pulsionale, lasciandolo però chiuso nel ghetto. Non a caso i grandi dialettali sono stati spesso dei grandi reazionari: si pensi solo a Ruzante, a Belli, a Tessa. 128 Con i neodialettali non è più il signore che regredisce nei suoi servi, prestando loro con sapiente mimetismo la parola di cui erano storicamente deprivati. Sono invece gli Zanni e gli Arlecchini, le Ninette, i Marchionn, i Bongee, i protagonisti di secoli di poesia in dialetto, che, andati a scuola, non hanno più bisogno dei Porta per esprimersi. Divenuti soggetti di storia, ora sono loro a rivendicare il diritto di partecipare alla cultura egemone. Ma, se fanno Leopardi, vogliono farlo portandosi dietro le stimmate della loro origine. La testimonianza della subalternità nell'acquisizione della cultura non corrisponde solo al bisogno di non rinnegare le proprie radici. Offre anche un'inedita prospettiva da cui riconsiderare le dinamiche del privilegio stesso. Mi vengono in mente le parole scritte da Jean-Claude Schmitt in un lavoro sull'exemplum medioevale: Que la parole folklorique ne nous soit connue que par des textes écrits n'est pas une fatalité de l'histoire qu'il faudrait seulement déplorer, mais l'expression d'un rapport de domination idéologique qui a présidé, entre autres, à la constitution du folklore européen, et qui est le seul objet de l'analyse de l'historien. Il punto di vista dal quale il mio amico Roberto Giannoni formula la sua critica ai neodialettali è lo stesso da cui muove la dialettalilà borghese, della quale egli è forse un estremo rappresentante. Dalla classica prospettiva della tradizione letteraria gli idiomi popolari sono riservati all'uso comico-realistico, mentre alla lirica spetta la lingua sublime. 11 neodialettale realizza invece una auerbachiana "confusione degli stili": sermo piscatorius per contenuti alti. Dall'osservatorio del neodialettale l'adozione del suo peculiarissimo idioma anche per la lirica corrisponde a quel bisogno di tematizzare il proprio possesso degli strumenti culturali su cui si fonda la sua stessa operazione letteraria. Si noti di passaggio che questa adozione del dialetto si incontra con una gravissima usura della lingua della tradizione lirica, come dimostrano operazioni minimaliste alla Magrelli. Con tutto ciò non mi sogno certo di minimizzare i rischi cui appaiono esposti molti neodialettali, con un uso eccessivamente disinvolto del loro codice, poco attento alle peculiarità che gli sono proprie, esposto ai rischi di una neo-Arcadia. EUGENIO RAGNI Università degli Studi di Roma, "La Sapienza" 129