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RASSEGNA STAMPA
LUNEDÌ 31 DICEMBRE 2012
UN AFORISMA AL GIORNO:
«Rare sono le persone che usano la mente,
poche coloro che usano il cuore,
uniche coloro che usano entrambe!».
(Rita Levi Montalcini)
 False promesse da eurobilancio .............................................................................. 2
 Più ricavi e profitti per chi investe in R&S ............................................................ 4
 Record di charity per «Cruciani C»: ora arriva l’arte ........................................... 5
 Tasse e Piazza Affari, matrimonio difficilE ............................................................ 6
 Per Ibex e Bombay 500 possibile riscossa nel 2013 ............................................. 8
 Bonus al solare, niente ritenuta ai privati ............................................................. 9
 Salari scesi sotto i livelli del 2000 .......................................................................... 11
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Rassegna Stampa del giorno 31 Dicembre 2012
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
Tribunale di Roma - Registro della stampa n. 73/2007
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 Statali, 150 mila in meno in tre anni e la Lombardia supera il Lazio ................. 13
 “Tasse più alte ai ricchi per rilanciare l’economia”
Ecco la ricetta di Obama II ................................................................................... 14
 Fiscal Cliff, accordo lontano occhi puntati sulle Borse ....................................... 15
*il Sole 24ORE* Lunedì, 31 Dicembre 2012
di: Daniel Gros
(traduzione di Federica Frasca)
TERAPIE ANTI-SHOCK
False promesse da eurobilancio
L'esperienza Usa insegna che alla Zona euro serve più l'unione bancaria
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I quattro presidenti delle principali istituzioni europee (Commissione europea, Consiglio europeo, Banca
centrale europea ed Eurogruppo) si trovano di fronte a un dilemma cruciale: l'Eurozona ha davvero bisogno di
un proprio bilancio?
Il motivo al centro del dibattito è che l'unione monetaria degli Stati Uniti funziona molto meglio, perché a
ridurre l'impatto degli shock asimmetrici, cioè gli shock dei singoli Stati, interviene un bilancio federale di
ingenti dimensioni. Secondo i sostenitori di questa tesi, la Zona euro dovrebbe avere un proprio bilancio per
essere in grado di fornire altrettante garanzie ai suoi membri.
Questa tesi, però, travisa l'esperienza statunitense. È vero che negli Stati Uniti, come nella maggior parte degli
Stati federali esistenti, il bilancio federale ridistribuisce il reddito tra le regioni, andando così a compensare
almeno in parte i dislivelli di reddito a livello interregionale. Tuttavia, pur se questo aspetto è stato
ripetutamente documentato, dedurre che la redistribuzione equivalga a un ammortizzatore è sbagliato. Negli
Stati Uniti il bilancio federale compensa una quota sostanziale, stimata intorno al 30-40%, delle differenze nei
livelli di reddito pro capite tra gli Stati, perché in media quelli più poveri contribuiscono meno in termini di
gettito fiscale, mentre ricevono trasferimenti più consistenti. Questo non implica, però, che tali meccanismi
forniscano anche un'assicurazione contro gli shock, cioè le improvvise variazioni di reddito a livello dei singoli
Stati. Molti dei trasferimenti del governo federale - in particolare il sostegno sociale di base, come i buoni
alimentari – variano di poco in base al ciclo economico locale.
Sul versante delle entrate, la misura in cui la tassazione federale assorbe gli shock a livello statale non può
essere molto ampia per la semplice ragione che la principale fonte di entrate che reagisce al ciclo economico,
cioè l'imposta federale sul reddito, rappresenta meno del 10% del Pil.
La scarsa sensibilità delle spese e delle entrate federali alle condizioni del ciclo economico locale spiega perché
soltanto una piccola parte di shock del Pil del singolo Stato, stimata intorno al 10-15%, sia assorbita mediante
trasferimenti automatici da e verso il bilancio federale degli Stati Uniti.
Una proposta lanciata più volte in Europa riguarda la creazione di un fondo assicurativo a livello europeo, o
almeno dell'Eurozona, contro la disoccupazione. A prima vista l'idea appare interessante, ma anche qui il
riferimento all'esperienza americana risulta fuorviante.
Negli Stati Uniti l'assicurazione contro la disoccupazione è organizzata a livello statale. Il governo federale
interviene solo in caso di gravi recessioni a livello nazionale ed eroga sussidi supplementari per i disoccupati di
lunga durata. Questo sostegno viene però fornito a tutti gli Stati e, pertanto, non offre a quelli più colpiti un
supporto molto maggiore rispetto agli altri. Inoltre i sussidi di disoccupazione incidono meno di quanto spesso
si pensi. Nella maggior parte dei Paesi ammontano al 2-3% del Pil soltanto, anche in periodi di grave
recessione. Negli ultimi anni la spesa supplementare negli Stati Uniti è stata dell'1% del Pil. È quindi evidente
che, per quanto riguarda la Zona euro, un sistema di assicurazione contro la disoccupazione non riuscirebbe mai
a compensare shock di una certa entità, come quelli che hanno colpito l'Irlanda o la Grecia, dove il Pil si è
ridotto di oltre il 10 per cento.
Il caso della Spagna illustra un'altra caratteristica delle economie europee che rende difficile l'attuazione di un
piano federale contro la disoccupazione. Il tasso di disoccupazione spagnolo sfiora ormai il 30%, un dato che
dovrebbe costituire di per sé una buona giustificazione per gli ammortizzatori sociali. Ma il livello di
disoccupazione in Spagna è stato sempre al di sopra della media dell'Eurozona e l'unica volta in cui ha
registrato valori a una sola cifra è stata in conseguenza di un boom edilizio insostenibile. Un piano contro la
disoccupazione comune a tutta l'Eurozona rischierebbe, dunque, di finanziare la persistente disoccupazione
provocata da rigide istituzioni nazionali del mercato del lavoro, che per decenni si sono dimostrate
impermeabili alle riforme.
Tutto considerato, è difficile basare l'idea di un ammortizzatore per l'Eurozona sull'esperienza degli Stati Uniti.
Ma come si può spiegare che la crisi finanziaria globale non abbia portato ad alcuna crisi bancaria regionale
negli Usa, mentre i sistemi bancari di vari Paesi della Zona euro sono talmente sotto pressione da dover
richiedere l'intervento dei rispettivi governi, i quali a loro volta si vedono costretti a chiedere aiuto al fondo di
salvataggio europeo?
Ciò riflette un altro aspetto del piano statunitense che, ancora una volta, non viene ben compreso. L'"unione
bancaria" degli Stati Uniti fornisce un'assicurazione tangibile contro gli shock finanziari locali. Per esempio, il
periodo di espansione e frenata del mercato immobiliare in Nevada è stato altrettanto grave che in Spagna o in
Irlanda. In Nevada, uno Stato simile per dimensioni all'Irlanda, le perdite del sistema bancario locale sono state
però assorbite in gran parte da istituti dell'"unione bancaria" americana, in particolare la Federal deposit
insurance corporation (Fdic) e le agenzie di rifinanziamento dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac. Per il
Nevada questo sostegno è stimabile nel 10-20% del suo reddito "nazionale". Se avesse ricevuto un
trasferimento del genere, l'Irlanda sarebbe in condizioni decisamente migliori.
Quanto detto porta a una conclusione molto semplice: la stabilità a lungo termine dell'euro dipende molto più
dalla realizzazione del progetto di un'unione bancaria europea che dall'istituzione di un nuovo bilancio per
l'Eurozona.
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*il Sole 24ORE* Lunedì, 31 Dicembre 2012
Innovazione. Studio Ue sui trend delle grandi società
Più ricavi e profitti
per chi investe in R&S
Investimenti in innovazione «arma» anti-crisi. È la via percorsa dalle grandi imprese europee, che nel 2011
hanno aumentato in media del 9% gli investimenti in R&S contro il +6,1% del 2010. È un trend superiore alla
media mondiale (+7,6%) e in linea con quello delle aziende Usa. In termini assoluti svettano gli Stati Uniti, che
hanno speso 178,4 miliardi di euro contro i 144,6 della Ue. Il Giappone si attesta a 111,5 miliardi, mentre il
"resto del mondo" (Cina, le "tigri del Far East", la Corea del Sud e la Svizzera) rappresentano altri 76,2
miliardi.
In questo scenario il sistema Italia pesa solo per l'1,4% nella Ue e nel lungo periodo (2003-2011) l'attività di
R&S delle imprese italiane ha visto il calo della quota dei propri investimenti. Nel 2011 era intorno all'1,7% del
fatturato contro una media Ue vicina al 2,4 per cento. Giova ricordare che la Ue ha anche fissato un importante
obiettivo: la spesa in ricerca deve raggiungere il 3% del Pil entro il 2020. Traguardo che per il nostro Paese
sembra invece allontanarsi con il passare degli anni.
In tutti i casi le imprese più innovative della Ue hanno poi beneficiato di una significativa ricaduta sulle vendite
(+7,1%) e sull'utile operativo (+9,7%).
A queste conclusioni arriva il «Quadro di valutazione 2012 degli investimenti in R&S» preparato dalla
Commissione europea, che ha analizzato i trend dei 1.500 principali investitori in Ricerca & sviluppo al mondo.
Oltre all'aumento del fatturato e dei profitti chi investe crea nuovi posti di lavoro. Anzi, l'occupazione cresce di
più nei settori a maggiore intensità di ricerca. Nel lungo periodo nella Ue è aumentata nei settori ad alta
tecnologia del 38% contro il 20% circa nei restanti.
Guardando ai settori, lo stock maggiore di spesa nella Ue (tra il 2 e il 5% dei ricavi) si concentra
nell'automotive. Toyota svetta al primo posto, ma Volkswagen occupa la terza posizione nella classifica
mondiale dei grandi investitori. Altri colossi dell'auto hanno comunque accelerato nell'attività di ricerca: è il
caso di Bmw (+21,6% rispetto all'anno precedente), Renault (+19,4%) e Fiat (+12,3%). Seguono l'aerospaziale
e difesa, la chimica, l'elettronica. I comparti ad alta intensità (quelli con oltre il 5% di ricavi investiti) pesano
per poco più di un terzo e includono farmaceutica, biotech e Ict.
C'è poi un effetto calamita di cui beneficia l'Unione: è la capacità di attrarre investimenti dalle imprese extra-Ue
a tutto vantaggio dell'occupazione e della competitività. Le aziende Usa - rivela lo studio - nel lungo periodo
hanno raddoppiato gli investimenti e spendono dieci volte di più nell'area Ue rispetto a quanto destinato in Cina
e India.
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E. N.
*il Sole 24ORE* Lunedì, 31 Dicembre 2012
Accessori. I piani per il 2013
Record di charity
per «Cruciani C»:
ora arriva l’arte
Dura la vita del collezionista di braccialetti "Cruciani C": ogni nuovo modello va esaurito in poche settimane e
dal cilindro di Luca Caprai escono nuove idee, collaborazioni, progetti di charity legati di volta in volta a un
bracciale diverso. Alla fantasia ed energia creativa dell'imprenditore umbro si deve il successo ormai planetario
dei colorati braccialetti fatti con un filato simile a quello usato per i costumi da bagno, ma lavorati con la
tecnica del macramé: dal lancio, all'inizio dell'estate 2011, ne sono stati venduti quasi otto milioni e la gamma
di motivi si è ampliata a dismisura. Tra gli ultimi nati c'è quello che richiama il simbolo dell'infinito (nella
foto), quell'otto rovesciato che sicuramente sarebbe piaciuto a Giacomo Leopardi, la cui famosa e omonima
poesia è molto cara a Caprai.
«Questo braccialetto è anche il nostro modo per prenderci gioco della profezia Maya sulla fine del mondo»,
racconta divertito il fondatore del gruppo Cruciani, nato come marchio di maglieria in cashmere, business che
Caprai non intende affatto trascurare.
«Per il futuro abbiamo in mente una nuova collaborazione con Damiani, visto il grande successo del bracciale
con aggiunta di quadrifoglio in oro e piccolo diamante. Ma teniamo molto anche ai progetti di charity:
quest'anno ne abbiamo seguiti tantissimi, legandoli sempre a un braccialetto e destinando i proventi della
vendita a organizzazioni di ogni tipo e non solo nel nostro Paese. In Italia abbiamo aiutato l'Ail e i suoi
fantastici progetti di ricerca sulle leucemie, l'Emilia dopo il terremoto, la Lilt, l'Airc, solo per citare qualche
esempio – precisa Caprai –. Mentre all'estero abbiamo dato contributi ad associazioni per la ricerca medica in
Spagna e Germania e sostenuto la ricostruzione di un villaggio giapponese distrutto da tsunami e terremoto».
Per il 2013 la grande novità, dopo le borse, già in vendita nelle boutique "Cruciani C" di tutto il mondo, è
l'incursione di Caprai nel mondo dell'arte. «Vogliamo individuare artisti giovani, che esprimano quanta più
energia e apertura al futuro possibile. Il prezzo deve essere al massimo di mille euro e le opere saranno vendute
nei nostri negozi e destinate, spero, a essere anche un buon investimento per chi le compra. Il debutto in grande
stile di questa nuova iniziativa avverrà a Milano in aprile, durante la settimana del Salone del mobile».
G. Cr.
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*il Sole 24ORE* Lunedì, 31 Dicembre 2012
di: Guido Plutino
Borsa. Anche il fisco potrebbe frenare il ritorno nel 2013 degli investitori esteri
Tasse e Piazza Affari,
matrimonio difficile
Effetti depressivi da Tobin tax e imposta sui derivati
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Per l'Italia l'appuntamento con la ripresa è rinviato. Almeno questa è la previsione di fonti autorevoli come
l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), che per il 2013 si aspetta una frenata del
Pil dell'1%, dopo un calo del 2,2% di quest'anno. Per l'inversione di tendenza bisognerà attendere il 2014, anno
in cui si stima una leggera crescita (+0,6%). Oppure, secondo altre fonti più ottimiste come Banca d'Italia, la
seconda metà del 2013.
Si tratta di sfumature importanti, ma che non modificano un quadro problematico ancora per diversi mesi. Un
elemento con il quale bisognerà confrontarsi costantemente anche in sede di manutenzione del portafoglio.
Naturalmente i dati macroeconomici rappresentano solo una delle tante variabili in gioco (anche se di indubbia
rilevanza). Come sempre, i fattori d'incertezza presenti in ogni scenario potranno infatti influenzare i mercati
finanziari spingendo gli indici verso lidi migliori o peggiori di quelli a oggi previsti dagli uffici studi.
Ma nel caso dell'Italia, oltre a un handicap di partenza rappresentato da condizioni dell'economia più deboli di
quelle dell'Europa core, vale la pena di considerare due ulteriori elementi di aleatorietà che accompagneranno il
brindisi di Capodanno. Il primo, naturalmente, è rappresentato dalle elezioni politiche (non è questione di
orientamenti ideologici, la finanza predilige per principio la stabilità e punisce le situazioni incerte).
A questo si aggiunge poi l'arrivo di nuove imposte sulle transazioni, che sono sempre fumo negli occhi degli
operatori. Stando a quanto oggi noto, da marzo entrerà in vigore una Tobin tax sugli scambi azionari, seguita a
breve distanza (da luglio) da una seconda imposta sui prodotti derivati sulle azioni, con funzione antispeculativa. Si tratta di un tema già da tempo all'attenzione di autorità di controllo e legislatore per la sua
potenziale pericolosità sistemica. Un recente studio della Consob, che si è concentrato sul trading ad alta
frequenza, ha valutato nel 20% il peso di queste transazioni sui volumi di Piazza Affari, quota che sale
addirittura al 40% nel caso di Francoforte.
Qui però cominciano i dubbi, che riguardano sia la scelta di tempi separati per i due interventi, sia il fatto che al
momento sembrano escluse dalle nuove imposizioni molte altre forme di transazioni speculative, sia infine gli
effetti distorsivi che verranno introdotti nello svolgimento delle transazioni (il business si sposta,
fulmineamente, dove si paga meno). Mentre infatti la Tobin tax viene tenuta a battesimo in Italia, in Germania
il tema esce dall'agenda (se ne riparlerà, forse, nel 2016) e in Francia, dove è stata introdotta da poco, è già
tempo di ripensamenti e revisioni. E c'è addirittura chi si è già pentito. Interessante a questo proposito il caso
della Svezia: qui la Tobin tax è arrivata nel lontano 1984, causando un immediato calo del volume di
transazioni e conseguentemente un introito inferiore del 75% a quanto preventivato. Dopo qualche ulteriore
intervento correttivo, il balzello venne infine cancellato nel 1992.
Le prime valutazioni di impatto della Tobin tax su un mercato che ha già il fiato grosso per molte ragioni
sembrano dunque poco confortanti. Oltre ai dubbi sul gettito effettivo dei provvedimenti (800 milioni l'anno,
secondo le attese), c'è il rischio che la tassa gravi quasi esclusivamente sulle spalle di risparmiatori e investitori
istituzionali. Vale a dire sui soggetti meno propensi a comportamenti speculativi, che dovrebbero essere
semmai incentivati in un periodo nel quale le risorse liquide restano parcheggiate nei conti correnti piuttosto
che scegliere destinazioni produttive, come il mercato azionario.
Non va infine sottovalutato il rischio che un passo falso in materia fiscale faccia perdere il treno di un ritorno di
attenzione degli investitori per l'equity euro. «Che questo mercato Bear finisca il prossimo anno o nei prossimi
due anni - ragiona infatti John Bennet, director of European equities di Henderson global investors - rimaniamo
convinti che chi sarà disposto a valutare una prospettiva a cinque anni o più sull'azionario europeo sarà
ricompensato da ritorni più che accettabili».
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Resta però da affrontare già in partenza la forte concorrenza degli altri listini del Vecchio continente.
«Nell'azionario europeo sono presenti numerose aziende che, pur essendo valutate a sconto, sono in realtà
caratterizzate da bilanci solidi e prospettive di crescita positive - spiega Paolo Federici, country head per l'Italia
di Fidelity worldwide investments -. Queste aziende sono spesso grandi, hanno marchi globali e un'esposizione
in termini di ricavi verso le aree che presentano i migliori ritmi di crescita».
«Lo scenario per i prossimi 3-6 mesi - conclude Alberto Chiandretti, gestore di Ff Italy fund - è quello di un
graduale miglioramento delle condizioni macroeconomiche e ritengo probabile che la volatilità sostenuta
consentirà di trovare opportunità per acquistare a sconto società solide, il cui business sia poco influenzato dal
non semplice contesto attuale. Nel 2013 sarà inoltre probabile una stabilizzazione del quadro economico
italiano, che favorirà maggiormente i titoli ciclici». Archivia
*il Sole 24ORE* Lunedì, 31 Dicembre 2012
PAGINA A CURA DI:
 Alessandro Chini
 Alessandro Magagnoli
Analisi tecnica. Quadro potenzialmente rialzista per gli indici meno brillanti nel 2012
Per Ibex e Bombay 500
possibile riscossa nel 2013
Favorevoli le premesse anche per Dax e Omx 20
Il 2012 è stato decisamente positivo per i mercati azionari: dei 25 principali listini solo uno termina con un
saldo moderatamente negativo, quello di Madrid, mentre Shanghai viaggia intorno alla parità. Osservando i
grafici è tuttavia possibile notare come proprio le cenerentole del 2012 siano quelle con le migliori prospettive
di crescita, almeno a breve termine.
Il madrileno Ibex 35 presenta infatti un quadro grafico potenzialmente molto rialzista. Un'importante conferma
della rinnovata positività verrebbe con il superamento di area 8.325/30, 38,2% di ritracciamento del ribasso dal
top di inizio 2010. Il livello che segue nella successione di Fibonacci è quello del 50%, posto a 9.100. Solo la
violazione di 8.180 farebbe temere una flessione che comunque solo sotto 7.900 assumerebbe tratti
preoccupanti
L'indice di Shanghai ha superato sia la media mobile a 100 sedute sia la linea di tendenza ribassista che parte
dai massimi dell'aprile 2011. Prossimo appuntamento importante per verificare la consistenza dell'impostazione
positiva sarà con i 2.220 punti. Sopra area 2.365 l'indice potrebbe puntare alla ricopertura di un altro gap
ribassista, quello di area 2.650.
Anche sul fronte dei panieri con i migliori risultati nel 2012 è comunque riscontrabile un ulteriore potenziale
grafico rialzista incoraggiante. In India, l'indice Bombay 500 è salito in modo vigoroso nell'ultima parte di
novembre facendo segnare i nuovi massimi da aprile 2011. La prossima resistenza importante si colloca in area
7.900, dove confluiscono la trend line ribassista disegnata dal massimo storico di inizio 2008 a 8.991 e il lato
alto del canale che sale dai minimi di fine 2011. La rottura di quota 7.900 permetterebbe all'indice di essere
protagonista di ulteriori allunghi fino a 8.400 circa.
Allo stesso modo l'indice Dax appare graficamente convincente. Il passaggio oltre 7.360 circa conferma la
ripresa dell'uptrend che l'indice ha saputo costruire dal settembre del 2011. Ipotizzando che il Dax si stia
muovendo da un anno in un canale ascendente, il target per la prossima fase del rialzo si pone in area 8.200, al
di sopra dei massimi del 2007 a 8.151 e di quelli del marzo 2000 a 8.136. In ottica temporale più estesa gli
obiettivi del rialzo sono individuabili invece a 9.000 e 9.440. A preoccupare per la tenuta dell'uptrend sarebbero
discese sotto area 6.700, introdotte dalla violazione a 7.200 della linea che sale dai minimi di giugno, dove si
colloca attualmente la media mobile a 100 settimane.
Sostanzialmente analoghe a quelle relative al Dax le considerazioni per il Nasdaq. Segnali chiarificatori
verrebbero con la violazione di area 2.920/30, introduttiva al raggiungimento di 2.750, e con il superamento di
3.150, che lascerebbe campo aperto al test di area 3.600. Solo la violazione di 2.750 comporterebbe invece una
revisione del giudizio per il trend di lungo periodo, che in quel caso risulterebbe invertito al ribasso.
L'Omx 20 del Copenaghen Stock Exchange si muove lateralmente ormai dai massimi di metà agosto,
mantenendosi comunque nel canale rialzista che sale dai minimi di settembre 2011 la cui base fornisce supporto
ai prezzi in area 485. La rottura, avvenuta in estate, dei massimi di marzo 2011 a 478 sembra confermare la
volontà di dare seguito all'ascesa. Solo discese sotto area 478/85 e la successiva violazione di area 460 potrebbe
anticipare la correzione di tutta la salita dell'ultimo anno, dai minimi di 328.
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PAGINA A CURA DI: Maurizio Di Marcotullio
Fotovoltaico. L’agenzia delle Entrate applica al quinto conto energia lo stesso trattamento
riconosciuto al precedente regime agevolato
Bonus al solare,
niente ritenuta ai privati
Il Gse è tenuto a effettuare il prelievo del 4% solo se la tariffa autoconsumo è versata a
imprese
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Gli incentivi al solare fotovoltaico trovano le regole "fiscali": l'agenzia delle Entrate ha fornito la propria
interpretazione sul trattamento da riservare al quinto conto energia, rispondendo a un interpello del Gestore dei
servizi energetici (Gse).
Il quinto conto energia è il sistema di incentivazione della produzione di energia elettrica da impianti
fotovoltaici introdotto con il decreto del 5 luglio 2012 dal ministero dello Sviluppo economico, in attuazione
dell'articolo 25 del Dlgs 28/2011. Questo sistema di incentivazione – diversamente dal precedente che
"premiava" tutta l'energia prodotta – prevede l'incentivazione solo dell'energia prodotta e autoconsumata,
attraverso la corresponsione di una tariffa premio-autoconsumo. Per l'energia prodotta e immessa in rete,
invece, viene riconosciuta una tariffa onnicomprensiva che rappresenta sostanzialmente il prezzo di cessione
dell'energia.
I nuovi incentivi
Il quinto conto energia prevede che il Gse eroghi:
- per gli impianti di potenza inferiore a 1 Mw: due incentivi cumulabili fra loro, riferibili uno alla quota della
produzione netta di energia elettrica consumata in loco dal soggetto titolare dell'impianto e uno alla quota di
energia prodotta e immessa in rete. Più precisamente, ciascuna di queste due quote sarà retribuita,
rispettivamente, con una «tariffa premio autoconsumo» e una «tariffa onnicomprensiva»;
- per gli impianti di potenza superiore a 1 Mw, un contributo, riferibile alla produzione netta di energia
immessa in rete, pari alla differenza – solo se positiva – fra la tariffa onnicomprensiva e il prezzo zonale
orario; questa differenza non può essere superiore alle tariffe onnicomprensive stabilite nel decreto. Infatti, in
base all'articolo 5 del Dm 5 luglio 2012, l'energia prodotta dagli impianti di potenza superiore al 1 Mw resta
nella disponibilità del produttore, che potrà venderla a soggetti diversi dal Gse.
L'orientamento delle Entrate
Di fronte a questo mutamento dello scenario e delle modalità di incentivazione della produzione di energia da
fonte solare, si è reso necessario un confronto con l'agenzia delle Entrate per accertare se e in quale misura i
criteri di tassazione identificati dalla circolare 46/E del 2007, fossero ancora validi e applicabili alle nuove
tipologie di incentivi.
La questione è importante perché il quinto conto energia sia applicherà per vent'anni a tutti gli impianti che ne
beneficiano. E questo al di là del fatto che il plafond sia in rapido esaurimento e che pochi nuovi impianti
potranno essere ammessi all'incentivo.
Il precedente meccanismo di incentivazione, rappresentato dalla tariffa incentivante prevista dall'articolo 7,
comma 2, del Dlgs 387/2003, è stato qualificato fiscalmente come segue:
- contributo irrilevante ai fini Iva per il mancato presupposto oggettivo;
- contributo in conto esercizio rilevante ai fini delle imposte dirette e dell'Irap se percepito in una attività di
impresa;
- contributo in conto esercizio soggetto alla ritenuta prevista dall'articolo 28, comma 2 del Dpr 600/1973, se
ricevuto da imprese o da enti commerciali quando, per quest'ultimi, gli impianti attengono alla attività
commerciale esercitata.
Nella stessa circolare fu precisato, inoltre, che la produzione di energia elettrica da fonte fotovoltaica non
configura lo svolgimento di una attività commerciale, quando questa deriva da impianti di potenza fino a 20 kW
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posti a servizio dell'abitazione o della sede dell'ente non commerciale. Questa interpretazione considerò che in
tali casi gli impianti interessati fossero destinati principalmente a soddisfare i bisogni domestici.
In base a queste interpretazioni, il Gse ha proposto alle Entrate di estendere lo stesso trattamento fiscale alla
nuova «tariffa premio per autoconsumo», perché erogata in assenza di un rapporto sinallagmatico tra Gse e
produttore di energia, e volta dunque a rimborsare il titolare dell'impianto del costo sostenuto e a favorire la
produzione e l'autoconsumo dell'energia.
Il prelievo non cambia
L'agenzia delle Entrate, considerando corretta in linea di principio l'interpretazione fornita dal Gse, ha
riconosciuto nella tariffa premio autoconsumo la stessa caratteristica attribuita alla tariffa incentivante vecchia
versione. Il risultato è che alla «tariffa premio autoconsumo» è applicabile lo stesso trattamento fiscale
delineato nella circolare 46/E del 2007. In relazione a questo incentivo, quindi, il Gse dovrà effettuare la
ritenuta prevista dall'articolo 28, comma 2, del Dpr 600/1973, nel caso in cui lo stesso sia erogato al produttore
di energia nell'ambito dell'attività d'impresa. La stessa tariffa, dunque, se percepita nell'ambito di un'attività
d'impresa, costituirà materia imponibile ai fini del reddito di impresa e Irap. E questo a prescindere dalla
potenza dell'impianto.
*CORRIERE DELLA SERA * Lunedì, 31 Dicembre 2012
di: Enrico Marro
Salari scesi sotto i livelli del 2000
In cinque anni persi 1,4 milioni di posti. Pressione fiscale fino a oltre il 51%
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ROMA — Guadagniamo meno che nel 2000. Le retribuzioni nette di fatto sono scese, a prezzi correnti, sotto
quelle di dodici anni fa: in media nel 2012 il salario netto annuo era di 20.786 euro contro i 20.877 del 2000.
Rispetto all'inflazione, nello stesso periodo, la perdita cumulata di potere d'acquisto è stata in media di 5.338
euro. Se a questa somma si aggiunge la mancata restituzione del fiscal drag, cioè delle maggiori imposte pagate
per effetto dell'aumento nominale dei redditi (che fa scattare aliquote Irpef maggiori senza che sia aumentato il
potere d'acquisto), i salari hanno perso mediamente 8.154 euro in dodici anni. E per il 2013 si può prevedere
un'ulteriore perdita. Tutto questo non farà che confermare la posizione di coda occupata dall'Italia nelle
classifiche Ocse (organizzazione dei Paesi industrializzati) sui salari, dopo Regno Unito, Germania, Francia e
perfino Spagna. Sono questi i principali dati contenuti nel nuovo Rapporto sulle retribuzioni a cura dell'Isrf-Lab
della Fisac-Cgil, curato da Agostino Megale come quello del 2010 (allora targato Ires). Il rapporto, questa volta,
approfondisce l'impatto della crisi sul mercato del lavoro e sulle dinamiche retributive. Un impatto pesante.
Innanzitutto sull'occupazione. In termini di giornate lavorative a tempo pieno, le unità di lavoro (Ula) sono
diminuite di oltre 1,4 milioni rispetto al picco registrato tra la fine del 2007 e l'inizio del 2008. Insomma anche
se il numero delle persone occupate è sceso «solo» di mezzo milione, da 23,4 a 22,9 milioni, il numero di ore
lavorate e le corrispondenti Ula, che poi rilevano ai fini dell'andamento del prodotto interno lordo, sono scese
molto di più. Un Pil che, non a caso, è in recessione e lo resterà anche nel 2013.
Il governo Monti, dice la Cgil, ha certamente fatto bene sul piano del recupero del prestigio internazionale
dell'Italia e della riduzione dello spread, il differenziale con i tassi di interesse sui titoli di Stato tedeschi, che è
sceso da un picco di 575 punti, toccato nel novembre 2011, ai 320 punti di venerdì scorso, facendo scendere la
spesa per interessi sul debito pubblico italiano. Ma su tutti gli altri parametri, aggiunge Megale, dal Pil ai salari,
dall'occupazione alla produzione, il bilancio è negativo.
I lavoratori perdono potere d'acquisto. Sommando l'inflazione del triennio 2010-2012 si ottiene un aumento dei
prezzi dell'8%, le retribuzioni di fatto invece, al netto di tasse e contributi, salgono solo del 4,5%. Questo
significa, dice il rapporto, che i salari hanno perso in media 70 euro al mese rispetto ai prezzi, ai quali se ne
aggiungeranno altri 35 nel 2013. Alla fine la perdita cumulata annua sarà di 1.300 euro. Le retribuzioni nette
sono basse anche per colpa di una eccessiva pressione fiscale. Nel 2010 era pari al 42,1% per le famiglie e del
46,9% per i single, rispettivamente 12,3 punti e 10,2 punti in più rispetto alla media dei Paesi Ocse. Per effetto
delle manovre 2011 e 2012, la pressione fiscale salirà nel 2014 al 46,8% per le famiglie e addirittura al 51,3%
per i single. Il maggior prelievo sul lavoro in Italia rispetto alla media Ocse si traduce in un minor salario netto
di 1.380 euro l'anno, calcola l'Isrf-Cgil.
Secondo il sindacato guidato da Susanna Camusso, la riforma del modello contrattuale del 2009, che la Cgil
non ha condiviso, ha contribuito a peggiorare la situazione, tanto è vero che la perdita di potere d'acquisto è
stata netta negli ultimi due anni (-1,2 e -2,1 punti). Colpa dell'Ipca, cioè l'inflazione attesa al netto della
componente energetica importata, parametro guida per l'adeguamento delle retribuzioni. Un indice ora superato
dall'ultimo accordo sulla contrattazione, anche questo non firmato dalla Cgil. I salari non solo sono rimasti
bassi, ma sono anche aumentate le sperequazioni. Nel 2010 un amministratore delegato, si legge nel rapporto,
ha percepito in media 110 volte la somma intascata da un lavoratore dipendente. Ma anche tra i lavoratori
dipendenti le differenze esistono. L'Isfr calcola che rispetto a un lavoratore standard una donna ha uno stipendio
più basso del 12%, il dipendente di una piccola impresa (fino a 20 addetti) del 18%, uno del Sud del 19%, un
immigrato del 25%, un lavoratore a termine del 26%, un giovane del 27% e un collaboratore del 33%.
È evidente però che i salari sono bassi anche perché la produttività è scarsa. Il rapporto conferma che l'Italia è
agli ultimi posti nelle classifiche internazionali. Il valore aggiunto reale prodotto per addetto è rimasto più o
meno fermo dal 1995 a oggi mentre nel Regno Unito, in Germania e in Francia è aumentato di circa il 25%. Ma
ciò è dovuto, secondo il rapporto, soprattutto al fatto che in questi Paesi la dimensione media d'impresa è
maggiore. È questa che fa la differenza, non le ore lavorate per addetto che nel 2011, secondo l'Ocse, sono state
in Italia di più rispetto a quelle lavorate dagli inglesi, francesi e tedeschi, anche se in questi Paesi sono molti di
più coloro che lavorano. Solo che dove ci sono imprese più grandi si fanno più investimenti in innovazione e
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ricerca e la produttività sale e così anche i salari. «Se avessimo aziende con in media 13 dipendenti come in
Germania anziché 3,5 come da noi — afferma Megale — la produttività in Italia aumenterebbe del 40%. Ma
nulla è stato fatto per promuovere la crescita dimensionale delle imprese. Bisogna ripartire da qui e dalla
riduzione del carico fiscale sulle retribuzioni, per rilanciare da subito la domanda».
*la Repubblica*
Lunedì, 31 Dicembre 2012
di: VALENTINA CONTE
Statali, 150 mila in meno in tre anni
e la Lombardia supera il Lazio
Patroni Griffi: ora devono lavorare di più e meglio
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ROMA
— Sempre meno travet in Italia. Il personale alle dipendenze dello Stato, nelle sue varie forme è calato di 154
mila unità nel triennio 2009-2011 rispetto al 2008, ultimo anno di leggera crescita. E questo grazie al blocco
del turn over, imposto dalle ultime finanziarie, che per comprimere la spesa non consente ricambio
generazionale. Un numero di uscite “naturali”, dunque, causate da pensionamenti, che tuttavia nei piani del
governo Monti dovrebbe salire di altre 24 mila unità, gli “esuberi” quantificati nella relazione tecnica alla legge
di Stabilità, di cui almeno 6 mila da effettuare entro l’anno, cioè oggi. Invece nulla. La spending review degli
“statali” sembra saltata, finita nel caos di fine legislatura. Mentre, però, il ministero dell’Economia pensa
comunque di allungare il blocco delle retribuzioni anche al 2014. Non solo meno travet, dunque. Ma anche
meno pagati.
«È sicuramente importante definire il numero dei dipendenti pubblici ma ancora di più farli lavorare di più e
meglio», ha commentato ieri Filippo Patroni Griffi, ministro della Funzione pubblica. I numeri della Ragioneria
generale dicono che nel 2011 3 milioni e 283 mila italiani lavoravano a vario titolo per lo Stato, il 5,2% in meno
del 2008. Di questi il 55% di donne (1,8 milioni), il 31% nella scuola, il 21 nella sanità, il 18 negli enti locali, il
9,9 nei corpi di polizia, il 5,9 nelle forze armate e solo il 5,1 nei ministeri, i più bersagliati nell’immaginario del
“fannullone”. Anche la divisione geografica non è scontata: meno di un terzo degli “statali” è al Centro (30%),
mentre Sud e Nord si spartiscono un 35% a testa. Non solo. La Lombardia prevale sul Lazio (12,51% contro
12,35%), seppur d’un soffio: 406 mila contro 401 mila. Enti locali contro ministeriali.
Tasto dolente: i precari. Tra interinali, lavoratori socialmente utili, co.co.co, siamo a 70 mila (extra rispetto ai
3,3 milioni). Più gli oltre 86 mila a termine. Molti di questi contratti, in scadenza oggi, sono stati prorogati a
luglio. Altro tasto dolente: il blocco delle retribuzioni. Tra 2010 e 2012 i dipendenti pubblici hanno già perso, in
media, 1.600 euro (calcoli dell’Aran) solo come potere d’acquisto. Ovvero il 5,8% che diventerebbe un meno
11% se il blocco fosse prorogato al 2014, come pare il governo si appresti a fare, seppur investito della sola
“gestione ordinaria”. Il malumore è molto forte nei sindacati di settore. «È legittimo? Secondo noi no, perché
una decisione del genere non è ordinaria amministrazione e perché il nuovo governo se volesse tornare
indietro dovrebbe trovare i soldi per la copertura, mentre oggi è un’operazione a costo zero che serve
solo a inquinare i pozzi», dice Michele Gentile, Fp-Cgil. Intanto delle 6 mila “eccedenze” - tra amministrazioni
centrali, agenzie fiscali, enti pubblici - frutto della spending review di Bondi (20% di dirigenti in meno, 10%
dipendenti), non v’è traccia. Così degli altri tagli negli enti locali (fino a un totale di 24 mila): Comuni e Province
in base al rapporto tra dipendenti e abitanti, Regioni tra posti letto e abitanti. Un flop frutto anche della
confusione, visto che a gestire i tagli sono tre dicasteri: Economia, Interni, Funzione Pubblica.
*la Repubblica*
Lunedì, 31 Dicembre 2012
di: DAVID GREGORY
“Tasse più alte ai ricchi
per rilanciare l’economia”
Ecco la ricetta di Obama II
Legge sull’immigrazione e crescita gli obiettivi del mandato
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PRESIDENTE Obama, cominciamo dalla domanda più scontata: scivoleremo nel precipizio fiscale?
«Nelle prossime ore sapremo che cosa deciderà il Congresso. Alla mezzanotte dell’ultimo dell’anno, se il
Congresso non agirà, le tasse aumenteranno per tutti gli americani. Per la famiglia media potrebbe voler dire
una riduzione del reddito di 2.000 dollari. Per l’economia in generale vorrà dire che i consumatori avranno
molti meno soldi per fare acquisti, che le imprese avranno molti meno clienti e saranno meno propense ad
assumere e che l’economia potrebbe subire un rallentamento proprio quando stava cominciando a ripartire.
Se vogliamo seriamente ridurre il disavanzo di bilancio dobbiamo fare in modo che i più ricchi paghino un po’
di più e combinare questi incrementi delle tasse ai ricchi con tagli alla spesa».
Quanta responsabilità ritiene di avere nel cattivo funzionamento delle istituzioni politiche nazionali?
«Penso che chiunque direbbe oggettivamente che abbiamo proposto un compromesso ragionevole. È molto
difficile per me dire a un anziano, a uno studente, alla madre di un bambino disabile: «Dovrete arrangiarvi con
meno perché non vogliamo chiedere a milionari e miliardari di fare di più». Ho il dovere di garantire che il
fardello della riduzione del deficit non ricada interamente sulle spalle degli anziani. Ho il dovere di fare in modo
che le famiglie della classe media non paghino tasse più alte quando milionari e miliardari non vengono
obbligati a pagare tasse più alte. C’è un’equità di fondo in tutto questo, e il popolo americano è consapevole».
Qual è la sua massima priorità per il secondo mandato? Nel primo mandato era la riforma sanitaria.
«Ce n’è più di una: correggere lo stato disastroso del nostro sistema di leggi sull’immigrazione è in cima alla
lista. In secondo luogo voglio stabilizzare l’economia e assicurare la crescita. Ma il problema più immediato è
fare in modo che le famiglie della classe media non debbano pagare più tasse».
Dopo la strage di Newtown non ha più parlato di nuove leggi per il controllo delle armi da fuoco...
«Penso che chiunque abbia parlato con i genitori e le famiglie di Newtown sia consapevole che è
indispensabile un cambiamento di fondo. Tutti noi dobbiamo fare un esame di coscienza, anche io come
presidente, per aver consentito una situazione in cui 20 bambini piccoli, 20 bambini bellissimi sono stati
ammazzati da un uomo armato in un’aula scolastica. Quello è stato il peggior giorno da presidente e non
voglio che possa ripetersi. Vorrei riuscire a far approvare queste leggi nel primo anno di mandato».
Parliamo di politica estera: dopo l’attacco di Bengasi c’è bisogno di maggiore attenzione perché non
succeda nuovamente? Adesso sapete chi c’era dietro quell’attacco?
«Innanzitutto devo dire che la commissione d’inchiesta ha fatto un lavoro molto accurato: ha individuato falle
gravi nei meccanismi di sicurezza per le nostre sedi diplomatiche e ci ha fornito una serie di raccomandazioni.
Il segretario di Stato Hillary Clinton ha dichiarato che le applicherà tutte quante. Il mio messaggio al
Dipartimento di Stato è che risolveremo questo problema, un problema di enorme rilevanza. Sono state
individuate responsabilità individuali e risolveremo il problema per essere sicuri che non succeda di nuovo.
Riguardo ai responsabili di quell’azione, c’è un’indagine in corso: l’Fbi ha inviato degli agenti in Libia; abbiamo
indizi molto attendibili, ma in questo momento non posso parlarne».
Signor presidente, in questo inizio di secondo mandato, pensando all’eredità che lascerà, ai suoi
obiettivi, quanta frustrazione prova per i suoi difficilissimi rapporti con il Congresso?
«Tutti ci sentiamo frustrati. L’unica cosa che vorrei puntualizzare è questo concetto del «tutti e due gli
schieramenti sono egualmente indisponibili a collaborare».
È una falsità. Se guardiamo i fatti, abbiamo una situazione in cui il Partito democratico, nel bene e nel male, e
di sicuro io, nel bene e nel male, abbiamo fatto costantemente del nostro meglio per cercare di mettere al
primo posto l’interesse del Paese e per cercare di lavorare insieme a tutti i soggetti coinvolti con lo scopo di
fare in modo che l’economia possa crescere, per tutti, con lo scopo di garantire la sicurezza del Paese.
Rimango fiducioso — sono un ottimista congenito — che alla fine la gente vedrà la luce. Winston Churchill
diceva che noi americani prima di fare la cosa giusta proviamo tutte le altre opzioni. Succederà anche per il
«baratro finanziario». In un modo o nell’altro, supereremo il problema.
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©NBC, Meet The Press
*la Repubblica* Lunedì, 31 Dicembre 2012
di: ARTURO ZAMPAGLIONE
Fiscal Cliff, accordo lontano
occhi puntati sulle Borse
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NEW YORK
— Il conto alla rovescia del Fiscal Cliff è già cominciato. Un piccolo orologio proiettato da alcune reti televisive
ricorda agli americani quanti secondi mancano all’anno nuovo e soprattutto alla caduta nel “precipizio fiscale”:
nel caso cioè, che entro la mezzanotte non si trovi un accordo bipartisan, che appare lontano, per scongiurare
i rialzi generalizzati delle tasse e i tagli automatici alla spesa pubblica. A parole tutti desiderano questo
compromesso sul debito, ma le trattative, continuate ieri in un clima di insulti incrociati, erano ancora in alto
mare.
Tra le conseguenze immediate di un mancato accordo, i congedi obbligatori con stipendio ridotto per circa
800.000 impiegati civili del Pentagono: l’equivalente di una cassa integrazione a rotazione.
I repubblicani hanno reagito polemicamente agli attacchi sferrati da Obama nella sua intervista alla Nbc.
Hanno accusato il presidente di pensare troppo a un aumento punitivo delle tasse sui ricchi, invece che ad
affrontare il nodo dei conti pubblici. Ma anche la destra concorda con la tesi della Casa Bianca: senza un
accordo, c’è da aspettarsi una brutta reazione dei mercati finanziari. E ieri notte, con i negoziati ancora in
corso, gli occhi di Washington erano puntati sulla riapertura nervosa dei mercati asiatici.
Il tentativo dei due leader del senato, Harry Reid per la maggioranza democratica e Mitch McConnell per la
minoranza repubblicana, è stato quello di trovare un’intesa su un mini-pacchetto, di portata limitata ma in
grado comunque di evitare il fiscal cliff, o mitigarne l’impatto. Ma i due schieramenti continuavano a essere
distanti, almeno fino a tarda notte, in particolare sul rinnovo degli assegni di disoccupazione e sulla soglia di
reddito al di sopra della quale si concentrerebbero gli aumenti delle aliquote fiscali. I democratici insistevano
su un livello di 250mila dollari all’anno, ed erano tutt’al più disposti a farlo salire a 400mila; la destra
pretendeva almeno mezzo milione e chiedeva anche un intervento per mitigare le tasse di successione. In
caso di fallimento delle trattative Obama vuole che il senato metta ai voti la sua proposta: una mossa di
pubbliche relazione (per evidenziare le responsabilità dei repubblicani) e con poche possibilità di essere
approvata.
La Fiba-Cisl
Vi augura di trascorrere
una FINE D’ANNO SERENO
ED UN INIZIO 2013 GIOIOSO
Arrivederci a
mercoledì 2 Gennaio
per un nuovo anno di
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rassegne stampa!