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RASSEGNA STAMPA
VENERDÌ 4 GENNAIO 2013
UN AFORISMA AL GIORNO:
«Il silenzio è la più perfetta espressione del disprezzo!»
(George Bernard Shaw)
 Contropiede sull’euro forte ..................................................................................... 2
 Così l’Italia batte la Germania in 1.200 prodotti .................................................. 3
 Lo spread torna a quota 275.................................................................................... 5
 Bruxelles: stop alla Germania sui divieti di Bafin a UniCredit ............................ 6
 Fondazione Cariplo, pronte le terne dei candidati alla Ccb ................................. 7
 L’advisor critica la cedola Unipol ........................................................................... 8
 La crisi dell’eurozona frena l’attività dell’M&A .................................................... 9
 Un mutuo per gli universitari, «pagheranno da lavoratori» ................................ 10
 La caduta dello spread: quota 275 Mai così giù da agosto del 2011 .................. 11
 «La discesa? Può continuare, rendimenti sotto il 4%» ......................................... 12
 L’Europa avverte Berlino: no al protezionismo bancario ..................................... 13
 La grande fuga dalle supertasse Goldman dà i bonus in anticipo ...................... 14
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Rassegna Stampa del giorno 4 Gennaio 2013
Comunicato di informazione a cura della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi
Tribunale di Roma - Registro della stampa n. 73/2007
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 Pirelli al rinnovo del patto sul 45%
con le incognite Generali e Allianz ...................................................................... 15
 Fiat-Chrysler da record nelle Americhe ................................................................. 16
*il Sole 24ORE* Venerdì, 4 Gennaio 2013
di: Daniele Lepido
LA COMPETITIVITÀ DELL’EXPORT
Contropiede sull’euro forte
Gli imprenditori: avamposti sul mercato Usa e coperture mirate
MILANO
L'euro extra-large, la moneta unica in rally sul dollaro, spaventa le esportazioni italiane e gli imprenditori che
ancora si leccano le ferite da un anno di ordini al ribasso e di "sberle" legate al caro-spread. Il campanello
d'allarme, infatti, è un euro sopra quota 1,3 rispetto al biglietto verde, anche se proprio ieri la moneta unica è
scesa provvidenzialmente al suo minimo da tre settimane, comunque pari a 1,3060 dollari. Intanto le aziende
piccole e grandi corrono ai ripari adottando derivati finanziari il più possibile semplici e trasparenti che non
sempre, tuttavia, alleviano l'ansia.
Il paradosso di questa situazione è che scongiurato parzialmente il "baratro fiscale" americano l'euro diventa
moneta forte non tanto per una scommessa positiva dei mercati sul rafforzamento dell'economia del Vecchio
Continente, quanto invece per una rinnovata propensione al rischio: la moneta unica diventa un trampolino
interessante quando i trader scappano dal dollaro bene-rifugio.
Gli imprenditori italiani, dal canto loro, sono preoccupati per la forza delle loro esportazioni, con tuttavia alcuni
distinguo importanti. Ugo Pettinaroli, per esempio, amministratore delegato della Fratelli Pettinaroli Spa che sul
lago d'Orta produce valvole hi-tech, si dice «impensierito» da questo trend valutario ma snocciola un tentativo
di copertura più industriale che finanziario: «Il 35% del nostra fatturato (in totale circa 50 milioni di euro l'anno
scorso, ndr) finisce negli Stati Uniti ed è scontato che cerchiamo di proteggerci dall'ottovolante dei cambi
assicurandoci a termine a valori vantaggiosi della moneta, magari a tre o a sei mesi, ma la vera copertura per
noi arriva dall'avere delle filiali commerciali sul territorio. Per esempio poter contare su un avamposto
importante a Detroit ci consente un efficientemento dei costi notevole anche se la produzione avviene
comunque in euro».
Ma quando si parla di moneta, come ai tempi del super-franco il confronto è ancora una volta con Berlino.
«Certe oscillazioni tra l'euro e il dollaro se le può permettere solo la Germania – sostiene Mario Bertoli,
amministratore delegato del gruppo Metra, attivo nel settore degli estrusi di alluminio, 250 milioni di ricavi e
mille dipendenti nel mondo – che riesce a incrementare il valore delle sue esportazioni, senza troppi problemi,
anche con il cambio superiore a 1,25-1,30, che io considero la soglia di guardia per le nostre imprese». Metra,
intanto, trattando una materia prima che a sua volta è oggetto di volatilità di prezzo, punta a fissare la
quotazione sia dell'alluminio e sia del cambio con il biglietto verde, «anche se i problemi delle aziende italiane
non sono certo solo questi e cito tutto il tema energetico che ci fa pagare il megawattora qualcosa come 153
euro, contro i 55 della Germania. Senza contare il caro-spread degli scorsi dodici mesi, ora raffreddatosi, che ci
ha portati a incrementare i costi finanziari legati al credito fino al 50%».
Eppure il made in Italy ha un paio di carte da giocare straordinarie se non per disinteressarsi dei cambi quanto
meno per mitigarne l'influsso sui bilanci: la qualità e l'esclusività. Nel settore dell'arredamento e del design, per
esempio, Carlo Molteni, numero uno dell'omonima azienda, ammette che «oscillazioni tra euro e dollaro anche
nell'ordine del 10% non ci spaventano più di tanto perché per noi è l'eccellenza del prodotto la prima leva di
competitività, non il prezzo. Almeno entro certi limiti».
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*il Sole 24ORE* Venerdì, 4 Gennaio 2013
Così l’Italia batte la Germania
in 1.200 prodotti
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C'è da augurarsi che nelle tante agende politiche trovino spazio due grandi pilastri sottovalutati dell'Italia che i
suoi governi non riescono a valorizzare. Si tratta dell'industria manifatturiera, di cui parleremo oggi, e della
ricchezza delle famiglie, di cui ci occuperemo in un prossimo articolo. Come ha ribadito un recente studio di
McKinsey Global Institute ("Manufacturing the Future", novembre 2012), la manifattura italiana è la seconda
d'Europa e la quinta del mondo per valore aggiunto, pur incalzata da giganti emergenti come Brasile e Corea
del Sud. Marco Fortis
Ma vi sono due diffusi luoghi comuni sulla nostra industria: il primo è che essa sia poco competitiva e il
secondo che essa sia costituita di imprese troppo piccole per competere sui nuovi mercati globali. L'indicatore
principale su cui sono state edificate queste due "verità" è che l'Italia negli ultimi anni ha visto sensibilmente
ridursi la propria quota di mercato nell'export mondiale (come è accaduto, peraltro, anche a Francia, Gran
Bretagna, Stati Uniti e allo stesso Giappone, a causa dell'arrembante ascesa della Cina). Ma tutto cambia se si
considerano i rapporti con l'estero escludendo l'energia e le materie prime agricole e considerando come metro
della competitività non l'export bensì la bilancia commerciale dei prodotti manufatti non alimentari calcolata
dall'Organizzazione Mondiale del Commercio. Intanto l'Italia è uno dei soli 5 Paesi del G-20 (con Cina,
Germania, Giappone e Corea) ad avere un surplus strutturale con l'estero nei manufatti. Se poi si prende come
benchmark il surplus commerciale dei manufatti della Germania, e lo si pone costante nel tempo uguale a 100,
negli ultimi 5 anni (2006-2011) il surplus italiano è sceso di poco, passando da un indice di 23,8 a 21,5 (il
nostro attivo nei manufatti è cioè il 21,5% in valore di quello tedesco). Inoltre, nel 2012 vi è per noi la concreta
possibilità di recuperare molto terreno (l'indice potrebbe toccare quota 25) in quanto il nostro attivo
manifatturiero a fine anno sfiorerà probabilmente i 120 miliardi di dollari, record storico assoluto. L'Italia sta
dunque dando prova di tenuta nel commercio mondiale, mentre la bilancia manifatturiera degli altri maggiori
Paesi avanzati nel 2006-2011 si è deteriorata parecchio rispetto alla Germania: quella del Giappone è scesa da
un indice di 96,8 a 84,8, quella della Francia da -0,3 a -12,9 e quella del Regno Unito da -18,9 a -26,1. Gli Stati
Uniti durante la crisi hanno parzialmente ridotto il loro gigantesco disavanzo ma rispetto al surplus
manifatturiero della Germania rimangono inchiodati nel 2011 ad un indice pari a ben -146,2 (ossia il deficit
degli USA per i manufatti è simmetricamente uguale al 146,2% del valore del surplus tedesco). Ma c'è un altro
dato che evidenzia la forza dell'Italia sui mercati esteri, pur non possedendo essa i grandi gruppi industriali di
altri Paesi, avendo tuttavia un "quarto capitalismo" di imprese medie e medio-grandi che sta facendo miracoli.
Secondo l'indice Fortis-Corradini della Fondazione Edison, su circa 4.000 prodotti scambiati
internazionalmente e statisticamente censiti, l'Italia ne vanta oltre 2.000 che presentano un surplus di bilancia
commerciale e in 1.217 di essi il nostro Paese precede per attivo la Germania presa come benchmark. Tali
1.217 prodotti in cui "battiamo" i tedeschi nel 2011 hanno espresso un surplus con l'estero di ben 151 miliardi
di dollari (pari al 6,9% del nostro Pil). Nel mondo solo la Cina può fregiarsi di un maggior numero di casi in cui
è più competitiva della Germania: 2.134 prodotti in totale (con un surplus corrispondente al 17,2% del Pil di
Pechino). Gli Stati Uniti sono al terzo posto (con 1.099 prodotti ma con un attivo specifico pari solo all'1,7%
del proprio Pil) mentre il Giappone è in quarta posizione (i beni in cui Tokyo batte Berlino sono in totale 1.097
e valgono il 6,8% del Pil nipponico). Dunque l'Italia, pur avendo un sistema-Paese inefficiente, non manca
certamente di competitività esterna, anche se non dobbiamo mai stancarci di spingere le imprese a crescere
ulteriormente e ad internazionalizzarsi di più per cogliere nuove opportunità. Quel che ci fa difetto da anni è
invece la crescita del mercato interno, letteralmente "collassato" negli ultimi mesi a causa delle (pur necessarie)
politiche di rigore e delle loro conseguenze negative su occupazione, potere d'acquisto, propensione alla spesa
privata, investimenti. Oltre all'edilizia, che è quasi in agonia, vi sono settori portanti del made in Italy come
l'abbigliamento, le calzature, il mobile ed altri che soffrono attualmente di cali dei consumi domestici da tempi
di guerra, che possono significare una perdita irreversibile di aziende e posti di lavoro. Quando Paesi "non
produttori" come la Gran Bretagna o la Spagna intraprendono politiche di austerità, come è accaduto dal 2009
in poi, essi si limitano a ridurre principalmente le importazioni. In un Paese "manifatturiero" per eccellenza
come l'Italia, invece, troppo rigore sbilanciato dal lato delle entrate e conseguente gelata dei consumi
significano inevitabilmente una forte contrazione della produzione domestica: sicché, paradossalmente, al posto
di ridurre la "massa grassa" del debito pubblico (che necessita soprattutto di tagli di spesa anziché di maggiori
tasse) rischiamo in questa fase di intaccare pericolosamente la "massa muscolare" della nostra manifattura cioè
il nostro stesso potenziale di sviluppo. Pur consci che la stabilizzazione dei conti pubblici resta la nostra prima
priorità, crediamo che in questo difficile momento serva anche un'agenda per l'industria che parta da un piano
di sostegno mirato della domanda interna di settori manifatturieri fondamentali come quelli delle cosiddette
"4A". Ad esempio, incentivi come quelli suggeriti dalla Federlegno-Arredo, che vorrebbe che gli arredi fossero
equiparati nella deducibilità fiscale alle spese per le ristrutturazioni edilizie, andrebbero posti al centro di
qualunque programma elettorale che abbia minimamente a cuore le sorti delle nostre imprese e dei loro
lavoratori. Così come dovrebbero essere prioritari un piano per la ricerca, un piano per l'energia e un piano di
riduzione del cuneo fiscale che assicuri una corsia di precedenza assoluta agli addetti dell'industria
manifatturiera e alle loro buste paga. I dipendenti dell'industria lo meritano perché, come dimostrano i successi
sui mercati mondiali, sono proprio essi che oggi stanno tenendo in piedi il Paese e con uno stipendio un po' più
alto potrebbero anche riprendere a consumare un po' di più.
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*il Sole 24ORE* Venerdì, 4 Gennaio 2013
di: Andrea Franceschi
LA GIORNATA
Lo spread torna a quota 275
Il differenziale ai minimi da agosto 2011 - Acquisti su tutti i titoli «periferici»
VENDITE SUI BUND
Seconda seduta consecutiva di crescita per i rendimenti dei titoli tedeschi, tassi in rialzo
anche per il debito francese e i treasuries Usa
L'euforia per l'accordo al Congresso per evitare il "Fiscal Cliff", ha fatto posto ad inevitabili prese di beneficio
sui mercati nella seduta di ieri. L'inversione di tendenza tuttavia è stata limitata, in Europa, alla prima metà
della seduta. Nel primo pomeriggio infatti il rapporto mensile di Adp sull'occupazione negli Stati Uniti ha
infatti riservato buone sorprese agli investitori. Nel mese di novembre - ha rilevato la società di consulenza - il
settore privato americano ha creato 215.000 posti di lavoro. Il dato, che mostra il maggior incremento da
febbraio 2012, è nettamente superiore alle attese degli analisti che si aspettavano un aumento di 140mila unità.
La stima, che anticipa i dati ufficiali che saranno pubblicati oggi dal dipartimento del lavoro, ha alimentato un
certo ottimismo sullo stato di salute della prima economia del mondo favorendo sui mercati la «propensione al
rischio». In particolare sul fronte obbligazionario dove si è assistito ad una nuova positiva performance dei titoli
titoli italiani e spagnoli con rendimenti e spread in calo su tutta la curva dei rendimenti. Il tasso sul BTp a 2
anni, che martedì era sceso di 26 punti, ieri è calato di altri 8, chiudendo all'1,65 per cento. Il rendimento del
BTp a 5 anni ha chiuso al 3%, mentre sulla scadenza decennale si è attestato al 4,22 per cento. In entrambi i
casi si tratta di livelli che non si vedevano da fine 2010. Movimenti analoghi si sono visti sui titoli spagnoli con
il tasso sul Bonos decennale sceso sotto la soglia psicologica del 5% per la prima volta da marzo 2012. Lo
spread BTp-Bund si è attestato a fine seduta a 275, ai livelli di agosto 2011. Un movimento marcato a cui ha
contribuito la nuova impennata dei rendimenti sui titoli tedeschi che ieri, al pari di tutti i cosiddetti «asset
rifugio», hanno sperimentato la seconda giornata consecutiva di vendite. I tassi sul Bund tedesco decennale,
dopo una mattinata intorno all'1,44%, si sono impennati pochi minuti dopo le 14 (in coincidenza con la
pubblicazione dei dati americani) arrivando a chiudere all'1,48%, ai massimi da due mesi. In decisa risalita
anche i rendimenti sui titoli francesi. L'andamento del mercato secondario tuttavia non ha condizionato l'asta
del Tesoro francese, che ieri ha piazzato 7,993 miliardi di euro di titoli a scadenza 2019, 2020, 2022 e 2032 con
rendimenti decisamente contenuti: 1,32%, 1,46%, 2,07%, 2,84% rispettivamente.
L'interesse per i titoli dei Paesi cosiddetti «core» insomma resta forte, nonostante il clima decisamente
favorevole di questi giorni. C'è da dire però che, nonostante le vendite delle ultime sedute, i tassi di Germania e
Francia restano ancora estremamente bassi. Addirittura negativi, fino alla scadenza di un anno, nel caso di
Berlino.
La stima Adp sul mercato del lavoro negli Usa ha fatto da spartiacque anche nel caso del mercato azionario. Le
Borse europee infatti, reduci dal rally di inizio anno, solo nella mattinata sono state frenate dalle prese di
profitto, e hanno recuperato chiudendo contrastate. Il saldo è positivo per Milano (+0,1%), Londra (+0,33%) e
Zurigo, che l'altroieri era chiusa e si è rimessa al passo con gli altri listini (+2,83%). Hanno chiuso in negativo
invece Parigi (-0,23%), Francoforte (-0,26%) e Madrid (-0,52%). In altalena Wall Street. Dopo un'apertura
debole e un successivo recupero, gli indici hanno virato bruscamente al ribasso poco dopo la diffusione delle
"minute" della Fed. Dai verbali infatti è emersa una divisione nel direttivo sul piano di acquisto di titoli che,
secondo alcuni membri preoccupati dei rischi sulla stabilità finanziaria, dovrebbe essere interrotto prima della
fine dell'anno. Si tratta del primo segnale di svolta in senso "restrittivo" dal crack di Lehman Brothers del 2008.
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*il Sole 24ORE* Venerdì, 4 Gennaio 2013
Credito. Nel mirino Ue le restrizioni dei regolatori nazionali sui trasferimenti di liquidità
Bruxelles: stop alla Germania
sui divieti di Bafin a UniCredit
Anche l’Eba va in pressing con le Autorità tedesche
MILANO
La Commissione europea alza la guardia sugli ostacoli alla circolazione dei capitali nelle banche europee, in
particolare tra le capogruppo e le filiali estere. L'attenzione, come ha fatto intendere ieri il portavoce del
Commissario Michel Barnier, Stefaan De Rynck, è concentrata soprattutto sull'autorità tedesca, la Bafin, e i
gruppi bancari con una presenza articolata su Paesi diversi, quindi i riferimenti non troppo velati sono per
UniCredit, che a fine 2011 avrebbe registrato limitazioni da parte del regolatore tedesco allo spostamento di
capitali della controllata Hypovereinsbank (Hvb) per rafforzare le casse della capogruppo in Italia.
Da allora la situazione è radicalmente cambiata. Prima le iniezioni di liquidità della Bce, poi le azioni delle
banche (in primis UniCredit) per consolidare le proprie disponibilità hanno consentito di superare la fase
d'emergenza, ma il problema è rimasto, seppur su un piano al momento solo teorico.
Di qui la presa di posizione della Commissione, in un momento decisivo in cui c'è da concretizzare l'accordo
sulla vigilanza bancaria raggiunto prima di Natale. Bruxelles almeno per ora non prevede l'apertura di una
procedura d'infrazione, ma intende appurare se ci siano ostacoli da parte di autorità nazionali alla circolazione
dei capitali all'interno di singoli gruppi bancaria: «Stiamo cercando di capire se alcuni regolatori hanno messo
in atto pratiche di questo tipo, compresa la Germania», ha detto ieri il portavoce di Barnier. Sottolineando, poi,
che l'obiettivo primario è «la libera circolazione dei capitali e il completamento del mercato unico».
In particolare, sotto la lente di Bruxelles c'è il caso UniCredit-Bafin, emerso oltre un anno fa, quando il
regolatore tedesco avrebbe tentato di impedire al gruppo di raccogliere fondi attraverso la sua controllata
tedesca Hvb (quindi a tassi più contenuti), temendo che questo potesse mettere a repentaglio la sicurezza del
risparmio tedesco. La condotta della Bafin aveva destato l'immediata reazione della Banca d'Italia e Piazza
Cordusio, secondo quanto riferito ieri dal quotidiano tedesco Handelsblatt, avrebbe agito «in seno all'Eba»,
l'Autorità di supervisione bancaria Ue impegnata nell'azione accanto alla Commissione, perché questa facesse
"pressione" sulla Bafin. «L'Eba può giocare un ruolo di mediazione» tra le autorità di supervisione nazionali,
che hanno «l'obbligo di cooperare tra loro», ha spiegato il portavoce del commissario Ue al mercato interno
Michel Barnier, lasciando intendere che nel mirino di Bruxelles ci sarebbero anche l'authority britannica Fsa,
per comportamenti simili imposti a istituti ciprioti e al Santander, e autorità di altri paesi del Nord.
Tornando a UniCredit, la banca non conferma eventuali pressioni sull'Eba perché – si fa notare – il gruppo non
ha problemi di liquidità in nessuno dei Paesi in cui opera, dunque non c'è bisogno di alcun trasferimento di
cassa. Tuttavia in Piazza Cordusio si continua a seguire da vicino il cammino dell'unione bancaria, come ha
ancora ricordato il ceo Federico Ghizzoni a metà dicembre, alla presentazione dell'UniCredit tower: «Con
l'unione – aveva dichiarato – sicuramente la liquidità circolerà più di prima e penso anche col tempo anche i
suoi costi dovrebbero scendere».
Ma.Fe.
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*il Sole 24ORE* Venerdì, 4 Gennaio 2013
di: Marco Ferrando e Sara Monaci
Enti. Lunedì parte il bando per altri 7 posti
Fondazione Cariplo,
pronte le terne dei candidati alla Ccb
IN CORSA
Scontata la conferma di Guzzetti ed Enoc, per la Regione resta Sangalli Tra le possibili new
entry anche Cesare Cadeo
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MILANO – Per il presidente, Giuseppe Guzzetti, e i suoi due vice, Mariella Enoc e Carlo Sangalli, la conferma
è praticamente certa. Tra i 40 rappresentanti dell'organo di indirizzo della Fondazione Cariplo, ovvero la
Commissione centrale di beneficenza, potrebbe arrivare invece qualche avvicendamento in più, anche per
effetto delle ultime tornate elettorali che hanno cambiato i colori politici di molti degli enti locali cui spetta
individuare i rappresentanti nell'ente. E tra i candidati a un posto spuntano anche alcuni nomi noti, come l'ex
conduttore televisivo Cesare Cadeo, la docente in Bocconi Paola Antonia Profeta, la direttrice del Caf-Centro di
aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia in crisi, Tiziana Macciò.
In fondazione le procedure per il rinnovo degli organi stanno entrando nel vivo in questi giorni. Il 31 dicembre
scorso, infatti, scadeva il termine imposto a Comune di Milano, Regione Lombardia e alle province lombarde e
piemontesi per presentare le terne all'interno delle quali – nel mese di aprile – la Commissione uscente, in
carica fino al 30 aprile, sceglierà i commissari per il prossimo mandato di sei anni. In questo modo verranno
arruolati i 20 rappresentanti che spettano al territorio; gli altri 20, invece, sono espressione della società civile:
lunedì verrà pubblicato (anche sul sito della fondazione) il bando per le candidature da parte delle onlus da cui
saranno individuati sette commissari, altrettanti saranno nominati direttamente dalla commissione uscente tra
personalità di alto profilo, mentre gli ultimi sei saranno nominati pescando da altrettante terne "di settore",
spettanti ad esempio all'arcivescovo di Milano e alla conferenza dei rettori lombardi.
Tornando ai nomi, buona parte delle terne è già nota. Il Comune di Milano, a cui spettano tre rappresentanti, ha
presentato due terne al maschile e una tutta composta da donne: nella prima figurano Giovanni Battista
Armelloni, presidente Acli Lombardia, già in commissione su indicazione della Provincia di Milano; Roberto
Camagni, ex assessore comunista degli anni '80 già commissario in quota Ciomune di Milano e Alberto
Mingardi, manager di società private. Nella seconda terna ci sono l'avvocato Carlo Cerami, già in cda, ex
consigliere comunale del Pds, sostenuto da una parte del Pd comunale; l'avvocato Stefania Bariatti e Giovanni
Fosti, docente alla Bocconi. Nella terza terna Tiziana Macciò, Maria Grazia Mattei, consulente economica di
enti pubblici e privati e Paola Antonia Profeta, docente alla Bocconi. Nessuna chance di conferma, dunque, per
Alberto Albertini e Antonella Camerana, nominati dalla giunta Moratti ed esclusi dalle terne formulate dal
sindaco Giuliano Pisapia, col supporto del suo capo di gabinetto Maurizio Baruffi.
Anche la Provincia di Milano, che esprimerà due rappresentanti, ha proposto due terne. Questo l'elenco
complessivo: gli avvocati Giuseppe Iannaccone, Lorenzo Agnoloni (figlio dell'avvocato Marzio Agnoloni,
presidente della società provinciale Serravalle e ad della controllata Pedemontana) e Roberto Braguti; la
consulente del settore sociale Adriana Pavin; l'ex conduttore televisivo Cesare Cadeo e l'architetto Franco
Varini. La Regione Lombardia, cui tocca esprimere un nome, ha depositato una sua terna di consiglieri, tra cui
spicca il presidente della Camera di commercio di Milano Carlo Sangalli, già numero due della Fondazione e
che molto probabilmente verrà riconfermato. Tra le altre terne depositate, spicca quella spettante alla Provincia
di Novara, in cui figura il nome di Mariella Enoc, anche in questo caso destinata alla conferma nel ruolo di vice
presidente.
Alla nuova Commissione centrale spetterà la nomina del presidente e dei due vice ma anche del consiglio di
amminitrazione, da cui è probabile l'uscita di Bruno Ermolli: è anche consigliere di Mediobanca e tra le nuove
cause incompatibilità previste dallo statuto per commissari e consiglieri c'è l'esercizio di cariche negli organi
gestionali di società concorrenti alla banca conferitaria.
*il Sole 24ORE* Venerdì, 4 Gennaio 2013
di: Riccardo Sabbatini
Assicurazioni. Nel progetto di fusione pubblicato ieri spicca il parere di Cattaneo
L’advisor critica la cedola Unipol
I MALUMORI
Per il docente della Cattolica il dividendo pre-fusione non è stato una scelta «ottimale»
Perplesso sui concambi il consigliere Giancarlo Galli
La distribuzione di un dividendo di 150 milioni agli azionisti di Unipol prima del matrimonio con Fonsai è stata
una scelta «possibile» ma non «ottimale». Nella FonSai che sta preparandosi all'incorporazione con Unipol è
finito il tempo delle polemiche ma non quello dei dubbi.
Nelle 275 pagine del progetto di fusione, pubblicato ieri sul sito web della società, fanno appunto spicco quelli
espressi dall'advisor Mario Cattaneo, ordinario all'Università Cattolica di Milano, sulla decisione della
compagnia bolognese di remunerare i propri soci prima della fusione, a differenza di quello che farà invece
Fonsai. Dubbi che si saldano alla scelta di astenersi sui rapporti di concambio presa dal consigliere di
minoranza di Fonsai Giampaolo Galli, motivata dall'insufficienza della comunicazione di cui ha potuto
disporre.
Le «perplessità» di Cattaneo non attengono alle ragioni del dividendo – in precedenza, ha spiegato, era circolata
anche la cifra di 250 milioni – di cui peraltro è stato tenuto conto nelle fairness opinion degli altri consulenti
(Goldman Sachs e Citi). Però, sul piano del metodo, sarebbe stato «preferibile» – ha osservato – modificare i
precedenti valori di concambio.
Inoltre quella distribuzione di utili sarà resa possibile «in parte da circostanze esterne e in parte dalla
rivisitazione di poste patrimoniali la cui stima si presenta, nella congiuntura generale e nei mercati attuali, come
particolarmente incerta e variabile». Ciò che avrebbe anche potuto suggerire di non fare alcunchè. Infine
Cattaneo ha richiamato, parlando in generale, il valore della liquidità e la «grande prudenza» con cui le imprese
decidono di distribuirla agli azionisti nell'attuale congiuntura economica.
Venendo all'astensione di Galli, il consigliere di minoranza di Fonsai l'ha motivata con il fatto di non essere
«stato messo nelle condizioni di poter decidere con piena consapevolezza». Galli avrebbe preferito un rinvio
della decisione sui concambi per giungere ad una valutazione «più adeguata» sull'operazione.
Nel merito le riserve dell'ex direttore generale di Confindustria e Ania attengono all'insufficiente, a suo dire,
flusso di informazioni di cui il comitato di indipendenti di cui faceva parte ha potuto disporre. Trattandosi di
un'operazione con parti correlate il suo parere, peraltro, era decisivo per il via libera alla fusione. La società –
ha spiegato Galli nella sua dichiarazione messa a verbale – ha fornito «la necessaria documentazione»
all'advisor scelto dal comitato (Citi) ma quest'ultimo in corso d'opera – ha aggiunto – ha potuto fornire agli
amministratori «informazioni solo molto parziali e valutazioni preliminari».
Sono osservazioni da cui si evince che Citi ha contratto con la società un obbligo di riservatezza che in parte è
stato fatto valere anche nei confronti di chi (gli indipendenti) l'ha scelto. Il punto – ha rimarcato Galli – sta
proprio lì. L'advisor – ha osservato – è «un fiduciario del comitato» e se i suoi componenti «vogliono avere
accesso diretto alla documentazione rilevante per l'operazione, di qualunque natura essa sia, tale richiesta deve
essere soddisfatta». Ciò che per Galli, evidentemente, non è avvenuto a differenza di quanto hanno invece
ritenuto gli altri due componenti del comitato di indipendenti, Angelo Busani e Barbara Tadolini.
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*il Sole 24ORE* Venerdì, 4 Gennaio 2013
di: Giovanni Vegezzi
Mercati. Mergermarket: il 2012 si chiude con la ripresa nel quarto trimestre (+45,6%)
Azioni
La crisi dell’eurozona
frena l’attività dell’M&A
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La crisi dell'eurozona rallenta nel 2012 tutto il mercato globale delle fusioni e acquisioni. Le paure sulla rottura
dell'area monetaria europea, l'aumento vertiginoso del costo del debito, gli effetti sull'economia reale, si sono
seduti al tavolo delle operazioni di M&A di tutto il mondo facendo tirare il freno un mercato che ha fatto
segnare, nei 12 mesi appena trascorsi, un valore 2.174 miliardi di dollari, il più basso dal 2010. A tirare le
somme (indicando valori in diminuzione del 2,7% rispetto al 2011) è l'ultima ricerca pubblicata da
Mergermarket, società di ricerca del Financial Times Group. Certo, non tutto l'anno è stato negativo e i dati
mostrano un miglioramento (+13,3% nel secondo semestre, con l'ultimo trimestre in recupero del 39,5%
rispetto a quello precedente e addirittura a +45,6% rispetto allo stesso periodo del 2011), proprio mentre i
problemi della zona euro hanno iniziato a districarsi. Eppure il panorama complessivo è la prova che la crisi del
debito ha pesato eccome, sopratutto nel suo epicentro: le operazioni fatte nell'area della moneta unica europea
(296,3 miliardi di dollari nel 2012) hanno contribuito a poco più del 13% dell'M&A globale, in discesa rispetto
alla fetta del 16% che si erano aggiudicate nel 2011.
E se i deal hanno visto una ripresa negli ultimi tre mesi dell'anno, a livello continentale rimane significativo il
movimento dei paesi extra-euro (con Regno Unito e Irlanda che coprono da soli più di un quinto del mercato) e
l'operazione Glencore-Xstrata a trainare il risultato con un valore di 45,6 miliardi di dollari (quasi il 7% di tutte
le transazioni continentali).
E l'Italia? Un po' defilato rispetto agli altri grandi europei il nostro mercato si assicura una quota del 7,1% nel
valore e del 5,9% nei volumi di M&A, soprattutto grazia a un'operazione di matrice pubblica (il passaggio della
quota Sace dal Tesoro a Cdp per un valore pari a 7,8 miliardi di dollari) che si posizione nella top-ten
continentale. Spiragli, spiegano gli analisti di Mergermarket, potrebbero essercene per il 2013, ma quello
italiano sembra confermarsi un terreno di conquista grazie agli appetiti asiatici per i marchi del made in Italy.
E se fra i segnali per i prossimi 12 mesi si vedono in Europa occasioni dovute alle privatizzazioni nei paesi più
in crisi, su tutto il continente continua ad aleggiare il rischio dell'insolvenza: la zona euro infatti ha pesato su
tutta Europa, trasformandola nella regione più insolvente (220 operazioni andate male per un valore di 7,4
miliardi di dollari), generando il 43% di tutta i mancati pagamenti a livello globale.
Una bella responsabilità che ha frenato le operazioni anche in altri mercati maturi: gli Stati Uniti, che
continuano ad essere la locomotiva globale dell'M&A, hanno visto infatti scendere il valore del 4,7% rispetto al
2011 a 768,9 miliardi di dollari, nonostante il mercato abbia segnato una ripresa di quasi il 20% nell'ultimo
trimestre dell'anno. È andata meglio all'area Asia-Pacifico – che, escluso il mercato giapponese, pesa per il 17%
dell'M&A globale – e all'aggregato degli emergenti in generale che sfiorano ormai un quarto del mercato e con
oltre 500 miliardi di dollari di valore hanno segnato un aumento del 5% rispetto all'anno precedente.
E mentre Goldman Sachs conferma la propria posizione di leadership come advisor (esclusa l'Europa dove
viene sorpassata da Morgan Stanley) la ricerca delinea anche altre tendenze: innanzitutto settoriali con i media,
la difesa e soprattutto l'agricoltura a farla da padroni in questi tempi di crisi: quest'ultimo settore, in particolare,
ha visto un aumento del 40% con operazioni per 14,3 miliardi di dollari nel 2012. Inoltre si evidenzia un netto
segno meno sui buyout compiuti dai private equity che a 243,2 miliardi di dollari segnano il loro record
negativo dal 2010 (-13,3% rispetto allo scorso anno), ma vedono salire l'indebitamento con un peso sul
finanziamento totale che si avvicina al 60% rispetto al 56% del 2011. Un segnale preoccupante, segnalano gli
analisti di Mergermarket, visto che la leva sta raggiungendo per la prima volta i livelli più alti dall'inizio della
crisi.
*CORRIERE DELLA SERA* Venerdì, 4 Gennaio 2013 di: Leonard Berberi
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Un mutuo per gli universitari,
«pagheranno da lavoratori»
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Da un lato i problemi. Almeno tre. «Le tasse universitarie sono troppo basse per chi studia e può permettersi di
pagare di più». «Gli atenei sono poco autonomi e qualificanti». E «non si fa nulla per ridurre il rischio legato
all'investimento che uno studente deve effettuare per laurearsi: chi nasce in una famiglia povera, non essendo
sicuro di trovare lavoro dopo la laurea, si ferma alle superiori».
Dall'altro lato, le soluzioni. Che invitano le università (e lo Stato) a ripensare il sistema. «Gli atenei devono
poter disegnare la propria offerta formativa attraendo i migliori docenti». Ma soprattutto: «Devono essere gli
studenti a pagarsi le rette con un finanziamento da restituire con i redditi che guadagneranno quando
inizieranno a lavorare, ma solo se saranno sufficienti».
L'idea di questa forma nuova di finanziamento — o meglio: di «borsa rimborsabile» — in funzione del reddito
futuro è di Andrea Ichino, docente di Economia politica all'Università di Bologna, e Daniele Terlizzese,
direttore dell'Einaudi Institute for Economics and Finance. Ed è spiegata nel libro «Facoltà di scelta —.
L'università salvata dagli studenti. Una modesta proposta» (Rizzoli), da oggi in libreria.
Centosessantanove pagine in cui i due esperti non risparmiano critiche all'attuale gestione del sistema
universitario. Smontano alcuni «miti». Spiegano che laurearsi, nonostante tutto, conviene «perché porta ad
avere una retribuzione media più alta di chi s'è fermato al diploma». Offrono un'alternativa. Nel farlo si
appellano a una similitudine: quella del cliente e del ristorante. «Quando andiamo a mangiare fuori», scrivono,
«siamo contenti di scegliere il locale che preferiamo tra quelli disponibili. La nostra stessa possibilità di scelta,
premiando i ristoranti migliori, stimola la qualità del servizio offerto». Un «ciclo virtuoso» che dovrebbe valere
anche tra le università. Perché oggi gli studenti non hanno le risorse per scegliere e sono costretti ad
accontentarsi «di atenei tutti uguali per decreto e incapaci di offrire formazione all'avanguardia».
I due autori chiariscono che anche se l'università, per sua stessa natura, non può essere per tutti, va rimosso il
vincolo economico che porta i meritevoli a rinunciare agli studi se alle spalle hanno una famiglia con un basso
reddito. Una soluzione, avanzata da molti, è quella di investire di più nelle borse di studio a fondo perduto. Una
strada poco percorribile, per Ichino e Terlizzese, in tempi in cui sullo Stato pesa un debito pubblico record e
agli atenei viene chiesto di tagliare e risparmiare.
Ecco allora una possibile soluzione. In prima istanza gli studenti più promettenti ricevono un finanziamento
«che da un lato li libera dal vincolo delle risorse familiari, dall'altro consente loro di essere selettivi ed esigenti
nella scelta dell'università». Si tratterebbe di circa 80 mila euro (per cinque anni di studio), da restituire quando
e soltanto se si avrà la possibilità di farlo, in proporzione (10%) a quello che si guadagna oltre i 15 mila euro.
Un esempio: con una retribuzione annua di 16 mila euro lordi, lo studente dovrebbe rimborsare soltanto 100
euro all'anno. A gestire tutta l'operazione, nell'idea dei due autori, dovrebbe essere la «Fondazione per il
merito». I soldi arriverebbero da un finanziamento concesso dalla Cassa depositi e prestiti. Mentre la
fondazione avrebbe un fondo di garanzia alimentato dalle università che vogliono aderire, in cambio di una
maggiore autonomia.
Funzionerà? «Non chiediamo una rivoluzione», chiariscono gli autori. «Ci basterebbe anche soltanto che una
piccola parte dei dipartimenti universitari potesse iniziare gradualmente a operare in un modo diverso. Un
esperimento pilota che gli altri potrebbero decidere di seguire o meno».
*CORRIERE DELLA SERA* Venerdì, 4 Gennaio 2013 di: Giovanni Stringa
La caduta dello spread: quota 275
Mai così giù da agosto del 2011
«In Europa disoccupazione record, oltre 20 milioni di persone»
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MILANO — È un'Europa rovesciata, quella vista ieri sui mercati dei titoli di Stato. Controcorrente rispetto agli
anni passati, i tassi sul debito della metà virtuosa del continente sono tutti saliti, mentre i rendimenti dell'altra
metà — quella «periferica» — sono scesi in blocco. E' successo ai principali Paesi del Nord e del Sud. Sul
primo versante — dentro e fuori dall'euro — sono lievitati i tassi di Germania, Gran Bretagna, Francia, Paesi
Bassi e perfino dello Stato più sicuro per eccellenza, la Svizzera. Poco più a Sud, invece, si sono ridotti i
rendimenti di Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Il risultato, per Roma, è uno spread italo-tedesco sceso a 275
punti, ai minimi dall'agosto 2011. Ed è tornato pure intorno ai valori di allora, stavolta salendo e non
scendendo, l'indice Global Dow che riassume il valore delle Borse mondiali (2.050 punti circa negli ultimi
giorni). Un anno e mezzo fa scoppiava la stagione infuocata del debito pubblico, in Europa ma anche negli Stati
Uniti, colpiti dal «downgrading» dell'agenzia di rating Standard & Poor's. In Italia arrivava da Francoforte
una lettera — indirizzata all'allora premier Silvio Berlusconi — con cui la Banca centrale europea indicava le
misure antispeculazione da adottare «con urgenza» per «rafforzare l'impegno alla sostenibilità del bilancio e
alle riforme strutturali».
Ma oggi gli allarmi non sono certo finiti. Nel 2013, secondo uno studio di Ernst & Young, i 17 Stati
dell'Eurozona raggiungeranno un picco di 20 milioni di senza lavoro, che colpirà particolarmente duro in Paesi
del Sud come Grecia e Portogallo, con tassi di disoccupazione tra il 28 e il 17%. E «continuerà la recessione»
anche in Italia. La Germania, invece, nell'anno appena concluso ha registrato il tasso di disoccupazione più
basso dal 1991, anche se i senza lavoro sono comunque ancora 2,9 milioni e gli ultimi dati (mese su mese) sono
in crescita. Le nuove statistiche hanno poi indicato, per la Spagna, la prima flessione in cinque mesi degli
inoccupati (-59 mila, ma la percentuale dei senza lavoro resta altissima) e un numero di assunzioni nel settore
privato migliore del previsto negli Stati Uniti (215 mila unità contro le 140 mila attese).
Se sul mercato del lavoro si ragiona in termini mensili o annuali, su quello obbligazionario i confronti sono
giornalieri. Può così diventare significativa la tendenza dei primi due giorni di contrattazione di questo 2013,
con un certo spostamento di alcuni investitori internazionali dal debito europeo «settentrionale» verso quello
«meridionale», come indica l'andamento dei tassi. Il rendimento dei Btp decennali, per esempio, ieri è sceso ai
nuovi minimi dal 2010, a quota 4,23%. Passando dal mercato secondario a quello primario, è andata bene
l'emissione della Francia che ha collocato titoli per 8 miliardi di euro con rendimenti in calo al 2,07% sul
decennale.
Sul versante azionario, le Borse europee hanno sostanzialmente confermato i livelli del giorno prima, raggiunti
con il «botto» di inizio anno sulla scia dell'accordo americano sul «fiscal cliff». Sono però mancati nuovi slanci,
dopo il monito del Fmi e dell'agenzia di rating Moody's a Washington. Milano ha chiuso in progresso dello
0,10% e Londra dello 0,33%. In calo Francoforte (-0,29%) e Parigi (-0,34%). In serata New York ha terminato
le contrattazioni con un -0,16%.
*CORRIERE DELLA SERA* Venerdì, 4 Gennaio 2013
di: Massimo Sideri
@massimosideri
«La discesa? Può continuare,
rendimenti sotto il 4%»
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Super Mario 1 contro Super Mario 2. La vexata quaestio non è nuova ma ora, con lo spread che (incrociamo le
dita) continua giorno dopo giorno a raggranellare qualche basic point, la paternità di questa discesa è anche una
chiave di lettura del fenomeno in corso. E dunque: 283 punti di differenziale è da considerarsi la «soglia Monti»
o la «soglia Draghi»? «Direi che è una soglia Bce, dunque Draghi» sentenzia con l'occhio più rivolto ai mercati
internazionali che alla politica interna Mario Spreafico, capo degli investimenti di Schroders Italy. «Quello che
sta avvenendo, fino a prova contraria, è un ritorno indietro legato al dietrofront della Germania e
all'atteggiamento molto più morbido nei confronti delle ricette di austerity che si sono dimostrate recessive.
Non mi stupirei di vedere il Btp decennale sotto il rendimento del 4% anche in poche settimane (ora siamo al
4,23%, NdR)».
Insomma, il punto di ritorno è o sarebbe stato l'annuncio del piano Bce dello scorso agosto. Ma ora il punto è se
si può iniziare a sognare la quota che ci porterebbe totalmente fuori pericolo, la soglia di salvataggio «200». «È
presto per dire che siamo fuori da una soglia di attenzione». Molto dipende dalla crescita globale del 2013 sulla
quale aleggiano punti interrogativi ancora molto forti.
Gli Usa si stanno riprendendo e sono sostenibili con l'accordo sul «fiscal cliff»?
I tassi eccezionalmente bassi in Europa ma disequilibrati smuoveranno la liquidità in circolazione?
I mercati emergenti, ancora esuberanti ma molto contrastati, si stabilizzeranno?
«C'è spazio per una fase di riequilibrio — riprende Spreafico — soprattutto per le economie che sono state
ingiustamente penalizzate come l'Italia. I mercati si attendono un reverse fly to quality: i soldi che sono andati
in Germania nel 2012 usciranno? In altre parole come si sgonfierà questo fly to quality che in realtà è stata
anche un'appropriazione indebita visto che si sono finanziati a tassi zero a svantaggio degli altri?». In soldoni la
vera domanda che si sta ponendo il mercato non è quanto scenderà il rendimento italiano ma quanto salirà
quello tedesco. «L'attuale 1,5 comprende sempre un assorbimento eccessivo di liquidità». Un punto di vista che
suffraga anche il timore che quella dell'ultimo anno sia stata un'osservazione maniacale e perversa dello spread
che peraltro, preso come barometro giornaliero, con la sua volatilità legata alla crisi ha perso l'originario
significato di parametro a lungo termine. Dunque, tornando alle definizioni: se lo spread è il differenziale tra il
rendimento dei Btp a dieci anni e il corrispondente Bund tedesco, mentre noi guardiamo allo «spread politico»
italiano i mercati continuano a guardare, nel bene o nel male, alla Germania. Per l'orgoglio è un duro colpo. Ma
per l'addio alla «soglia Napoleoni» — intesa come Loretta che aveva previsto il baratro per l'Italia per l'aprile
venturo — è un sospiro di sollievo.
*CORRIERE DELLA SERA* Venerdì, 4 Gennaio 2013
di: Marika de Feo
L’Europa avverte Berlino:
no al protezionismo bancario
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FRANCOFORTE – La Commissione europea si è detta «preoccupata» per i vincoli imposti dall'autorità di
vigilanza Bafin alle filiali di banche estere in Germania, come ad esempio Unicredit, che limitano i
trasferimenti di capitali verso la casa madre in Italia o in altri paesi europei. Da molti mesi la questione è
dibattuta nei settori bancari e fra le rispettive autorità di vigilanza nazionali, fra la Bafin e Banca d'Italia. Ma
per la prima volta Stefaan De Rynck, portavoce del Commissario Michel Barnier per la Regolamentazione del
mercato unico nella Ue, ha confermato che «stiamo verificando se le autorità di vigilanza tedesche stanno
seguendo le regole sul capitale nella Ue». E se «tale comportamento potrebbe danneggiare il mercato unico e la
libera circolazione dei capitali» prescritta dai Trattati dell'Unione europea.
Un intervento che ha fatto scattare nel mercato bancario attese di possibili provvedimenti, che potrebbe
prendere Bruxelles, in continuo contatto anche con l'autorità di vigilanza europea Eba, guidata dall'italiano
Andrea Enria, considerata anche dalla Commissione come una possibile mediatrice nella situazione delicata che
coinvolge grandi banche, non solo Unicredit, e “varie” autorità di supervisione bancaria nell'eurozona. Il
portavoce del Commissario Barnier non si è pronunciato, per ora, sull'eventualità che venga avviata una
procedura comunitaria d'infrazione dei Trattati. Anche perché finora la Bafin si è difesa sostenendo che i
provvedimenti di limitazione della liquidità delle filiali tedesche verso le case madri delle banche è stata presa
per proteggere gli istituti in Germania contro i proprietari stranieri in crisi. E De Rynck ieri è stato molto cauto,
sostenendo che «queste misure in certi casi potrebbero anche essere giustificate», e per questo “bisogna vedere
se rispettano il principio di proporzionalità”. E concludendo che, se fosse già in vigore nell'eurozona la nuova
autorità di supervisione paneuropea sotto il tetto della Bce (attesa per il 2014), «il problema non si porrebbe».
D'altra parte, se è vero che ora il problema del rifornimento della liquidità, non è più acuto come l'anno passato,
dopo che la Bce ha aperto i «rubinetti», inondando di liquidità il sistema, e le banche, anche Unicredit, ne
hanno quasi in eccesso, è anche vero, come risulta dai dati diramati ieri da Eurotower, che il credito alle
famiglie e imprese ancora non riparte, soprattutto nella periferia d'Europa, mentre pesano incertezze sulla
crescita, e una ripresa è attesa soltanto nel corso di quest'anno.
Ieri era stato il quotidiano economico «Handelsblatt» a lanciare l'indiscrezione di una verifica in corso
sull'autorità Bafin, da parte della Commissione, insieme all'Eba. Citando anche Stefan Winter, presidente
dell'Associazione delle banche estere e numero uno di Ubs in Germania, il quale, facendo capire che il
problema coinvolge anche le grandi banche estere, ha spiegato che i vincoli imposti mettono a rischio “modelli
di business” delle grandi banche europee, costretti a limitare l'apporto di capitale (al 50%-100% dei mezzi
propri della filiale tedesca) alla casa madre.
*CORRIERE DELLA SERA* Venerdì, 4 Gennaio 2013
DAL NOSTRO INVIATO Giuseppe Sarcina
La grande fuga dalle supertasse
Goldman dà i bonus in anticipo
Assegnati 65 milioni di azioni prima dell'accordo sul «fiscal cliff»
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NEW YORK — Nel novembre scorso il signor Lloyd Blankfein, amministratore delegato del gruppo
finanziario Goldman Sachs, scrisse un articolo per il «Wall Street Journal» che cominciava così: «Io credo che
l'aumento delle tasse, specie per i più ricchi, sia una misura appropriata, ma solo se unita a seri tagli sulla spesa
discrezionale e sui capitoli del welfare».
Poche ore prima della notte di San Silvestro, Blankfein cambiava idea. Può succedere, specie se il consiglio di
amministrazione ti consegna un foglietto con due cifre: 66.065 azioni per un valore di 8,4 milioni di dollari.
D'accordo, tutti i top manager americani, se le cose vanno bene, sono premiati con i «bonus», titoli della loro
società trattati in Borsa. Il 2012, su questo non ci sono discussioni, è stato un bell'anno per Goldman Sachs: in
dodici mesi la quotazione a Wall Street è salita del 40%. Di solito, però, la cerimonia delle gratifiche avviene a
gennaio. L'anno scorso, per esempio, nel primo mese dell'anno lo stesso Blankfein ottenne 16,2 milioni di
dollari. Perché tanta fretta questa volta? La risposta è semplice: «Fiscal cliff». Nella settimana tra Natale e
Capodanno, i parlamentari americani e la Casa Bianca hanno dato vita a un confuso e drammatico negoziato per
evitare che il Paese cadesse nel «baratro fiscale», il «fiscal cliff» appunto. Il primo gennaio la Camera dei
rappresentanti ha approvato il provvedimento finale che cancella, tra l'altro, l'aumento delle tasse per il 99% dei
contribuenti. Pericolo scampato, dunque, per la stragrande maggioranza degli americani, precisamente per tutti
coloro che guadagnano fino a 400 mila dollari all'anno (per i single) o 450 mila per le famiglie. Ma i top
manager, spiace dirlo, non sono coperti. Per loro che fanno parte dell'1% degli americani più ricchi scatterà,
anzi, l'aumento dell'aliquota, dal 35% al 39,6%. Inoltre il pacchetto contiene una misura che darà dispiacere agli
investitori, questa volta sia grandi che piccoli: da quest'anno l'aliquota del prelievo sui dividendi salirà dal 15%
al 20%.
Per i cervelloni finanziari di Goldman Sachs il calcolo è stato semplice. Non appena hanno visto democratici e
repubblicani accapigliarsi, con il presidente Barack Obama sempre più nervoso, quando hanno capito che il
risultato fiscale sarebbe stato imprevedibile, allora si sono decisi a muoversi in anticipo. Nella finanza, del
resto, la variante tempo è decisiva. Così la società newyorkese ha distribuito 65 milioni di dollari in premi,
giusto poche ore prima che i fuochi d'artificio di Times Square salutassero l'arrivo del 2013. Oltre a Blankfein
sono stati beneficiati nove super dirigenti. Gary Cohn, il direttore generale, e David Viniar, il direttore
finanziario, hanno ricevuto gli stessi 8,4 milioni in azioni passate al boss.
A proposito, mercoledì 2 gennaio, il giorno dopo che i deputati della Camera dei rappresentanti avevano dato il
via libera definitivo al «bill», il signor Blankfein, messi al riparo il «bonus» 2013 da sorprese sgradevoli, si è
sciolto su Twitter: «Questo accordo è un passo in avanti per alimentare la crescita e la fiducia degli investitori
nell'economia americana».
*la Repubblica*
Venerdì, 4 Gennaio 2013
di: GIOVANNI PONS
Entro il 15 gennaio le eventuali disdette. Lontano un accordo con Malacalza o con i fondi per
le holding
Pirelli al rinnovo del patto sul 45%
con le incognite Generali e Allianz
MILANO
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— Un altro passaggio delicato per il gruppo Pirelli. Entro il 15 gennaio devono pervenire le eventuali disdette
al patto di sindacato che racchiude il 45,5% del capitale della società di pneumatici, di cui il 20,2% è
rappresentato dalla quota di Camfin. Sembrano scontate le conferme di Mediobanca, Lucchini, Edizione
Holding, Moratti e Intesa Sanpaolo. Ma anche Fonsai, ormai sotto il controllo di Unipol, si avvia al rinnovo
anche se in primavera Carlo Cimbri aveva annunciato che non era interessato alle partecipazioni nei salotti.
Evidentemente la vicinanza con Mediobanca gli ha fatto cambiare idea.
Più incerte sono invece le adesioni a un nuovo patto triennale di Generali e Allianz. Il nuovo ceo del Leone
Mario Greco ha già dichiarato di voler concentrare le attenzioni della compagnia sul business assicurativo;
dunque non si capisce l’utilità di mantenere una quota importante nel patto Pirelli. Da Trieste fanno sapere
comunque di non avere ancora deciso al riguardo e che in ogni caso la decisione sarà presa nell’interesse del
socio Generali anche in relazione all’evoluzione della catena di controllo. Lo stesso vale per Allianz, in Italia
ora guidata da Carlo Salvatori, ma con centro decisionale in Germania. Il vantaggio a restare nel patto per le
due compagnie assicurative è difficile da afferrare: se la catena verrà semplificata, infatti, il titolo Pirelli se ne
avvantaggerà e avere le mani libere sulla dismissione delle quote potrà portare notevoli vantaggi. Legarsi
mani e piedi per altri tre anni, invece, non pare conveniente se non in un’ottica di sistema e di non disturbo del
manovratore. Che nel caso specifico si tratta di Marco Tronchetti Provera, alle prese con difficili negoziati per
mantenere in piedi la complessa struttura di controllo.
Prima di Natale si sono infatti interrotte definitivamente le trattative con la famiglia Malacalza dopo un
brevissimo riavvicinamento grazie alla diplomazia di Unicredit. Il freddo permane anche con i fondi
Investindustrial e Clessidra che a fine novembre stavano per siglare un accordo per entrare nella scatola Mtp
con l’impegno di arrivare a una importante semplificazione della struttura di controllo. Ma non se ne fece
niente e da allora i negoziati non sono più avanzati. Forse riprenderanno settimana prossima, ma intanto si
inseguono le voci che vedono Tronchetti impegnato su molti tavoli, l’ultimo dei quali riguarderebbe investitori
industriali russi e orientali. L’impressione è che Tronchetti voglia rinnovare il patto e poi presentarsi con nuovi
investitori industriali mantenendo comunque salda la struttura di scatole cinesi al di sopra della Pirelli a
garanzia di una serie di benefici che un normale manager non potrebbe mai ottenere. Oppure potrebbe stupire
tutti e cercare di vendere la maggioranza della Camfin a un grande gruppo estero a meno che non
intervengano soci italiani importanti che non vogliono veder il controllo di Pirelli volare in mani straniere.
D’altronde una strategia di questo tipo è già stata portata avanti da Tronchetti con successo ai tempi della
vendita del controllo di Telecom e il risultato è stato l’intervento nel capitale di Mediobanca, Generali, Intesa e
Telefonica. Ma era il 2007, prima della crisi finanziaria.
*la Repubblica*
Venerdì, 4 Gennaio 2013
di: PAOLO GRISERI
Fiat-Chrysler da record nelle Americhe
Volano le vendite in Brasile, Stati Uniti e Canada. Boom per la 500
TORINO
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— Meno male che ci sono le Americhe. Le vendite di Fiat e Chrysler fanno segnare numeri record sia in Usa e
Canada che in Brasile. Con il consuntivo annunciato ieri, il gruppo vende oltre Atlantico i due terzi del totale.
Nella torta complessiva il mercato italiano vale solo un ottavo. Sono i numeri, prima ancora di ogni altra
considerazione a spiegare come sono distribuiti i pesi nel gruppo nato dalla fusione tra Torino e Detroit. E se
ieri il Lingotto ha annunciato di aver presentato la seconda richiesta per salire di un altro 3 per cento in
Chrysler, è facile immaginare che presto quello squilibrio è destinato a farsi sentire ancora di più nelle scelte
strategiche del gruppo. È chiaro che la cessione delle quote al prezzo indicato dalla Fiat avverrà solo dopo la
soluzione della controversia legale che oppone il fondo del sindacato americano al Lingotto. Ma è altrettanto
evidente che quando la discussione legale si concluderà e Torino avrà trovato un accordo con il fondo, si
aprirà la strada della completa fusione tra i due gruppi e della conseguente quotazione. Che significa
probabilmente per Marchionne poter utilizzare la stessa cassa per le due sponde dell’Atlantico ma anche
dover rendere conto ai nuovi azionisti americani per quale motivo si continua a investire in un’area europea
che pesa tanto poco nel fatturato complessivo.
Il record delle vendite in Usa nasce dalle performances di marchi tradizionali come Jeep, Dodge e Chrysler ma
anche dal successo della Fiat 500 che, dopo le difficoltà degli anni scorsi, riesce finalmente a superare il muro
dei 50 mila pezzi venduti nel Nord America. In Usa Detroit vende 1.651.787 auto e veicoli leggeri, il 21 per
cento in più dello scorso anno. A dicembre buon incremento delle vendite anche per la Dodge Dart, l’auto che
dovrebbe preparare lo sbarco dell’Alfa Romeo negli Usa. La Dart spinge le vendite anche in Canada dove il
gruppo immatricola oltre 240 mila automobili. I dati Usa sono i migliori dal 2007, a dimostrazione che la più
piccola delle case americane ha ampiamente superato la crisi del 2009. Se il trend di crescita si manterrà nei
prossimi anni, si renderà davvero necessario l’utilizzo degli stabilimenti europei annunciato da Marchionne per
soddisfare il mercato d’oltre Atlantico.
Lusinghieri per il Lingotto anche i risultati del Sudamerica: «Il 2012 è stato l’anno migliore dei 36 di
permanenza della Fiat in Brasile», dice Clodorvino Belini, presidente di Fiat Chrysler in America Latina. Con
838 mila auto vendute e 759 mila prodotte, il gruppo batte tutti i record precedenti e mantiene la leadership del
mercato. Protagonista del successo la Fiat Uno che immatricola 255 mila pezzi.
A questo punto non è difficile tirare le somme. In Usa, Canada e Brasile il Lingotto immatricola circa 2,7 milioni
di auto contro le 900 mila vendute nell’Europa in crisi. In Italia le vendite Fiat nel 2012 sono state 451 mila,
una fetta davvero piccola rispetto al totale.
La Fiba-Cisl
Vi augura di trascorrere
una fine settimana felice
Arrivederci a
lunedì 7 Gennaio
per una nuova
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rassegna stampa!