Focus group e dintorni

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Focus group e dintorni
Focus group e dintorni
Focus group Direi che non ne posso più dei focus group.
Chi mi conosce lo sa, l’ho scritto, l’ho ripetuto, anche se ciò non mi impedisce di usare i focus (o
più spesso, lo confesso, delle più semplici interviste collettive) e di considerarli un piccolo aiuto, fra
le altre tecniche disponibili, alla valutazione e alla ricerca sociale.
Credo che in Italia se ne facciano troppi inutilmente; che la maggior parte di quelli che si fanno non
siano focus group; che questa moda dipenda dall’insipienza dei valutatori; che l’accademia abbia
una grande responsabilità nell’avere ufficializzato e accreditato questa storia.
E infine credo che se ne sia scritto veramente troppo, non mi pare che la tecnica meriti tanta
pubblicistica.
Eppure sono usciti due libri sul focus group veramente buoni; questi due libri mi hanno in parte
riconciliato e, insomma, devo proprio segnalarveli, sperando comunque che a questo punto si possa
mettere per un po’ la parola ‘Fine’ a questa letteratura: ora abbiamo due bei libri, direi definitivi, e
quindi: BASTA!
Il libro di Ivana Acocella, I focus group: teoria e tecnica, Franco Angeli, Milano 2008, esce nella
prestigiosa collana “Metodologia delle scienze umane” diretta da Alberto Marradi, che prevede di
affiancare agli autori alcuni autorevoli metodologi in qualità di mallevadori e tutor (in questo caso
lo stesso Marradi, Rita Bichi e Paolo Montesperelli).
Il testo di Acocella non tradisce le aspettative della collana e si pone autorevolmente come nuovo
testo di riferimento su questo tema.
E’ superfluo ripercorrere l’intero volume che tocca tutti i punti fondamentali per capire e realizzare
un focus group: natura e composizione del gruppo, reclutamento dei membri, tipo di conduzione,
analisi dei risultati e così via. Basti dire che ciascuno di questi è trattato e discusso ampiamente e
con completezza, con le caratteristiche salienti e positive (e poche leggermente più critiche) che
sintetizzo per punti:
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l’Autrice è avvertita delle potenzialità e dei limiti del focus group; l’interazione fra
individui è positiva, utile e auspicabile – sottolinea l’Autrice – in determinati casi ma
meno in altri, e alcune note problematiche negative dei gruppi sono trattate con
sufficiente spazio, anche se non con la profondità riscontrabile in testi specialistici redatti
da psicologi sociali (ma la loro chiara indicazione, e i numerosi riferimenti bibliografici,
sono da ritenere completi e sufficienti); l’Autrice evita sia l’enfasi acritica su “gruppo è
bello”, sia le derive implicanti la partecipazione sociale, la democraticità fino
all’empowerment che Acocella, mantenendo la barra sulla stella polare metodologica,
ritiene implicitamente – a mio avviso giustamente – non pertinenti;
il testo è rigorosissimo sul piano lessicale e concettuale, senza usi approssimativi di
termini tecnici sempre accuratamente spiegati; per un testo in questa collana,
naturalmente, non ci si poteva aspettare di meno, ma se anche altri autori si dedicassero
con maggiore impegno a tale rigore ne guadagneremmo tutti;
il rilevamento dell’informazione è trattato molto bene; ho trovato molto utile il suo cap. 3
dedicato alla figura dell’osservatore che finisce col discutere il tema dell’adeguata
registrazione delle informazioni, anche non verbali, ai fini della successiva analisi;
manca invece un’adeguata discussione su come si organizza il materiale (verbale e non
verbale) ai fini di una sintesi, salvo rinviare correttamente alle diverse finalità cognitive
che di volta in volta il focus assume;
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manca una discussione sull’uso delle tecnologie a supporto del focus group; anche se a
me non entusiasmano particolarmente come soluzioni, l’uso del telefono e di Internet
(citati già nel volume di Corrao del 2000) sono sostanzialmente ignorati da Acocella;
parimenti non si accenna a software che abbondano e che potevano essere trattati,
semmai criticamente;
ottima l’esposizione a due livelli: in corpo più piccolo sono frequentemente riportati casi
di studio che permettono dei riferimenti immediati alle varie fasi del focus trattate da
Acocella; ciò consente una lettura in linea, ovvero una prima lettura del corpo principale
dell’esposizione con successivi approfondimenti su casi empirici.
Il volume di Silvia Cataldi invece (Come si analizzano i focus group, Franco Angeli, Milano 2009)
compare in una nuova collana intitolata “Strumenti per le scienze umane” che intende proporre
manuali operativi; diretta da Giovanni Di Franco la collana si avvale di un comitato editoriale dove
ritroviamo, fra gli altri, Alberto Marradi.
Come appare evidente dal titolo, il volume intende colmare un vuoto su uno degli elementi più
critici del focus group, quello dell’elaborazione delle informazioni raccolte.
Devo dire subito che il testo raggiunge i suoi obiettivi, pur senza sottrarsi a una spiegazione
generale sui focus, in modo da rendere questo volume autonomo, e non un’appendice specifica di
altri testi.
Certo Cataldi non approfondisce, come Acocella, le complesse questioni definitorie, storiche ed
epistemologiche di questa tecnica ma, in considerazione della collana operativa in cui esce,
consente comunque di farsi un’idea generale delle principali problematiche per poi sviluppare in
maniera considerevole l’elemento principale, l’analisi.
In analogia a quanto fatto per il precedente testo sintetizzo per punti:
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ben scritto e rigoroso, presenta una scrittura meno cattedratica, con minor ricorso ai
continui riferimenti ad altri autori che – se sono apprezzabili e richiesti in ambiente
accademico – possono finire col disturbare il lettore più operativo; anche Cataldi usa
l’espediente dei due corpi di scrittura come Acocella;
paragrafi a conclusione di ogni capitolo con apprezzabili mini-bibliografie commentate;
riferimenti ai risvolti psico-sociali dei gruppi, spesso trascurati altrove, con adeguati
suggerimenti per meglio affrontarli; alcuni riferimenti puntuali – anche questi raramente
letti altrove – sui comportamenti non verbali che dovrebbe assumere il conduttore;
riferimenti ai principali software per l’analisi, per la verità non trattati al punto da
consentire al lettore di fare delle scelte in merito;
ampia, articolata, puntuale e completa rassegna delle procedure di analisi dei risultati del
focus group sotto svariati profili e relativi a diversi utilizzi, sempre corredati da esempi e
schemi (e forse qualcuno di più non avrebbe disturbato).
Mancano riferimenti al focus telefonico o via Internet (ribadisco che io personalmente
non ne sento particolarmente la mancanza, ma per ragioni di completezza qualcosa si
poteva dire, proprio in ragione delle implicazioni per la registrazione e analisi).
Leggete questi libri, e comparate con ciò che vedete in giro spacciato come “focus”.
(Claudio Bezzi, 28 Giugno 2009)
Focus group: ne facciamo troppi e male Una prima obiezione all’uso eccessivo del focus group che osserviamo in questi anni è che tale
tecnica si presta a una grande approssimazione. I focus si fanno perché sì, perché sono di moda, li
fanno tutti ma non proprio tutti tutti (e quindi la domanda è ancora superiore all’offerta) e –
diciamolo francamente – costano poco, sono veloci, non sono controllabili, e sono comunque tanto
‘scientifici’.
Il partito del focus è composto da una pletora di ricercatori dilettanti, consulenti rampanti, e via via
salendo ovviamente anche i livelli ‘alti’ delle gerarchie di merito, che non spiegano quasi mai
perché lì, in quel momento della ricerca, si dovrebbe proprio fare quella cosa; quale beneficio si
intravede nell’economia del lavoro. Ma specialmente: come vengono raccolte le informazioni (si
prendono appunti? si usa il registratore? e poi?); come vengono analizzate/utilizzate, e con quali
relazioni con altre informazioni raccolte eventualmente con altre tecniche (attenzione: sto parlando
di come i focus group vengono realmente fatti nella realtà professionale, non di come sono descritti
nei libri specializzati dove tutto funziona sempre perfettamente).
La scarsa ispezionabilità della ricerca basata su focus group non deve diventare un alibi, e quindi
non è serio non chiarire, ogni volta:
• i criteri di reclutamento dei partecipanti; • set e setting della riunione; p.es. presenza del falso specchio con osservatori esterni; presenza di un tutor e suo ruolo; ecc.; • modalità di raccolta delle informazioni: registrazione magnetica o appunti? • modalità di trattamento delle informazioni raccolte e conseguente interpretazione/sintesi. Inoltre: chi realizza concretamente i focus? Conosco personalmente molti professionisti con grande
esperienza, ottimi conduttori (o ‘facilitatori’) di focus. Ma ne conosco qualcuno che ha
improvvisato focus group avendone solo sentito parlare. Tutto sommato, si tratta di mettere attorno
al tavolo una manciata di persone, farle chiacchierare e fare un riassunto finale!
No?
Attenzione: se si risponde “No!” serve qualche argomento meno contraddittorio di quelli illustrati in
letteratura, dove il focus viene presentato come un contesto direttivo o non direttivo, con poche o
con tante persone, della stessa o di diversa estrazione sociale, in cui si discute di pochi o di tanti
argomenti, con esito condiviso o non condiviso, e via contraddicendosi.
E comunque: il focus va preparato (con riferimento al contesto della ricerca da conoscere bene),
gestito (con riferimento a competenze e ad abilità, queste ultime solo in parte frutto di
addestramento), e utilizzato (con riferimento a una parte enormemente difficile, perché l’analisi del
prodotto di un focus group ha a che fare con l’analisi di testi, peraltro molto particolari perché
‘immediati’ e discorsivi). Il mix di competenze che richiede è notevolissimo, e in realtà un focus
ben fatto richiederebbe un grosso lavoro; le due ore canoniche di focus possono essere la punta
d’iceberg di 4-6 giornate di lavoro e anche più per risultati, comunque, incerti. Raramente osservo
questo insieme di competenze dei facilitatori, preparazione del setting e accuratezza di analisi.
In ogni caso, torti dei conduttori a parte, il set del focus è sostanzialmente un vincolo negativo alla
possibilità di raggiungere risultati fedeli e sensibili (come invece è possibile con altre tecniche)
perché:
• il concetto da esplorare è dato dal ricercatore, ma poi si chiede a terzi di discuterne, non tenendo conto della possibilità di equivoci concettuali a monte che vizierebbero tutta la seduta; la conseguenza riguarda i livelli di validità fra un concetto del ricercatore e sue presunte dimensioni sviluppate dai partecipanti, tenendo anche presente la scarsa direttività generalmente richiesta a chi conduce il focus (se questo punto vi sembra interessante andate a vedere la serie di quattro note, in questo Portolano, dal titolo Il metodo come linguaggio; sono apparse fra il 22 Maggio e il 10 Settembre 2009); • chi ne discute è selezionato in generale entro un contesto omogeneo e congruente con l’oggetto di analisi, nell’illusione di una maggiore capacità del gruppo di parlare lo stesso linguaggio e quindi di approfondire al massimo il tema; se questa scelta può forse incrementare l’intensione dell’esplorazione ne penalizza, ovviamente, l’estensione aggravando il dubbio sulla validità; • poiché il ricercatore non conosce sufficientemente bene il concetto da esplorare (non avrebbe altrimenti bisogno di realizzare il focus) non avrebbe poi neppure la possibilità di chiarire al gruppo cosa si intende esplorare esattamente; in realtà è possibile solo una sorta di spiegazione ‘ostensiva’: quel programma di intervento, presumibilmente già noto; quel tema sociale di cui si avrà sicuramente sentito parlare; quel servizio ove i partecipanti operano; e così via. Ciò aumenta i livelli impliciti penalizzando quelli espliciti, e il ricercatore potrebbe ottenere, dal focus, una nebulosa informativa poi resa “chiara” ex post sulla base dei soli suoi pre-­‐saperi, con ulteriori deficit di attendibilità e fedeltà. Per un approfondimento di questi temi, con una critica al focus group, rinvio al mio articolo “Focus
group, consideriamone i limiti”, pubblicato su Sociologia e Ricerca Sociale nn. 76/77, 2005 e
riprodotto anche in questo sito (sezione Archivio/Testi/Articoli).
Per una recensione a due bei libri recenti sul focus group, che mettono un po’ d’ordine alla materia,
potete vedere una vecchia nota del Portolano del 28 Giugno 2009 intitolato, semplicemente, Focus
Group.
(Claudio Bezzi, 1 Novembre 2009)
Perché non si può valutare con quattro focus group Per carità, non posso pretendere di far cambiare le cose strillando da questo sito o scrivendo qualche
libro… Sito e libro sono strumenti per specialisti – almeno credo: studenti, professionisti, qualche
manager pubblico particolarmente evoluto… Ma la moneta cattiva scaccia facilmente quella buona
ed è facile immaginare come – consapevoli o no, lettori del mio sito o no – tanti professionisti
trovino agevole fare le loro valutazioni con quattro focus group e buona notte ai suonatori. I
committenti non sanno nulla di tecniche, problematiche epistemologiche, validità, disegno della
ricerca e così via e, ricordiamolo, una pletora di docenti universitari sta lì apposta per giustificare
ogni sorta di porcheriola attribuendo “scientificità” a mere banalità. E’ incredibile quante ne ho lette
negli ultimi dodici mesi e il trend non sembra affatto in diminuzione.
Qualcuno fa quattro focus group su un qualunque argomento:
• senza un chiaro mandato valutativo; • senza alcuna spiegazione del perché il focus group sia considerato utile (non dico necessario) in quel dato contesto – e questa è una regola ferrea; • senza alcuna illustrazione in merito a set e setting, ovvero: ma come lo hai veramente fatto quel focus group, come hai selezionato i partecipanti, come lo hai condotto? • come hai registrato e poi trattato le informazioni (problema fondamentale e molto complesso); e poi scrive 2/300 pagine di pure chiacchiere e le chiama “valutazione”.
Nella maggior parte dei casi quei quattro focus group:
• non sono focus group ma banali interviste di gruppo; • chi li conduce non ha alcuna preparazione specifica né conoscenze pregresse sulle problematiche dei gruppi; • non sono collegati ad alcun altro momento di ricerca o, in un certo numero di casi, sono accompagnati da qualche (cosiddetta) intervista o poco più. Molti professionisti si comportano così perché questi pseudo focus group si fanno in fretta, costano
poco e fatti come sono fatti sono facilissimi da gestire (quando leggete – in importanti testi
scientifici – della complessità del focus group, non dovete confondervi: il vero focus group ha una
certa complessità – non eccezionale comunque, mentre quello di cui sto parlando è una
sciocchezza). Molti professori si comportano così perché erigono un debole sapere su una sorta di
“validazione retorica”, nel senso che citano altri colleghi altrettanto in difetto i quali hanno citato
altri colleghi con le medesime letture e, insomma, c’è un processo circolare che ignora, spessissimo,
le vere problematiche di questa tecnica.
Infine: anche se ben fatti i focus group non sono tecniche valutative, nel senso che non sono in
grado, da sole, di reggere una ricerca valutativa. Anche su questo ho scritto e detto fin troppo, e
troverei fin troppo noioso ripetermi se non fosse che la moda, anziché diminuire nel suo impeto,
pare avanzare baldanzosa. Molto in breve:
• il focus group è utile in situazioni esplorative, o chiarificative, coinvolgendo attori rilevanti al
fine di verificare, per esempio, la teoria del programma, definire i confini semantici e operativi di
un contesto o ambito valutativo, verificare il consenso verso determinate conclusioni del
valutatore, o poco più; non è invece praticabile come unica e dirimente fonte informativa per
quella natura intrinseca del gruppo e per la natura della sua verbalizzazione sulle quali ho scritto
già molte e molte note che troverete facilmente in questo sito;
• tali nature, fra l’altro, sono terribilmente legate alle contingenze del gruppo, e senza un forte
ricorso a fonti terze resta difficile affermare, sulla base dei soli focus, qualcosa di dirimente;
• ancora più nello specifico l’estrema debolezza del focus group è il rimanere – la discussione in
seno al gruppo – a un livello sostanzialmente sintattico e lessicale, fortemente ingannatore (anche
su questo ho già scritto in altre note del Portolano);
• l’apparente “libertà” del gruppo è in realtà estremamente vincolata dall’impostazione del
valutatore e dalla conduzione del facilitatore, conducendo sovente a “verità” stereotipate e
pochissimo interessanti ai fini valutativi.
Viva il focus group finché resta tecnica ancillare, esplorativa, finalizzata semmai allo scambio
lessicale fra i partecipanti e al loro conseguente interessamento e consenso verso la valutazione
(finalità per nulla disprezzabili) ma, per favore, smettiamola di intendere come eccezionale
valutazione quella basata solo su quattro focus.
(Claudio Bezzi, 13 Febbraio 2011)
Nominal Group Technique La Nominal Group Technique (NGT) è una tecnica di gruppo nominale chiamata anche “piccola
Delphi” che avevo usato sporadicamente e apprezzato senza particolari slanci. Attualmente ne sto
realizzando una carrettata nell’ambito di un lavoro sulla qualità della vita nelle aree rurali, parte
della valutazione dei Piani di Sviluppo Rurale (PSR) che sto realizzando come consulente di
Agriconsulting, valutatore dei PSR di ben otto Regioni italiane.
Poiché voglio parlare di NGT salto a piè pari tutto il contesto e il metodo, abbiate pazienza!, per
dirvi solo che abbiamo ventiquattro indicatori di qualità della vita che sono stati “pesati” in tavoli
istituzionali regionali (uno per ogni Amministrazione regionale) con delle NGT e poi valorizzati da
testimoni-chiave in tavoli locali, ovvero in aree rurali generalmente marginali entro le varie Regioni
dove opera Agriconsulting come valutatore. Due tavoli in Umbria, cinque in Emilia-Romagna e
quattro in Veneto sono già stati fatti, fra un po’ ne farò altri quattro in Lombardia e così via, sempre
con delle NGT. Ciò vi basti.
Ebbene, man mano che li faccio (e imparo a gestirli meglio) li trovo sempre più apprezzabili. La
procedura nel caso dei tavoli locali (i più interessanti) è la seguente:
• da otto a dieci testimoni chiave (ma me ne sono capitati anche dodici perché poi a livello locale ci sono aggiunte, modifiche…) scelti col criterio della diversità di esperienza e di •
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collocazione professionale: certamente rappresentanti della Comunità Montana e/o GAL e/o Associazioni di agricoltori (lavoriamo pur sempre in aree “rurali” nell’ambito del PSR!) ma poi un operatore ASL, un insegnante o dirigente scolastico o conservatore museale o altro nel campo della scuola e cultura, un imprenditore, un esperto di territorio e turismo e così via; tali testimoni provengono dalla zona selezionata (generalmente un complesso di mezza dozzina di comuni o poco più con caratteristiche socio-­‐economiche e territoriali simili); le persone convocate in genere hanno un’idea di massima del lavoro che devono fare (non si parla di “NGT”, ovviamente, ma del tema “qualità della vita”); breve spiegazione nostra (in genere dei miei colleghi di Agriconsulting) sul contesto (“Siamo i valutatori del PSR… la qualità della vita è un concetto più ampio delle sole politiche rurali… voi siete i testimoni-­‐
chiave…”) e sul metodo; l’incontro si svolge nelle due tipiche fasi della NGT: una prima assolutamente a carattere individuale viene realizzata da noi senza particolari tecnologie ma con l’ausilio di vassoietti (quelli per i pasticcini da tè) con impresso i numeri da 1 a 5, che sono i valori di scala che i testimoni dovranno attribuire a ciascun indicatore (1 = pessima situazione sul tema indicato; 5 = ottima) e una fascetta di cartoncini, ciascuno con l’indicazione di un indicatore; si spiega ai partecipanti che dovranno collocare fisicamente ciascun cartoncino-­‐indicatore dentro una vaschetta; ciascun testimone ha il suo set di vaschette e il suo set di cartoncini, e la cosa è abbastanza buffa e suscita simpatia da parte dei presenti che lavorano quindi ciascuno per conto proprio. Questa fase dura fra i 10 e i 15 minuti; man mano che un testimone finisce impila le sue vaschette coi cartoncini e me le dà; quando hanno finito tutti sono invitati ad andare a prendersi un caffè col collega di Agriconsulting, in modo che io possa inserire in una semplicissima matrice i valori e vedere i risultati che propongo ai convenuti una volta rientrati; il cuore di questa tecnica è di cercare la condivisione (non tutte le tecniche hanno questo obiettivo esplicito, per l’NGT è così) e nella matrice dei valori io cerco la presenza di un valore modale chiaro che mi consenta di dire “questo valore è stato condiviso”; dovrei chiarire come si decide il valore modale, non tanto per chiarire cosa sia una moda, ma piuttosto quale valore essa debba avere per poter dire convincentemente al gruppo “qui lo consideriamo condiviso”; è ovvio che se c’è dispersione di valori anche 3 o 4 potrebbe essere un valore modale su dieci giudizi espressi ma sarebbe impossibile giudicare tale valore come espressione di una condivisione; poiché ho già parlato altrove di queste cose, che con un po’ di buon senso sono facili da capire, fatemi andare avanti; al gruppo rientrato dichiaro quanti valori sono considerati condivisi e quindi non da discutere (generalmente ne ho un terzo circa sui ventiquattro indicatori anche perché cerco di essere abbastanza rigoroso e considero valori modali piuttosto alti); i rimanenti sono da discutere in gruppo nella seconda fase dell’NGT; solitamente questi sono in realtà suddividibili in due ulteriori gruppi: uno minoritario (al massimo quattro o cinque indicatori) veramente contrastati, dove cioè il gruppo si è diviso fra sostenitori di valori bassi (giudizio negativo) e alti (giudizio positivo); questi li pongo in discussione per primi perché il gruppo è fresco e immagino una migliore discussione. I residui indicatori generalmente hanno delle piccole differenze di grado in un giudizio abbastanza simile fra i testimoni; per esempio il gruppo si è diviso fra gli “1” e i “2”, e quindi la discussione è facilitata dal fatto che il gruppo ha una sostanziale unanimità di vedute; la cosa importante nell’NGT è gestire la discussione con una certa direttività, perché un gruppo di anche sole dieci persone che debbano discutere anche solo una decina di indicatori sono capaci di accapigliarsi e attorcigliarsi discutendo a lungo, e quindi stancandosi e perdendo qualità e profondità nel dibattito. Qui l’orologio interno del conduttore è fondamentale nell’imporre il classico stile dell’NGT, che non lascia a tutti i partecipanti la facoltà di intervenire semmai ripetendosi l’un l’altro, ma cerca di favorire un intervento a favore di una soluzione e un secondo intervento a favore di una soluzione differente, poi “a spirale” – se così posso dire – interventi focalizzati a sostegno di una o dell’altra tesi e indicando quando possibile le soluzioni di mediazione fra i punti di vista; questi stile diventa indispensabile a ridosso di gruppi ampi e con numerosi “chiacchieroni”. (Claudio Bezzi, 14 Ottobre 2011)
L’importanza del brainstorming nella ricerca valutativa Fra un paio di settimane si avvierà la “Scuola AIV” di Perugia dedicata alle tecniche basate sul
giudizio di gruppi di esperti con particolare riferimento al brainstorming (chi fosse ancora
interessato a partecipare vada sul sito associativo: www.valutazioneitaliana.it).
Sono lieto di avere suggerito questo argomento, e di esserne docente (assieme a Marta Scettri)
perché negli anni ho via via sempre più apprezzato queste tecniche, studiandone varianti,
applicandole in contesto disparati, e abbandonando sempre più altre strategie di ricerca e
valutazione (sono nato come ricercatore essenzialmente quantitativo, questionari, analisi hard dei
dati, quelle robe là). Tutto nasce dalla lenta (per me è stata lenta) acquisizione della consapevolezza
dell’importanza dei testi; “testi” significa le parole dette, i pensieri articolati dagli individui tramite
parole, frasi, concetti. Pensandoci un po’ appare sorprendentemente evidente che assolutamente
tutto ciò che facciamo come ricercatori è un testo (il metodo della ricerca, gli strumenti, etc.), ciò
che rileviamo sono testi (anche se hanno a volte l’apparenza di numeri, il discorso è complicato…),
e il loro uso è solo testo (l’analisi dei dati, il rapporto di ricerca e valutazione, etc.). Quando
facciamo un questionario, p.es., dobbiamo formulare delle domande, che sono testi, utilizzano
quindi un linguaggio, e le convenzioni e le vaghezze implicate in quel linguaggio. Chi fa
questionari sa che può formulare le domande in modi diversi. Si tratta delle stesse domande?
Rilevano gli stessi dati? E’ facile rispondere “no” a queste domande, e ci sono molti riscontri
empirici che ce lo confermano. Quindi i nostri “testi-domande” del questionario influiscono sui
“testi-risposte” degli intervistati; da qui in poi si aggiungono problemi dovuti all’interpretazione
(ciò che è stato risposto è stato correttamente interpretato e registrato? Ciò che è stato registrato è
stato correttamente riportato in matrice? Tutti questi passaggi modificano qualche parte dei
significati e dei sensi – sono due cose diverse – implicati nella risposta originaria dell’intervistato?
Andate avanti da voi con questo esercizio).
Allora, se tutto è un testo, se siamo immersi in linguaggi e operiamo solo con questi, pur non
abbandonando affatto tecniche cosiddette “quantitative” di valutazione mi sono semplicemente
sempre più avvicinato a quelle chiamate “qualitative” (termini imprecisi) e in particolare quelle
basate sul giudizio di gruppi di esperti: queste tecniche sono in parte note; focus group è
quantomeno un termine ormai conosciuto da tutti e – a mio avviso – abusatissimo in valutazione;
un’altra tecnica di cui si conosce abbastanza almeno il nome è l’analisi Delphi (più un mito che una
realtà, ma piuttosto affascinante). Infine il brainstorming; chi non ha mai detto “facciamo una
discussione libera, come un brainstorming”, alzi la mano. “Brainstorming” dà l’idea (peraltro
abbastanza corretta) del pensiero in libertà e senza censure, ottimo per mettere sul tavolo pensieri
disorganizzati ma potenzialmente fertili, per accumulare materiali da rivedere e rifinire e meglio
riorganizzare in seguito.
Cosa c’azzecca questo con la valutazione? Moltissimo, se si provvede – entro lo stesso
brainstorming – a dare una sistemazione a questi materiali grezzi, a finalizzare questo lavoro
all’oggetto valutato. Il brainstorming “valutativo” (chiamo così un brainstorming strutturato
appositamente per la ricerca valutativa, che non si limita a produrre un sacco di idee confuse) ha
acquisito – per me – un’importanza crescente in contesti in cui:
l’approccio valutativo sia sostanzialmente costruttivista, ovvero centrato sulla cultura (anche
in senso professionale) locale, sull’analisi dei linguaggi (per le ragioni dette inizialmente),
sulla partecipazione degli stakeholder, e così via;
• il giudizio degli stakeholder (comunque intesi) sia considerato rilevante per qualunque
ragione, anche a prescindere da approcci costruttivisti; per esempio nella valutazione di
processo e delle performance credo sia sostanzialmente inevitabile; in tutte le valutazioni di
risultato o impatto laddove non si voglia escludere l’opinione dei beneficiari;
• l’aspetto formativo della valutazione (valutare come momento di apprendimento
organizzativo) sia parte del mandato iniziale.
In questi casi l’uso del brainstorming, ovviamente inserito in un contesto metodologico più ampio e
articolato, mai come elemento unico, contribuisce in maniera sensibile a:
• costruire/pattuire/riconoscere un linguaggio comune (contestuale) in merito all’evaluando, e
quindi consentire al gruppo di proseguire nel processo valutativo con un set di concetti
pertinenti condivisi;
• consentire al valutatore di individuare elementi anche imprevisti, da considerare nel
prosieguo della valutazione;
• costruire gli indispensabili “indicatori valutativi” (la cui natura e importanza sfugge alla
possibilità di questa breve nota);
• auspicare un migliore uso della valutazione, grazie all’evidenza – per gli stakeholder
implicati – di tali indicatori, basati essenzialmente sulla pattuizione di concetti condivisi
dagli attori locali.
Tutto questo può apparire vago, ma questa nota non consente di più; chi ha voglia di leggere molto
più sull’argomento può rifarsi al volume che ho scritto con Ilaria Baldini (“Il brainstorming. Pratica
e teoria”, Franco Angeli 2006). Ma al di là delle ragioni, della teoria dei gruppi, del linguaggio e via
discorrendo, il brainstorming è una tecnica piuttosto complessa, e probabilmente una delle più
difficili di questo gruppo. La “scuola AIV” del 25, 26 e 27 ottobre 2007 non sarà solo teorica ma,
proprio sul brainstorming, faremo ripetute simulazioni in aula con gli allievi, per vedere in modo
concreto come si fa, quali trappole evitare e quali “trucchi” utilizzare. Chi ne vuole sapere di più è
atteso a Perugia, e se questo post vi è sembrato invece uno spot, ebbene sì, mi dispiace, ma il
brainstorming merita questo.
•
(Claudio Bezzi, 15 ottobre 2007)
Brainstorming multilinguistici Pochi giorni fa, nell’ambito di un progetto Leonardo appena iniziato, ho dovuto fare un
brainstorming con i diversi partner del progetto, come parte di un processo valutativo naturalmente
più ampio e complesso nel quale il brainstorming (e la successiva – per me consueta – scala delle
priorità obbligate) era semplicemente una prima tappa.
Come usuale in questi progetti il partenariato è internazionale: alcuni italiani, rumeni, sloveni e
ungheresi. Fra gli stranieri solo un paio parlavano italiano mentre l’inglese, parlato con livelli
diversi di competenza, era necessariamente la lingua franca.
Si è trattato del mio primo brainstorming in queste condizioni, che ho creduto di dover trattare con
una semplificazione delle procedure; a causa dei diversi livelli di competenza della lingua inglese,
che comunque non era lingua madre per alcuno dei presenti, mi sono regolato in questo modo:
1. spiegazione del disegno di valutazione, e del ruolo del brainstorming in tale processo (breve,
assicurandomi che tutti avessero capito); dichiarazione in merito alla semplificazione che
avrei adottato (nel caso qualcuno dei presenti conoscesse la tecnica, in modo che tutti
fossero “sintonizzati” su procedure semplici);
2. consegna di un Post-it ™ a ciascuno e richiesta di scrivere una sola parola o breve frase
(nelle precedenti spiegazioni avevo chiarito cosa intendessi per “parola o breve frase”, in
sintonia con quanto si fa usualmente anche nel brainstorming in condizioni ottimali);
raccolta dei bigliettini e loro collocazione su una lavagna;
3. lettura ad alta voce dei bigliettini, distribuzione di un nuovo Post-it e richiesta di scrivere
una o al massimo due nuove parole o brevi frasi;
4. raccolta, lettura ad alta voce e ultima richiesta di fare aggiunte – questa volta verbali. Questo
momento è importante perché, segnalando esplicitamente la possibilità di avere trascurato
dimensioni importanti, ho indotto alcuni partecipanti ad accennare a un breve dialogo nel
quale sono state proposte altre stringhe;
5. pausa per i partecipanti, nella quale io personalmente ho raggruppato i Post-it in categorie
omogenee;
6. discussione delle categorie col gruppo, correzioni, breve discussione, attribuzioni di titoli, e
così via;
7. scala delle priorità obbligate sui raggruppamenti stabiliti nel punto precedente.
Ha funzionato, e i partecipanti hanno espressamente dichiarato di avere gradito. Chi conosce il
brainstorming sa che in questo modo ci sono state iper-semplificazioni e forzature, ma oltre al
problema linguistico (determinante) c’era anche il problema della non conoscenza, fra i partecipanti
dell’Europa dell’Est, della valutazione e delle sue tecniche; c’era anche la fatica del gruppo (il
brainstorming è stato l’atto finale di una lunga due giorni di questioni amministrative e tecniche
inerenti il progetto), e così via.
La mia scelta è semplicemente stata questa: meglio il minimo ma ben compreso e accettato, che la
ricerca del meglio in contesti dove si rischiano forzature e fallimenti.
Accetto sereno le riflessioni e le critiche dei lettori del blog.
(Questo testo sarà inserito stabilmente nella pagina dedicata al brainstorming sul mio sito web).
(Claudio Bezzi, 29 novembre 2006)