Femminicidio quando il controllo maschile sulla vita delle donne

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Femminicidio quando il controllo maschile sulla vita delle donne
Femminicidio quando il controllo maschile sulla vita delle donne vacilla
Martedì 02 Luglio 2013 09:30
di Ida Dominijanni da ItalianiEuropei del 25/6/2013 - Il dibattito attuale sul femminicidio non ne
mette adeguatamente a fuoco un aspetto fondamentale: la violenza contro le donne scatta ed è
più efferata non dove le donne sono più oppresse e discriminate ma, come reazione maschile
alle manifestazioni di libertà femminile, quando le donne si ribellano e il controllo maschile sulla
loro vita vacilla. Alla luce di ciò, sono valide le misure messe in campo, da ultimo anche dalla
Convenzione di Istanbul, per contrastare questo terribile fenomeno?
Nel 1988 il regista
americano Jonathan Kaplan scandalizzò mezzo mondo con un film, “The Accused” (“Sotto
accusa” la versione italiana), che capovolgeva la narrazione abituale dello stupro con un
semplice spostamento della telecamera, puntandola non sul corpo della vittima violato sul
flipper di un bar malfamato ma sulle movenze bestiali del bacino dello stupratore. Non solo.
Ispirandosi a un fatto di cronaca realmente accaduto, Kaplan non scelse come vittima una
brava ragazza con la gonna al ginocchio che tornava a casa da scuola, ma una bad girl che
faceva la cameriera nel bar di cui sopra e colpiva al cuore gli avventori, e gli spettatori, ballando
spericolatamente con una minigonna mozzafiato: una di quelle ragazze che insomma, secondo
il senso comune, lo stupro “se lo cercano”. Una indimenticabile Jodie Foster conquistò l’oscar
dimostrando al mondo – oltre che, nel film, alla procuratrice che si occupava del caso – che uno
stupro è uno stupro e non è meno grave se lo stupratore sostiene che l’hai “provocato” ballando
o facendo qualsiasi altra cosa una donna possa e debba essere libera di fare; e Kaplan si
guadagnò la nomination a un premio speciale per i diritti umani dimostrando che se si vuole
davvero combattere la violenza sulle donne bisogna imprimere allo sguardo e al giudizio la
stessa rotazione che lui aveva osato con la telecamera: dal corpo della vittima alla sessualità
del carnefice, perché è il carnefice, e non la vittima, a essere “sotto accusa”.
Venticinque anni dopo, in pieno exploit italiano e mondiale della questione del cosiddetto
femminicidio, i punti fuori fuoco sono sempre questi stessi: la libertà delle vittime, e le movenze,
e i moventi, dei carnefici; e non è l’adesione a una norma internazionale – come la pur meritoria
Convenzione di Istanbul recentemente adottata dal nostro Parlamento – a metterli meglio a
fuoco, anzi. Certo, oggi nessuno sosterrebbe né nell’aula di un tribunale né in pubblico, non
foss’altro che per prudenza politically correct, che una donna violentata o assassinata “se l’è
cercata” (anche se restano non infrequenti – l’ultimo l’ho visto poche sere fa su Canale 5 – i
processi alle vittime coperti dalla retorica della compassione); ma la censura della libertà
femminile ricompare in altre e più sofisticate forme.
La cornice discriminatoria e il paradigma dell’oppressione in cui la Convenzione inquadra ogni
atto di violenza sulle donne (dalle mutilazioni genitali allo stupro, dallo stalking all’assassinio)
lascia infatti fuori campo il lato più inquietante del femminicidio, e cioè il fatto che almeno in
Italia esso permane, e sembra assumere un profilo perfino più efferato, nelle situazioni in cui le
donne non sono né oppresse né discriminate, come reazione maschile alle manifestazioni di
libertà femminile. Basta leggere i casi di cronaca purtroppo quotidiana delle donne assassinate,
o ascoltare i racconti delle donne maltrattate o malmenate o stuprate che trovano accoglienza
nei centri antiviolenza, per capire che l’aggressione maschile scatta precisamente quando esse
si ribellano, o semplicemente reclamano la libertà di abbandonare un rapporto che non
funziona, di vivere da sole o di prendere la propria strada. Scatta dunque precisamente non
laddove il controllo maschile sulla loro vita è saldo, ma laddove vacilla; non, o almeno non solo,
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laddove il patriarcato permane, come ha sostenuto in coro tutto il dibattito parlamentare, ma
laddove tramonta. Il che non è senza conseguenze per l’analisi del lato maschile del problema.
Gli uomini che violentano e uccidono le donne lo fanno perché sono il sesso dominante o
perché temono di non esserlo più? E la loro violenza ha a che fare, e come, con la crisi del
patto sociale e politico, e con la più profonda crisi di civiltà, che l’Italia sta vivendo da decenni
senza trovare le parole giuste per dirla e affrontarla? Ancora: se è così, la ricetta paritaria che la
Convenzione propone per arginare il femminicidio non è per caso anch’essa fuori fuoco? Il
problema è la parità di genere non raggiunta, o la libertà di un sesso che l’altro non riesce ad
accettare?
Non sono le uniche domande che la discussione attuale sul femminicidio suscita. La
Convenzione di Istanbul, ad esempio, statalizza massimamente la tutela delle donne vittime di
violenza, investendo governi, Parlamenti e giurisdizioni nazionali, nonché organismi
internazionali e sovranazionali, di compiti di prevenzione, repressione e assistenza. È chiara
l’intenzione di alzare in tal modo l’allarme e la responsabilizzazione pubblica sulla costellazione
di fenomeni che va sotto il nome di femminicidio. Tuttavia stupisce non ritrovare, nel Parlamento
italiano, alcuna eco della cautela da sempre espressa dal movimento femminista nei confronti
della delega alla dimensione statuale e al trattamento legislativo, giudiziario e amministrativo di
fenomeni profondamente radicati nella dimensione soggettiva, interpersonale e culturale: una
delega che sconfina facilmente non nella responsabilizzazione ma nell’autoassoluzione
collettiva. Di quella cautela, che pure influenzò largamente, negli anni Ottanta e Novanta, il
lunghissimo iter della legge italiana contro la violenza sessuale, non è rimasta traccia. Così
come non c’è traccia, per venire a fatti più recenti, della violenza simbolica sul corpo femminile
esercitata da un ventennio di linguaggio televisivo berlusconiano o berlusconizzato, e questo
malgrado la Convenzione di Istanbul dedichi alla violenza mediatica un paragrafo apposito.
Siamo in tempi di larghe intese, e si vede.
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