o Scià appartiene al genere di persone che han

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o Scià appartiene al genere di persone che han
L
o Scià appartiene al genere di persone che hanno bisogno di ammirazione come dell’aria che
respirano. Sentirsi adorate è il mezzo migliore
per incoraggiare la loro natura debole, insicura e al
tempo stesso vanitosa. Senza quest’onda che continuamente le sorregge non possono né esistere né agire. Il monarca iraniano deve leggere sul suo conto le
parole più lusinghiere, contemplare la sua foto sui
giornali, in televisione, perfino sulle copertine dei
quaderni scolastici. Deve vedere le facce che si illuminano al suo apparire, sentire continuamente espressioni entusiaste e osannanti. Se in quei peana (che devono echeggiare nel mondo intero) risuona appena
una nota sgradita al suo orecchio, lo Scià soffre, si
irrita, comunque se ne ricorda per anni.
(Ryszard Kapuścińki, Shah-in-Shah)
Periodico mensile - Anno XXIX, n. 9, novembre 2009 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb.
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Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno XXIX (2009)
n. 9
Piergiorgio Cattani
Paolo Ghezzi
LA REPUBBLICA
SOTTO
LE MACERIE
PORTARE
AVANTI
Massimo Giuliani
L’ALLUVIONE
DI GIAMPILIERI:
UNA TRAGEDIA
ANNUNCIATA
PIONIERI
AMERICANI
DEL DIALOGO
EBRAICOCRISTIANO
Roberto Antolini
Milena Mariani
IL LAVORO NON
È UNA MERCE
IL GIUDIZIO
E LA GIUSTIZIA
Enzo Colavecchio
IL MARGINE
9
NOVEMBRE 2009
Piergiorgio Cattani
3
La Repubblica sotto le macerie
Enzo Colavecchio
7
L’alluvione di Giampilieri:
una tragedia annunciata
Roberto Antolini
10
Il lavoro non è una merce
Paolo Ghezzi
18
Portare avanti
Massimo Giuliani
21
Pionieri americani
del dialogo ebraico-cristiano
Leon Klenicki (1930-2009)
e Michael Signer (1946-2009)
Milena Mariani
27
Il Giudizio e la giustizia.
Note di escatologia
Associazione Oscar Romero - Rivista Il Margine
Cattolici e democrazia tra le macerie della Repubblica
Trento, 28 novembre 2009 – Centro Bernardo Clesio (via Barbacovi, 4)
9.30 Piergiorgio Cattani, Ricostruire sulle macerie. Cattolici e democrazia
nell’Italia disastrata
10.00 Marco Almagisti, Le basi morali di una democrazia di qualità
11.00 Cattolici politica e democrazia. Voci ed esperienze italiane. Intervengono Lucio Pirillo (Napoli anno zero. Cattolici e politica dal ‘68 ai giorni della spazzatura), Paolo Bertezzolo (Cattolicesimo e democrazia nel
Nord est tra speranza e declino di un ideale), Lorenzo Perego (Una tesi
di storia sull’esperienza italiana della “Rosa Bianca”).
15.00 Lo scenario e le prospettive: un cattolicesimo democratico, oggi?
Tavola rotonda, con interventi di Michele Nicoletti, Giovanni Bachelet,
Luca Bartolucci, Luigi Mele
IL MARGINE
mensile dell’associazione
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Editoriale
La Repubblica sotto le macerie
PIERGIORGIO CATTANI
C
ercando l’immagine più adeguata per descrivere la situazione politica
italiana, ci vengono in mente le macerie causate dal terremoto in Abruzzo. Anche la Repubblica versa in uno stato di rovina. Siamo soffocati da
macerie di ogni tipo sotto le quali si stenta ormai a vedere la luce. Qualcuno
grida al disfattismo solo perché si cerca di diradare la cortina fumogena che
divide l’Italia dal resto dell’Europa: gli osservatori esterni, progressisti e
conservatori indistintamente, vedono il nostro paese come un caso di studio
oppure come un modello in negativo. Non tutto ovviamente è da buttare,
persistono forze sane da cui ripartire, ma per preservare la Repubblica da
possibili svolte autoritarie per quanto morbide e lente, occorre avere il coraggio della denuncia che diventa un dovere per ogni coscienza libera.
Esiste una crisi morale, questo è sotto gli occhi di chiunque osservi la
situazione con spirito critico. Berlusconi è il prodotto ma anche l’artefice e il
primo fruitore di questa crisi decennale. Certo il Presidente del Consiglio,
ormai oltre il limite di ogni decenza, si permette di tutto visto che il suo popolo lo applaude ancora, la gran parte dei mezzi di comunicazione sono nelle sue mani e l’opposizione non è capace di incalzarlo come si deve. In un
paese normalmente democratico se un primo ministro raccontasse di essere
stato trattenuto all’aeroporto di San Pietroburgo causa maltempo quando invece piovigginava appena, il giorno dopo l’opinione pubblica insorgerebbe
portandolo alle dimissioni. Lo scandalo escort finisce per andare in ombra
rispetto ai viaggi privati all’estero a casa di Putin oppure all’appiattimento
sulle posizioni leghiste. La vita privata di Berlusconi potrebbe anche non
interessarci, se almeno in pubblico si comportasse da persona normale e se
non modulasse l’agenda di palazzo Chigi a seconda delle sue serate di piacere: lui stesso comunque, non il complotto dei comunisti, ha portato la sua
vita privata sul palcoscenico.
Il Ceaucescu buono (definizione di Fedele Confalonieri, poi corretta in
Re Sole), osteggiato anche dal “democratico” Fini, ha distrutto l’idea di una
3
possibile moralità del politico, mettendo al centro solo l’apparire mediatico
e il consenso del popolo. Si è sostituita al principio secondo cui all’autorità
deve accompagnarsi l’autorevolezza l’idea di un populistico appello “alla
gente” che designa ogni cinque anni un capo legibus solutus, dimenticando
l’articolo 1 della Costituzione per cui «la sovranità appartiene al popolo che
la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Non esistono forme e
limiti nella concezione della democrazia di Berlusconi, esistono solo “lacci e
lacciuoli” che impediscono di compiere una missione storica a un premier
incarnazione della volontà e dello spirito del popolo. Tutto è sacrificato al
presunto consenso, al richiamo della piazza, non importa se manipolata, al
carisma di un leader. Vale la pena ricordare, come ha fatto Ilvo Diamanti,
che alle elezioni politiche del 2008 il PDL ha ottenuto il 37,4% dei voti validi che si riducono al 35,9% dei votanti e al 28,9% degli aventi diritto; mentre alle elezioni europee il PDL ha raggiunto il 35,3% dei votanti ma solo il
21,9% degli aventi diritto mentre Berlusconi ha avuto personalmente
2.700.000 preferenze pari al 25% dei voti PDL (cioè meno del 9% degli aventi diritto). Una precisazione numerica importante nella repubblica dei
sondaggi e dei tassi di gradimento che dimentica la concretezza e la realtà
dei voti veri.
In questo quadro dispiace vedere esponenti del PD che si comportano
in modo molto simile: dal caso Marrazzo fino alle pericolose contiguità con
lo scandalo della sanità pugliese. Marrazzo che telefona a Berlusconi invece
di denunciare alle forze dell’ordine il presunto ricatto subito testimonia a
che punto di degrado siamo giunti.
«Il prestigio di una classe dirigente prima di tutto è un prestigio morale», scriveva Norberto Bobbio cinquanta anni fa, aggiungendo poi che
«l’instabilità della democrazia in Italia dipende principalmente dalla mancata formazione di una classe politica degna di un grande paese civile»1. Sicuramente la classe dirigente di quel periodo non era peggiore di quella di oggi. La devastazione morale dell’Italia è qualcosa di tragico che continuerà a
lungo anche dopo la fine del potere berlusconiano, una situazione insostenibile che mina i fondamenti della nostra democrazia. I pozzi sono stati avvelenati mentre le sorgenti sono ostruite da troppi detriti: l’acqua che dovrebbe
alimentare la partecipazione e il buon governo è stagnante e imputridita. Il
terreno solido su cui si costruisce una convivenza civile sta diventando una
palude.
1
Norberto Bobbio, Quale democrazia?, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 32-33.
4
La guerra civile simulata
Assistiamo inoltre a una crisi civile di proporzioni inquietanti. Non
fanno più notizia o vengono occultate dai media l’inarrestabile penetrazione
della ‘Ndrangheta nelle regioni del Nord, a cominciare dalla Lombardia, oppure al potere della Camorra in Campania con le relative polemiche intorno
a Roberto Saviano. L’agghiacciante filmato diffuso dalla Procura di Napoli
dell’omicidio di un pregiudicato sotto gli occhi indifferenti o impauriti dei
clienti del bar e dei passanti testimonia plasticamente quanto intere parti del
paese siano sfinite e incapaci di reazione. Eppure proprio Napoli ha visto il
sorgere e lo schianto della stella di Antonio Bassolino, sommerso
dall’incapacità di governare, dalle inchieste e dai rifiuti (ma ancora signore
delle tessere nel nuovo Partito Democratico).
La concezione leghista della sicurezza si traduce in leggi che fomentano la paura e non risolvono nulla, minando invece le basi per costruire una
vivibile società del futuro: gli immigrati, invece di essere trattati come una
presenza ormai consolidata nel nostro Paese, sono considerati come poveracci con la valigia in mano, se non delinquenti, solo per il fatto di essere
irregolari. Le leggi draconiane in materia di sicurezza finiscono a volte per
aumentare i delitti commessi, sempre per creare un clima di tensione, di risentimento, se non di odio. Il moltiplicarsi degli episodi di intolleranza spesso cruenta verso i “diversi” (stranieri, musulmani, omosessuali) è il segno
più evidente di questo clima.
La crisi morale e civile, dopo il sostanziale fallimento del tentativo di
ripristinare la legalità avvenuto nei primi anni novanta, è diventata ben presto una crisi istituzionale. Un Parlamento di nominati dalle oligarchie dei
partiti o da un uomo solo che deve sospendere i lavori per due settimane a
causa della mancata copertura finanziaria delle leggi in discussione, è solo
un sintomo della malattia più generale, quella dello squilibrio tra poteri dello
Stato. Per citare l’esempio più evidente, la contrapposizione frontale tra esecutivo e ordine giudiziario (destinata ad acuirsi nei prossimi mesi) segna una
delle cifre del quindicennio berlusconiano: nessun lodo Alfano, nessun pateracchio stile Bicamerale, nessuno sciopero dei magistrati, nessuna riforma
costituzionale con la separazione delle carriere servirà a fermare una guerra
al termine della quale una delle due parti risulterà soccombente. E l’Italia si
troverà ancora sommersa da macerie.
Una “guerra civile simulata” sta distruggendo il paese: ancora Bobbio
scriveva nella conferenza citata che «la contrapposizione di blocchi incomu-
5
nicabili è per la democrazia una malattia mortale» (p. 31). Ora siamo nel
mezzo della fase più acuta della malattia. La soluzione però non è una pax
berlusconiana, magari per portare D’Alema a Bruxelles.
Purtroppo anche la Chiesa non sembra capire la situazione. La logica
concordataria per cui bisogna trattare con chi è al potere per difendere le
proprie prerogative è preponderante e porta il Vaticano a sostenere Berlusconi. Certo, Benedetto XVI invoca il sorgere di politici cattolici coerenti,
ma per ora bisogna accontentarsi. Viene da chiedersi quale ruolo possano
avere i cattolici in questa delicatissima fase della democrazia italiana. A livello di immagine il governo si presenta come il difensore dei valori e
dell’identità cristiana (come sul caso della sentenza della Corte di Strasburgo sul crocifisso oppure sulle discussioni intorno al testamento biologico).
In realtà i cattolici non contano nulla sulle leggi che incidono direttamente
sulla vita delle persone, a cominciare dai disperati che arrivano dal mare.
Ma forse anche i cattolici democratici dovrebbero fare una riflessione
aggiuntiva. La maggior parte di essi sono nel Partito Democratico, ma si vedono il più delle volte solo quando minacciano una scissione. Dopo che sono morti gli Scoppola e gli Ardigò manca una riflessione culturale sul futuro
della democrazia non solo in Italia. Costruire sulle macerie è un’impresa titanica. Occorre prima rimuoverle. Cominciamo dal nostro campo.
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Testimonianza
me che può essere lanciato è quello meteorologico: ma occorrerebbe una
rete di monitoraggio e di attenzione istituzionale a maglie molto strette, perché come è noto gli allarmi generici su vasti territori lasciano il tempo che
trovano.
L’alluvione di Giampilieri:
una tragedia annunciata
Il fango e le case
ENZO COLAVECCHIO
U
na serie di cause, tra loro integrate e concomitanti, hanno provocato il
primo ottobre scorso una catastrofe assassina con 31 morti e 6 corpi
non ritrovati. Innanzitutto la morfologia del territorio: siamo sul versante
ionico dello Stretto di Messina, dove la catena dei Monti Peloritani si affaccia sul mare con una fascia collinare molto ristretta, con pendii elevatissimi
e un susseguirsi di aste torrentizie corte, ma con bacini imbriferi ampi. Formazioni geologiche fragili, costituite da rocce metamorfiche alterate e molto
fratturate ed anche da rocce scistose particolarmente degradate.
Questa realtà costituisce un paesaggio di prim’ordine: alcuni paesini si
stagliano arroccati sui pendii con i loro centri storici e le case nuove ai margini. Dietro gli abitati i fianchi delle colline, dove un tempo la mano sapiente dell’uomo aveva ricavato un sistema agricolo fatto di terrazze e muri a
secco, canalette di scolo e alberi di agrumi. L’abbandono dei fondi agricoli,
dovuto all’inurbamento, determina lo smottamento lento ma inesorabile dei
muri a secco. Gli incendi, per lo più dolosi, fanno il resto. Con la perdita
della chioma arborea ed arbustiva lo strato agrario e il sottostante substrato
roccioso alterato, già reso instabile, è sempre pronto a franare e ad alimentare con una massa di detriti gli alvei dei torrenti. A causa delle pendenze elevate e del piccolo sviluppo delle aste torrentizie, i tempi di corrivazione sono estremamente brevi, e l’acqua mista a detriti (a volte anche massi da 4
tonnellate) scende a gran velocità nel letto alluvionale trascinando ogni cosa
(purtroppo anche masse di rifiuti e di materiali di scarico abusivamente depositati).
Questa è la situazione attuale, resa particolarmente fragile e pericolosa
da anni di abbandono delle colline e dalla mancanza di una buona politica di
manutenzione del sistema dei torrenti. Bisogna anche dire che l’unico allar-
7
La sera del primo ottobre comincia a piovere. In un tratto molto ristretto di territorio piove più che altrove. Piove su tutta Messina in modo intenso
e persistente, ma nel tratto tra il villaggio di Giampilieri e il comune di Scaletta (non più di 10 km) si scatena un nubifragio mai visto, durato circa tre
ore, con circa 1600 fulmini seguiti da tuoni laceranti, e la caduta di circa 300
mm di pioggia. Si deve ritenere un fenomeno del tipo “bomba d’acqua”, un
vero e proprio tifone, formatosi a causa dei mutamenti climatici sul Mediterraneo.
Con tutto ciò il sistema dei torrenti regge. Lo scorrimento delle acque
superficiali si incanala e raggiunge le foci dei torrenti. Ad un certo momento
però si staccano le frane, numerose, alcune piccole, altre molto grandi; crollano muri e si staccano massi, crolla un intero tratto della strada per Scaletta
Superiore. Le frane incombono sugli abitati, il fango non si incanala verso
gli impluvi naturali ma invade le stradine, trascina automobili, raggiunge i
primi piani delle case, sfonda le porte e invade i cortili e i piani terra, alcune
case vengono distrutte nell’arco di un quarto d’ora. E così Giampilieri è
sommersa dal fango.
A valle, nella ristrettissima fascia costiera, passano le infrastrutture
principali, come la strada nazionale, l’autostrada e la ferrovia, con una serie
di opere di attraversamento dei torrenti. Tra queste fasce infrastrutturali troviamo cortine edilizie e poco spazio per tombinature, impluvi e canali di
scolo. Non sono case abusive, non sono realizzate sul demanio fluviale. Ma
la sera del primo ottobre la furia dell’alluvione è irresistibile. I tratti di foce
dei torrenti vengono invasi da centomila metri cubi di detriti e di automobili
accartocciate. A Scaletta si forma un deposito sotto il viadotto
dell’autostrada, la foce del torrente viene tappata dai detriti e il fango, che
circonda i piloni del viadotto, esonda, devia su un percorso urbano, distrugge un vecchio convento di suore e la casa del principe Ruffo (due fabbricati
storici, che dunque erano lì indisturbati da secoli); poco più avanti la massa
di detriti e fango investe i fabbricati più recenti (tra cui la palazzina resa poi
8
Fondata sul lavoro
famosa dai media), passa sopra il rilevato ferroviario e rovescia furiosamente in mare. Qui muore un ingegnere, che stava facendo una consulenza tecnica per il Tribunale. Era salito in un fabbricato con un avvocato, quando
sente il grido di una donna che invoca aiuto. Scende le scale e si affaccia
dall’ingresso, ma viene investito in pieno dall’onda di fango. In una frazione
di secondo viene schiacciato contro il muro e sepolto. Il corpo sarà ritrovato
ancora in piedi e con il braccio alzato come per proteggersi. Ora questi fabbricati sono stati demoliti e si ritiene di dover dare alla foce un estuario più
largo, ma si dovranno anche realizzare dei nuovi ponti ferroviari, al fine di
eliminare possibili strozzature, che sono le cause principali dei danni nella
fascia costiera edificata.
Il fango ha reso intransitabile per un certo tempo tutte le vie di comunicazione e gli alluvionati sono rimasti isolati. Le forze della Protezione Civile
sono arrivate lentamente e a piedi, prima che si cominciassero a vedere gli
elicotteri. Dopo si è vista una gran confusione di mezzi, ma una seria mancanza di coordinamento.
Gli sfollati sono circa 1600 persone. Alcuni potranno tornare a casa se
questa sarà risultata idonea ai controlli strutturali. Altri sono rimasti senza
casa, senza negozio, senza lavoro. Alcuni sono pure in lutto per la perdita di
figli, parenti, amici. Si parla di costruire per loro delle new-town, ma sarebbe un danno ulteriore, perché in un territorio ristrettissimo si realizzerebbero
ulteriori espansioni. Meglio finanziare le famiglie, che possano riacquistare
una casa o riattivare la propria bottega. Gli abitanti di Scaletta e Giampilieri
per lo più non vogliono lasciare il loro paese. Bisogna allora mettere in sicurezza i versanti e questo si può fare, evitando le colate di cemento, che sarebbero dispendiose, inutili e costituirebbero un danno all’ambiente, al paesaggio e all’identità del territorio. Bene invece le opere di ripristino delle
difese idrauliche, con fossati e massicciate in gabbioni di pietrame; riequilibrio degli impluvi secondari; ripristino dei muri a secco dei terrazzamenti;
opere di ingegneria naturalistica, incentivi per la piantumazione di alberi e
arbusti ecocompatibili e lotta antincendio. Sono opere che richiedono spese
minime ma continue, per la necessità della manutenzione, che pertanto evitano l’abbandono del territorio e producono posti di lavoro. Tutte cose necessarie, sia dove c’è stata l’alluvione sia dove, questa volta, non c’è stata,
ma è già annunziata per la volta prossima. (Messina, 27 ottobre 2009).
9
Il lavoro non è una merce
ROBERTO ANTOLINI
L
o scorso n. 7 di questa rivista si è aperto con una meditazione sul fatto
che, per quella che è ancora la nostra Costituzione, il lavoro sia «luogo
fondativo del vincolo democratico e repubblicano». È una consapevolezza
sempre meno presente nel dibattito sociale e politico, e nei programmi dei
partiti. Sull’onda della globalizzazione, e della sua ideologia neoliberista, il
lavoro è invece sempre più solo una “variabile dipendente”, una fra le tante
dell’equilibrio aziendale, un “costo” da tagliare il più possibile, indipendentemente dal fatto che dietro questo costo ci possono essere da una parte destini umani di inclusione o esclusione sociale (cose nient’affatto indifferenti
per un funzionamento democratico delle nostre società) e dall’altra anche la
base di un mercato interno diffuso, come solido sostegno di una economia
equilibrata (anche a questo livello quindi una delle condizioni fondamentali
della democrazia, che mal regge le società pesantemente elitarie). Il tema del
lavoro quindi non è solo una questione di etica sociale, è, prima ancora, il
paradigma del nostro modello socio-politico, la base su cui poggiano (differentemente) democrazia e autoritarismo.
Le attuali difficoltà del “lavoro” sono note, e sono state ricordate più
volte anche su queste pagine. Mi limiterò qui quindi solo a ricapitolarle sinteticamente rimandando agli esiti di una imponente inchiesta (100.000 risposte raccolte) fatta fare nelle fabbriche del proprio settore dalla categoria
metalmeccanici della CGIL, la FIOM. E per farlo, uso le parole con le quali
è stata presentata da una dei coordinatori della ricerca, Eliana Como, ad un
recente convegno della Camera del Lavoro di Brescia:
«La prima questione che viene fuori dall’inchiesta è forse anche quella più nota,
quella dei redditi, che nel comparto metalmeccanico sono bassissimi: il salario medio di un operaio è di 1.170 euro netti al mese; un impiegato guadagna mediamente
1.370 euro. Le donne – sia operaie che impiegate – guadagnano mediamente 200
euro in meno dei loro colleghi uomini. I precari, poi, sono quelli che guadagnano
meno di tutti e non perché sono relativamente più giovani ma per il tipo di contratto
che hanno. Anche i redditi familiari sono bassi, soprattutto al Sud, dove il 50% degli
intervistati vive in famiglie mono-reddito. Di fatto, in questa area del paese, circa la
10
metà dei nuclei familiari degli intervistati non supera i 1.500 euro al mese. Ciò significa che 1/3 delle famiglie con 3 componenti e circa 1/2 di quelle con 4 componenti cadono sotto la soglia di povertà. È il fenomeno che in letteratura viene definito dei working poors, tradotto alla lettera “lavoratori poveri”. Una volta era impossibile essere poveri se si aveva un lavoro; oggi non è più vero» [Nord operaio, Manifestolibri 2008, p. 85].
Queste erano le condizioni del lavoro nelle fabbriche del settore metalmeccanico prima che scoppiasse l’ultima crisi, che evidentemente è destinata a peggiorarle ulteriormente, con lo spettro di una diffusa disoccupazione. E non è certo un problema dei soli metalmeccanici: anche l’OCSE, in
maggio, aveva diffuso un rapporto da cui risultava che gli stipendi (medi)
italiani sono in zona bassa fra i 30 paesi aderenti all’OCSE, al 23° posto. È
così che, nel nostro Paese, si è realizzata una distribuzione dei redditi dove il
20% più ricco della popolazione raccoglie più del 40% del totale dei redditi,
mentre al 20% più povero non spetta che una fetta pari al 7% (dati ISTAT
riferiti al periodo 2004-2005).
La rottura sindacale sul rinnovo del modello contrattuale
Queste condizioni sono il risultato di un lungo percorso di relazioni industriali, sulla valutazione delle quali, lo scorso 22 gennaio, si è aperta una
grave crisi nei rapporti interni fra le organizzazioni sindacali, al momento
della sottoscrizione da parte di CISL e UIL – ma non della CGIL – di un
nuovo modello contrattuale (l’Accordo quadro sugli assetti contrattuali) con
governo e Confindustria, che dovrebbe sostituire quello precedente, firmato
(unitariamente da tutte e 3 le confederazioni) nel 1993. Un accordo separato
insomma, che vede esclusa la maggior organizzazione sindacale del paese,
la CGIL, confermato poi il 15 aprile dalla sottoscrizione, sempre separata,
delle Intese applicative.
Il “modello contrattuale” è una specie di carta costituzionale delle relazioni sindacali, che traccia lo schema generale a cui poi la specifica contrattazione categoria per categoria si ispira per la stesura dei contratti nazionali.
Un dissenso a questo livello è quindi strategico, destinato a discendere a cascata su ogni rinnovo di contratto di categoria. E difatti, mentre scrivo, si è
consumata anche la lacerazione di un contratto nazionale separato per la categoria più importante dell’industria, i metalmeccanici. Probabilmente possiamo dire che quello che è precipitato questa volta è un dissenso che viene
da lontano, dal tempo in cui nemmeno la spinta unitaria dei “consigli di fab-
11
brica” è stata sufficiente a far superare la logica di appartenenza ad apparati
diversi, che adesso, di fronte alla gravità della crisi, se ne escono con visioni
diverse del futuro del sindacato e della sua stessa natura, che si riallacciano
all’imprinting originario: aziendalista per la CISL e generalista per la CGIL.
«Quello del contratto nazionale è un film finito, una strada lungo la
quale il sindacato muore» ha detto Giuseppe Farina, segretario generale dei
metalmeccanici CISL, in un’intervista al quotidiano Il Manifesto del 6 ottobre 2009:
«è vero che le nuove regole non aggiungono molto a quello che c’è già. C’è qualche
strumento in più, come la detassazione, che certo non ci dà la certezza, ma l’unica
certezza che abbiamo è che da anni con il contratto nazionale non facciamo crescere
le retribuzioni, a malapena riusciamo a difenderle dall’inflazione, eppure per ogni
contratto occorrono ore e ore di sciopero, mesi e mesi di trattativa, mediazioni al
ministero... Queste condizioni non sono più ripetibili».
Il livello a cui allude qui Farina per un tentativo di recupero salariale è
il “secondo livello”, quello del contratto aziendale, presentato nel modello
contrattuale sottoscritto da CISL e UIL come alternativa virtuosa al contratto nazionale, che verrebbe quindi ridimensionato. Ma il secondo livello lo
hanno pochissimi lavoratori italiani, quelli delle grandi industrie. E quindi
«poiché il 95% delle imprese italiane sono di piccolissime dimensioni – aveva scritto su La Repubblica pochi giorni dopo lo strappo (il 25 gennaio
2009) Eugenio Scalfari – ciò significa che per una moltitudine di lavoratori
il contratto di secondo livello non ci sarà mentre il contratto nazionale di base partirà con una decurtazione notevole».
Quella del contratto nazionale è la questione più sbandierata del nuovo
modello contrattuale separato, ma non l’unica pregna di conseguenze per i
prossimi anni. Queste pagine non sono certo adatte a trattazioni tecniche, ma
– data l’importanza strategica delle questioni sul tappeto – provo a dare almeno sommariamente un’idea dei problemi, avvisando il lettore che chi
scrive è iscritto alla CGIL, e quindi non è “al di sopra delle parti”.
Ridimensionamento dei contratti nazionali
La volontà di fondo è quella di ridimensionare i contratti nazionali di
categoria. L’accordo prevede tutta una modalità operativa di rimandi burocratici ad accordi intermedi per spostare il meccanismo del confronto dalla
contrattazione (che prevede il confronto di due parti del tutto autonome, e
12
che contiene quindi la possibilità del conflitto, quando non si trova accordo
sul merito delle questioni) alla concertazione (che di massima non prevede
un dissenso, e che quindi rimanda ad ulteriori conciliazioni ed arbitrati esterni nel caso di punti di vista diversi). Comunque, al di là di queste dimensioni procedurali, rimane la scelta di fondo di riferire la dinamica economica
dei contratti nazionali all’indice IPCA (indice di prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo), MA: «depurato dalla dinamica dei prezzi dei
beni energetici importati». Come se le imprese non scaricassero invece sui
consumatori l’aumento dei costi delle materie prime, e non sarà certo questo
accordo ad impedirglielo. Impostare in questo modo il problema della copertura dei contratti nazionali significa programmare apertamente quella «decurtazione» di cui parlava Scalfari.
Ma la filosofia di questo accordo è appunto quella dei “due livelli” di
contrattazione, e quindi teoricamente quello che esce da un livello dovrebbe
poter rientrare – per chi ha una contrattazione di secondo livello – nell’altro,
quello aziendale. La contrattazione a questo livello non può più essere aggiuntiva (cioè semplicemente migliorare i risultati del contratto nazionale)
ma dovrà avere una sua specificità, collegando i premi agli indicatori finalizzati alla competitività e agli andamenti economici delle imprese. Per favorire questa contrattazione, che come abbiamo visto riguarda una minoranza
dei lavoratori italiani, si promettono politiche fiscali: «le parti confermano la
necessità che vengano incrementate, rese strutturali, certe e facilmente accessibili tutte le misure volte ad incentivare, in termini di riduzione di tasse
e contributi, la contrattazione di secondo livello».
CISL e UIL hanno già un precedente di accordi separati con un governo Berlusconi, il “Patto per l’Italia” sottoscritto nel 2003, che è stato completamente disatteso allora dal governo, tanto da portare poi alla rottura anche con le due confederazioni che avevano sottoscritto. Adesso si rinnovano
le promesse: questa volta di fare quanto possibile per incentivare per via fiscale i contratti di secondo livello. Ma intanto si porta a casa la decurtazione
di quello nazionale.
E difatti la piattaforma dei metalmeccanici CGIL chiede un aumento di
130 euro per un biennio, mentre il 15 ottobre i metalmeccanici CISL e UIL
hanno invece sottoscritto per 112 euro in un triennio: 110 in tasca ai lavoratori, più altri 2 che le aziende si impegnano a versare ogni mese per ogni
singolo dipendente nel “fondo di solidarietà” di un ente bilaterale che entrerà in funzione nel 2013, ed al quale, da allora, sia l’azienda che il singolo
lavoratore verseranno 1 euro a testa (la CGIL adesso chiede di tenere nelle
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fabbriche metalmeccaniche un referendum aperto a tutti i lavoratori su questo contratto).
Ma l’attacco al contratto nazionale passa anche da un’altra via, non
meno rischiosa in prospettiva. Il punto 16 dell’accordo prevede che per far
fronte a specifiche situazioni di crisi «o per favorire lo sviluppo economico
ed occupazionale», cioè potenzialmente sempre, si possa derogare da «singoli istituti economici o normativi dei contratti collettivi nazionali». Provate
ad immaginare la difficoltà di una trattativa in cui il padrone chiede, come
da accordo separato, deroghe dal contratto nazionale magari in cambio del
ritiro di qualche licenziamento. Questa rischia di essere una via scivolosa
che porta, un po’ alla volta, all’erosione del contratto nazionale.
Enti bilaterali
Nell’accordo c’è anche un altro punto gravido di conseguenze per la
natura del sindacato. Al punto 4 poche parole, buttate lì in modo assolutamente indefinito, bastano ad aprire scenari completamente diversi nel panorama italiano di un sindacato che fino ad ora ha svolto funzione di rappresentanza dei lavoratori. Queste le parole: «la contrattazione collettiva nazionale o confederale può definire ulteriori forme di bilateralità per il funzionamento di servizi integrativi di Welfare». Nell’autunno scorso una puntata
della trasmissione Report ha illustrato una situazione del genere funzionante
in Danimarca, dove quelli che sono in Italia diritti generali, come la cassa
integrazione per le situazioni di crisi aziendale o altri ammortizzatori sociali,
sono “servizi” erogati all’uopo da enti di emanazione sindacale ai propri iscritti. Una cosa del genere cambierebbe la natura del sindacato italiano: da
organismo di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, delegato da loro
alla contrattazione collettiva delle proprie condizioni di lavoro, a erogatore
di servizi sociali, magari in forma nemmeno generalista: una rotellina (burocratica) del sistema produttivo. E chi ha seguìto le vicende della crisi
dell’industria americana dell’auto, ricorderà che Obama ha dovuto intervenire per impedire che fallissero i colossi automobilistici di Detroit, anche perché ad essi erano legati gli enti assistenziali di centinaia di migliaia di lavoratori, che si sarebbero visti da un giorno all’altro privati anche di pensione
e assistenza sanitaria. È questo che si vuole? «È un’idea che non ci appartiene – ha risposto la CGIL sul suo periodico Rassegna Sindacale n. 10 del
marzo 2009 – e che sottende la crescita di una “casta parallela” che sostitui-
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sce la contrattazione con la fornitura di servizi e rappresenta una “autoalimentazione” delle organizzazioni datoriali e sindacali».
«Le imprese industriali sono state pesantemente finanziarizzate anche nei loro gangli più intimi: non c’è centro di spesa che non sia considerato come una impresa a
sé. E i centri di spesa sono sempre più piccoli, anche all’interno di imprese con meno di 200 persone. Ognuno di questi centri riceve delle fatture dal suo interno e deve
emetterle verso l’esterno. Così, viene giudicato non in base a quello che fa, ma rispetto all’andamento della finanza. In altri termini, deve riuscire a fatturare
all’interno dell’azienda più di quanto non debba pagare in termini di fatture ad altri
centri, reparti e divisioni della stessa azienda. È un paradigma che ha profondamente distorto il management, l’idea stessa di gestione».
Sulla produttività
La convinzione sottesa alla stesura di questo accordo separato è quella
che non si possa più chiedere al contratto nazionale di svolgere la funzione
“solidale” per il quale è stato concepito. Il contratto nazionale permette infatti una difesa di tutti i lavoratori di un settore, anche di quelli che si trovano nelle situazioni con i più difficili rapporti di forza, che tramite questo
strumento usufruiscono di una parte della forza complessiva del movimento
sindacale nel loro settore. Ma questo rimanda naturalmente poi anche a problemi generali di riequilibrio da affrontarsi con gli strumenti tipici del welfare-state: insomma considerando la tutela del lavoro ed una buona situazione
occupazionale e retributiva un bene collettivo che la collettività si assume
come problema generale, e su cui interviene con le politiche economiche e
del lavoro.
La logica di questo accordo è invece che adeguamenti delle retribuzioni
si possano chiedere solo là dove c’è stata “produttività ”, perdendo per strada gli altri lavoratori. Ma quello della produttività è un fattore complesso,
non riducibile al solo costo orario del lavoro e della quantità di ore lavorate
(come spesso viene presentato da fonti interessate a scaricarlo esclusivamente sulle spalle dei lavoratori). Per addentrarci in questa “complessità” del
fenomeno attuale della produttività, seguiamo il ragionamento fatto da Luciano Gallino al convegno di Brescia che abbiamo già citato. Gallino ricorda, prima di tutto, l’interdipendenza ormai internazionale delle attività produttive, e si chiede:
«Come si fa a parlare di produttività di quell’azienda ... se si considera il fatto che a
monte e a valle ci sono in qualche caso dozzine di altre aziende che forniscono i
semilavorati o i prelavorati, i materiali o i componenti che confluiscono poi nel prodotto finale? ... La frammentazione della produzione, la sua articolazione in catene
di creazione del valore distribuite in tutto il mondo, fa sì che la produttività sia quella della catena intera, non del terzo anello, del quinto o del diciassettesimo».
Infine c’è la grande questione della ricerca ed innovazione:
«Le imprese italiane non hanno, in percentuale, investito meno rispetto a quelle
francesi ed europee. Solo che hanno investito prevalentemente – molto prevalentemente – in mezzi di produzione per ridurre il lavoro: macchine semiautomatiche,
molta informatica, molta tecnologia multimediale. Ma hanno investito pochissimo
in ricerca e sviluppo. In altri termini, hanno investito per risparmiare lavoro, non per
creare opportunità, non per creare valore aggiunto. E il valore aggiunto viene
dall’invenzione, dall’intelligenza, dalla creatività, dalla capacità di partire da elementi semplici per trarne prodotti molto complicati» [Nord operaio, Manifestolibri
2008, p. 109-110].
Alla luce di queste osservazioni, che fanno chiaramente percepire come
la produttività sia alla fine un rapporto, una rete di relazioni, questo riferire
possibili aumenti delle retribuzioni alla sola produttività – architrave anche
simbolica di questa proposta di nuove relazioni industriali – assume le sembianze di una nuova narrazione condotta dal punto di vista del profitto, destinata a coprire rapporti di forza profondamente sfavorevoli al lavoro. E
l’esito di questo modello contrattuale rischia così di essere solo un’altra perdita di valore delle retribuzioni, di allargare la forbice fra redditi da profitto
e redditi da lavoro, quello che abbiamo visto in certi casi è già sotto la soglia
di povertà.
L’effetto psicologico della crisi dà indubbiamente una mano a riscrivere i rapporti di forza dal punto di vista del profitto, peccato che questa riscrittura prenda una forma non anticiclica ma prociclica.
Poi Gallino ricorda anche la difficoltà di individuare i valori
dell’economia reale, dal momento che sono stati pesantemente scompaginati
dalla finanziarizzazione della contabilità interna delle aziende:
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«in una deflazione da debiti come quella attuale – dice Francesco Garibaldo, ex direttore dell’IRES l’istituto di ricerca della CGIL – se le istituzioni sociali sono troppo flessibili – ad esempio le imprese possono licenziare facilmente e tagliare i salari
senza indugi – gli effetti negativi saranno ampliati a dismisura perché le insolvenze
16
Testimoni
si aggiungono una sull’altra senza freni … in parole semplici si tratta di mettere un
“pavimento” ai tentativi di puro arroccamento difensivo da parte delle imprese, offrendo loro, in cambio, uno scenario e un sentiero di aggiustamento sostenuto da
tutte le risorse dello stato. Il pavimento è fatto, prima di tutto, dalla salvaguardia dei
livelli occupazionali – nessun licenziamento – e dei redditi da lavoro» [Alternative
per il socialismo, N.9 (2009), p. 103].
Proprio il contrario di quello che fa l’accordo separato, che invece
permette di rispondere alla crisi nel solito modo, agendo solo sulla compressione del costo del lavoro. E in mancanza di una disciplina dei salari, favorisce un’imprenditoria basata solo sul peggioramento delle condizioni di lavoro, che può svolgere un effetto-dumping anche nei confronti di chi batte invece la via di un rinnovamento virtuoso (tipo quello indicato da Gallino).
Ma certamente proposte neo-keynesiane, come quelle targate CGIL,
sono oggi senza interlocutori politici, dominando entrambi gli schieramenti
un pensiero unico, che vede nella logica dell’impresa l’unico orizzonte possibile, vissuto come un elemento puramente oggettivo : un processo senza
soggetto.
Breve conclusione filosofica
Forse qui serve una conclusione filosofica, per la quale ci affidiamo a
Franco Rella che nel suo ultimo libro, trattando del nichilismo nel pensiero
francese di fine XX secolo (Foucault e dintorni) rileva come gli elementi
soggettivi
«vengono vissuti come ciò che ostacola il progresso verso questo altrove che è quello predicato dal dominio delle tecnoscienze. È il loro “potere”, il loro poter fare, la
loro efficacia, che si costituisce come nuovo orizzonte. Il soggetto, le persone, con il
loro carico di memoria personale e collettiva, con il loro carico di sofferenza, di speranza, di strazio devono essere neutralizzati in quanto costituiscono un ostacolo
all’esercizio di quel potere che non viene più realmente messo in discussione».
«Eppure sono convinto che anche i processi di globalizzazione non siano così inesorabilmente anonimi, così inafferrabili, così indiscutibili, anche se così spesso appaiono, almeno nelle “imprecazioni” regressive contro l’epoca attuale. Credo sia
possibile individuare, all’interno di questi processi, responsabilità individuali e collettive: dei soggetti a cui riferirsi e a cui opporsi. La visione di Foucault sembra invece prossima alla cantilena con cui la politica giustifica le sue incapacità» [La responsabilità del pensiero, Garzanti 2009, p. 223-24 e 113].
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Portare avanti
PAOLO GHEZZI
W
eitertragen, portare avanti, è stata la parola-chiave nell’addio pubblico a un’antica ragazza della resistenza, Anneliese Graf, nella Schlosshalle della sua cittadina, Bühl-Neusatz (Baden Württemberg), sabato 26
settembre 2009.
“Portare avanti” era l’impegno che le aveva chiesto suo fratello Willi,
classe 1918, uno degli studenti di Monaco di Baviera condannati a morte nel
1943 dal regime nazionalsocialista, per aver scritto e diffuso i volantini della
Weisse Rose, la Rosa Bianca che è diventata il simbolo della resistenza disarmata contro la dittatura hitleriana.
Nella sua ultima lettera prima di essere consegnato alla ghigliottina del
carcere di Monaco-Stadelheim, Willi Graf aveva ribadito tutto il suo affetto
protettivo per la “sorellina” di tre anni più giovane che non aveva voluto
coinvolgere nell’attività clandestina antinazista, ma che comunque aveva
pagato con quattro mesi di carcere il suo essere sorella di un traditore del
popolo, di un nonviolento “pugnalatore” dei connazionali al fronte, di un
cattolico antipatriottico che leggeva i filosofi francesi e si era perfino rifiutato di iscriversi alla Gioventù hitleriana, obbligatorio luogo di educazione del
Nuovo Ragazzo Tedesco Obbediente e Combattente.
A Willi però non importava solo dare appuntamento ad Anneliese al
cospetto consolante del Dio di giustizia, al di là: aveva voluto rimarcare che
coloro che restavano avrebbero dovuto fare memoria dei morti, e soprattutto
del perché erano morti, tutti loro: Hans Scholl, sua sorella Sophie, Christoph
Probst che aveva tre bambini piccoli, Alexander Schmorell che voleva fare
lo scultore, il conservatore tradizionalista professor Kurt Huber che li aveva
appoggiati anche se erano un po’ troppo rivoluzionari, quegli studenti della
Rosa Bianca.
Willi Graf, che aveva anche scritto «non è stata una ragazzata, sapevamo quel che facevamo», aveva scelto di passare dalle parole all’azione, con
le parole. Nella Parola di Dio aveva trovato la forza per essere “conseguente”. Non a caso come motto aveva scelto un versetto dalla lettera di Giacomo apostolo: «Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto
ascoltatori, illudendo voi stessi». La grande maggioranza dei suoi amici del
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movimento cattolico non l’aveva seguito su questa strada, avevano preferito
tenere al riparo la fiaccola della fede, in attesa che passasse la bufera neopagana del totalitarismo nazista.
Ma Willi Graf non poteva non mettere il suo corpo, e non solo la sua
anima e il suo pensiero, nella lotta contro il Leviatano. «Ognuno porta
l’intera responsabilità», ha scritto. E se gli altri non avessero portato la loro
parte, lui si sarebbe fatto carico anche dei pesi degli altri.
«La fiamma della sua anima ci illumina ancora», ha detto il sindaco di Bühl, Hans
Striebel. E lo storico Peter Steinbach ha aggiunto: «Se ne vanno i testimoni, ma ci
lasciano il dovere di confrontarci con il passato, di conservare la capacità di indignarsi per l’ingiustizia, che aveva Willi e che ci ha insegnato lei». Monsignor Stephan Wahl ha portato la voce della Chiesa cattolica con cui Anneliese aveva un rapporto critico, un po’ a distanza: «Quando le chiedevano ‘che cosa farebbe oggi Willi?’ lei replicava che era una domanda assurda, nessuno poteva saperlo, neppure lei.
Era un’altra, la domanda fondamentale: che cosa posso fare io, oggi? La mia preghiera è che nelle grandi decisioni come nella vita di tutti i giorni possiamo avere il
coraggio di Willi Graf. Con la sua biografia, con le sue ferite (anche quella di non
essere stata coinvolta dal fratello nella resistenza) Anneliese ha avuto sempre il coraggio della credibilità: il suo viaggio è finito, sempre troppo presto, perché era piena di vita. La perdita è grande, non ascolteremo più le sue parole, non vedremo più
il suo sguardo fiero, ma non dimenticheremo i suoi occhi, critici e affettuosi, il suo
humor, la sua vulnerabilità, la sua tenacia, le sue risate, il suo sorriso timido. Ci
mancherà ma spero che i giovani, nel solco della sua lezione, riconoscano anche
oggi gli incantatori di topi e i falsi dèi. E vedo, lassù, Willi Graf e le sue sorelle Mathilde e Anneliese finalmente riuniti, al banchetto con vini pregiati anticipato dal
profeta Isaia per la fine dei tempi. Là, nell’eternità, in quello che chiamiamo cielo,
che conosciamo così poco, in cui speriamo così tanto».
Più lontano
Weitertragen, portare avanti, è dunque un verbo che – nel mandato affidato da Graf a sua sorella Anneliese, ai suoi amici e a tutti noi che alla Rosa Bianca ci siamo da sempre richiamati – può essere ulteriormente coniugato e specificato: c’è dentro il “portare”, che è dunque l’assunzione di una
piena e non delegabile responsabilità nell’ora storica della scelta tra la passiva rassegnazione e la resistenza religiosamente, eticamente e politicamente
impegnativa. E c’è il weiter che non è solo “avanti” ma letteralmente “più
lontano”: nel tempo e nello spazio. Perché una resistenza che si cristallizza
come esperienza storica determinata e non diventa fonte di nuova resistenza,
qui ed ora, in Italia come in Cina come in Africa o America Latina, è una
resistenza sterile, che resta mitologia senza seminare nuovi fermenti di opposizione e, perfino, di martirio.
Nella Schlosshalle di Bühl-Neusatz, davanti al ritratto sorridente di
Anneliese Knoop-Graf, accanto al cuscino di velluto con le sue medaglie al
valore civile della sua vita di educatrice e di testimone, sempre a suo agio
con i ragazzi di ogni età e di ogni lingua, in cui rivedeva il volto di suo fratello, inchiodato all’eterna giovinezza dei caduti per la libertà, tre studenti
del Geschwister-Scholl-Gymnasium di Münster hanno acceso dei lumini e
recitato parole di libertà. Quella libertà la cui “restituzione” (che splendida
provocazione!) la Rosa Bianca aveva intimato al Dittatore, quella libertà per
cui loro sono morti e Anneliese è vissuta, “portando avanti” il messaggio
fino agli ultimi giorni di vita, incurante delle malattie e della vecchiaia, impegnata anche politicamente, con quella Freie Demokratische Partei, il partito liberale (ma letteralmente libero e democratico) tedesco, che proprio
all’indomani della commemorazione funebre avrebbe trionfato nelle elezioni
politiche tedesche.
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E possiamo sperare anche che l’esempio delle vecchie ragazze resistenti abbia contagiato ragazze e ragazzi di oggi, come suo nipote Simon:
«Una nonna comprensiva, tollerante, curiosa. Invitava spesso a pranzo noi nipoti ma
anche i nostri amici, per sapere che cosa pensavamo del mondo. Parlavamo con lei
di cose di cui non parliamo con i genitori. Discutevamo, si litigava, ma lei sapeva
accettare anche i nostri errori».
Portare avanti, custodire le voci e le parole. Mettere in pratica la Parola.
La doppia memoria di Anneliese e Willi – i due fratelli Graf arrestati insieme, dalla Gestapo, la notte del 18 febbraio 1943 – sollecita noi che restiamo
a non disperdere la loro lezione, la testimonianza di chi non si piega né al
terrore né al conformismo. Un ragazzo vissuto 25 anni, una ragazza sopravvissutagli per altri 66 anni: un fratello e una sorella che hanno avuto il coraggio di non tacere.
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Dialogo
ologiche e aspettative culturali sembrano sovrapporsi, e tutti siamo consci
che le parole dette a suggello di un simile incontro sono destinate a rimanere
scolpite nelle menti e negli animi di chi, erede della lunga e complessa storia
tra ebraismo e cristianesimo, vi si sente coinvolto. In questa prospettiva il
ricordo delle vite e degli insegnamenti di questi due maestri del giudaismo
contemporaneo viene come incoraggiamento a proseguire la via del dialogo
ma anche come ammonimento a non cedere alla tentazione di recuperare
anche solo parti della vecchia “teologia (cristiana) della sostituzione” onde
evitare la fatica di ripensare la propria identità nel complesso scenario della
tarda modernità.
Pionieri americani
del dialogo ebraico-cristiano
Leon Klenicki (1930-2009)
e Michael Signer (1946-2009)
MASSIMO GIULIANI
Rav Leon Klenicki: verso una “teologia ebraica del cristianesimo”
S
crivo questa nota in memoriam di due protagonisti del dialogo ebraicocristiano con gli occhi puntati su due eventi imminenti. Il primo evento,
più intimo e interno ai gruppi di quel dialogo, è la XXX edizione del Colloquio ebraico-cristiano di Camaldoli (a dicembre, come ogni anno), un appuntamento storico per quanti in Italia sono impegnati nel tessere relazioni
di riconciliazione e di amicizia tra le due comunità di fede (quella cristiana –
non solo cattolica! – e quella ebraica). Il secondo evento, più formale e politico, è la visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Roma, programmata per il
17 gennaio 20101, nella giornata che i cattolici in Europa dedicano (prima e
a fondamento della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani)
all’approfondimento e allo sviluppo del dialogo con gli ebrei. Questa è la
seconda visita ufficiale di un papa alla comunità ebraica romana (la prima,
memorabile, fu quella di Giovanni Paolo II nell’aprile 1986); ma trattandosi
di un papa tedesco, che ha ripristinato la formula antica della preghiera Oremus et pro Judaeis (che contiene un per nulla velato desiderio che gli ebrei riconoscano Gesù come messia e salvatore), corde emozionali, sfide te1
Nel 2010 (anno ebraico 5770) tale data coincide con la festa ebraica romana detta Mo’ed
di Piombo, che ricorda un evento accaduto il 12 gennaio del 1793, allorché durante le
turbolenze politiche legate all’arrivo dei francesi, una folla di agitati si radunò intorno al
ghetto e tentò di incendiarlo. Il fuoco venne appiccato al portone della Regola, ma grazie
ad una tempesta che oscurò il cielo fino a farlo diventare plumbeo, le fiamme si spensero
e i malintenzionati furono dispersi. Nel Ghetto venne dichiarato il coprifuoco per otto
giorni e sebbene il pericolo rimanesse incombente, non si verificarono ulteriori danni. Da
allora per gli ebrei romani il 2 del mese ebraico di Shevat è un giorno particolarmente
gioioso e speciali liturgie ricordano la sventata disgrazia e l’assedio del ghetto.
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Il rabbino Leon Klenicki, mancato a Princeton lo scorso 25 gennaio (29
Tevet 5769), è stato per quasi tre decenni responsabile delle relazioni interreligiose dell’Anti-Defamation League [ADL] e protagonista appassionato
del dialogo ebraico-cattolico nelle Americhe, al plurale. Nato nel 1930 a
Buenos Aires in una famiglia di ebrei polacchi immigrati in Argentina negli
anni Venti, Rav Klenicki aveva una solida formazione filosofica e teologica
acquisita sia nella sua città natale sia negli Stati Uniti, dove era arrivato nel
1959 con una borsa di studio per l’Hebrew Union College-Jewish Institute
of Religion di Cincinnati (allora il cuore pulsante e pensante del giudaismo
riformato d’Oltreoceano). Da tale istituzione fu ordinato rabbino nel 1967.
Per la chiesa cattolica erano gli anni dell’immediato post-Concilio e della
svolta di Nostra Aetate. La cultura religiosa in Argentina e in tutto il Sud
America era un terreno completamente da dissodare, ossia, fuor di metafora,
occorreva lavorare duramente affinché nei catechismi e nella predicazione
venissero sradicati gli stereotipi dell’antigiudaismo religioso classico. Il giovane rabbino si buttò senza riserve in questo lavoro, da una parte iniziando
un’assidua collaborazione con i vescovi latino-americani per meglio far conoscere ebrei e giudaismo, e dall’altra aiutando gli stessi ebrei ad aprirsi e a
dialogare con le istituzioni cattoliche del Paese. Chi conosce la storia
dell’Argentina ricorderà che non erano anni facili, politicamente e culturalmente. Ma Rav Klenicki si distinse da subito come uomo di dialogo e di
mediazione, e già nel 1968 contribuì fattivamente a un incontro tra ebrei e
cattolici a Bogotà, in Colombia, nel contesto della storica visita di Paolo VI.
Ne seguì un formale incarico, da parte dei vescovi sudamericani e di una
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commissione congiunta ebraico-cattolica, a studiare i catechismi e i testi religiosi in uso nelle parrocchie in vista di una loro revisione alla luce della
svolta conciliare. Nel 1969 divenne guida spirituale della sinagoga EmanuEl di Buenos Aires e nel 1973 accettò l’invito dell’ADL a dirigere l’ufficio
newyorkese delle relazioni interreligiose (primario, comunque, rimase il suo
impegno di collaborazione con le istituzioni, i vescovi e gli studiosi cattolici), carica che mantenne fino al 2001.
Nel corso degli anni, agli impegni istituzionali Leon Klenicki accompagnò un costante e intenso lavoro di studio, di insegnamento, di scrittura e
di promozione editoriale. Fu docente in molte scuole e università cattoliche
negli USA (per anni insegnò Teologia Ebraica al seminario di Huntington,
NY), collaborò attivamente con le arcidiocesi di Philadelphia e di Chicago,
e, dopo aver lasciato le cariche che ricopriva nell’ADL, profuse le sue energie presso il Centro per lo Studio delle Relazioni Ebraico-Cristiane di Cambridge, in Inghilterra, e all’Università Cattolica di Lovanio. Scrisse e curò
decine di volumi dedicati alla mutua comprensione delle due religioni. Era
direttore dell’importante collana Stimulus, pubblicata da Paulist Press e dedicata al dialogo tra giudaismo e cristianesimo. In questa collana sono apparsi volumi da lui curati insieme a Helga Corner e Lawrence Boadt. In altre
collane sono usciti volumi di conversazioni con teologi cristiani quali Richard J. Neuhaus e Peter Stravinskas. Molto intensa la sua collaborazione
con il segretariato per i rapporti interreligiosi della conferenza episcopale
statunitense, nella persona di Eugene Fisher, con il quale ha pubblicato
l’edizione di molti documenti vaticani su ebrei ed ebraismo, un volume sui
venticinque anni di Nostra Aetate, e persino una liturgia comune per commemorare la Shoà dal titolo: From Death to Hope. Liturgical Reflections on
the Holocaust. Con la moglie Myra Cohen ha curato inoltre un’Aggadà di
Pesach ad uso congiunto di ebrei e cristiani. Non si contano poi le sue collaborazioni con altre istituzioni cattoliche negli States, che avevano in Klenicki un interlocutore tanto disponibile quanto schietto e sincero. Tutto questo
lavoro gli era congeniale proprio in virtù della profonda convinzione che le
due religioni, pur nella loro strutturale diversità (che Leon Klenicki aveva
imparato studiando i mistici cristiani, come san Giovanni della Croce, ma
anche un filosofo neotomista come Jacques Maritain nonché un maestro
dell’ebraismo riformato come Leo Baeck), hanno un enorme patrimonio teologico e spirituale in comune. E che secoli di “insegnamento del disprezzo”
(espressione resa famosa da Jules Isaac) non hanno comunque annullato il
rapporto originario, fondato sulla medesima rivelazione sinaitica e sulla
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condivisa missione etica di migliorare il mondo (il tiqqun ha’olam). Rav
Klenicki non aveva remore poi a parlare di Gesù da un punto di vista ebraico, a discutere pagine evangeliche e a condividere la saggezza talmudica e
chassidica con i futuri preti che frequentavano i suoi corsi. Egli è stato tra gli
esponenti più significativi della nuova “teologia ebraica del cristianesimo”,
a cui ha contribuito non per mezzo di un trattato sistematico ma tramite una
miriade di tasselli di un puzzle vivente, incrociando le vite di migliaia di
credenti, non credenti e diversamente credenti un po’ in tutto il mondo, Italia inclusa. Alcuni dei suoi contributi sono disponibili anche in italiano, come il Piccolo dizionario del dialogo ebraico-cristiano (co-autore Goeffrey
Wigoder), tradotto da Elio Piattelli e pubblicato nel 1988 dalla casa editrice
Marietti; e come il saggio curato da Gabriele Boccaccini “Verso una comprensione ebraica del cristianesimo”, apparso nel 1990 sul Bollettino
dell’Amicizia Ebraico Cristiana di Firenze. Fin dagli anni Settanta, inoltre,
intraprese molti viaggi a Roma e in Italia. Amava la lingua e la cultura italiana e sforzandosi di parlare in italiano tenne, esattamente dieci anni fa, un
corso sulla figura di Abramo presso, non a caso, il monastero di Camaldoli.
Rav Michael Signer:
come trasformare “l’insegnamento del disprezzo” in mutua stima
Storico e studioso del lungo medioevo ebraico, nonché profondo conoscitore dell’esegesi rabbinica dei testi biblici, Michael Signer è morto negli
Stati Uniti lo scorso 10 gennaio (14 Tevet 5769) all’età di 63 anni. Dal 1992
era titolare della cattedra Abrams in Pensiero ebraico presso l’Università
cattolica Notre Dame, nello stato dell’Indiana, dove era arrivato dopo quasi
vent’anni di insegnamento di storia ebraica all’Hebrew Union CollegeJewish Institute of Religion, il più prestigioso centro riformato di studi rabbinici di Los Angeles. Da quest’istituzione aveva anche ricevuto la sua ordinazione rabbinica nel 1970. È proprio nel contesto dei movimenti studenteschi della California tra gli anni Sessanta e Settanta, mentre sta scrivendo a
Toronto la sua dissertation sull’esegeta medioevale Andrea da San Vittore
(nella cui cerchia a Parigi l’hebraica veritas non veniva negata), che Signer
scopre il mondo del dialogo interreligioso e degli scambi tra preti e rabbini,
due gruppi curiosi di conoscersi gli uni gli altri dopo secoli di reciproca indifferenza. Inizia così per il giovane Signer un’intensa attività di divulgazione e di insegnamento della Bibbia e del giudaismo nei seminari e in istitu-
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zioni cristiane sia cattoliche sia protestanti. Suo scopo era trasformare lo
studio e la conoscenza dei momenti più bui e dolorosi della storia delle relazioni ebraico-cristiane in “opportunità” per un nuovo impegno, da parte di
ebrei e cristiani, per far maturare la fede delle due diverse comunità religiose, ponendo fine all’antagonismo violento e inaugurando semmai
un’emulazione virtuosa nella stima reciproca. Con questo spirito, coniugando senza conflitti la dimensione dello studioso con quella dell’educatore,
accettò diversi inviti a tenere corsi e conferenze in Germania (soprattutto
all’università Wilhelm von Humboldt di Berlino) e in Polonia (presso la
Pontificia Accademia di Cracovia). Proprio il “Comitato polacco di cristiani
ed ebrei”, un organismo internazionale di dialogo interreligioso, gli ha conferito nel 2005 il proprio annuale Premio come “Uomo della riconciliazione”.
Negli anni del suo insegnamento alla Notre Dame University [è degno
di nota che questa università cattolica abbia assunto un rabbino tra i propri
docenti, se si pensa che alla Cattolica a Milano non c’è mai stato neppure un
docente a contratto, non dico un titolare di cattedra, che insegni giudaismo e
pensiero ebraico, ma solo un lettorato di ebraico biblico], Rav Michael Signer è stato anche direttore di un Holocaust Project, teso a stimolare gli studenti allo studio della Shoà e alle sue ricadute nel mondo contemporaneo.
Come studioso ha scritto oltre 50 saggi e curato diversi volumi, tra cui
vanno menzionati Humanity at the Limit: The Impact of the Holocaust
Experience on Jews and Christians (2000); Memory and History in Judaism
and Christianity (2001); Jews and Christians in Twelfth-Century Europe
(2001) e il più recente Coming Together for the Sake of God: Contributions
to Jewish-Christian Dialogue from Post-Holocaust Germany (2007). Tra le
molte iniziative in ambito dialogico e interreligioso a cui Signer ha contribuito vi è la sua attiva partecipazione alla preparazione e alla pubblicazione
di un singolare documento, unico nel suo genere, apparso tra l’altro a piena
pagina sul New York Times nel novembre 2000. Il suo nome appare tra i
quattro estensori materiali di tale testo, ben noto negli ambienti dell’incontro
ebraico-cristiano, che si intitola Dabru Emet [Parlate secondo verità]: Una
dichiarazione ebraica su Cristiani e Cristianesimo, poi sottoscritto da quasi
trecento personalità – rabbini, intellettuali, docenti universitari e leaders del
mondo ebraico delle diverse tendenze (riformati, conservative, ortodossi) – e
che funge da pubblico riconoscimento e apprezzamento degli sforzi cristiani
per capovolgere lo storico insegnamento del disprezzo in insegnamento della stima, mentre al contempo sottolinea il patrimonio e i molti valori che e-
25
brei e cristiani condividono e sui quali possono dialogare e lavorare insieme.
Tale documento è spesso citato anche da vescovi e cardinali, come dimostrazione che il cammino fatto insieme, da ebrei e cristiani, è davvero un lavoro condiviso e le tappe di questo cammino, teologico e non solo pastorale,
sono – a dispetto di qualche incidente di percorso – irreversibili. Mi piace a
questo punto ricordare che Michael Signer aveva accettato di entrare a far
parte del comitato scientifico internazionale dell’annuario “Politica e Religione” edito dalla Morcelliana e diretto dal collega e amico Michele Nicoletti dell’Università di Trento. Una collaborazione interrotta da una morte
prematura, che ha privato il mondo ebraico e il movimento del dialogo interreligioso di una delle sue voci più significative e promettenti.
Casa Editrice il Margine
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26
Gli ultimi giorni del Margine
È invece questo, propriamente, il contenuto della speranza cristiana,
come si chiarisce al n. 43:
Il Giudizio e la giustizia
«Sì, esiste la resurrezione della carne. Esiste una giustizia. Esiste la “revoca” della
sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto. Per questo la fede nel
Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli. Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso
l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell’immortalità
dell’amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che
l’uomo sia fatto per l’eternità; ma solo in collegamento con l’impossibilità che
l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita».
Note di escatologia
MILENA MARIANI
L’
Enciclica Spe salvi di Benedetto XVI, datata 30 novembre 2007, con
le pagine che portano il titolo «Il Giudizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza» (nn. 41-48) tocca certamente un punto
scoperto della formazione cristiana odierna, ma anche una corda tra le più
sensibili nella cultura contemporanea soprattutto là dove il tema del Giudizio è collegato con quello della giustizia.
In termini generali l’Enciclica cerca di restituire centralità al pensiero
del Giudizio1 che sarebbe sbiadito in epoca moderna parallelamente alla
“secolarizzazione” della speranza (n. 42; cfr. nn. 16-23). La speranza, si argomenta, è stata sostituita con l’idea di un progresso garantito dalle mani
dell’uomo. Nel testo si sottolinea che l’illusorietà di una simile rappresentazione ottimistica del progresso è stata fatta oggetto di critica serrata soprattutto da parte dei francofortesi Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, secondo cui il progresso conserva sempre inevitabilmente in sé aspetti ambigui e non può proporsi come interpretazione risolutiva della storia, né tanto
meno come sua redenzione dall’insorgere ripetuto di ingiustizie. Una risoluzione sarebbe pensabile: occorrerebbe – secondo la citazione dalla Dialettica negativa di Adorno riportata al n. 42 – un mondo «in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato». La vera giustizia, in sostanza, richiederebbe la resurrezione
dei morti, che implicherebbe a sua volta la resurrezione della carne. Ma dal
punto di vista del filosofo si tratta di simboli ancora inadeguati e di prospettive che restano implausibili per molti.
1
Manteniamo, per ragioni di chiarezza, l’iniziale maiuscola al termine “Giudizio” in
accezione escatologica.
27
Affermazioni che andrebbero approfondite attentamente. È in ogni caso
chiaro che la Spe salvi assegna al tema del Giudizio una centralità forse insospettata nella fede cristiana, un rilievo forse inatteso per una comprensione corretta di che cosa la fede speri da ultimo e che cosa sia la redenzione
promessa da Cristo e annunciata dalla Chiesa. Tutt’altra cosa da una fuga
dalla carne o dalla storia. Tutt’altra cosa da una rappresentazione minacciosa
dell’intervento ultimo di Dio nel corso del mondo. La necessità di un compimento della giustizia che coinvolga tutta la realtà e la storia intera fa sì che
parusia e Giudizio diventino oggetto di speranza.
L’invito dell’Enciclica ad un “ritrovamento” del tema del Giudizio non
va lasciato cadere. Di qui nascono le annotazioni che seguono e che hanno
esclusivamente la pretesa di far intuire il rinnovamento in corso nella riflessione intorno a questo “difficile” e cruciale articolo di fede.
Ripensamenti della teologia del Giudizio
Non v’è dubbio che a partire dagli anni Cinquanta si è attuata una revisione profonda non solo di talune rappresentazioni del Giudizio, ma
dell’intera escatologia, per quanto tale rinnovamento fatichi ancora a farsi
largo nella predicazione, nella catechesi e nella coscienza cristiana comune.
Da quella che Yves Congar chiamava «fisica dei fini ultimi», dalla trattazione delle «cose ultime», da una certa «geografia dell’eterno» che tentava di
collocare da qualche parte paradiso, inferno e purgatorio, si è passati a in-
28
tendere l’escatologico in termini relazionali. Per rappresentare sinteticamente questo cambiamento di rotta complessivo, possiamo citare un passo famoso di Hans Urs von Balthasar:
«È Dio il ‘fine ultimo’ della sua creatura. Egli è il cielo per chi lo guadagna,
l’inferno per chi lo perde, il giudizio per chi è esaminato da lui, il purgatorio per chi
è purificato da lui. Egli è colui per il quale muore tutto ciò che è mortale e che resuscita per lui e in lui. … Ma egli lo è precisamente nel modo in cui si rivolge al mondo, cioè nel suo Figlio Gesù Cristo, che è la manifestazione di Dio e quindi il compendio delle ‘ultime realtà’»2.
Il ricentramento in Gesù Cristo e la disincrostazione delle affermazioni
di fede da molti depositi superflui e talvolta fuorvianti accumulati lungo i
secoli hanno consentito una ripresa più accorta della questione escatologica
nel suo insieme e dei singoli temi ereditati dalla tradizione3. Anche se il rischio di regredire a posizioni superate è sempre presente, così come il rischio di perdere nuovamente la resurrezione di Cristo quale punto di partenza per “immaginare” fondatamente il destino ultimo dell’uomo e della realtà
intera. Lo dimostra, tra l’altro, la polarizzazione intorno al solo tema
dell’immortalità dell’anima che compare in L’anima e il suo destino di Vito
Mancuso4. Sembra più corretto – e per molti aspetti più interessante anche in
vista di un dialogo aperto con molti filoni del pensiero contemporaneo – riflettere mantenendo la centralità di Cristo e la peculiarità della speranza cristiana. Ed è peraltro in questo orizzonte che si sono mossi i ripensamenti
contemporanei più cospicui in tema di teologia del Giudizio.
Il primo e più evidente, almeno sul piano teorico, è il sostanziale ridimensionamento del Dies irae. La storia dell’escatologia che si ricava dal
pensiero teologico e da molte fonti di altro genere (predicazione, catechesi,
liturgia, pittura, musica) mostra indubbiamente, rispetto alla tradizione primitiva, uno scivolamento progressivo verso la rappresentazione del Giudizio
2
3
4
nei termini di un Dies irae. Le ragioni sono molteplici. Vi concorrono certamente l’accentuazione unilaterale di temi pure presenti nella Scrittura, in
particolare nella predicazione profetica (si veda, a titolo d’esempio, Sofonia), l’emergere di filoni apocalittici che tracimano volentieri dall’alveo
dell’escatologia, il prevalere dell’immaginario forense, per cui il giudizio di
Dio si esercita in una sorta di tribunale e con criteri analoghi a quelli noti nei
tribunali umani. La rappresentazione del Giudizio universale di Michelangelo può rendere efficacemente l’idea di questo scivolamento. Si accentua nel
complesso, nelle diverse espressioni artistiche e nell’annuncio, il peso assegnato alla possibilità della dannazione. E ci si appella, per giustificare la deriva, a una supposta necessità pastorale di incutere il “giusto timore” di Dio.
È illuminante il titolo di un’opera custodita a Trento. L’autore risulta essere
un padre somasco, tale don Giovanni Francesco Priuli. L’opera, pubblicata a
Padova nel 1669, s’intitola Della seconda venuta di Giesu in trono di potestà e terrore per il divino giudicio per contrapunto alla prima di umiltà e
mansuetudine per la redenzione: opera efficacissima per vincere la durezza
del cuore humano e correggere la empietà…
Ma sta proprio qui il nocciolo della questione: perché mai contrapporre
antiteticamente prima e seconda venuta di Cristo? Perché mai immaginare la
storia individuale e collettiva nel tempo tra le due, che è anche il tempo della
Chiesa, sotto l’ipoteca del terrore e della minaccia finale? Emerge con chiarezza che la revisione del Dies irae richiede in primo luogo che si ristabilisca la relazione corretta tra la parusia e il Giudizio. Con le parole di Gianni
Colzani:
«Di per sé il giudizio dovrebbe venire specificato dalla parusia: il significato cristologico, gioioso e salvifico, di quest’ultima avrebbe dovuto riversarsi sul giudizio
rendendolo il momento della riconciliazione del mondo con il suo Signore e creatore; di fatto il giudizio ha finito per minimizzare la parusia e per imporre le categorie
del suo sviluppo – spesso solo individualistiche ed etiche, affatto storico-salvifiche
– anche sulla parusia. La grande speranza cristiana, la gioiosa attesa della venuta del
Signore, si è così trasformata in un evento segnato da un clima di paura e di timore.
Il “giorno del Signore” è diventato il Dies irae. In realtà, il giudizio è ben altro. In
quanto compimento dell’opera di Cristo e da lui presieduto, ha un valore salvifico: è
il giungere a pienezza e definitività del mondo, proprio in forza della presenza e
dell’opera di Gesù […]. Fatto carne in Gesù, il Figlio è la Parola salvifica che riporta il mondo a quella verità che, da parte sua, esso va appassionatamente e disordinatamente cercando. Il giudizio è la pienezza, la definitività di questo incontro salvifi-
H.U. von Balthasar, I novissimi nella teologia contemporanea, Queriniana, Brescia
1967, pp. 44-45 (ed. or. 1957).
Resta fondamentale il saggio di K. Rahner, Principi teologici dell’ermeneutica di
asserzioni escatologiche, in Id., Saggi sui sacramenti e sull’escatologia, Paoline,
Roma 1965, pp. 399-440 (ed. or. 1960).
V. Mancuso, L’anima e il suo destino, Cortina, Milano 2007, cui risponde in modo
propositivo G. Canobbio, Il destino dell’anima. Elementi per una teologia,
Morcelliana, Brescia 2009.
29
30
co; senza il giudizio, la storia sarebbe prigioniera del limite creaturale e rimarrebbe
tagliata fuori dalla compiutezza della verità»5.
Un secondo ripensamento tuttora in atto investe la visione fortemente
individualistica del Giudizio. Si era indubbiamente affermata una sorta di
fissazione intorno alla salvezza dell’anima e della “propria” anima, in parallelo con una diminuita consapevolezza della dimensione universale e delle
implicazioni anche cosmiche dell’incarnazione, morte, resurrezione e ascensione al cielo di Cristo. Ciò ha comportato un obiettivo restringimento e impoverimento dell’orizzonte del Giudizio sino alle soglie del Concilio Vaticano II. Negli ultimi decenni, una cristologia rinnovata, il recupero della
tradizione patristica (generalmente sensibile alla dimensione collettiva) ed il
rifiorire di teologie della storia (in particolare, teologia della speranza e teologia politica) hanno contribuito a correggere quella che è apparsa sempre
più chiaramente una severa riduzione del dato di fede. Che ha esercitato ed
esercita tuttora effetti vistosi sulla coscienza della solidarietà che lega Cristo
all’umanità intera, il destino degli uni a quello degli altri, la vicenda personale alla storia universale.
Un terzo ripensamento riguarda quella che ancora Balthasar chiama «la
pretesa di disporre dell’esito del giudizio», di appropriarsi cioè di quella facoltà che compete a Dio soltanto6. Una pretesa che si è concretizzata storicamente quando accanto all’idea genuinamente biblica di un’unica predestinazione (alla salvezza) si è affacciata l’idea di una doppia predestinazione.
Ma anche quando, distolta l’attenzione dalla centralità della persona di Cristo nel Giudizio, ci si è rivolti agli “oggetti”, alle sentenze di salvezza o di
dannazione, finendo per considerare le due possibilità come se fossero simmetriche e perdendo così il senso fondamentalmente salvifico del Giudizio.
Da ultimo, la pretesa si è realizzata quando si sono sottovalutati i testi della
Scrittura che pongono la salvezza di tutti tra le realtà sperate. Nelle osservazioni critiche di Balthasar sono implicite le direzioni intraprese per correggere la parzialità di quelle posizioni, che si ripercuotono evidentemente ben
oltre l’ambito escatologico, interessando l’interpretazione complessiva del
cristianesimo.
5
6
G. Colzani, La vita eterna. Inferno, purgatorio, paradiso, Mondadori, Milano 2001, p.
71.
H.U. von Balthasar, I novissimi nella teologia contemporanea, cit., pp. 54-60: cfr. Id.,
Breve discorso sull’inferno, Queriniana, Brescia 1988 (ed. or. 1987).
31
Tracce di evoluzione
I tre ripensamenti critici accennati lasciano intuire la portata del rinnovamento della teologia del Giudizio negli ultimi cinquant’anni. Ma conviene
soffermarsi anche su tre tracce di evoluzione che, a mio parere, appaiono
emergenti o riemergenti.
La prima è la più nota e solitamente ricondotta anch’essa al nome di
Balthasar, per quanto egli stesso si appoggi – nella parte quinta della Teodrammatica – a numerose testimonianze patristiche, medievali e contemporanee. Brevemente: si parla di «autogiudizio»7. Già Origene descriveva il
giudizio come l’irradiare della luce di Cristo che dirada anche
l’autoinganno, cosicché l’uomo «riconosce se stesso»: «non solo nessuno
dei giusti, ma neppure nessuno dei peccatori potrà non riconoscere
l’essenziale verità di Cristo». Gli fa eco Ambrogio, per il quale non di libri
aperti o di cattedre giudiziarie si tratta, bensì della stessa coscienza che davanti a Cristo «non può più nascondersi». In questa linea si colloca Balthasar, precisando che l’autogiudizio è possibile
«naturalmente nella luce della divina verità la quale è in se stessa la verità di ciò che
Dio ha fatto per l’uomo in Gesù Cristo. È impensabile che un qualsiasi uomo, davanti a un criterio in tal modo esibito da Dio, possa reggere o anche solo alludere alle sue presunte “buone opere”».
L’argomento dell’autogiudizio è stato ed è spesso ribadito autonomamente e senza l’accortezza necessaria, tanto da far sembrare che l’uomo sia
inteso come misura a sé stesso. Balthasar, al contrario, lo introduce per mostrare che il giudizio di Dio dovrà ispirarsi alla grazia più che al diritto, ma
si tratterà pur sempre di una grazia che non supera d’un balzo la libertà umana, secondo l’obiezione kantiana, proprio perché il peccatore stesso si
sarà reso conto della propria condizione. Così presentato, l’argomento intende correggere gli eccessi di una certa rappresentazione forense ed evita
che si proietti sul Giudice un volontarismo sospetto, una sorta di subordinazione raggelante della verità all’autorità. La verità emerge invece nel confronto che in maniera definitiva si istituisce tra l’uomo e Colui che gli sta
dinanzi come il Giudice Redentore. Secondo alcuni, si potrebbe scorgere in
tutto ciò una certa inclinazione apologetica: in sostanza, si vorrebbe porre
7
H.U. von Balthasar, Teodrammatica V. L’ultimo atto, Jaca Book, Milano 1986, pp. 248251 (ed. or. 1983).
32
Dio al riparo dalla responsabilità della condanna, interpretandola anzitutto
come autocondanna del peccatore stesso.
La seconda traccia di evoluzione è costituita, a mio parere, dal riemergere del legame tra il Giudizio e la resurrezione della carne (o del corpo),
che va a rafforzare la consapevolezza del significato integralmente salvifico
del Giudizio. Il valore dell’articolo di fede che afferma la resurrezione della
carne – spesso dimenticato in favore della sola immortalità dell’anima – è in
realtà inestimabile, proprio perché esso esprime la peculiarità della speranza
cristiana8, come ricorda la stessa Spe salvi in dialogo con Adorno. Il discorso si farebbe assai lungo, anche per le implicazioni evidenti sul versante di
un più complessivo “ritrovamento” cristiano del corpo, dopo secoli di diffuso sospetto nei suoi confronti. Basti dire per ora che appare indispensabile,
in proposito, un confronto aperto con la riflessione filosofica contemporanea
ed in particolare con quel filone fenomenologico che ha messo a tema la
corporeità e include, tra gli altri, i nomi di Max Scheler, Edith Stein, Maurice Merleau Ponty, Gabriel Marcel. Per giungere a Michel Henry che riguardo alla resurrezione del corpo scrive:
«Stravaganti … dovevano necessariamente sembrare, agli occhi dei Greci, delle affermazioni come quella che sostiene la resurrezione del corpo. Ecco perché i Corinzi sghignazzavano allorché Paolo pretendeva di non riservare all’anima il privilegio
di questa resurrezione. È chiaro al contrario che se l’essere originario del nostro
corpo è qualcosa di soggettivo, esso cade, allo stesso titolo della nozione di “anima”, sotto la categoria di ciò che è suscettibile di essere ripreso e di essere giudicato. È manifestamente al contenuto della teologia cristiana che Rimbaud ha
improntato l’affermazione: les corps seront jugés»9.
Questo accento filosofico sull’uomo risorto e giudicato nella sua interezza personale (e non come “anima separata”) può risultare insolito solo a
chi non conosca la tradizione cristiana primitiva che si era tenuta ben stretta
la singolarità della resurrezione della carne. Tra i Padri apostolici si legga, a
8
9
Cfr. G. Greshake, Vita – più forte della morte. Sulla speranza cristiana, Queriniana,
Brescia 2009, pp. 88-100 (ed. or. 2008).
La citazione – tratta da M. Henry, Philosophie et phénoménologie du corps (1965) – è
ricordata, come la seguente dello Pseudo-Clemente, nell’interessante contributo di G.
Lorizio, “Credo la risurrezione della carne”, che si può leggere nel sito www.
academiavita.org.
33
titolo d’esempio, l’Omelia dello Pseudo-Clemente (o Seconda lettera di san
Clemente ai Corinzi):
«Nessuno di voi venga a dire che questa nostra carne non subirà il giudizio e non resusciterà. Ricordatelo: non foste salvati, non otteneste la vita interiore, se non in
questa carne, vivendo in essa? Perciò è doveroso custodire la carne come un tempio
di Dio. Nella carne foste chiamati e nella carne raggiungerete [la mèta]. Se Cristo, il
Signore, nostro Salvatore, che prima era solo spirito, si fece carne e solo così ci
chiamò, anche noi solo in questa carne raggiungeremo il premio eterno».
La questione della resurrezione della carne, dunque, lungi dal poter esser liquidata come un articolo di fede “imbarazzante” o mitologico, chiede
al contrario d’essere teologicamente ripensata, vantando a proprio favore
l’autorevolezza della tradizione ed anche l’interesse suscitato al di fuori
dell’ambito teologico. Non mancano segnali promettenti, mentre si nota
un’accresciuta consapevolezza del fatto che parusia, Giudizio e resurrezione
della carne non possono essere pensati separatamente. Mantenere legati e
ricentrare cristologicamente questi temi significa aprirsi piste di ricerca decisive sia per il rinnovamento dell’escatologia sia per l’intera teologia, la
fede comune e la predicazione. La redenzione dell’intera realtà trova effettivamente nella resurrezione della carne un’espressione pregnante. Essa viene
a significare anche la revoca del potere della morte, l’annientamento
dell’ultimo nemico che affligge la storia umana, la risoluzione della contraddizione estrema che l’attraversa e che solleva prepotentemente la domanda della teodicea. Nella resurrezione della carne s’affaccia il novum della condizione escatologica, dal momento che Dio solo può operare la resurrezione e trasformare l’uomo e il suo mondo in realtà nuove, altamente inimmaginabili e irriducibilmente misteriose per chi ancora abita la condizione storica10.
10
Cfr. J. Ratzinger/ Benedetto XVI, Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella, Assisi
2008, pp. 191-194 (ed. or. 2007). Conclude il Pontefice teologo (p. 194): «il mondo
nuovo non è in alcun modo immaginabile. Neppure esiste nessun genere di
affermazioni in qualche maniera concretizzabili e immaginabili sul tipo del rapporto
che regnerà nel mondo nuovo tra gli uomini e la materia e neppure sul “corpo di
resurrezione”. Esiste però la certezza che la dinamica del cosmo porterà a una meta, a
una situazione cioè in cui la materia e lo spirito saranno coordinati l’una all’altro in un
modo nuovo e definitivo. Questa certezza rimane anche oggi, anzi, soprattutto oggi, il
contenuto concreto della fede nella resurrezione della carne».
34
La terza traccia di evoluzione concerne la questione del purgatorio, ormai declinata nei termini di una purificazione dopo la morte. Mi piace richiamare qui la stimolante riflessione che le dedica Romano Guardini11.
L’agire sempre fluttuante e contraddittorio dell’uomo – così egli si esprime
– giunge al Giudizio e di nuovo l’uomo scopre che può essere elevato alla
nuova vita solo tramite il perdono,
Queste tre tracce di evoluzione – persino là dove in primo piano è ancora la prospettiva individuale rispetto a quella collettiva – offrono già elementi importanti per riprendere il legame tra il Giudizio e la giustizia.
Il Giudizio e la storia
Raccogliamo la provocazione lanciata da Peter Berger:
«quell’atto divino rivolto non al bene, ma al male dell’uomo; l’atto di sommo amore
con cui Dio si rivolge all’uomo e lo assolve. Su Dio, sulla sua intenzione si basa la
nuova giustizia dell’uomo. Ciò è vero, ma questo perdono, questa giustificazione
devono avere una caratteristica di realtà, non di magia. La giustizia non dev’essere
solo imputata all’uomo, ma fatta propria».
«l’escatologia, nell’affrontare la tensione tra il “già” e il “non ancora” deve contenere anche una teodicea. Inoltre deve fondarsi sulla Resurrezione e attraverso di essa
deve esprimere la speranza per il superamento del male, della sofferenza e della
morte. Ogni risultato inferiore è, molto seriamente, “non interessante”. In altre parole, se il cristianesimo promettesse qualcosa di meno, potremmo tranquillamente farne a meno. Ancora una volta vorrei sottolineare la centralità del superamento della
morte. Ivan Karamazov aveva ragione: un Dio che accetta la morte di bambini innocenti è inaccettabile. La morte è inaccettabile. L’escatologia deve insistere sul fatto
che la morte è inaccettabile per Dio e che la manifestazione finale della redenzione
sancirà questa inaccettabilità»13.
E poco oltre continua:
«“Giudizio” significa che nella luce santa di Dio l’uomo ha una visione completa di
se stesso … E la sua visione non ha veli. Tutto ciò che di solito rende insensibili –
orgoglio, vanità, distrazione, indifferenza – è assente. L’animo è aperto, sensibile,
raccolto. E l’uomo vuole. Sta dalla parte della verità contro se stesso … In una misteriosa sofferenza, il cuore si mette a disposizione del pentimento e si consegna così alla potenza santificante dello spirito creatore. L’istante mancato viene offerto di
nuovo. L’errore è riparato. Il male è rivissuto e tradotto in bene. Non si tratta di un
miglioramento esteriore: attraverso il mistero della grazia rigeneratrice che opera
nel pentimento tutto rinasce a nuova vita. Questa è la purificazione di cui parla la
Chiesa».
Si coglie il rinvio all’anticipazione sacramentale in questa visione della
purificazione, che anche in Balthasar peraltro compare come «una dimensione del giudizio», appartiene intrinsecamente al Giudizio in quanto giustificazione di un uomo che è peccatore12. E ricompare l’idea di una revoca che
è resa possibile, da un lato, dalla potenza del perdono di Dio e, dall’altro, dal
libero pentimento della creatura.
11
R. Guardini, Le cose ultime. La dottrina cristiana sulla morte, la purificazione dopo la
morte, la resurrezione, il giudizio e l’eternità, Vita e Pensiero, Milano pp. 39-55 (ed.
or. 1940).
12
H.U. von Balthasar, I novissimi nella teologia contemporanea, cit., p. 53. Dal versante
filosofico ancora sull’idea di revoca R. Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità
celeste, Il Mulino, Bologna 1991, in particolare p. 113.
35
Il Giudizio e la giustizia richiedono certamente d’essere compresi non
in chiave individualistica e astratta, ma collettiva e storica. E di nuovo rimando, in prima battuta, a Guardini e alle pagine che dedica al Giudizio14, il
cui Leitmotiv è rappresentato da un’affermazione che capovolge l’idea di
minaccia insita nel Dies irae. Per Guardini «l’uomo deve chiedere il giudizio». Questo perché egli porta in sé il desiderio innato di una giustizia non
semplicemente retributiva, bensì operante «in modo molto più profondo: che
si compia la giustizia per la giustizia, per lui, per gli altri, per il tutto.
L’esistenza deve entrare nella giustizia, il mondo deve diventare com’è giusto che diventi … Alla fine della storia dovrà esserci il giudizio». Allora tutto entrerà nella verità e sarà chiaro che «solo il bene ha diritto di essere» e
che «il male non è necessario, né esperto del mondo, né vitale, né eroico, ma
semplicemente superfluo». Si tratterà di «un processo di correzione
dell’esistenza»: non di un’autocorrezione sino in fondo impossibile, non di
un autocompimento della storia altrettanto impossibile, ma di un Giudizio
13
P. Berger, Questioni di fede. Una professione scettica del cristianesimo, Il Mulino,
Bologna 2005, p. 171.
14
R. Guardini, Le cose ultime, pp. 79-96.
36
affidato a Cristo che riguarderà tutta la storia e la distanza d’essa dalla giustizia che deve compiersi.
A queste dimensioni dell’escatologia è particolarmente sensibile Jürgen
Moltmann, come in genere gli esponenti delle varie forme di teologia della
speranza e di teologia politica. Il teologo bilancia, per dir così, l’usuale partenza dall’alto con una partenza dal basso: l’«invocazione di giustizia che
sale al cielo» – dalla bocca delle vittime, mai ridotte al silenzio, e persino
dalla negazione della pace riservata ai carnefici – può costituire un «modo
diverso di concepire il giudizio universale»15. Il Giudice universale è quel
Crocifisso «che porta su di sé “il peccato del mondo”, la sofferenza delle
vittime» ed esercita «la giustizia divina creatrice, la giustizia che riconosce
il diritto alle vittime e ristabilisce il diritto sui trasgressori». Nella prospettiva di Moltmann, il Giudizio è considerato «una realtà penultima», l’ultima
essendo la riconciliazione della terra con Dio, la realizzazione della promessa di far nuove tutte le cose dopo la scomparsa delle «cose di prima», della
morte, del lutto, del pianto (Ap 21,1-5).
La sensibilità contemporanea recupera, dunque, una dimensione del
Giudizio rimasta in ombra rispetto alla preoccupazione per le sorti individuali e all’immaginazione di paradisi e inferni variamente collocati. La relazione compiuta e felice con Dio dà origine a nuovi cieli e nuova terra. Se in
taluni casi non appare del tutto assente la tendenza a proporre versioni rinnovate dell’apocatastasi (teoria respinta dal Magistero, com’è noto, perché
cancella la possibilità reale di rifiutare la salvezza), resta nondimeno il fatto
che la prospettiva della ricapitolazione in Cristo di tutta la realtà, il significato radicalmente salvifico del Giudizio, la sua natura di «Giudizio di pace»,
l’idea che vi sia la possibilità della “revoca” e insieme un novum generato da
Dio costituiscono indubbiamente piste che vanno ulteriormente percorse.
Non minore attenzione meritano, a mio parere, anche due inviti tra i
tanti che provengono dalla ricomprensione odierna del tema del Giudizio.
Anzitutto, un invito a riprendere la questione della verità (e della ricerca della verità) che corregga la sua riduzione intellettualistica e sappia pensarla
non solo come adaequatio o epistéme, ma anche come giustizia16. Questo
per almeno due ragioni: per fedeltà a quanto emerge da una considerazione
del Giudizio come ristabilimento di una verità che è giustizia dell’intera realtà ed è fondata su relazioni d’amore; ma anche per coerenza rispetto a una
più ampia concezione della verità che pure la tradizione conosce e che ne
afferma appunto la relazione alla giustizia. Il secondo invito, evidentemente
legato al primo, è quello a ripensare le responsabilità storiche partendo proprio dalla luce gettatavi dal Giudizio. Nella scena del Giudizio finale di Matteo (25, 31-46) s’affaccia il volto dell’altro, del debole, dietro il quale si cela
il volto di Cristo stesso. Il gemito di cui parla Paolo (Rm 8,18-39) rende attenti alla solidarietà che lega il compimento dell’uomo a quello dell’intera
creazione. Se è vero, dunque, che una risoluzione solo immanente delle contraddizioni della storia è impossibile in via definitiva, resta nondimeno la
responsabilità di ricercare già qui la giustizia delle relazioni secondo tutta
l’ampiezza del loro dispiegarsi.
15
J. Moltmann, Nella fine – l’inizio. Una piccola teologia della speranza, Queriniana,
Brescia 2004, pp. 211-220 (ed. or. 2003).
16
Cfr. P. Sequeri, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Vita e Pensiero, Milano
2002, pp. 15-27; Id., Destinazione della verità. Il kairos religioso-cristiano nel
pensiero occidentale, «Gregorianum», 89 (2008), pp. 709-726.
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