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PRIMA aper.doppia tit maiuscolo (Page 1)
Il network d’informazione
delle grandi Radio Regionali.
IL FOGLIO
Redazione e Amministrazione: L.go Corsia Dei Servi 3 - 20122 Milano. Tel 02/771295.1
ANNO XIII NUMERO 111
Alemanno sente la vittoria, ma non
vuole che la scalata al Campidoglio
diventi una calata su Roma
Così la “generazione Boris Johnson”
ha sdoganato i Tory e messo a punto
un piano per la conquista di Londra
Roma. “Ho letto sul sito Repubblica.it che sarebbe in dubbio il confronto televisivo di questa
sera a Matrix. Io confermo di essere pronto ad affrontare Francesco Rutelli e parteciperò a questo faccia a faccia nonostante il clima incivile e
indegno per un confronto politico in cui si è fatta piombare la città”. Così, con una nota alle
agenzie, Gianni Alemanno scioglie il piccolo caso che nel corso della giornata si era aperto a
proposito della sua partecipazione al duello televisivo. La puntata avrebbe dovuto essere registrata nel pomeriggio, poi Rutelli ha chiesto la
diretta, suscitando negli avversari il sospetto di
una trappola, legata alle ultime indiscrezioni sugli sviluppi dell’inchiesta sullo stupro di una studentessa africana (la procura ha disposto la secretazione dei verbali dell’interrogatorio dell’imputato). Rutelli, su Raiuno, definisce “sospetta”
la vicenda. “Si è davvero toccato il fondo con
una tale strumentalizzazione del
dolore. Sono dei cialtroni e dobbiamo rimandarli a casa”, replica
Alemanno. La chiusura della
campagna elettorale romana non
mostra dunque alcun abbassamento dei toni. Non stupisce che
i due contendenti, a poca distanza l’uno dall’altro dinanzi all’Altare della patria, per le celebrazioni del 25 aprile, non si siano neanche salutati.
Londra. “The dream of Rome”, sognando
Roma, la capitale di quell’Impero che riuscì
a realizzare un’unità culturale e spirituale
ancorché politica ed economica. Nel 2006,
Boris Johnson, candidato conservatore all’elezione del sindaco di Londra, sognava
quella Roma, l’aveva raccontata in un libro,
ne parlava citando Virgilio. Oggi, come in
una splendida sceneggiatura in cui nulla avviene per caso, Roma chiama Londra. Due
uomini diversi, due avventure simili simili,
due conservatori che provano a espugnare i
feudi – e che feudi – della sinistra.
Fino a quattro mesi fa, Johnson era una
macchietta, il politico per caso, il biondino arruffato tanto acculturato quanto maldestro, il praticante giornalista cacciato
dal Times perché s’era inventato alcune
citazioni (e si era difeso spiegando candidamente che tutti inventavano le citazioni) poi diventato disordinato
direttore dello Spectator, famoso per le sue provocazioni
ma amministratore poco
oculato, come ha sottolineato malizioso l’Economist. Oggi, a cinque giorni
dall’election day di Londra, il 1o maggio, Johnson è favorito di un soffio rispetto al sindaco
uscente, quel Ken Livingstone un po’ laburista e un po’ indipendente che regna sulla capitale britannica da otto anni. Il vento nazionale gira dalla parte giusta per
Johnson: ieri un sondaggio del Telegraph
dava i conservatori 18 punti avanti rispetto al New Labour, un vantaggio che ricorda i tempi thatcheriani, ormai quasi un
ventennio fa. I laburisti sono terrorizzati,
non si possono permettere di perdere (anche) Londra e ieri si sperticavano sui blog
e sui giornali per convincere i terzi incomodi – i Lib-Dems che hanno schierato
l’ex poliziotto Brian Paddick – a votare, come seconda scelta, Ken il Rosso. Sarà infatti proprio la seconda scelta, dicono i
commentatori, a definire il prossimo sindaco di Londra: il sistema elettorale prevede che si faccia una classifica dei favoriti. Se Livingstone e Johnson arrivano vicini vicini, conteranno quei nomi scritti
sulla seconda colonna della scheda rosa.
La tentazione tra gli elettori dei Lib-Dems
di votare il conservatore è fortissima, tutti
in città ne parlano, tra i bisbigli.
La “generazione Boris Johnson”, quel
gruppo di quarantenni che ha conquistato
la leadership dei conservatori, è al suo primo vero appuntamento elettorale. David
Cameron, leader dei Tory, ha puntato su
Boris nel luglio scorso, in mezzo a mille critiche: sei pazzo, gli dicevano i guru del partito, ci giochiamo Londra e la nostra credibilità per i prossimi dieci anni. Poi qualcosa è cambiato. Su consiglio di Veronica
Wadley, potente direttrice dell’Evening
Standard (che aveva già detto a Cameron
che l’unico che potesse vincere Londra era
Johnson), Boris ha cominciato a fare sul serio: s’è sistemato la zazzera, si è messo a studiare i dossier dell’amministrazione di
Londra, ha imparato a dosare l’ironia in
modo da non sembrare sempre un comico
che ha sbagliato mestiere. George Osborne,
cancelliere dello Scacchiere ombra nonché
mente della rivoluzione dei Tory, gli ha
messo al fianco lo spin doctor australiano
Lynton Crosby, grazie al quale il dibattito è
stato monopolizzato da un tema caro al partito: la sicurezza. La crisi del Labour e del
premier, Gordon Brown, ha fatto il resto, e
pochi giorni fa l’endorsement del Sun di
Rupert Murdoch ha dato il sigillo finale a
una campagna rischiosa quanto proficua.
Ora Boris ci crede davvero, anche se fa lo
scanzonato e dice che la sua macchina elettorale fa paura persino a lui. E Cameron un
punto l’ha segnato: i Tory diventati “cool”
piacciono anche a sinistra, pure se questo
è ancora soltanto un bisbiglio.
dalla vittoria. Roma è nostra”. E’ in questa
dimensione proprietaria del possibile
trionfo di Gianni Alemanno che si svolge
adesso l’incredibile ribaltamento degli stati
d’animo romani. Per la prima volta da
vent’anni la destra postfascista è a un millimetro dal potere capitolino. Gli ultimi sondaggi riservatissimi maneggiati da Alemanno hanno un che di allucinatorio: due punti
sopra Francesco Rutelli. Non era mai successo. Ma è possibile? In queste ore Roma
sta interrogando se stessa per capire se sta
davvero andando incontro all’inimmaginabile. Rutelli ha paura e non è abituato ad averne, né a dover recuperare terreno. Altrimenti non avrebbe preteso da Mentana la diretta di ieri a Matrix nell’ultimo faccia a faccia
con lo sfidante. Alemanno preferiva la registrazione pomeridiana inizialmente concordata. Più che altro per ragioni psicologiche,
ma pure perché Alemanno avverte l’agguato
in arrivo durante la diretta, risuonano in lui
le voci, le accuse opache contro una destra
che rimesterebbe nel torbido dello stupro
avvenuto a La Storta.
(segue a pagina quattro)
L’Urbe in fumo
E’ l’allarme di Pietro Barrera,
collaboratore di Rutelli, contro la
“destra dei furbi e dei prepotenti”
Roma. Alemanno è alle porte, e come fu
per i Galli di Brenno, risuonano allarmi
degni delle oche del Campidoglio. Non è
troppo lontano da questo spirito l’avvertimento di Pietro Barrera, da quindici anni
al lavoro con le giunte di centrosinistra:
prima capo di gabinetto (Rutelli uno), poi
direttore generale del comune (Rutelli
due) e infine capo del personale (Veltroni
due). Al Foglio, Barrera dice che “se dovesse vincere Alemanno andrebbe in fumo
un’idea di città delle regole. La destra romana, in questi anni, è stata la destra dei
furbi e dei prepotenti”. Qualche esempio?
“La difesa dell’ala oltranzista dei tassisti;
il vicepresidente del consiglio regionale,
Tommaso Luzzi, che si incatena per impedire l’abbattimento di una villa abusiva nel
parco di Veio; Alleanza nazionale che con
i picconi va a rimuovere i cordoli delle corsie preferenziali all’Esquilino”. E’ una destra, prosegue Barrera, che “prima dice
‘mandate i nomadi fuori dal raccondo anulare’ e poi, appena si comincia a costruire
il primo campo regolare fuori dal raccordo, arriva, sempre con i picconi e sotto la
guida di un autorevole deputato di An, Domenico Gramazio, a smontare quel campo.
E’ una destra che, in campagna elettorale,
non ha fatto altro che ripetere ossessivamente la parola d’ordine ‘condono per le
multe’. Il messaggio è molto chiaro: vogliamo una città dove lo spirito civico è azzerato, dove le regole non esistono più. Il contrario di quello che abbiamo cercato di costruire in questi anni”.
Barrera ricorda che “tra i consiglieri comunali più votati nelle liste di Alemanno
c’è un esponente della famiglia Tredicine.
Cioè della famiglia simbolo dell’offesa perenne, con i suoi furgoni di sei metri che
vendono bibite, panini e porchette, in luoghi come piazza di Spagna, i Fori Imperiali,
Fontana di Trevi. Una famiglia che, appellandosi a cavilli di ogni tipo, si è sempre
battuta contro ogni regolamentazione delle
bancarelle nel centro storico. Non conosco
il consigliere eletto, che sarà certo una degna persona, ma non è possibile scorporare
la sua presenza da un’idea di Roma fuori
dalle regole”. Mentre il problema di Roma,
sottolinea Barrera, “è quello di far rispettare le buone regole stabilite, e su questo punto, in particolare sul ruolo dei vigili urbani,
c’è senz’altro da fare. Ma certo non come
vorrebbe Alemanno”. (segue a pagina quattro)
Poste Italiane Sped. in Abbonamento Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO
SABATO 26 APRILE 2008 - € 1
DIRETTORE GIULIANO FERRARA
CAPITALI DA ESPUGNARE
li ultimi messaggi prima della festa di fine campagna elettorale con il Cav. poteG
vano intimorire: “Forza, siamo a un passo
quotidiano
Letto oggi, 25 aprile,
sulle agenzie di stampa. L’amore a pagamento dilaga tra le
donne italiane, lo
praticano due su dieci. Ha analizzato il fenomeno l’associazione “Donne e qualità della vita” della sessuologa Serenella Salomoni, la quale ha
interrogato un panel di millecinquecento
femmine, tra i diciotto e i cinquant’anni,
da cui risulta (o volendo, diciamo, risulterebbe) che una donna su quattro ha pensato almeno una volta di pagare un uomo
per avere un rapporto, mentre due su dieci si sono tolte concretamente lo sfizio suddetto. Trecentomila donne al giorno frequentano siti Internet che propongono siti maschili. Su trecentomila contatti ogni
giorno, sarebbero ottomila le transazioni
portate a buon fine. Di queste, vale a dire
il diciannove per cento del campione del
campione, vale a dire una su tre, vale a dire il sei per cento del campione medesimo, sarebbe disposta a pagare fino a cinquemila euri per passare una notte di passione con un vip. Il vip più agognato, col
ventotto per cento, risulta essere Massimo
Giletti. Letto oggi, 25 aprile, giorno della
Liberazione. “Bello, ciao”.
La Giornata
* * *
In Italia
* * *
Nel mondo
NAPOLITANO: IL 25 APRILE E’ DI TUTTI. VELTRONI CONTRO BERLUSCONI.
Il presidente della Repubblica, Giorgio
Napolitano, ha celebrato la festa della Liberazione prima a Roma poi a Genova: “La
Resistenza vive nella Costituzione, che è di
tutti gli italiani”. Il presidente del Consiglio in pectore, Silvio Berlusconi, ha ricevuto, tra gli altri, il neosenatore del Pdl
Giuseppe Ciarrapico a Palazzo Grazioli. Il
segretario del Pd, Walter Veltroni, ha definito la visita: “Uno sfregio alla democrazia”, riferendosi alle recenti polemiche
sulle simpatie fasciste del senatore. Berlusconi, nel pomeriggio, ha dichiarato: “Sì alla pacificazione nazionale, purtroppo al 25
aprile seguì la guerra civile”. Polemiche a
Milano per l’assenza, annunciata settimane fa, del sindaco Letizia Moratti al corteo
celebrativo. Lo stesso durante il quale l’anno scorso venne invitata a non partecipare.
Il ministro dimissionario Paolo Ferrero
(Prc): “L’assenza della Moratti è gravissima”. Il presidente della Cei e arcivescovo
della città, Angelo Bagnasco, è stato contestato a Genova con fischi e urla nel corso di
una celebrazione del 25 aprile al Palazzo
ducale”. A Torino si è tenuto il secondo VDay di Beppe Grillo.
Articolo ed editoriale nelle pagine 2 e 3.
UFFICIALI ALAWITI DELL’ESERCITO
SIRIANO SI RIBELLANO AL REGIME.
Un gruppo di giovani ufficiali alawiti si è
schierato contro il presidente siriano, Bashar al Assad, chiedendone la testa. I giovani, che appartengono alla setta della
quale fa parte la classe dirigente del paese, hanno scritto di aver sentito il bisogno
di rendere pubblica la protesta “per
diffondere in Siria una coscienza politica,
per dire no alla tirannia e dire basta alla
corruzione”. Secondo il testo, “non esiteremo, non contratteremo e non concederemo tregua finché il popolo siriano, e noi
siamo parte di esso, non avrà conseguito la
nobile vita che si merita, non sottomessa
ad alcuna sudditanza se non a quella della terra, ad altro mandato se non quello
del popolo, ad altra sovranità se non quella del diritto”.
Due guardie israeliane sono state uccise
in uno scontro a fuoco nei pressi di Tulkarem, in Cisgiordania. L’attacco è stato rivendicato da Hamas e Jihad islamico.
* * *
Domani il ballottaggio a Roma tra Gianni
Alemanno e Francesco Rutelli. I seggi saranno aperti anche lunedì. Il segretario del
Pd è intervenuto in appoggio di Rutelli criticando il Pdl: “Berlusconi non ama Roma”.
Il premier in pectore ha risposto, intervistato dal Messaggero, che “vincerà il nostro
candidato”. Alemanno: “Quelli del Pd sono
dei cialtroni, vanno rimandati a casa.
Sott’acqua dicono che è stata la destra a organizzare lo stupro della studentessa del
Lesotho. Sono dei cialtroni”. Oltre che Roma la tornata amministrativa riguarda altre
quattro province e 43 comuni.
* * *
“Il prestito ad Alitalia è illegittimo”, così
il leader dell’Italia dei valori Antonio Di
Pietro: “Nessuno deve potersi permettere
di prendere dei provvedimenti che sono illegittimi e io ritengo che la forzatura che
ancora una volta ha voluto Berlusconi sarà
punita dall’Unione europea perché è un
aiuto di stato”. Dopo Ryanair anche British
Airways ha chiesto chiarimenti a Bruxelles
sul prestito ponte concesso dal governo ad
Alitalia.
Il segretario generale della Cisl, Raffaele
Bonanni, ha risposto all’invito lanciato dal
presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, a portare a termine al più presto la
riforma del modello contrattuale: “Sono
molto d’accordo che al più presto ci sia un
tavolo”.
* * *
Borsa di Milano. S&P/Mib +1,26 per cento.
L’euro chiude in calo a 1,56 sul dollaro.
* * *
In Iraq, i sunniti tornano al governo. Il
Tawafiq, il principale partito sunnita, ha
accettato di rientrare nella coalizione che
sostiene il governo del primo ministro sciita, Nouri Al Maliki, dopo un boicottaggio
durato quasi un anno. I leader sunniti stanno ancora definendo i dettagli del loro ritorno al governo. Sono stati la legge di amnistia e l’azione del governo sulle milizie
sciite di Moqtada al Sadr i fattori principali che hanno determinato la decisione.
* * *
Lance iraniane attaccano nave americana
nello Stretto di Hormuz. I marinai statunitensi a bordo di un cargo hanno sparato otto colpi di mitragliatrice calibro cinquanta
e tre colpi di avvertimento con gli M-16 contro alcune vedette iraniane che si erano avvicinate all’imbarcazione. L’unità era appena entrata nello Stretto quando è stata accostata da alcune motovedette. I pasdaran
hanno smentito qualsiasi scontro a fuoco
con il cargo statunitense.
L’Iran continua a sostenere gli insorti
iracheni attraverso la fornitura di armi e
l’addestramento delle milizie. Lo ha detto il
capo di stato maggiore americano, l’ammiraglio Michael Mullen
* * *
In Zimbabwe, la polizia entra nella sede
dell’opposizione. Le forze dell’ordine hanno
fatto incursione nel quartier generale del
Movimento per il cambiamento democratico, principale forza di opposizione al regime
di Robert Mugabe. Sono stati arrestati numerosi sostenitori della formazione politica
guidata da Morgan Tsvangirai, avversario di
Mugabe nelle presidenziali, i cui risultati rimangono tuttora ignoti nonostante le critiche della Comunità internazionale.
Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21
Il Profumo acre della crisi
L’amministratore delegato di Unicredit ammette le difficoltà
finanziarie del gruppo, soffre per le lodi di Jp Morgan alla rivale
Intesa Sanpaolo e si prepara al confronto su Generali (e con Tremonti)
Roma. Banchiere, cosmopolita, mercatista e di sinistra – “quella di adesso, quella
dei Simpson”, direbbe il ministro dell’Economia in pectore. Se c’è uno che riesce a
mettere insieme tutti gli archetipi contro i
quali si batte il tremontismo, questi è Alessandro Profumo. I due si temono, si studiano, si rispettano, anche perché il top manager genovese non conta fra i propri estimatori soltanto Massimo D’Alema, che più volte lo ha indicato come “esempio da seguire”. E’ noto l’elogio dell’ex presidente Bnl
e senatore azzurro, Gianpiero Cantoni, secondo il quale “Profumo è così bravo che
non viene influenzato dalla politica”. Ma la
grazia non dura in eterno, nemmeno per
Alessandro il Grande. Mercoledì, l’amministratore delegato di Unicredit ha ammesso
che la crisi finanziaria costerà al gruppo un
miliardo di euro. Il contagio viene soprattutto dalla Germania e passa attraverso la
controllata Hvb. Ma è scosso l’intero portafoglio titoli del gruppo. La Borsa, che aveva punito l’iniziale reticenza con una pioggia di vendite, ha premiato la sincerità. Tuttavia, il valore azionario viaggia ben al di
sotto del target price assegnato dagli analisti. La caduta è cominciata esattamente un
anno fa – allora il titolo valeva oltre sette
euro, oggi è a 4,60 – s’è fatta più forte dall’autunno e corre parallela alla fusione con
Capitalia. Digerire la banca romana è complicato, ancor più sistemare l’insieme di
partecipazioni e crediti concessi in base a
una filosofia “di sistema”.
Per la controllata sicula, l’amministratore delegato è sceso a patti con Totò Cuffaro
accettando che la quasi totalità della raccolta del Banco venga impiegata nell’isola:
insomma, una sorta di statuto autonomo.
Nella capitale i tifosi della Roma mettono
sotto accusa Profumo, interista di provata
fede, per aver messo spalle al muro la famiglia Sensi. I Toti, costruttori amici di Veltroni, clienti e azionisti di Capitalia, debbono
rimborsare una linea di credito di 250 milioni. La politica, nonostante tutto, mette a
dura prova il chou chou dei mercati finan-
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delle grandi Radio Regionali.
ziari, il primo a lanciarsi in una fusione
cross border conquistando una banca in
Germania (niente meno), quello che ha introdotto l’Italia nell’immaginifico mondo
dei derivati (la turbofinanza bestia nera del
tremontismo), spalmandoli persino su incauti assessori comunali. Uno per il quale
“la patria è il mondo intero”, come cantavano una volta gli anarchici, tanto che l’8 maggio, all’assemblea degli azionisti, proporrà
di togliere l’aggettivo “italiano” nella ragione sociale di Unicredit. Ma il vecchio detto
secondo cui la fortuna arride agli audaci,
non regge più. Almeno in banca.
“Troppo audace”, scrivono nel loro ultimo
rapporto gli analisti di Abn Amro. Ora Profumo è in giro per l’Asia in cerca di buoni affari, ma forse dovrebbe fermarsi e sistemare casa propria. Il rapporto di JP Morgan,
che pure continua a giudicare positivamente Unicredit, sottolinea le migliori performance della grande rivale Intesa Sanpaolo
al riparo, almeno così sembra, dalla tempesta creditizia. Che l’arcirivale Corrado Passera venga lodato più di lui da quelli che
muovono il mercato fa gorgogliare i succhi
gastrici dell’aitante Profumo. Non c’è occasione importante nella quale i due non incrocino i ferri: ormai sembrano i duellanti
del romanzo di Joseph Conrad. Hanno linee
opposte su Alitalia e sul rapporto tra banca,
industria e giornali (Profumo è uscito da
Rcs). L’ultima stoccata è sul presidente dell’Abi: Unicredit ha votato, insieme a Bnl,
contro la riconferma di Faissola, considerato di destra, voluto e sostenuto da Intesa. La
madre di tutte le battaglie, però, resta Generali. In campo ci saranno tutti i big. Cesare
Geronzi, presidente di Mediobanca, e Giovanni Bazoli, presidente di Intesa. I francesi Antoine Bernheim e Vincent Bolloré. La
finanza berlusconiana. Mario Draghi, azionista chiave con Bankitalia del Leone di Trieste. E, per forza di cose, il nuovo ministro del
Tesoro. Sarà la prova per capire se Profumo
diventerà l’anti Tremonti o se arriverà la tregua. In tal caso, l’era del dialogo comincerà
anche tra i poteri forti.
OGGI NEL FOGLIO QUOTIDIANO
UN 25 APRILE
DISASTROSO
• LE
SECESSIONI INCALZANO: il
buffone, i faziosi, i fischiatori. Tutti in
piazza in una nazione senza guida etica
infestata dal rancore (editoriale pag. 3)
• LA SERA ANDAVAMO a Tor Pignatta-
ra. Mai tante coccole per le borgate romane, ma quando il voto urla è lì che si
trova l’elettore (Di Michele inserto III)
• IL QUARTO SINDACATO. La gens no-
va di Confindustria nell’era post Montezemolo. Perché nei posti chiave non
ci sono le grandi famiglie (inserto I)
Solferino pride
La redazione del Corriere
della Sera si colora d’azzurro
Dall’endorsement per Prodi al Cav.
25 aprile di liberazione in Rizzoli
Solferino pride. Dall’endorsement agli outing. Non più per Prodi, tutti per zio Silvio.
Un 25 aprile di liberazione per il giornalismo. Il Pdl in redazione prepara l’epurazio-
ne. Anche il Corriere della Sera, da par suo,
rinuncia all’establishment e si colora d’azzurro. Manipoli di redattori iscritti ai Circoli del Buongoverno, infatti, già bivaccano
nella sala Albertini, ridotta ormai a un’aula
sorda e grigia. Ronde di stagisti leghisti in
camicia verde salgono le scale di quello che
fu un baluardo della democrazia e della legalità mandando a valle i membri del Cdr
umiliati nella loro orgogliosa sicurezza. Salvatore Ligresti, spavaldamente spalleggiato
da Ignazio La Russa, ha già notificato gli otto giorni a Piergaetano Marchetti.
Solferino pride. Dall’endorsement agli
outing. Il Pdl in redazione. Le solite quaglie
sono pronte al salto. Beppe Severgnini detto BSV ostenta sul desk una foto di Cesare
Previti in posa immarcescibile: “Quando
c’era lui, caro lei”. L’onda impetuosa dell’insurrezione travolge la redazione. Tutti i
ritratti di Luca Cordero di Montezemolo sono stati scaraventati dalle finestre, per strada. Poster di Fabrizio Corona – uno dei
quali autografato e dedicato a Maria Laura
Brambillà – campeggiano oggi nei corridoi
e nell’atrio di quello che fino a oggi è stato
il giornale della borghesia illuminata.
Solferino pride. Dall’endorsement agli
outing. Non più per Prodi, tutti per zio Silvio. Un 25 aprile di liberazione per il giornalismo. Le sobrie automobili Fiat date in
dotazione ai giornalisti sono state sostituite da aggressivi Suv, creme solari e confezioni giganti di Viagra sono messe al posto
delle autorevoli enciclopedie date solitamente in allegato. Anche la rubrica di Lina
Sotis è stata cancellata. A nulla è valso che
la regina del giornalismo abbia sottoscritto
un appello per Paolo Bonaiuti alle Pari opportunità. Al suo posto, ormai, una finestra
quotidiana affidata ad Aida Yespica. Francesco Verderami e Maria Teresa Meli, retroscenisti, hanno invece preso possesso
della sede romana di piazza Venezia dove –
dopo aver radunato i lettori del Tempo, del
Giornale d’Italia e i telespettatori di Teletuscolo, dopo aver infine liberato i lettori
del Messaggero, detenuti tutti presso le carceri costruite da Caltagirone – hanno dato
vita a un’oceanica manifestazione di giubilo davanti al portone di casa Berlusconi.
Anche Aldo Cazzullo, inviato di punta del
Corriere, a dispetto della propria formazione piemontese, ripudiando la sobria formazione democratica non ha esitato ad applaudire perfino Renato Farina al grido:
“Meno Zagrebelsky, più porno-sexy”.
Solferino pride. Dall’endorsement agli
outing. Non più per Prodi, tutti per zio Silvio. Un 25 aprile di liberazione per il giornalismo. A poco sono valsi gli eroici sforzi
di Paolo Mieli, il direttore, e di Pigi Battista, il vicedirettore. Battista e Mieli, dopo
aver tentato di fronteggiare l’irruzione in tipografia dei facinorosi seguaci di Sandro
Bondi, subito accolto dal collega in poesia
Sebastiano Grasso, stanno in queste ore
tentando un’ultima trattativa con i barbari
cercando riparo all’arcivescovado, sotto la
protezione del cardinale Tettamanzi. E’ con
un mirabile discorso al Teatro Lirico che
Paolo Mieli sta cercando di scaldare i cuori dei lettori illuminati, ma una colonna di
camion articolati e di vagoni di seconda
classe con Nanni Bazoli camuffato da Wladimir Luxuria, con una parrucca finta in testa, è già stata fermata al valico di Brescia.
Con lui Massimo Mucchetti (satira), immediatamente tradotto in carcere, e poi Aldo
Grasso, il noto critico televisivo che ha però
avuto migliore sorte rivelandosi attraverso
ottime credenziali, quale membro segreto
delle unità combattenti di Milano2, una frazione di guerriglia ai diretti ordini di Piersilvio Berlusconi. “Non solo per Silvio, ma
anche per Piersilvio”.
L’America e il presidente nero
Con la questione razziale
Hillary rovina i piani di
Obama. McCain ringrazia
Il senatore dell’Illinois voleva essere
un leader unitario, ma i Clinton e il
rev. Wright non gliel’hanno permesso
Ma conta anche ciò che dice
New York. La spiegazione più diffusa della sconfitta di Barack Obama alle primarie
in Pennsylvania è quella razziale, almeno sui
giornali liberal e all’interno dei talk show
più vicini al senatore dell’Illinois. Obama
avrebbe perso perché è nero, spiega il New
York Times, perché l’America bianca non è
pronta a eleggere un presidente afroamericano, si sente dire qua e là in televisione.
Un exit poll ha svelato non solo che il 27
per cento degli elettori di Hillary non voterà
Obama se sarà lui il candidato democratico,
ma anche che il 7 per cento degli elettori della senatrice voterà John McCain, anche se
sarà lei la sfidante. Gli strateghi di Obama, David Axelrod e David Plouffe, sono i
meno preoccupati ai fini
della conquista della nomination, perché – spiegano –
quell’America bianca e rurale che rifiuta di sostenere
Obama voterà in ogni caso
repubblicano. In realtà, così
dicendo, alimentano anche
BARAK OBAMA loro la divisione razziale, in
controtendenza con il messaggio unitario di Obama. L’appeal obamiano, almeno prima della cura clintoniana, era
esattamente quello del superamento della
questione razziale, quella di un politico nero che non si presentava in quanto afroamericano, che non voleva rappresentare l’America nera né quella bianca, non quella liberal né quella conservatrice, ma gli Stati Uniti d’America.
I dubbi iniziali, semmai, erano che non
fosse “abbastanza nero” per piacere ai neri
dei ghetti, di essere il figlio di una donna
bianca del Kansas e di un africano del
Kenya e di non condividere il retaggio culturale dei discendenti degli schiavi. Obama
stava alla larga dalle questioni razziali, sapendo che l’argomento l’avrebbe danneggiato. I Clinton – in particolare Bill, “il primo
presidente nero”, secondo la definizione di
Toni Morrison – comunque vadano a finire le
primarie hanno rovinato il giocattolo Obama,
in un modo che McCain non avrebbe mai potuto fare, se non a rischio di essere accusato
di razzismo.
(segue a pagina quattro)
Nella tana delle Tigri
Cosa ci fanno i pasdaran iraniani
in Sri Lanka ora che l’esercito sta
accerchiando i guerriglieri tamil?
Colombo. La battaglia è costata all’esercito del governo cingalese quasi 200 morti in
due giorni. Ma l’ultima roccaforte delle Tigri
tamil è stata ormai accerchiata nel nord dello Sri Lanka. Alle spalle dei guerriglieri c’è
soltanto il mare, anche se non smettono di
colpire la capitale con incursori suicidi. Ieri hanno fatto saltare un bus a Colombo, i
morti sono almeno 24. Il governo cerca di
mantenere l’iniziativa sul fronte interno e
intanto si lascia corteggiare da iraniani e
americani – entrambi consapevoli dell’importanza strategica dell’isola piazzata tra
Mare arabico e Oceano indiano.
Washington parte in vantaggio, perché fino al 2006 ha avuto i rapporti più stretti con
Colombo, quando ancora nel paese reggeva
una tregua durata sei anni e garantita da osservatori norvegesi. Consiglieri militari sono
stati visti nella grande base navale di Trincomalee, nel nord est del paese a ridosso
della zona controllata dalle tigri. C’erano anche gli israeliani, che fornivano armi moderne e istruttori antiterrorismo. Quando le
ostilità sono riprese, però, la situazione ha
cominciato a cambiare. Le forze di sicurezza cingalesi non vanno per il sottile e nelle
aree controllate dal governo è ricominciata
la sparizione di civili tamil. L’Onu ha alzato
la voce in nome dei diritti umani. Stati Uniti, Inghilterra e Giappone, principale finanziatore dello Sri Lanka, hanno cominciato a
prendere le distanze. Il governo di Colombo
prima si è guardato in giro ottenendo appoggio dal Pakistan con intelligence e armi.
Una mossa che ha fatto infuriare l’India, tradizionale alleato dello Sri Lanka. Poi ha
strizzato l’occhio anche alla Cina, che sta costruendo nuovi porti sull’isola. Infine, e soprattutto, sta compiendo un fulmineo avvicinamento all’Iran, grazie a una visita nello
scorso novembre del presidente cingalese a
Teheran. Il generale Qassem Suleimani, comandante dell’unità al Quds dei Pasdaran
iraniani specializzata in operazioni all’estero, ha già visitato in segreto lo Sri Lanka.
Una decina di ufficiali cingalesi ora sono addestrati dai Guardiani della rivoluzione –
più versati nell’addestramento di terroristi,
preparano l’Hezbollah libanese, Hamas e i
gruppi speciali infiltrati in Iraq – che potrebbero mettere a disposizione anche consiglieri e armi per sconfiggere le Tigri tamil.
In cambio i militari cingalesi hanno già fornito dettagli sull’armamento israeliano in loro possesso, facendo infuriare Gerusalemme
e Washington.
(segue a pagina quattro)
ANNO XIII NUMERO 111 - PAG 4
IL FOGLIO QUOTIDIANO
SABATO 26 APRILE 2008
Che razza d’America
Un magnifico giornale d’opposizione? Sempre governativi, è meno faticoso
McCain nelle zone nere, il Sun dice
che Obama è in difficoltà per quel
che propone e per chi frequenta
Al direttore - L’ipocrisia governa l’Italia. Ci
si batte contro la pena capitale e ci si dimentica che la condanna a morte è una specialità della buro-giustizia nazionale. In carcere
e di carcere si muore ogni giorno. Da Tortora
a Caneschi, da Moroni a Craxi, senza citare
le migliaia di signor nessuno di fatto giustiziati, la giustizia ingiusta procede. La mia
prima doverosa iniziativa, come neoparlamentare, sarà quella di far visita al condannato alla pena di morte, Bruno Contrada;
impegnandomi, poi, affinché la “politica” abbia finalmente il coraggio di salvare Contrada e di riformare ab imis un sistema giudiziario, capace di coniugare il peggio del peggio:
inefficienza, sciatteria e crudeltà.
Giancarlo Lehner
(segue dalla prima pagina) La questione razziale è
tornata sulle prime pagine. I leader neri accusano Bill Clinton di fare il gioco delle tre
carte, dopo che l’ex presidente ha accusato
Obama di usare la carta razziale contro di
lui, quando tutti sanno che è vero il contrario. A Queens, familiari e amici di Sean Bell
– un giovane afroamericano ucciso nel 2006
dalla polizia di New York – ieri hanno scatenato la loro rabbia alla notizia dell’assoluzione dei tre poliziotti. McCain ha cominciato
un tour nelle zone dimenticate d’America,
partendo dal luogo dove è stato ucciso Martin Luther King, celebrando la marcia antisegregazione di Selma, criticando l’Amministrazione Bush per l’insufficiente risposta
dopo l’uragano Katrina che ha colpito i quartieri neri di New Orleans.
Il reverendo Jeremiah Wright è stato ospite, ieri sera, di una delle trasmissioni più di
sinistra della tv americana, “Bill Moyers
Journal” sulla Pbs, per mettere una pezza
all’imbarazzo creato al suo amico Obama.
Wright è il suo pastore, confessore e consigliere spirituale, ma anche un grande amico
di Louis Farrakhan, lo screditato leader antisemita della Nation of Islam, nonché organizzatore della famigerata marcia di un milione di persone a Washington (una delle
quali era Obama). Wright considera Condi
Rice “una prostituta”, si augura che “Dio
maledica gli Stati Uniti”, un paese “razzista”
che “diffonde l’Aids per sterminare i neri
africani”. Un messaggio opposto a quello di
speranza, unità e cambiamento di Obama.
Con l’aiuto di un inginocchiato Moyers, Wright si è mostrato in abiti civili, parlando in
modo moderato, senza alcuna retorica africano-centrica, e giustificando la presa di distanza di Obama con il fatto che è “un politico”. Ma essere descritto come un “politico”
tradizionale non aiuta l’immagine del senatore. I repubblicani della Carolina del nord
trasmettono spot tv con Wright affiancato a
Obama che, in vista delle primarie del 5
maggio, aiutano Hillary. Clintoniani e conservatori usano Wright per sollevare dubbi
sulla vera identità obamiana, contestando la
sua biografia di politico post razziale. Hanno provato a trasformare Obama nel candidato dei neri, nell’ennesimo politico afroamericano che suscita scetticismi tra i bianchi. Ci sono riusciti e Obama c’è cascato.
Il New York Sun non crede che la questione razziale c’entri alcunché: “Le informazioni che gli elettori hanno sulla razza di Obama sono le stesse che avevano all’inizio della campagna”, ora però sanno che si circonda di personaggi impresentabili come Wright e come il terrorista William Ayers, che
sfotte gli americani che “si aggrappano a
Dio e alle armi” e che vuole alzare le tasse e
incontrare i nemici dell’America.
Christian Rocca
Nella tana delle Tigri
Battaglie e attacchi, più di duecento
morti in due giorni. Ahmadinejad
arriva con un carico di accordi
(segue dalla prima pagina) Lunedì il capo di stato
iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, ricambierà la visita di novembre. In dote porterà
ai cingalesi l’inaugurazione della costruzione di una grande centrale idroelettrica, grazie a ingegneri iraniani e a un esborso di 450
milioni di dollari, e prestiti agevolati per
l’acquisto di armi da Pakistan e Cina. Altri
investimenti riguardano una raffineria dove
arriverà il petrolio di Teheran.
Nella guerriglia etnica che ha già provocato 70 mila morti, il capo di stato maggiore cingalese, generale Sarath Fonseka, ha
le idee chiare, dopo essere scampato per
miracolo a un attentato suicida di una donna-bomba tamil. “Con l’attuale percentuale
di perdite i terroristi non sopravviveranno
a lungo”, sostiene il generale, che giura di
aver già ucciso la metà dell’esercito nemico di circa 10 mila uomini. Secondo i dati
del ministero della Difesa cingalese, soltanto quest’anno le forze di sicurezza hanno
ammazzato 3.105 ribelli. Il governo ha sempre sottovalutato le forze del despota delle
Tigri, Velupillai Prabhakaran, ma ora ha
un’aspettattiva ragionevole di riuscire a
prevalere sui guerriglieri. Fonseka vuole
sferrare l’assalto finale al quartiere generale dell’Ltte (l’Esercito di liberazione tamil) a Mullaitivu, all’inizio dell’estate, e
cancellare i nemici entro la fine dell’anno.
Non sarà un’impresa facile, tenendo conto
che i tamil rispondono con attentati suicidi
indiscriminati, non contemplano la resa come soluzione possibile e hanno a disposizione una mini forza navale e aerea, con
piccoli velivoli, che pungola le basi cingalesi. Lo scorso anno le offensive dell’esercito hanno spazzato via le sacche armate tamil nell’est del paese. La svolta è stata impressa dal nuovo presidente nazionalista
dello Sri Lanka, Mahinda Rajapakse, che
vuole farla finita con il “bubbone tamil”. In
gennaio Rajapakse ha stracciato definitivamente l’inesistente tregua con i ribelli tamil e ha chiesto all’esercito di passare all’offensiva su vasta scala. La battaglia dei
giorni scorsi è stata combattuta nel nord
ovest del paese, l’ultima roccaforte tamil
prima dei feudi del movimento nel cuore
della penisola di Jaffna. Le tigri vendono
cara la pelle e sul terreno sono rimasti, in
due giorni di combattimenti, 185 soldati governativi. Si tratta della carneficina più
grande in una singola battaglia. La Croce
rossa ha organizzato e sorvegliato una restituzione reciproca di corpi tra le due parti.
I ribelli hanno dovuto abbandonare il santuario di Madhu – una chiesa costruita dagli olandesi nel Diciassettesimo secolo dove si venera un’immagine della Vergine
Maria – considerata “zona franca” e sotto il
loro controllo dal 1999. Aprendo così la
strada a una sconfitta strategica.
Si ricordi sempre, caro Lehner, che il
giornale fondato da Gramsci, lasciato morire in clinica da Mussolini nel 1937, ha
pubblicato nel 2008 il corsivo progressista
di un aspirante secondino che argomentava senza pudore intorno all’ineluttabilità
della morte in carcere dei detenuti. L’ipo-
crisia da lei citata è un eufemismo. Nessun lettore di quel giornale ha protestato.
Al direttore - Un amico di sinistra descrive
con ironia un Bossi metaforico e iperbolico.
Resto nella geometria analitica: il Senatur è
anche ellittico, nel senso che usa frasi nominali a effetto giornalistico, è leader poliedrico, congruente col Popolo della libertà, palle
quadrate e indole spigolosa. I suoi ragionamenti sono lineari, non racconta improbabili convergenze parallele. La sua parabola è al
vertice; ha centrato i fuochi delle richieste del
Alta Società
Havana, Cuba. Un italiano, tutt’altro che
sconosciuto in patria, è stato sorpreso dalla polizia in una suite dell’Hotel Nacional.
Stava a letto con quattro cubane. Loro erano sveglie. Ma lui, scrive il rapporto,
rimasto senza “el viagra”, si era addormentato. Buenas noches.
popolo del nord, ha compiuto una perfetta
triangolazione con il Cav. e Fini vincendo le
elezioni. Non è partito per la tangente come
le varie ultrasinistre e le varie ultradestre, ed
è riuscito nella quadratura del cerchio elettorale.
Stefano Cicetti, via Web
Vogliamo aggiungere un punto fermo e
geometrico alle sue fanfaronate? O siamo
in dovere di bere tutta la bevanda dei vincitori?
Al direttore - Complimenti! Sta nascendo
un magnifico quotidiano di opposizione!
Gioacchino Forte, via Web
Sempre governativi. E’ meno faticoso.
Al direttore - Solo chi è accecato dal pregiudizio ideologico non ha capito che la battaglia della lista pazza non è stata e non è
contro la 194 ma contro il mostro dell’indifferenza morale rispetto all’aborto che cancella d’un colpo il primato culturale della vita.
Non c’è né ci può essere l’equivalenza riaffermata ieri dall’on. Bindi tra la presunta libertà di abortire e la libertà di obiettare. Sulla seconda niente da dire ma la prima non è
tale (cioè una libertà “assoluta”); è – ai sensi
di (sacrosanta) legge – solo un diritto, da
esercitare, a determinate condizioni e sotto il
controllo dello stato che ha il compito di tutelare la vita (dal momento del concepimento), anche quella di chi non può decidere né
sapere del suo destino di nato ma che potrebbe essere trafitto, aspirato, raschiato, dissolto
da decisioni che – ormai – sembrano essere
non più sottoposte alle condizioni scritte nella 194 ma assurgere al rango, appunto, di “libertà civile”. Non è così, evidentemente. Se
ciascuno di noi riflette con un orizzonte più
vasto e non legato alla congiuntura del momento di quella decisione (che può essere influenzata dalle circostanze più varie e apparentemente, per il decisore, insormontabili)
non può non convenire che, in assoluto, il
primato spetta alla vita, e non al diritto insindacabile di sopprimerla.
Enzo Paolini, via Web
“Con la destra Roma non conoscerà più regole”, l’allarme dei rutelliani
Per i vigili urbani, dice Barrera, “Alemanno prevede la dotazione di casco antisommossa e prevede anche
di affidare loro gli stessi compiti delle forze di polizia di stato. Tipico esempio di risposta sbagliata a un’esigenza giusta. L’esigenza giusta è avere vigili più attenti sulle
regole di civismo, ma non abbiamo bisogno
che diventino una terza polizia, o che facciano quello che tocca alla Digos”, perché
la capitale, puntualizza Barrera, “non è
una città ad alto tasso di criminalità, ma ad
alto tasso di elusione delle regole della
convivenza”. E rivendica alle giunte di
(segue dalla prima pagina)
centrosinistra “la battaglia per le zone a
traffico limitato, prima osteggiate strenuamente dalla destra romana e oggi accettate. E vogliamo parlare degli insulti vomitati contro la ‘notte bianca’? Ora però anche
quella è diventata patrimonio cittadino”.
Perché, quando la destra rimprovera alle
giunte Veltroni di aver dato poco “panem”
e troppi “circenses”, “finge di non sapere
che con l’attività culturale, a Roma, non si
sono fatte volare paillettes ma si sono costruiti decine di migliaia di posti di lavoro.
L’aumento delle imprese, solo nell’ultimo
anno, è stato del 2,7 per cento. O si pensa
che si possano ottenere questi risultati con
l’industria siderurgica? No, quei risultati,
e la crescita dell’industria turistica, sono
legati agli investimenti nei restauri, nei
musei, nelle aree archeologiche, nei concerti, nell’auditorium”. Anche per questo
“non va bene contrappore la cultura allo
sviluppo economico, non va bene l’atteggiamento ‘basta con il culturame’. Vorrei
ricordare anche che l’eredità della destra,
con la passata gestione della regione Lazio, è fatta di scandali e ruberie. Miliardi
di euro scomparsi nel nulla, per cui tutti
continuiamo a pagare. La giunta Storace è
diventata famosa per aver promosso sul
campo 475 dirigenti, salvo poi pensionarne
più di cento l’anno dopo, mettendoli a carico di tutti gli italiani, padani e siciliani
compresi”. C’è da essere preoccupati, dice
Barrera, “perché Alemanno, nei confronti
del lavoro pubblico, che va valorizzato ma
anche richiamato a maggiore efficienza e
rigore, promette una stagione di clientelismo di massa, di corporativismo da vecchio impiego pubblico romano. Promette,
alla fine, di riesumare la vecchia caricatura di Roma: una città pigra, senza regole,
che si arrangia”.
Se vince Alemanno
La dolce decadenza veltroniana, gli
equilibri del candidato del Pdl e un
establishment in preda al panico
(segue dalla prima pagina) Si temono bassezze infa-
manti. Con il trascorrere dei minuti i moti
parossistici trovano asilo nell’uno e nell’altro candidato. Alemanno in realtà tiene
d’occhio le movenze dei suoi consanguinei
quanto quelle degli avversari. La sbruffonata del camerata ubriaco d’illusioni rancorose è quel che adesso va evitato in ogni modo.
La sfida per Roma riflette almeno in parte la lacerazione nazionale in fondo contenuta da Berlusconi e Veltroni. A Palazzo
Chigi non sta per arrivare il male assoluto.
Ma la capitale conserva ancora una peculiarità ingigantita dalla credibile prospettiva di
un sindaco ex fascista. Per capire si può fare un paragone con Milano. Lì alle ultime
comunali si sono contesi il potere Letizia
Moratti e l’ex prefetto Bruno Ferrante: separati dai partiti di riferimento, accomunati
però da un patriottismo urbano sul quale
non era possibile esercitare il veleno dell’irriducibilità. Nessun milanese di sinistra si è
sentito espropriato di un giacimento simbolico vitale, vedendosi sconfitto dalla figlia di
un partigiano educata al buon uso di mondo.
E viceversa nessun conservatore avrebbe
patito l’ombra di chissà quale sovietismo inconscio nell’incedere questurino di Ferrante. Un altro mondo.
A Roma qualcuno anche fra i migliori
tifosi di Rutelli ha ceduto al meccanismo riflesso di gridare alla marcia delle camicie
nere. E’ un delirio di circostanza. Sarebbe
terribilmente sconsiderato insistere nel
tentativo d’impiccare Alemanno al proprio
passato. Però quel passato c’è, fa parte della memoria romana e italiana, alimenta un
cozzar di armature che si deve saper guardare. Per rifiutarne il contorno strumentale, certo, epperò anche per usare clemenza
nei confronti di una città mezza impazzita
mentre rivive emozioni cui non era più avvezza. Anche per questo non riconoscersi
tra vincitore e vinto, domani, sotto le statue
del Campidoglio, sarebbe nefasto.
Siccome adesso percepisce la quasi vittoria, è proprio Alemanno il primo a non voler
passare come quello che “si prende Roma”.
L’ex missino è troppo figlio d’una diversità
inestirpabile per volere oggi apparire oltremodo diverso dai possibili vinti. Da Veltroni
e Rutelli e dal quel loro morbido totalitarismo culturale romano. Allo stesso tempo è
appunto su questa distonia acuta tra il potere inerte del centrosinistra e la foga volitiva
dei nuovi arrivati che Alemanno ha incardinato la propria campagna elettorale. A forza
d’evocare in tutta Italia il demone dell’insicurezza, della barbarie domestica, dell’uomo non-più-nero ma comunque straniero e
terrifico agli occhi di chi si lascia magnetizzare dalla paura, poi succede come nelle sedute spiritiche: la larva prende vita, incombe, galoppa, terrorizza. Oppure si ribella. Ovvio che nulla si alimenta del nulla: se Alemanno ha trovato nell’ordine pubblico e nei
miasmi periferici i suoi argomenti più efficaci significa che c’era materia su cui lavorare. Ma è una materia incendiaria intorno
alla quale a un certo punto bisogna decidere se scansarsi dai lapilli o rischiare di prendere fuoco.
Un gioco da duri che è al tempo stesso la
carne cruda del Lupomanno (così ancora da
qualche parte viene appellato) e una visione
sconvolgente per chi da lui potrà essere
sconfitto. Anche da qui proviene l’ansia dell’ex fascista che cerca di non forzare dopo
aver scaldato il ferro. Alemanno avrà vinto,
semmai, perché ha saputo incarnare un modello violentemente opposto alla dolce decadenza veltroniana, ma la sua scommessa
più difficile sta nel non apparire troppo diverso, se non inconsulto. I suoi collaboratori più stretti, come il neodestrista Umberto
Croppi, hanno seguito passo passo il piano
spericolato di tenere insieme l’Opus Dei
(Antonio Bonfiglio) e i camerati delle case
occupate (il Foro 753), e poi ciacolare a intermittenza con i filopalestinesi e la Fondazione Kadima, ascoltare i bardi delle catacombe nere e il pianista David Helfgott,
scritturare i cicisbei in cerca di notorietà e
il più consumato Enrico Montesano. Pare ce
l’abbia fatta, Alemanno, ma ha ancora bisogno di dire che il 25 aprile vuole essere della partita antifascista, deve allontanare da
sé l’immagine dei saluti romani che gli venivano rivolti dai pavidi o dai convertiti quando entrò da ministro al dicastero dell’Agricoltura. E infine ha l’obbligo di contenere i
suoi, sa bene che dal dopoguerra in poi la
destra parlamentare produce un democratico ogni nove avanzi di sezione. La sinistra lo
teme anche per questo motivo e perché sa
che Alemanno è generoso coi propri “lanzichenecchi”. Quando conquista una posizione non lascia indietro nessuno. Ha fatto così al ministero, così alle politiche nazionali,
sdebitandosi come poteva nella compilazione delle liste. Farà così, potendo, nel cerchio magico che ha per centro il Campidoglio e per circonferenza chissà. Darà lavoro
ai commilitoni. Altro dubbio che irrancidisce i cuori della sinistra romana: se Lupomanno sale al potere, se la gente già gli chiede di firmare autografi per la strada, se molto più di Fini è riuscito a trovare un modus
vivendi con Berlusconi, quanto male potrà
fare ai vinti? Lui risponderebbe con la promessa di non saccheggiare l’Urbe e le sue
antiche rendite gauchiste; e con il giuramento di non avere parenti leghisti. Ma di questi
tempi Roma non è più città così grassa da
sfamare tutti i lupi. (ag)
INNAMORATO FISSO
DI MAURIZIO MILANI
Ieri sono uscito con una
ricercatrice del gruppo
Pampers. Ci siamo lasciati la stessa sera. Lei ha i
suoi interessi, io i miei.
Mi dispiace perché aveva
la V. Ho chiamato Zagor per vedere se si
interessava lui alla questione ma non c’è
stato niente da fare.