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Il network d’informazione delle grandi Radio Regionali. IL FOGLIO Redazione e Amministrazione: L.go Corsia Dei Servi 3 - 20122 Milano. Tel 02/771295.1 ANNO XIII NUMERO 111 Alemanno sente la vittoria, ma non vuole che la scalata al Campidoglio diventi una calata su Roma Così la “generazione Boris Johnson” ha sdoganato i Tory e messo a punto un piano per la conquista di Londra Roma. “Ho letto sul sito Repubblica.it che sarebbe in dubbio il confronto televisivo di questa sera a Matrix. Io confermo di essere pronto ad affrontare Francesco Rutelli e parteciperò a questo faccia a faccia nonostante il clima incivile e indegno per un confronto politico in cui si è fatta piombare la città”. Così, con una nota alle agenzie, Gianni Alemanno scioglie il piccolo caso che nel corso della giornata si era aperto a proposito della sua partecipazione al duello televisivo. La puntata avrebbe dovuto essere registrata nel pomeriggio, poi Rutelli ha chiesto la diretta, suscitando negli avversari il sospetto di una trappola, legata alle ultime indiscrezioni sugli sviluppi dell’inchiesta sullo stupro di una studentessa africana (la procura ha disposto la secretazione dei verbali dell’interrogatorio dell’imputato). Rutelli, su Raiuno, definisce “sospetta” la vicenda. “Si è davvero toccato il fondo con una tale strumentalizzazione del dolore. Sono dei cialtroni e dobbiamo rimandarli a casa”, replica Alemanno. La chiusura della campagna elettorale romana non mostra dunque alcun abbassamento dei toni. Non stupisce che i due contendenti, a poca distanza l’uno dall’altro dinanzi all’Altare della patria, per le celebrazioni del 25 aprile, non si siano neanche salutati. Londra. “The dream of Rome”, sognando Roma, la capitale di quell’Impero che riuscì a realizzare un’unità culturale e spirituale ancorché politica ed economica. Nel 2006, Boris Johnson, candidato conservatore all’elezione del sindaco di Londra, sognava quella Roma, l’aveva raccontata in un libro, ne parlava citando Virgilio. Oggi, come in una splendida sceneggiatura in cui nulla avviene per caso, Roma chiama Londra. Due uomini diversi, due avventure simili simili, due conservatori che provano a espugnare i feudi – e che feudi – della sinistra. Fino a quattro mesi fa, Johnson era una macchietta, il politico per caso, il biondino arruffato tanto acculturato quanto maldestro, il praticante giornalista cacciato dal Times perché s’era inventato alcune citazioni (e si era difeso spiegando candidamente che tutti inventavano le citazioni) poi diventato disordinato direttore dello Spectator, famoso per le sue provocazioni ma amministratore poco oculato, come ha sottolineato malizioso l’Economist. Oggi, a cinque giorni dall’election day di Londra, il 1o maggio, Johnson è favorito di un soffio rispetto al sindaco uscente, quel Ken Livingstone un po’ laburista e un po’ indipendente che regna sulla capitale britannica da otto anni. Il vento nazionale gira dalla parte giusta per Johnson: ieri un sondaggio del Telegraph dava i conservatori 18 punti avanti rispetto al New Labour, un vantaggio che ricorda i tempi thatcheriani, ormai quasi un ventennio fa. I laburisti sono terrorizzati, non si possono permettere di perdere (anche) Londra e ieri si sperticavano sui blog e sui giornali per convincere i terzi incomodi – i Lib-Dems che hanno schierato l’ex poliziotto Brian Paddick – a votare, come seconda scelta, Ken il Rosso. Sarà infatti proprio la seconda scelta, dicono i commentatori, a definire il prossimo sindaco di Londra: il sistema elettorale prevede che si faccia una classifica dei favoriti. Se Livingstone e Johnson arrivano vicini vicini, conteranno quei nomi scritti sulla seconda colonna della scheda rosa. La tentazione tra gli elettori dei Lib-Dems di votare il conservatore è fortissima, tutti in città ne parlano, tra i bisbigli. La “generazione Boris Johnson”, quel gruppo di quarantenni che ha conquistato la leadership dei conservatori, è al suo primo vero appuntamento elettorale. David Cameron, leader dei Tory, ha puntato su Boris nel luglio scorso, in mezzo a mille critiche: sei pazzo, gli dicevano i guru del partito, ci giochiamo Londra e la nostra credibilità per i prossimi dieci anni. Poi qualcosa è cambiato. Su consiglio di Veronica Wadley, potente direttrice dell’Evening Standard (che aveva già detto a Cameron che l’unico che potesse vincere Londra era Johnson), Boris ha cominciato a fare sul serio: s’è sistemato la zazzera, si è messo a studiare i dossier dell’amministrazione di Londra, ha imparato a dosare l’ironia in modo da non sembrare sempre un comico che ha sbagliato mestiere. George Osborne, cancelliere dello Scacchiere ombra nonché mente della rivoluzione dei Tory, gli ha messo al fianco lo spin doctor australiano Lynton Crosby, grazie al quale il dibattito è stato monopolizzato da un tema caro al partito: la sicurezza. La crisi del Labour e del premier, Gordon Brown, ha fatto il resto, e pochi giorni fa l’endorsement del Sun di Rupert Murdoch ha dato il sigillo finale a una campagna rischiosa quanto proficua. Ora Boris ci crede davvero, anche se fa lo scanzonato e dice che la sua macchina elettorale fa paura persino a lui. E Cameron un punto l’ha segnato: i Tory diventati “cool” piacciono anche a sinistra, pure se questo è ancora soltanto un bisbiglio. dalla vittoria. Roma è nostra”. E’ in questa dimensione proprietaria del possibile trionfo di Gianni Alemanno che si svolge adesso l’incredibile ribaltamento degli stati d’animo romani. Per la prima volta da vent’anni la destra postfascista è a un millimetro dal potere capitolino. Gli ultimi sondaggi riservatissimi maneggiati da Alemanno hanno un che di allucinatorio: due punti sopra Francesco Rutelli. Non era mai successo. Ma è possibile? In queste ore Roma sta interrogando se stessa per capire se sta davvero andando incontro all’inimmaginabile. Rutelli ha paura e non è abituato ad averne, né a dover recuperare terreno. Altrimenti non avrebbe preteso da Mentana la diretta di ieri a Matrix nell’ultimo faccia a faccia con lo sfidante. Alemanno preferiva la registrazione pomeridiana inizialmente concordata. Più che altro per ragioni psicologiche, ma pure perché Alemanno avverte l’agguato in arrivo durante la diretta, risuonano in lui le voci, le accuse opache contro una destra che rimesterebbe nel torbido dello stupro avvenuto a La Storta. (segue a pagina quattro) L’Urbe in fumo E’ l’allarme di Pietro Barrera, collaboratore di Rutelli, contro la “destra dei furbi e dei prepotenti” Roma. Alemanno è alle porte, e come fu per i Galli di Brenno, risuonano allarmi degni delle oche del Campidoglio. Non è troppo lontano da questo spirito l’avvertimento di Pietro Barrera, da quindici anni al lavoro con le giunte di centrosinistra: prima capo di gabinetto (Rutelli uno), poi direttore generale del comune (Rutelli due) e infine capo del personale (Veltroni due). Al Foglio, Barrera dice che “se dovesse vincere Alemanno andrebbe in fumo un’idea di città delle regole. La destra romana, in questi anni, è stata la destra dei furbi e dei prepotenti”. Qualche esempio? “La difesa dell’ala oltranzista dei tassisti; il vicepresidente del consiglio regionale, Tommaso Luzzi, che si incatena per impedire l’abbattimento di una villa abusiva nel parco di Veio; Alleanza nazionale che con i picconi va a rimuovere i cordoli delle corsie preferenziali all’Esquilino”. E’ una destra, prosegue Barrera, che “prima dice ‘mandate i nomadi fuori dal raccondo anulare’ e poi, appena si comincia a costruire il primo campo regolare fuori dal raccordo, arriva, sempre con i picconi e sotto la guida di un autorevole deputato di An, Domenico Gramazio, a smontare quel campo. E’ una destra che, in campagna elettorale, non ha fatto altro che ripetere ossessivamente la parola d’ordine ‘condono per le multe’. Il messaggio è molto chiaro: vogliamo una città dove lo spirito civico è azzerato, dove le regole non esistono più. Il contrario di quello che abbiamo cercato di costruire in questi anni”. Barrera ricorda che “tra i consiglieri comunali più votati nelle liste di Alemanno c’è un esponente della famiglia Tredicine. Cioè della famiglia simbolo dell’offesa perenne, con i suoi furgoni di sei metri che vendono bibite, panini e porchette, in luoghi come piazza di Spagna, i Fori Imperiali, Fontana di Trevi. Una famiglia che, appellandosi a cavilli di ogni tipo, si è sempre battuta contro ogni regolamentazione delle bancarelle nel centro storico. Non conosco il consigliere eletto, che sarà certo una degna persona, ma non è possibile scorporare la sua presenza da un’idea di Roma fuori dalle regole”. Mentre il problema di Roma, sottolinea Barrera, “è quello di far rispettare le buone regole stabilite, e su questo punto, in particolare sul ruolo dei vigili urbani, c’è senz’altro da fare. Ma certo non come vorrebbe Alemanno”. (segue a pagina quattro) Poste Italiane Sped. in Abbonamento Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO SABATO 26 APRILE 2008 - € 1 DIRETTORE GIULIANO FERRARA CAPITALI DA ESPUGNARE li ultimi messaggi prima della festa di fine campagna elettorale con il Cav. poteG vano intimorire: “Forza, siamo a un passo quotidiano Letto oggi, 25 aprile, sulle agenzie di stampa. L’amore a pagamento dilaga tra le donne italiane, lo praticano due su dieci. Ha analizzato il fenomeno l’associazione “Donne e qualità della vita” della sessuologa Serenella Salomoni, la quale ha interrogato un panel di millecinquecento femmine, tra i diciotto e i cinquant’anni, da cui risulta (o volendo, diciamo, risulterebbe) che una donna su quattro ha pensato almeno una volta di pagare un uomo per avere un rapporto, mentre due su dieci si sono tolte concretamente lo sfizio suddetto. Trecentomila donne al giorno frequentano siti Internet che propongono siti maschili. Su trecentomila contatti ogni giorno, sarebbero ottomila le transazioni portate a buon fine. Di queste, vale a dire il diciannove per cento del campione del campione, vale a dire una su tre, vale a dire il sei per cento del campione medesimo, sarebbe disposta a pagare fino a cinquemila euri per passare una notte di passione con un vip. Il vip più agognato, col ventotto per cento, risulta essere Massimo Giletti. Letto oggi, 25 aprile, giorno della Liberazione. “Bello, ciao”. La Giornata * * * In Italia * * * Nel mondo NAPOLITANO: IL 25 APRILE E’ DI TUTTI. VELTRONI CONTRO BERLUSCONI. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha celebrato la festa della Liberazione prima a Roma poi a Genova: “La Resistenza vive nella Costituzione, che è di tutti gli italiani”. Il presidente del Consiglio in pectore, Silvio Berlusconi, ha ricevuto, tra gli altri, il neosenatore del Pdl Giuseppe Ciarrapico a Palazzo Grazioli. Il segretario del Pd, Walter Veltroni, ha definito la visita: “Uno sfregio alla democrazia”, riferendosi alle recenti polemiche sulle simpatie fasciste del senatore. Berlusconi, nel pomeriggio, ha dichiarato: “Sì alla pacificazione nazionale, purtroppo al 25 aprile seguì la guerra civile”. Polemiche a Milano per l’assenza, annunciata settimane fa, del sindaco Letizia Moratti al corteo celebrativo. Lo stesso durante il quale l’anno scorso venne invitata a non partecipare. Il ministro dimissionario Paolo Ferrero (Prc): “L’assenza della Moratti è gravissima”. Il presidente della Cei e arcivescovo della città, Angelo Bagnasco, è stato contestato a Genova con fischi e urla nel corso di una celebrazione del 25 aprile al Palazzo ducale”. A Torino si è tenuto il secondo VDay di Beppe Grillo. Articolo ed editoriale nelle pagine 2 e 3. UFFICIALI ALAWITI DELL’ESERCITO SIRIANO SI RIBELLANO AL REGIME. Un gruppo di giovani ufficiali alawiti si è schierato contro il presidente siriano, Bashar al Assad, chiedendone la testa. I giovani, che appartengono alla setta della quale fa parte la classe dirigente del paese, hanno scritto di aver sentito il bisogno di rendere pubblica la protesta “per diffondere in Siria una coscienza politica, per dire no alla tirannia e dire basta alla corruzione”. Secondo il testo, “non esiteremo, non contratteremo e non concederemo tregua finché il popolo siriano, e noi siamo parte di esso, non avrà conseguito la nobile vita che si merita, non sottomessa ad alcuna sudditanza se non a quella della terra, ad altro mandato se non quello del popolo, ad altra sovranità se non quella del diritto”. Due guardie israeliane sono state uccise in uno scontro a fuoco nei pressi di Tulkarem, in Cisgiordania. L’attacco è stato rivendicato da Hamas e Jihad islamico. * * * Domani il ballottaggio a Roma tra Gianni Alemanno e Francesco Rutelli. I seggi saranno aperti anche lunedì. Il segretario del Pd è intervenuto in appoggio di Rutelli criticando il Pdl: “Berlusconi non ama Roma”. Il premier in pectore ha risposto, intervistato dal Messaggero, che “vincerà il nostro candidato”. Alemanno: “Quelli del Pd sono dei cialtroni, vanno rimandati a casa. Sott’acqua dicono che è stata la destra a organizzare lo stupro della studentessa del Lesotho. Sono dei cialtroni”. Oltre che Roma la tornata amministrativa riguarda altre quattro province e 43 comuni. * * * “Il prestito ad Alitalia è illegittimo”, così il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro: “Nessuno deve potersi permettere di prendere dei provvedimenti che sono illegittimi e io ritengo che la forzatura che ancora una volta ha voluto Berlusconi sarà punita dall’Unione europea perché è un aiuto di stato”. Dopo Ryanair anche British Airways ha chiesto chiarimenti a Bruxelles sul prestito ponte concesso dal governo ad Alitalia. Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, ha risposto all’invito lanciato dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, a portare a termine al più presto la riforma del modello contrattuale: “Sono molto d’accordo che al più presto ci sia un tavolo”. * * * Borsa di Milano. S&P/Mib +1,26 per cento. L’euro chiude in calo a 1,56 sul dollaro. * * * In Iraq, i sunniti tornano al governo. Il Tawafiq, il principale partito sunnita, ha accettato di rientrare nella coalizione che sostiene il governo del primo ministro sciita, Nouri Al Maliki, dopo un boicottaggio durato quasi un anno. I leader sunniti stanno ancora definendo i dettagli del loro ritorno al governo. Sono stati la legge di amnistia e l’azione del governo sulle milizie sciite di Moqtada al Sadr i fattori principali che hanno determinato la decisione. * * * Lance iraniane attaccano nave americana nello Stretto di Hormuz. I marinai statunitensi a bordo di un cargo hanno sparato otto colpi di mitragliatrice calibro cinquanta e tre colpi di avvertimento con gli M-16 contro alcune vedette iraniane che si erano avvicinate all’imbarcazione. L’unità era appena entrata nello Stretto quando è stata accostata da alcune motovedette. I pasdaran hanno smentito qualsiasi scontro a fuoco con il cargo statunitense. L’Iran continua a sostenere gli insorti iracheni attraverso la fornitura di armi e l’addestramento delle milizie. Lo ha detto il capo di stato maggiore americano, l’ammiraglio Michael Mullen * * * In Zimbabwe, la polizia entra nella sede dell’opposizione. Le forze dell’ordine hanno fatto incursione nel quartier generale del Movimento per il cambiamento democratico, principale forza di opposizione al regime di Robert Mugabe. Sono stati arrestati numerosi sostenitori della formazione politica guidata da Morgan Tsvangirai, avversario di Mugabe nelle presidenziali, i cui risultati rimangono tuttora ignoti nonostante le critiche della Comunità internazionale. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21 Il Profumo acre della crisi L’amministratore delegato di Unicredit ammette le difficoltà finanziarie del gruppo, soffre per le lodi di Jp Morgan alla rivale Intesa Sanpaolo e si prepara al confronto su Generali (e con Tremonti) Roma. Banchiere, cosmopolita, mercatista e di sinistra – “quella di adesso, quella dei Simpson”, direbbe il ministro dell’Economia in pectore. Se c’è uno che riesce a mettere insieme tutti gli archetipi contro i quali si batte il tremontismo, questi è Alessandro Profumo. I due si temono, si studiano, si rispettano, anche perché il top manager genovese non conta fra i propri estimatori soltanto Massimo D’Alema, che più volte lo ha indicato come “esempio da seguire”. E’ noto l’elogio dell’ex presidente Bnl e senatore azzurro, Gianpiero Cantoni, secondo il quale “Profumo è così bravo che non viene influenzato dalla politica”. Ma la grazia non dura in eterno, nemmeno per Alessandro il Grande. Mercoledì, l’amministratore delegato di Unicredit ha ammesso che la crisi finanziaria costerà al gruppo un miliardo di euro. Il contagio viene soprattutto dalla Germania e passa attraverso la controllata Hvb. Ma è scosso l’intero portafoglio titoli del gruppo. La Borsa, che aveva punito l’iniziale reticenza con una pioggia di vendite, ha premiato la sincerità. Tuttavia, il valore azionario viaggia ben al di sotto del target price assegnato dagli analisti. La caduta è cominciata esattamente un anno fa – allora il titolo valeva oltre sette euro, oggi è a 4,60 – s’è fatta più forte dall’autunno e corre parallela alla fusione con Capitalia. Digerire la banca romana è complicato, ancor più sistemare l’insieme di partecipazioni e crediti concessi in base a una filosofia “di sistema”. Per la controllata sicula, l’amministratore delegato è sceso a patti con Totò Cuffaro accettando che la quasi totalità della raccolta del Banco venga impiegata nell’isola: insomma, una sorta di statuto autonomo. Nella capitale i tifosi della Roma mettono sotto accusa Profumo, interista di provata fede, per aver messo spalle al muro la famiglia Sensi. I Toti, costruttori amici di Veltroni, clienti e azionisti di Capitalia, debbono rimborsare una linea di credito di 250 milioni. La politica, nonostante tutto, mette a dura prova il chou chou dei mercati finan- Il network d’informazione delle grandi Radio Regionali. ziari, il primo a lanciarsi in una fusione cross border conquistando una banca in Germania (niente meno), quello che ha introdotto l’Italia nell’immaginifico mondo dei derivati (la turbofinanza bestia nera del tremontismo), spalmandoli persino su incauti assessori comunali. Uno per il quale “la patria è il mondo intero”, come cantavano una volta gli anarchici, tanto che l’8 maggio, all’assemblea degli azionisti, proporrà di togliere l’aggettivo “italiano” nella ragione sociale di Unicredit. Ma il vecchio detto secondo cui la fortuna arride agli audaci, non regge più. Almeno in banca. “Troppo audace”, scrivono nel loro ultimo rapporto gli analisti di Abn Amro. Ora Profumo è in giro per l’Asia in cerca di buoni affari, ma forse dovrebbe fermarsi e sistemare casa propria. Il rapporto di JP Morgan, che pure continua a giudicare positivamente Unicredit, sottolinea le migliori performance della grande rivale Intesa Sanpaolo al riparo, almeno così sembra, dalla tempesta creditizia. Che l’arcirivale Corrado Passera venga lodato più di lui da quelli che muovono il mercato fa gorgogliare i succhi gastrici dell’aitante Profumo. Non c’è occasione importante nella quale i due non incrocino i ferri: ormai sembrano i duellanti del romanzo di Joseph Conrad. Hanno linee opposte su Alitalia e sul rapporto tra banca, industria e giornali (Profumo è uscito da Rcs). L’ultima stoccata è sul presidente dell’Abi: Unicredit ha votato, insieme a Bnl, contro la riconferma di Faissola, considerato di destra, voluto e sostenuto da Intesa. La madre di tutte le battaglie, però, resta Generali. In campo ci saranno tutti i big. Cesare Geronzi, presidente di Mediobanca, e Giovanni Bazoli, presidente di Intesa. I francesi Antoine Bernheim e Vincent Bolloré. La finanza berlusconiana. Mario Draghi, azionista chiave con Bankitalia del Leone di Trieste. E, per forza di cose, il nuovo ministro del Tesoro. Sarà la prova per capire se Profumo diventerà l’anti Tremonti o se arriverà la tregua. In tal caso, l’era del dialogo comincerà anche tra i poteri forti. OGGI NEL FOGLIO QUOTIDIANO UN 25 APRILE DISASTROSO • LE SECESSIONI INCALZANO: il buffone, i faziosi, i fischiatori. Tutti in piazza in una nazione senza guida etica infestata dal rancore (editoriale pag. 3) • LA SERA ANDAVAMO a Tor Pignatta- ra. Mai tante coccole per le borgate romane, ma quando il voto urla è lì che si trova l’elettore (Di Michele inserto III) • IL QUARTO SINDACATO. La gens no- va di Confindustria nell’era post Montezemolo. Perché nei posti chiave non ci sono le grandi famiglie (inserto I) Solferino pride La redazione del Corriere della Sera si colora d’azzurro Dall’endorsement per Prodi al Cav. 25 aprile di liberazione in Rizzoli Solferino pride. Dall’endorsement agli outing. Non più per Prodi, tutti per zio Silvio. Un 25 aprile di liberazione per il giornalismo. Il Pdl in redazione prepara l’epurazio- ne. Anche il Corriere della Sera, da par suo, rinuncia all’establishment e si colora d’azzurro. Manipoli di redattori iscritti ai Circoli del Buongoverno, infatti, già bivaccano nella sala Albertini, ridotta ormai a un’aula sorda e grigia. Ronde di stagisti leghisti in camicia verde salgono le scale di quello che fu un baluardo della democrazia e della legalità mandando a valle i membri del Cdr umiliati nella loro orgogliosa sicurezza. Salvatore Ligresti, spavaldamente spalleggiato da Ignazio La Russa, ha già notificato gli otto giorni a Piergaetano Marchetti. Solferino pride. Dall’endorsement agli outing. Il Pdl in redazione. Le solite quaglie sono pronte al salto. Beppe Severgnini detto BSV ostenta sul desk una foto di Cesare Previti in posa immarcescibile: “Quando c’era lui, caro lei”. L’onda impetuosa dell’insurrezione travolge la redazione. Tutti i ritratti di Luca Cordero di Montezemolo sono stati scaraventati dalle finestre, per strada. Poster di Fabrizio Corona – uno dei quali autografato e dedicato a Maria Laura Brambillà – campeggiano oggi nei corridoi e nell’atrio di quello che fino a oggi è stato il giornale della borghesia illuminata. Solferino pride. Dall’endorsement agli outing. Non più per Prodi, tutti per zio Silvio. Un 25 aprile di liberazione per il giornalismo. Le sobrie automobili Fiat date in dotazione ai giornalisti sono state sostituite da aggressivi Suv, creme solari e confezioni giganti di Viagra sono messe al posto delle autorevoli enciclopedie date solitamente in allegato. Anche la rubrica di Lina Sotis è stata cancellata. A nulla è valso che la regina del giornalismo abbia sottoscritto un appello per Paolo Bonaiuti alle Pari opportunità. Al suo posto, ormai, una finestra quotidiana affidata ad Aida Yespica. Francesco Verderami e Maria Teresa Meli, retroscenisti, hanno invece preso possesso della sede romana di piazza Venezia dove – dopo aver radunato i lettori del Tempo, del Giornale d’Italia e i telespettatori di Teletuscolo, dopo aver infine liberato i lettori del Messaggero, detenuti tutti presso le carceri costruite da Caltagirone – hanno dato vita a un’oceanica manifestazione di giubilo davanti al portone di casa Berlusconi. Anche Aldo Cazzullo, inviato di punta del Corriere, a dispetto della propria formazione piemontese, ripudiando la sobria formazione democratica non ha esitato ad applaudire perfino Renato Farina al grido: “Meno Zagrebelsky, più porno-sexy”. Solferino pride. Dall’endorsement agli outing. Non più per Prodi, tutti per zio Silvio. Un 25 aprile di liberazione per il giornalismo. A poco sono valsi gli eroici sforzi di Paolo Mieli, il direttore, e di Pigi Battista, il vicedirettore. Battista e Mieli, dopo aver tentato di fronteggiare l’irruzione in tipografia dei facinorosi seguaci di Sandro Bondi, subito accolto dal collega in poesia Sebastiano Grasso, stanno in queste ore tentando un’ultima trattativa con i barbari cercando riparo all’arcivescovado, sotto la protezione del cardinale Tettamanzi. E’ con un mirabile discorso al Teatro Lirico che Paolo Mieli sta cercando di scaldare i cuori dei lettori illuminati, ma una colonna di camion articolati e di vagoni di seconda classe con Nanni Bazoli camuffato da Wladimir Luxuria, con una parrucca finta in testa, è già stata fermata al valico di Brescia. Con lui Massimo Mucchetti (satira), immediatamente tradotto in carcere, e poi Aldo Grasso, il noto critico televisivo che ha però avuto migliore sorte rivelandosi attraverso ottime credenziali, quale membro segreto delle unità combattenti di Milano2, una frazione di guerriglia ai diretti ordini di Piersilvio Berlusconi. “Non solo per Silvio, ma anche per Piersilvio”. L’America e il presidente nero Con la questione razziale Hillary rovina i piani di Obama. McCain ringrazia Il senatore dell’Illinois voleva essere un leader unitario, ma i Clinton e il rev. Wright non gliel’hanno permesso Ma conta anche ciò che dice New York. La spiegazione più diffusa della sconfitta di Barack Obama alle primarie in Pennsylvania è quella razziale, almeno sui giornali liberal e all’interno dei talk show più vicini al senatore dell’Illinois. Obama avrebbe perso perché è nero, spiega il New York Times, perché l’America bianca non è pronta a eleggere un presidente afroamericano, si sente dire qua e là in televisione. Un exit poll ha svelato non solo che il 27 per cento degli elettori di Hillary non voterà Obama se sarà lui il candidato democratico, ma anche che il 7 per cento degli elettori della senatrice voterà John McCain, anche se sarà lei la sfidante. Gli strateghi di Obama, David Axelrod e David Plouffe, sono i meno preoccupati ai fini della conquista della nomination, perché – spiegano – quell’America bianca e rurale che rifiuta di sostenere Obama voterà in ogni caso repubblicano. In realtà, così dicendo, alimentano anche BARAK OBAMA loro la divisione razziale, in controtendenza con il messaggio unitario di Obama. L’appeal obamiano, almeno prima della cura clintoniana, era esattamente quello del superamento della questione razziale, quella di un politico nero che non si presentava in quanto afroamericano, che non voleva rappresentare l’America nera né quella bianca, non quella liberal né quella conservatrice, ma gli Stati Uniti d’America. I dubbi iniziali, semmai, erano che non fosse “abbastanza nero” per piacere ai neri dei ghetti, di essere il figlio di una donna bianca del Kansas e di un africano del Kenya e di non condividere il retaggio culturale dei discendenti degli schiavi. Obama stava alla larga dalle questioni razziali, sapendo che l’argomento l’avrebbe danneggiato. I Clinton – in particolare Bill, “il primo presidente nero”, secondo la definizione di Toni Morrison – comunque vadano a finire le primarie hanno rovinato il giocattolo Obama, in un modo che McCain non avrebbe mai potuto fare, se non a rischio di essere accusato di razzismo. (segue a pagina quattro) Nella tana delle Tigri Cosa ci fanno i pasdaran iraniani in Sri Lanka ora che l’esercito sta accerchiando i guerriglieri tamil? Colombo. La battaglia è costata all’esercito del governo cingalese quasi 200 morti in due giorni. Ma l’ultima roccaforte delle Tigri tamil è stata ormai accerchiata nel nord dello Sri Lanka. Alle spalle dei guerriglieri c’è soltanto il mare, anche se non smettono di colpire la capitale con incursori suicidi. Ieri hanno fatto saltare un bus a Colombo, i morti sono almeno 24. Il governo cerca di mantenere l’iniziativa sul fronte interno e intanto si lascia corteggiare da iraniani e americani – entrambi consapevoli dell’importanza strategica dell’isola piazzata tra Mare arabico e Oceano indiano. Washington parte in vantaggio, perché fino al 2006 ha avuto i rapporti più stretti con Colombo, quando ancora nel paese reggeva una tregua durata sei anni e garantita da osservatori norvegesi. Consiglieri militari sono stati visti nella grande base navale di Trincomalee, nel nord est del paese a ridosso della zona controllata dalle tigri. C’erano anche gli israeliani, che fornivano armi moderne e istruttori antiterrorismo. Quando le ostilità sono riprese, però, la situazione ha cominciato a cambiare. Le forze di sicurezza cingalesi non vanno per il sottile e nelle aree controllate dal governo è ricominciata la sparizione di civili tamil. L’Onu ha alzato la voce in nome dei diritti umani. Stati Uniti, Inghilterra e Giappone, principale finanziatore dello Sri Lanka, hanno cominciato a prendere le distanze. Il governo di Colombo prima si è guardato in giro ottenendo appoggio dal Pakistan con intelligence e armi. Una mossa che ha fatto infuriare l’India, tradizionale alleato dello Sri Lanka. Poi ha strizzato l’occhio anche alla Cina, che sta costruendo nuovi porti sull’isola. Infine, e soprattutto, sta compiendo un fulmineo avvicinamento all’Iran, grazie a una visita nello scorso novembre del presidente cingalese a Teheran. Il generale Qassem Suleimani, comandante dell’unità al Quds dei Pasdaran iraniani specializzata in operazioni all’estero, ha già visitato in segreto lo Sri Lanka. Una decina di ufficiali cingalesi ora sono addestrati dai Guardiani della rivoluzione – più versati nell’addestramento di terroristi, preparano l’Hezbollah libanese, Hamas e i gruppi speciali infiltrati in Iraq – che potrebbero mettere a disposizione anche consiglieri e armi per sconfiggere le Tigri tamil. In cambio i militari cingalesi hanno già fornito dettagli sull’armamento israeliano in loro possesso, facendo infuriare Gerusalemme e Washington. (segue a pagina quattro) ANNO XIII NUMERO 111 - PAG 4 IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 26 APRILE 2008 Che razza d’America Un magnifico giornale d’opposizione? Sempre governativi, è meno faticoso McCain nelle zone nere, il Sun dice che Obama è in difficoltà per quel che propone e per chi frequenta Al direttore - L’ipocrisia governa l’Italia. Ci si batte contro la pena capitale e ci si dimentica che la condanna a morte è una specialità della buro-giustizia nazionale. In carcere e di carcere si muore ogni giorno. Da Tortora a Caneschi, da Moroni a Craxi, senza citare le migliaia di signor nessuno di fatto giustiziati, la giustizia ingiusta procede. La mia prima doverosa iniziativa, come neoparlamentare, sarà quella di far visita al condannato alla pena di morte, Bruno Contrada; impegnandomi, poi, affinché la “politica” abbia finalmente il coraggio di salvare Contrada e di riformare ab imis un sistema giudiziario, capace di coniugare il peggio del peggio: inefficienza, sciatteria e crudeltà. Giancarlo Lehner (segue dalla prima pagina) La questione razziale è tornata sulle prime pagine. I leader neri accusano Bill Clinton di fare il gioco delle tre carte, dopo che l’ex presidente ha accusato Obama di usare la carta razziale contro di lui, quando tutti sanno che è vero il contrario. A Queens, familiari e amici di Sean Bell – un giovane afroamericano ucciso nel 2006 dalla polizia di New York – ieri hanno scatenato la loro rabbia alla notizia dell’assoluzione dei tre poliziotti. McCain ha cominciato un tour nelle zone dimenticate d’America, partendo dal luogo dove è stato ucciso Martin Luther King, celebrando la marcia antisegregazione di Selma, criticando l’Amministrazione Bush per l’insufficiente risposta dopo l’uragano Katrina che ha colpito i quartieri neri di New Orleans. Il reverendo Jeremiah Wright è stato ospite, ieri sera, di una delle trasmissioni più di sinistra della tv americana, “Bill Moyers Journal” sulla Pbs, per mettere una pezza all’imbarazzo creato al suo amico Obama. Wright è il suo pastore, confessore e consigliere spirituale, ma anche un grande amico di Louis Farrakhan, lo screditato leader antisemita della Nation of Islam, nonché organizzatore della famigerata marcia di un milione di persone a Washington (una delle quali era Obama). Wright considera Condi Rice “una prostituta”, si augura che “Dio maledica gli Stati Uniti”, un paese “razzista” che “diffonde l’Aids per sterminare i neri africani”. Un messaggio opposto a quello di speranza, unità e cambiamento di Obama. Con l’aiuto di un inginocchiato Moyers, Wright si è mostrato in abiti civili, parlando in modo moderato, senza alcuna retorica africano-centrica, e giustificando la presa di distanza di Obama con il fatto che è “un politico”. Ma essere descritto come un “politico” tradizionale non aiuta l’immagine del senatore. I repubblicani della Carolina del nord trasmettono spot tv con Wright affiancato a Obama che, in vista delle primarie del 5 maggio, aiutano Hillary. Clintoniani e conservatori usano Wright per sollevare dubbi sulla vera identità obamiana, contestando la sua biografia di politico post razziale. Hanno provato a trasformare Obama nel candidato dei neri, nell’ennesimo politico afroamericano che suscita scetticismi tra i bianchi. Ci sono riusciti e Obama c’è cascato. Il New York Sun non crede che la questione razziale c’entri alcunché: “Le informazioni che gli elettori hanno sulla razza di Obama sono le stesse che avevano all’inizio della campagna”, ora però sanno che si circonda di personaggi impresentabili come Wright e come il terrorista William Ayers, che sfotte gli americani che “si aggrappano a Dio e alle armi” e che vuole alzare le tasse e incontrare i nemici dell’America. Christian Rocca Nella tana delle Tigri Battaglie e attacchi, più di duecento morti in due giorni. Ahmadinejad arriva con un carico di accordi (segue dalla prima pagina) Lunedì il capo di stato iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, ricambierà la visita di novembre. In dote porterà ai cingalesi l’inaugurazione della costruzione di una grande centrale idroelettrica, grazie a ingegneri iraniani e a un esborso di 450 milioni di dollari, e prestiti agevolati per l’acquisto di armi da Pakistan e Cina. Altri investimenti riguardano una raffineria dove arriverà il petrolio di Teheran. Nella guerriglia etnica che ha già provocato 70 mila morti, il capo di stato maggiore cingalese, generale Sarath Fonseka, ha le idee chiare, dopo essere scampato per miracolo a un attentato suicida di una donna-bomba tamil. “Con l’attuale percentuale di perdite i terroristi non sopravviveranno a lungo”, sostiene il generale, che giura di aver già ucciso la metà dell’esercito nemico di circa 10 mila uomini. Secondo i dati del ministero della Difesa cingalese, soltanto quest’anno le forze di sicurezza hanno ammazzato 3.105 ribelli. Il governo ha sempre sottovalutato le forze del despota delle Tigri, Velupillai Prabhakaran, ma ora ha un’aspettattiva ragionevole di riuscire a prevalere sui guerriglieri. Fonseka vuole sferrare l’assalto finale al quartiere generale dell’Ltte (l’Esercito di liberazione tamil) a Mullaitivu, all’inizio dell’estate, e cancellare i nemici entro la fine dell’anno. Non sarà un’impresa facile, tenendo conto che i tamil rispondono con attentati suicidi indiscriminati, non contemplano la resa come soluzione possibile e hanno a disposizione una mini forza navale e aerea, con piccoli velivoli, che pungola le basi cingalesi. Lo scorso anno le offensive dell’esercito hanno spazzato via le sacche armate tamil nell’est del paese. La svolta è stata impressa dal nuovo presidente nazionalista dello Sri Lanka, Mahinda Rajapakse, che vuole farla finita con il “bubbone tamil”. In gennaio Rajapakse ha stracciato definitivamente l’inesistente tregua con i ribelli tamil e ha chiesto all’esercito di passare all’offensiva su vasta scala. La battaglia dei giorni scorsi è stata combattuta nel nord ovest del paese, l’ultima roccaforte tamil prima dei feudi del movimento nel cuore della penisola di Jaffna. Le tigri vendono cara la pelle e sul terreno sono rimasti, in due giorni di combattimenti, 185 soldati governativi. Si tratta della carneficina più grande in una singola battaglia. La Croce rossa ha organizzato e sorvegliato una restituzione reciproca di corpi tra le due parti. I ribelli hanno dovuto abbandonare il santuario di Madhu – una chiesa costruita dagli olandesi nel Diciassettesimo secolo dove si venera un’immagine della Vergine Maria – considerata “zona franca” e sotto il loro controllo dal 1999. Aprendo così la strada a una sconfitta strategica. Si ricordi sempre, caro Lehner, che il giornale fondato da Gramsci, lasciato morire in clinica da Mussolini nel 1937, ha pubblicato nel 2008 il corsivo progressista di un aspirante secondino che argomentava senza pudore intorno all’ineluttabilità della morte in carcere dei detenuti. L’ipo- crisia da lei citata è un eufemismo. Nessun lettore di quel giornale ha protestato. Al direttore - Un amico di sinistra descrive con ironia un Bossi metaforico e iperbolico. Resto nella geometria analitica: il Senatur è anche ellittico, nel senso che usa frasi nominali a effetto giornalistico, è leader poliedrico, congruente col Popolo della libertà, palle quadrate e indole spigolosa. I suoi ragionamenti sono lineari, non racconta improbabili convergenze parallele. La sua parabola è al vertice; ha centrato i fuochi delle richieste del Alta Società Havana, Cuba. Un italiano, tutt’altro che sconosciuto in patria, è stato sorpreso dalla polizia in una suite dell’Hotel Nacional. Stava a letto con quattro cubane. Loro erano sveglie. Ma lui, scrive il rapporto, rimasto senza “el viagra”, si era addormentato. Buenas noches. popolo del nord, ha compiuto una perfetta triangolazione con il Cav. e Fini vincendo le elezioni. Non è partito per la tangente come le varie ultrasinistre e le varie ultradestre, ed è riuscito nella quadratura del cerchio elettorale. Stefano Cicetti, via Web Vogliamo aggiungere un punto fermo e geometrico alle sue fanfaronate? O siamo in dovere di bere tutta la bevanda dei vincitori? Al direttore - Complimenti! Sta nascendo un magnifico quotidiano di opposizione! Gioacchino Forte, via Web Sempre governativi. E’ meno faticoso. Al direttore - Solo chi è accecato dal pregiudizio ideologico non ha capito che la battaglia della lista pazza non è stata e non è contro la 194 ma contro il mostro dell’indifferenza morale rispetto all’aborto che cancella d’un colpo il primato culturale della vita. Non c’è né ci può essere l’equivalenza riaffermata ieri dall’on. Bindi tra la presunta libertà di abortire e la libertà di obiettare. Sulla seconda niente da dire ma la prima non è tale (cioè una libertà “assoluta”); è – ai sensi di (sacrosanta) legge – solo un diritto, da esercitare, a determinate condizioni e sotto il controllo dello stato che ha il compito di tutelare la vita (dal momento del concepimento), anche quella di chi non può decidere né sapere del suo destino di nato ma che potrebbe essere trafitto, aspirato, raschiato, dissolto da decisioni che – ormai – sembrano essere non più sottoposte alle condizioni scritte nella 194 ma assurgere al rango, appunto, di “libertà civile”. Non è così, evidentemente. Se ciascuno di noi riflette con un orizzonte più vasto e non legato alla congiuntura del momento di quella decisione (che può essere influenzata dalle circostanze più varie e apparentemente, per il decisore, insormontabili) non può non convenire che, in assoluto, il primato spetta alla vita, e non al diritto insindacabile di sopprimerla. Enzo Paolini, via Web “Con la destra Roma non conoscerà più regole”, l’allarme dei rutelliani Per i vigili urbani, dice Barrera, “Alemanno prevede la dotazione di casco antisommossa e prevede anche di affidare loro gli stessi compiti delle forze di polizia di stato. Tipico esempio di risposta sbagliata a un’esigenza giusta. L’esigenza giusta è avere vigili più attenti sulle regole di civismo, ma non abbiamo bisogno che diventino una terza polizia, o che facciano quello che tocca alla Digos”, perché la capitale, puntualizza Barrera, “non è una città ad alto tasso di criminalità, ma ad alto tasso di elusione delle regole della convivenza”. E rivendica alle giunte di (segue dalla prima pagina) centrosinistra “la battaglia per le zone a traffico limitato, prima osteggiate strenuamente dalla destra romana e oggi accettate. E vogliamo parlare degli insulti vomitati contro la ‘notte bianca’? Ora però anche quella è diventata patrimonio cittadino”. Perché, quando la destra rimprovera alle giunte Veltroni di aver dato poco “panem” e troppi “circenses”, “finge di non sapere che con l’attività culturale, a Roma, non si sono fatte volare paillettes ma si sono costruiti decine di migliaia di posti di lavoro. L’aumento delle imprese, solo nell’ultimo anno, è stato del 2,7 per cento. O si pensa che si possano ottenere questi risultati con l’industria siderurgica? No, quei risultati, e la crescita dell’industria turistica, sono legati agli investimenti nei restauri, nei musei, nelle aree archeologiche, nei concerti, nell’auditorium”. Anche per questo “non va bene contrappore la cultura allo sviluppo economico, non va bene l’atteggiamento ‘basta con il culturame’. Vorrei ricordare anche che l’eredità della destra, con la passata gestione della regione Lazio, è fatta di scandali e ruberie. Miliardi di euro scomparsi nel nulla, per cui tutti continuiamo a pagare. La giunta Storace è diventata famosa per aver promosso sul campo 475 dirigenti, salvo poi pensionarne più di cento l’anno dopo, mettendoli a carico di tutti gli italiani, padani e siciliani compresi”. C’è da essere preoccupati, dice Barrera, “perché Alemanno, nei confronti del lavoro pubblico, che va valorizzato ma anche richiamato a maggiore efficienza e rigore, promette una stagione di clientelismo di massa, di corporativismo da vecchio impiego pubblico romano. Promette, alla fine, di riesumare la vecchia caricatura di Roma: una città pigra, senza regole, che si arrangia”. Se vince Alemanno La dolce decadenza veltroniana, gli equilibri del candidato del Pdl e un establishment in preda al panico (segue dalla prima pagina) Si temono bassezze infa- manti. Con il trascorrere dei minuti i moti parossistici trovano asilo nell’uno e nell’altro candidato. Alemanno in realtà tiene d’occhio le movenze dei suoi consanguinei quanto quelle degli avversari. La sbruffonata del camerata ubriaco d’illusioni rancorose è quel che adesso va evitato in ogni modo. La sfida per Roma riflette almeno in parte la lacerazione nazionale in fondo contenuta da Berlusconi e Veltroni. A Palazzo Chigi non sta per arrivare il male assoluto. Ma la capitale conserva ancora una peculiarità ingigantita dalla credibile prospettiva di un sindaco ex fascista. Per capire si può fare un paragone con Milano. Lì alle ultime comunali si sono contesi il potere Letizia Moratti e l’ex prefetto Bruno Ferrante: separati dai partiti di riferimento, accomunati però da un patriottismo urbano sul quale non era possibile esercitare il veleno dell’irriducibilità. Nessun milanese di sinistra si è sentito espropriato di un giacimento simbolico vitale, vedendosi sconfitto dalla figlia di un partigiano educata al buon uso di mondo. E viceversa nessun conservatore avrebbe patito l’ombra di chissà quale sovietismo inconscio nell’incedere questurino di Ferrante. Un altro mondo. A Roma qualcuno anche fra i migliori tifosi di Rutelli ha ceduto al meccanismo riflesso di gridare alla marcia delle camicie nere. E’ un delirio di circostanza. Sarebbe terribilmente sconsiderato insistere nel tentativo d’impiccare Alemanno al proprio passato. Però quel passato c’è, fa parte della memoria romana e italiana, alimenta un cozzar di armature che si deve saper guardare. Per rifiutarne il contorno strumentale, certo, epperò anche per usare clemenza nei confronti di una città mezza impazzita mentre rivive emozioni cui non era più avvezza. Anche per questo non riconoscersi tra vincitore e vinto, domani, sotto le statue del Campidoglio, sarebbe nefasto. Siccome adesso percepisce la quasi vittoria, è proprio Alemanno il primo a non voler passare come quello che “si prende Roma”. L’ex missino è troppo figlio d’una diversità inestirpabile per volere oggi apparire oltremodo diverso dai possibili vinti. Da Veltroni e Rutelli e dal quel loro morbido totalitarismo culturale romano. Allo stesso tempo è appunto su questa distonia acuta tra il potere inerte del centrosinistra e la foga volitiva dei nuovi arrivati che Alemanno ha incardinato la propria campagna elettorale. A forza d’evocare in tutta Italia il demone dell’insicurezza, della barbarie domestica, dell’uomo non-più-nero ma comunque straniero e terrifico agli occhi di chi si lascia magnetizzare dalla paura, poi succede come nelle sedute spiritiche: la larva prende vita, incombe, galoppa, terrorizza. Oppure si ribella. Ovvio che nulla si alimenta del nulla: se Alemanno ha trovato nell’ordine pubblico e nei miasmi periferici i suoi argomenti più efficaci significa che c’era materia su cui lavorare. Ma è una materia incendiaria intorno alla quale a un certo punto bisogna decidere se scansarsi dai lapilli o rischiare di prendere fuoco. Un gioco da duri che è al tempo stesso la carne cruda del Lupomanno (così ancora da qualche parte viene appellato) e una visione sconvolgente per chi da lui potrà essere sconfitto. Anche da qui proviene l’ansia dell’ex fascista che cerca di non forzare dopo aver scaldato il ferro. Alemanno avrà vinto, semmai, perché ha saputo incarnare un modello violentemente opposto alla dolce decadenza veltroniana, ma la sua scommessa più difficile sta nel non apparire troppo diverso, se non inconsulto. I suoi collaboratori più stretti, come il neodestrista Umberto Croppi, hanno seguito passo passo il piano spericolato di tenere insieme l’Opus Dei (Antonio Bonfiglio) e i camerati delle case occupate (il Foro 753), e poi ciacolare a intermittenza con i filopalestinesi e la Fondazione Kadima, ascoltare i bardi delle catacombe nere e il pianista David Helfgott, scritturare i cicisbei in cerca di notorietà e il più consumato Enrico Montesano. Pare ce l’abbia fatta, Alemanno, ma ha ancora bisogno di dire che il 25 aprile vuole essere della partita antifascista, deve allontanare da sé l’immagine dei saluti romani che gli venivano rivolti dai pavidi o dai convertiti quando entrò da ministro al dicastero dell’Agricoltura. E infine ha l’obbligo di contenere i suoi, sa bene che dal dopoguerra in poi la destra parlamentare produce un democratico ogni nove avanzi di sezione. La sinistra lo teme anche per questo motivo e perché sa che Alemanno è generoso coi propri “lanzichenecchi”. Quando conquista una posizione non lascia indietro nessuno. Ha fatto così al ministero, così alle politiche nazionali, sdebitandosi come poteva nella compilazione delle liste. Farà così, potendo, nel cerchio magico che ha per centro il Campidoglio e per circonferenza chissà. Darà lavoro ai commilitoni. Altro dubbio che irrancidisce i cuori della sinistra romana: se Lupomanno sale al potere, se la gente già gli chiede di firmare autografi per la strada, se molto più di Fini è riuscito a trovare un modus vivendi con Berlusconi, quanto male potrà fare ai vinti? Lui risponderebbe con la promessa di non saccheggiare l’Urbe e le sue antiche rendite gauchiste; e con il giuramento di non avere parenti leghisti. Ma di questi tempi Roma non è più città così grassa da sfamare tutti i lupi. (ag) INNAMORATO FISSO DI MAURIZIO MILANI Ieri sono uscito con una ricercatrice del gruppo Pampers. Ci siamo lasciati la stessa sera. Lei ha i suoi interessi, io i miei. Mi dispiace perché aveva la V. Ho chiamato Zagor per vedere se si interessava lui alla questione ma non c’è stato niente da fare.