Perché le webradio fanno paura
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Perché le webradio fanno paura
PAGINA AUTOGESTITA A CURA DEL PARTITO PIRATA L’Associazione Partito Pirata e il forum li trovi in rete su www.partito-pirata. it. Qui invece mettiamo a disposizione il mensile dell’associazione: www. Iscrizione Tribunale di Rovereto (Tn) n. 275 direttore responsabile Mario Cossali piratpartiet.it Su www. anonet.it si trova il progetto che stiamo sviluppando per una rete anonima o darknet. Per iscriversi alla mailing list è sufficiente inviare dal vostro account di posta una e-mail, anche priva di oggetto e contenuto a: http://ml.partito-pirata. it/cgi-bin/mailman/listinfo/ open Dal liutaio alla software house di Alessandro Bottoni L’open source fra Nichi e Latorre di Athos Gualazzi L’onorevole Latorre, nell’intervista al Corriere della Sera, di qualche giorno fa, evidenzia due problemi che vanno affrontati, sono fra loro legati, il “dopo Berlusconi” e la “situazione delle sinistra”. Per il “dopo Berlusconi” Latorre prospetta due possibili scenari, il primo è che venga gestito da lobby favorevoli ad una svolta autoritaria, al mercato selvaggio e quale priorità il profitto, ed uno scenario nel quale la libertà, il lavoro e i diritti siano invece le priorità. La nostra lettera aperta a Vendola per il protocollo firmato con Microsoft s’inserisce proprio nella strategia di una svolta verso la libertà, i diritti e il lavoro. La filosofia che supporta il software a codice aperto è la condivisione non la gratuità, non confondiamo la condivisione con la gratuità. Ci stiamo avviando verso una società in cui consumatore e produttore saranno un’unica persona, una società in cui saranno fondamentali i valori cosidetti di “societing”, socializzazione La diffusione di nuove tecnologie d’informazione e comunicazione ha facilitato un’ enorme socializzazione anche dei processi produttivi. Il Free/ Libre Open Source Software (Floss) è sostenuto da centinaia di migliaia di programmatori che producono insieme un prodotto estremamente complesso in un modo auto-organizzato dove le motivazioni economiche classiche sono secondarie. IBM, Oracle, Sun, i componenti la Apache Software Foundation e altri big dell’informatica hanno adottato la condivisione e solo il 15 per cento del valore aggiunto nell’ industria del software viene dal software stesso, mentre il resto viene da servizi ed applicazioni che si possono produrre intorno. Non si tratta di ragazzi in uno scantinato ma di una filosofia sociale indirizzata al lavoro, ai diritti e alla libertà, alla condivisione del sapere per un miglior sfruttamento dello stesso a favore dell’intera società e non del singolo o singola azienda per grande che sia. Senza essere forsennati fan del Floss risulta evidente che non si tratta di una scelta fine a se stessa ma la scelta di una rotta per un orizzonte piuttosto si un altro. Per questo motivo abbiamo criticato e non condividiamo la firma del protocollo Regione Puglia- Microsoft perché avremmo preferito evitare di veleggiare, seppur bordeggiando, verso il primo panorama prospettato dall’onorevole Latorre. 24 H o appena finito di guardare “Fuori Tg”, il nuovo programma di Maria Rosaria De Medici su Rai3. Puntata intitolata “il mondo nuovo”, dedicata al lavoro ed alla “minaccia cinese”. Presenti in studio il giornalista Federico Rampini ed il sociologo Domenico De Masi. Si inizia bene, con Rampini che fa notare come l’Occidente possa ancora contare su qualcosa che per il momento la Cina non può dare ai suoi cittadini: la libertà. Una libertà che significa anche possibilità di esprimersi nel mondo degli affari e dell’ingegneria e quindi la possibilità di creare nuovi prodotti e nuovi business, con conseguenze positive sul bilancio e sull’occupazione. Subito dopo, però, casca l’asino. La conduttrice lancia il primo servizio filmato e subito ci troviamo davanti all’immancabile liutaio. Non ci vogliono nemmeno due minuti prima di sentire la solita, agghiacciante parola: tradizione. “Bisogna riscoprire le tradizioni per ottenere questo e quel mi- racolo” è il tormentone. Questa, io credo, è una delle peggiori malattie del nostro paese: l’incapacità di lasciarsi alle spalle le nostre, pur onorate tradizioni, e tornare a vivere ed a competere con gli altri paesi nel XXI secolo. Il secolo di Internet e dei computer. Sembra che per molti dei nostri concittadini sia impossibile capire che quando si parla di “cultura” e di “creatività” come soluzioni alle crisi economiche ed occupazionali, si sta parlando di cultura tecnico/ scientifica, di Google, di e-commerce, di elettronica e di energie alternative; “non” di riscoperta dello studio del latino o di restauro di questa o quella chiesetta di paese. Si badi bene: non c’è da parte mia l’intento di ridicolizzare il mondo della cultura umanistica. Quel tipo di cultura è necessario. Il mio intento è invece quello di ridicolizzare l’incapacità della nostra “intellighenzia” di comprendere l’altra cultura, cioè l’intero universo della cultura tecnica e scientifica, e la sua importanza per lo sviluppo econo- mico ed occupazionale. Quando si chiede ad uno degli esponenti della nostra classe dirigente (ed ai nostri giornalisti) di fare un esempio di “creatività al servizio dell’occupazione” ci si ritrova immancabilmente a visitare lo studio di un liutaio od il laboratorio di un restauratore. Professioni benemerite ed ammirevoli, per carità, ma resta il saranno difficili. Proprio oggi, a “Le storie” di Corrado Augias, il giornalista Marco Panara, autore del libro “La malattia dell’occidente”, faceva notare come il valore economico del lavoro sia crollato ai minimi storici negli ultimi anni, trascinando con sé il valore sociale e culturale del lavoro stesso e mettendo in difficoltà le democrazie di mezzo pia- competenza e della nostra creatività. Dobbiamo capire che forse nessuno sarà più disposto a comprare 40 ore settimanali di Ingegnere e due etti di bresaola ma forse qualcuno sarà ancora disposto a comprare il servizio web che quell’ingegnere sa creare. Si tratta di riscoprire un tipo di cultura, la cultura tecnico/scientifica e la fatto che non capita mai, nemmeno per sbaglio, di visitare una software house od un’azienda di avionica (anche se ne esistono diverse nel nostro paese). Una “cecità selettiva” che la dice lunga sulla reale natura dei nostri intellettuali. Gli anni che ci aspettano neta. Non possiamo più contare sulla possibilità di vivere rivendendo il nostro tempo, quel tempo “sordo” che spendiamo in fabbrica od in ufficio. Dobbiamo imparare a creare e rivendere un altro tipo di “prodotto”, più direttamente consumabile: il prodotto della nostra cultura del business, che in Italia sembrano essere andate perdute da millenni. Questa è la scommessa. Una scommessa che la sinistra si sta giocando, senza rendersene conto, con movimenti politici e culturali che si chiamano “Futuro e Libertà” o “Italia Futura”. Perché le webradio fanno paura di Paolo redstar Cocuroccia Q uesta settimana intervistiamo i due fondatori di RadioSonar, la web-radio che ha dovuto interrompere le trasmissioni a causa delle pressioni di Siae ed Scf (consorzio fonografici). Dopo aver seguito la vostra vicenda, ci siamo chiesti perché Scf e Siae si accaniscano contro una piccola web radio... FABIANA: Non molto tempo fa la Siae otteneva fondi soprattutto attraverso la FM. Negli ultimi anni invece c’è stata un’incredibile esplosione delle web radio: non a caso la banda FM si sta liberando e loro hanno “mangiato la foglia”. Vogliono irrigidire il web perché hanno compreso la portata del mezzo: ecco il perché di tutti questi controlli. Tra l’altro la Scf nemmeno può farne di controlli. È la casa discografica che deve muoversi, denunciando gli illeciti. Le autorità preposte poi fanno tutti gli accertamenti del caso. Avete organizzato due serate per autofinanziare le spese legali per Siae ed Scf. Siete riusciti almeno a raccogliere una somma adeguata? FABIANA: Abbiamo raccolto 500 euro dalle feste fatte al centro sociale “s. Papiers” e alla “Strada”. Più una donazione di 200 euro dal centro sociale “Aura e Marco” che è particolarmente sensibile a questi temi. Purtroppo però il totale da pagare per una radio Amatoriale, tra Scf e Siae, è di 1500 euro l’anno. Di questi, 790 vanno solo alla Siae che garantirebbe la libertà di trasmettere solo una canzone coperta da copyright ogni quattro. Immagino che per una radio come la vostra, che vive di autofinanziamento, non sia facile raccogliere ogni anno 1500 euro. GABRIELE: No, infatti. Non è facile. Paradossalmente costerebbe meno essere una web-radio commerciale. Una radio che ha fino a 3000 euro al mese di ricavi, deve alla Siae solamente 212 euro mensili. Questo meccanismo ovviamente è tarato ad arte per spingerti a diventare “commerciale”. In questo modo perdi nettamente l’autonomia nei contenuti: gli inserzionisti infatti, con i loro fondi, imporrebbero i contenuti. È tutto concepito per ledere la libertà d’espressione. E poi, se prima potevo farmi una radio amatoriale con 240 euro, ora il balzello è aumentato a 480. Per una realtà che non ha mai ottenuto fondi pubblici e che si è sempre autofinanziata, fargli pagare 1500 euro significa declinarne la morte. Già non si trova spazio sull’Fm per evidenti motivi economici, se poi cominciamo a parlare di cifre esorbitanti anche per il web, è finita! FABIANA: Ma poi utilizziamo open source al fine di risparmiare. Non abbiamo soldi per licenze e pc nuovi, figurati se li abbiamo per Siae ed Scf ! Jamendo può essere una soluzione? GAB: Sì, a causa del decreto Romani, l’abbiamo preso seriamente in considerazione. Dietro alla licenza Creative Commons c’è una filosofia affascinante. Il fine non è solo evitare il pagamento di un balzello: è l’esatto opposto. Dietro al CC c’è il lavoro di un artista. Dobbiamo entrare nell’ottica che anche dietro la produzione di arte e cultura c’è un lavoro che dev’essere retribuito, tanto quanto le tute blu e i colletti bianchi. Allo stesso tempo un’opera dovrebbe avere costi più accessibili, equi, ma a monte c’è un problema più grave: quello del reddito. Non ci sarebbe più bisogno di scaricare, se ci fosse accesso alla cultura. Se più radio passassero al CC allora diventerebbe un gesto di massa e avrebbe più peso, anche come protesta. Se io faccio una trasmissione su CC mi impegno anche a creare un’alternativa alla musica commerciale. Potete rassicurarci sul fatto che ripartirete? GAB: Ripartiremo a Gennaio. Ma ci sarà sicuramente una maturazione da parte di tutto il gruppo. FAB: LA cosa importante è che chi trasmette, da oggi in poi, dovrà capire che ha un “privilegio”. La Scf in questo senso ci ha dato uno spunto per riflettere. E forse questa è l’unica nota positiva della minaccia di pizzo. files lettera aperta sul caso assange & co. caro piero, ti sbagli, Wikileaks È una miniera di notizie di Stefano Bocconetti C aro Piero, Io credo che si sarebbe arrabbiato molto Bradley Manning se avesse letto, in questo periodo, i giornali italiani. Quotidiani e settimanali. Tutti, nessuno escluso. Ma in ogni caso non l’ha fatto, non può averlo fatto. Perché le regole delle carceri statunitensi – tanto più quelle di un carcere militare – sono ferree. Da fuori le sbarre non può entrare nulla, se non i biglietti scritti da parenti di primo grado, e per di più filtrati dai marines. Dunque, quel ragazzo americano di provincia, non può leggere nessun giornale, da diverso tempo. Prima si è fatto un mese nelle prigioni americane “distaccate” in Kuwait, ora è in una cella nella base militare di Quantico, Virginia. E nessuno può dire cosa sia peggio. La sua colpa? Aver creduto, come tanti altri, alla guerra in Iraq, aver creduto di poter “esportare la democrazia” coi carri armati e i missili. Ci aveva creduto. Lui del resto non era uno che si informasse molto: era un homeless, un vagabondo. Viveva di elemosine, da quando se n’era andato di casa. Così, le parole d’ordine del presidente Bush gli erano sembravate forti, belle, patriottiche. Senza contare che la divisa gli avrebbe assicurato un sostentamento. E s’era arruolato. Una volta lì, in Iraq, però, si era subito reso conto di cosa significasse davvero la guerra. Aveva visto e saputo di quali orrende stragi si fossero resi responsabili i soldati americani e i loro alleati. Aveva alcuni amici al Mit di Boston, da sempre, si sa, “covo” del movimento pacifista. Era rientrato in contatto con loro, che a loro volta, forse, l’hanno messo in contatto con Wikileaks, il sito che oggi riempie i giornali. Bradley, che da militare aveva seguito un rapido corso di informatica, aveva così “scandagliato” senza permesso i data-base americani in Iraq. Per la legge militare quello è un reato ma lì aveva trovato le prove delle stragi. Stragi di civili, bombardamenti a tappeto, prove filmate di violenze inaudite, immotivate anche durante una guerra. Le prove di una violenza cieca, come quella che spinge un gruppo di soldati italiani ad urlare “annichiliscili!”, mentre mitragliano un furgone. Quasi sicuramente, ora lo si sa, furgone pieno di civili. Particolare, questo sì, ignorato dalla stampa italiana. Queste cose Bradley le ha scoperte e forse le ha messe a disposizione di Wikileaks. Adesso sta pagando, in carcere, la sua scelta. Di non essere corresponsabile della guerra. Questo è uno degli “informatori”di Julian Assange. Questi sono gli “informatori” di Assange. Ora però tu Piero (dentro un’analisi che pure contiene diversi spunti condivisibili e che sicuramente io condivido, e non da oggi) ci dici che Wikileaks è solo un sito «spiogiornalistico». Sporco. Naturalmente, non è così. E non bisogna neanche ricorre al tradizionale metodo che tu suggerisci ai giornalisti, quello di «raccogliere testimonianze, verificarle, metterle a 8 confronto, chiedere pareri», tanto meno bisogna rivolgersi ai poliziotti – in questo caso, poi, trattandosi del mondo, sarebbe un bel guaio se ci fosse una polizia mondiale – ma sarebbe bastato ricordarsi le cose lette sui giornali – non quelli italiani, naturalmente –; sarebbe bastato aver dato uno sguardo ad un paio di libri. E accorgersi che Wikileaks è un sito i cui fondatori e dirigenti sono rigorosamente anonimi, ma col tempo qualche nome è venuto fuori: e si tratta di professori, di hacker, ma soprattutto di dissidenti. Che per questo debbono restare “nascosti”. Dissidenti cinesi, cubani. Dissidenti iraniani, che hanno utilizzato Wikileaks per svelare la ferocia della repressione del loro regime. Si tratta di militanti pacifisti, di militanti radicali del pacifismo. Di quelli, per capire, che non si limitano ad una marcia di protesta ma “si oppongono” a tutto ciò che è guerra, economia di guerra. Ovviamente non tutto è oro in Wikileaks. Tanto che qualche mese fa, assai prima che fosse annunciata la pubblicazione dei 250 mila file “diplomatici”, quello che era considerato il numero due dell’organizzazione, Daniel Domscheit-Berg, aveva pubblicamente annunciato di volersene andare. Non certo perché preoccupato dalla diffusione di notizie “riservate”, non certo perché si sentisse colpito dalle accuse di mettere in pericolo la sicurezza americana e addirittura quella del mondo. E non certo perché qualcuno – anche all’epoca delle rivelazioni sulle stragi in Iraq – avesse parlato di “contatti coi servizi”. Se ne voleva andare perché Assange aveva risposto ai giudici svedesi – che l’accusano di stupro – utilizzando i canali Wikileaks su Twitter. Che gli garantivano un’enorme eco mondiale. Per il rigorosissimo Daniel questo non era accettabile: un conto sono le accuse personali, alle quali Assange doveva e deve rispondere individualmente, un’altra cosa sono gli strumenti di Wikileaks. Che nessuno, neanche il portavoce, avrebbe dovuto utilizzare per altri scopi. Adesso qualcun altro – ma solo qui in Italia ad essere sinceri – ci dice che Wikileaks è diventato un “deposito” dove i servizi segreti lasciano il loro materiale, per i loro obiettivi. Sporchi, illeciti obiettivi. Lo dice anche Gli Altri e un po’ stupisce. Io non so quali siano le fonti che accreditano questa notizia, né mi piace stare dietro alle “voci”. So però che questa è la versione fornita proprio dai servizi segreti americani. Qualcuno dei loro agenti, insomma, avrebbe tradito e fornito i documenti. In questo modo, comunque, Cia e servizi militari si “auto-assolverebbero”: perché ben altra cosa sarebbe dover ammettere che un gruppo di hacker è entrato nei data-base ultra protetti del governo americano. Tesi tutt’altro che peregrina, avvalorata da molti altri precedenti. Il che non esclude comunque che qualcuno, anche dei servizi, abbia poi avuto interesse alla pubblica- zione di quei file. Più difficile immaginare che in ognuno dei centotrenta uffici e ministeri coinvolti ci sia stata almeno una “spia”, a sua volta in contatto con Assange. Neanche Travaglio, credo, riuscirebbe ad immaginare un “complotto” planetario di queste dimensioni. O forse sì, lui ci riuscirebbe. Ma in ogni caso, ripeto: questo è davvero il problema meno rilevante. Esattamente come è quasi irrilevante stare a discutere di quel che hanno fatto i quotidiani italiani quando hanno cominciato ad uscire i primi file. E qui non si può che essere d’accordo con Sansonetti quando denuncia il provincialismo, l’assurdità di testate che sbattono in prima pagine le debolezze del nostro premier. Fisiche e morali. Ma appunto: si parla di provincia, di provincia Italia. La cosa che non capisco è perché il mondo non abbia diritto a sapere che gli americani, ormai da quasi un decennio, stanno combattendo una guerra per tenere in piedi un governo fantoccio a Bagdad, con un leader che loro stessi giudicano un inutile fantoccio. La cosa che non si capisce è perché il mondo, l’opinione pubblica, non debba sapere che l’Italia ha firmato un misterioso accordo per l’approvvigionamento di gas con le dispotiche repubbliche dell’Est. Proprio mentre negli States si scopre un’altra fonte di approvvigionamento, capace di rendere inutile il costoso gas kazaco e russo. Di più: si scopre che all’inizio gli americani lasciano fare agli italiani, in attesa che le grandi compagnie statunitensi brevettino questa nuova risorsa naturale. Perché non dovremmo saperlo? Perché non dovremmo avere tutti gli elementi per capire in che mondo viviamo? Perché non dobbiamo sapere che la spinta ad una nuova guerra nel delicato equilibrio mediorientale viene proprio dai maggiori alleati statunitensi? Preoccupati solo e soltanto dei loro profitti petroliferi? E non dovremmo sapere tutto que- Però chi fa la spia.... A me le spie non sono mai piaciute. Quelle “telematiche” non mi sembrano molto diverse da quelle virtuali. Io credo che spiare, intercettare i telefoni, violare la privacy, demolire la diplomazia, non sia una attività molto edificante. Tu chiedi: ma perché io dovrei rinunciare a sapere? È la stessa domanda che pone Travaglio, quando gli contesti le intercettazioni senza liniti. Rispondo: per la semplice ragione che la privacy è un valore e un diritto di libertà. Punto. Un mondo senza privacy è un mondo totalitario. Cosa ha combinato, alla fine, questo Assange? Ha tirato un siluro contro le diplomazie internazionali (e Wolfgang Ischinger spiega assai bene sul New York Times che in politica estera quando perde la diplomazia vincono i militari), e ha sferrato un attacco violento contro Hillary Clinton e Obama. Danneggiandoli notevolmente. Perché dovrebbe starmi simpatico un tipo così? E poi, per fare la lotta politica io continuo a preferire le armi della democrazia a quelle degli 007. Piero Sansonetti sto solo perché Repubblica, o Il Fatto pubblicano in prima pagina che Berlusconi è stanco, visto che non dorme per i festini? Al provincialismo di De Benedetti & alleati non si può rispondere con un altro provincialismo. Non meno pericoloso del primo. Le cose che raccontano in prima pagina The Guardian, New York Times o Liberation in questi giorni svelano un mondo dove una ristretta oligarchia decide le sorti di milioni di persone. Perché non dovremmo conoscerlo? Perché è già risaputo? So perfettamente, comunque, che è un argomento difficile, delicato. Dove le ragioni non sono tutte da una parte. La stragrande parte delle ragioni sì, ma non proprio tuttetutte. Perché il diritto alla trasparenza negli atti pubblici, il diritto alla trasparenza in tutto ciò che riguarda la vita di milioni di persone, diritto fondamentale della democrazia tanto quanto il diritto di voto, o il diritto alla trasparenza pure nella diplomazia, hanno anche dei limiti, va da sé. Ma non è colpa di Wikileaks se i giornali italiani scelgono di opporsi alle destre col gossip. E solo con quello. L’im- portante comunque è che Bradley Manning, 21 anni – e che rischia 52 anni di carcere per diffusione di notizie coperte da segreto militare – non sembra essersi pentito della sua scelta. A lui tutto il mondo deve qualcosa. E fortunatamente Bradley non ha letto i giornali nostrani. Fortunatamente, neanche lo scorso numero de Gli Altri. Ps: Come si sa Wikileaks è oggetto di ripetuti attacchi informatici – questi sì, da parte di servizi statunitensi – che puntano ad oscurare il sito, ospitato sui server del Partito Pirata svedese. In questi giorni le minacce al sito di Assange si sono fatte più intense. Per questo i pirati svedesi lanciano un appello a tutte le comunità democratiche della rete perché si rendano disponibili a creare dei “mirror” che consentano comunque il collegamento a Wikileaks, anche in caso di blocco. Iniziative che costano. Per questo, chi vuole, chi crede che l’oscuramento di Wikileaks sia un attacco ai principi della democrazia, può mettersi in contatto col partito pirata italiano (http://www.partitopirata.it/)