Epicuro e la felicità - IISS "Francesco De Sanctis"

Transcript

Epicuro e la felicità - IISS "Francesco De Sanctis"
EPICURO E LA FELICITA’
Un filosofo anticonformista
I presocratici conobbero la filosofia solamente come cosmologia e ontologia, ignorando l’etica;
Socrate e i socratici respinsero invece la cosmologia e l’ontologia e ridussero la filosofia alla sola
etica, alla dottrina della saggezza; con Platone e Aristotele, l’ontologia (che divenne metafisica)
tornò ad essere momento essenziale della filosofia e su di essa fu fondata l’etica: la superiorità
dell’ontologia (della dottrina che spiega le cause di tutta la realtà) sull’etica è chiarissima in
Platone e viene addirittura affermata a livello tematico in Aristotele. Epicuro, mentre riafferma la
necessità dell’ontologia come fondamento dell’etica, capovolge la gerarchia platonico-aristotelica
e dichiara l’etica superiore alla fisica, e quindi all’ontologia. Alla scienza e alla sophía viene
sovraordinata la phrónesis, la saggezza.
Il problema della vita diventa, per Epicuro, il problema per eccellenza, tutto il resto viene
finalizzato alla soluzione di questo problema. Inoltre, ad Epicuro non interessa solo la soluzione
teoretica del problema, ma anche la messa in pratica dell’etica: in certi testi, anzi, Epicuro
sembrerebbe soprattutto preoccupato di questa messa in pratica, specialmente allorché di rivolge
ai discepoli. Costoro sono i privilegiati nell’insegnamento orale e negli scritti. Ad essi è riservato il
Giardino quale luogo di meditazione ed esercizio dell’etica, di addestramento alla missione. Forte
è la tendenza della filosofia epicurea a diventare e anzi a porsi senz’altro come una fede o
piuttosto una religione laica. I frammenti che sopravvivono ci informano sulla diffusione del
movimento anche durante la vita del fondatore. Sappiamo di lettere agli amici di Lampsaco, agli
amici di Egitto, agli amici in Asia, ai filosofi di Mitilene. Nella letteratura epistolare indirizzata alle
sue comunità sparse qua e là Epicuro sembra il precursore di San Paolo.
Il nuovo ethos, di contro a quello tradizionale radicato nella polis, si fonda sul singolo uomo,
sull’uomo privato: è l’ethos dell’individuo. Socrate, Platone e Aristotele insegnavano la “virtù
politica”, vale a dire la virtù che perfezionava l’uomo come cittadino. La nuova virtù che Epicuro
insegna è la virtù dell’uomo privato, la virtù che perfeziona l’uomo come individuo, ossia l’uomo
per sé considerato, al di fuori della sua convivenza in uno Stato. Epicuro contesta definitivamente
l’identificazione dell’uomo col cittadino; anzi, condanna la politica come “inutile affanno” e
proclama la validità e l’eccellenza del “vivere nascosto”, appartato e lontano dal tumulto della
politica. La sua è la risposta alla crisi della polis e alla condizione sociale dell’intellettuale quale
suddito e non più guida morale. E’ significativo, proprio per questi motivi, che l’epicureismo a
Roma si diffuse largamente proprio con la crisi degli istituti repubblicani.
Da Epicuro la “canonica”, ovvero i criteri della logica e della conoscenza, che si fonda sulla
sensazione (Massime capitali ed Epistola a Erodoto), e la “fisica” (Epistola a Erodoto ed Epistola a
Pitocle), che si fonda sulla teoria dell’atomismo eleatico e democriteo accuratamente rivisitato
(clinamen), sono concepite funzionali alla dottrina etica, di cui tratta appunto nell’Epistola a
Meneceo.
L’etica epicurea
L'etica epicurea è in generale una derivazione di quella cirenaica. La felicità consiste nel piacere: “il
piacere è il principio e il fine della vita beata”, dice Epicuro (Diog. L., X, 149). Il piacere è infatti il
criterio della scelta e dell'avversione: si tende al piacere, si sfugge il dolore. Esso è pure il criterio
col quale valutiamo ogni bene. Ma vi sono due specie di piaceri: il piacere stabile (catastematico),
che consiste nella privazione del dolore, e il piacere in movimento (dinamico), che consiste nella
1
gioia e nell'allegria. La felicità consiste soltanto nel piacere stabile o negativo, “nel non soffrire e
nel non agitarsi” ed è quindi definita come atarassía (assenza di turbamento) e aponía (assenza di
dolore). Il significato di questi due termini oscilla tra la temporanea liberazione dal dolore del
bisogno e l’assoluta mancanza di dolore. In polemica con i Cirenaici, che affermavano la positività
del piacere, Epicuro esplicitamente dice che “il culmine del piacere è la pura e semplice distruzione
del dolore”.
Questo carattere negativo del piacere impone la scelta e la limitazione dei bisogni. Epicuro
distingue i bisogni naturali e quelli inutili; dei bisogni naturali alcuni sono necessari, altri no. Di
quelli che sono naturali e necessari, alcuni sono necessari alla felicità, altri alla salute del corpo,
altri alla vita stessa. Solo i desideri naturali e necessari vanno appagati, gli altri vanno abbandonati
e rimossi. L'epicureismo vuole quindi non l’abbandono al piacere, ma il calcolo e la misura dei
piaceri. Bisogna rinunciare ai piaceri da cui deriva un dolore maggiore e sopportare anche a lungo i
dolori da cui deriva un piacere maggiore. “Ad ogni desiderio bisogna porre la domanda: che cosa
avverrà se esso viene appagato? Che cosa avverrà se non viene appagato? Soltanto l'accorto
calcolo dei piaceri può far sì che l'uomo basti a se stesso e non divenga schiavo dei bisogni e della
preoccupazione per il futuro. Ma questo calcolo può esser dovuto solo alla saggezza (phrónesis).
La saggezza è anche più preziosa della filosofia, perché da essa nascono tutte le altre virtú e senza
di essa la vita non ha né dolcezza, né bellezza, né giustizia” (Ep. a Men., 132). Le virtù e
specialmente la saggezza, che è la prima e fondamentale di esse, appaiono così ad Epicuro come la
condizione necessaria della felicità. Soltanto dalla saggezza dipendono il calcolo dei piaceri, la
scelta e la limitazione dei bisogni e quindi il raggiungimento dell'atarassía e dell’aponía.
In un passo famoso dello scritto Sul fine, Epicuro afferma esplicitamente il carattere
sensibile di tutti i piaceri. “Per mio conto - egli dice - io non so concepire che cosa è il bene, se
prescindo dai piaceri del gusto, dai piaceri d'amore, dai piaceri dell'udito, da quelli che derivano
dalle belle immagini percepite dagli occhi e in generale da tutti i piaceri che gli uomini hanno dai
sensi. Non è vero che solo la gioia della mente è un bene; giacché la mente si rallegra nella
speranza dei piaceri sensibili, nel cui godimento la natura umana può liberarsi dal dolore” (Cicer.,
Tusc., III, 18, 42; fr. 69, Usener. Cfr. fr. 67, 63 e 70, Usener). È chiaro qui che il bene è ristretto
all'ambito del piacere sensibile al quale appartiene anche il piacere che si ricava dalla musica
(“piacere dei suoni”) e dalla contemplazione della bellezza (“piacere delle belle immagini”); e che il
piacere spirituale è ricondotto alla speranza dello stesso piacere sensibile. Forse l’impostazione
polemica del frammento (probabilmente diretto contro il Protreptico di Aristotele, che
platonicamente esaltava la superiorità del piacere spirituale), ha condotto Epicuro ad accentuare
la sua tesi della sensibilità del piacere; ma è chiaro che questa tesi deriva necessariamente dalla
sua dottrina logica che fa della sensazione il canone fondamentale della vita dell'uomo. Che il vero
bene non sia il piacere dinamico, ma quello catastematico dell'aponìa e dell'atarassìa non è cosa
che contraddica alla tesi della sensibilità del piacere, perché l’aponía è “il non soffrire nel corpo” e
l’atarassía è “il non essere turbati nell'anima” dalla preoccupazione del bisogno corporeo.
Ma con ciò la dottrina di Epicuro non si può confondere con un volgare edonismo.
Contraddirebbe a tale edonismo il culto dell'amicizia che fu caratteristico della dottrina e della
condotta pratica degli epicurei. “Di tutte le cose che la saggezza ci offre per la felicità della vita, la
più grande è di gran lunga l'acquisto dell'amicizia” (Mass. cap., 27). “L'amicizia è nata dall'utile ma
essa è un bene per sé. L'amico non è chi cerca sempre l'utile né chi non lo congiunge mai
all'amicizia: giacché il primo considera l’amicizia come un traffico di vantaggi, il secondo distrugge
la fiduciosa speranza di aiuto che è tanta parte dell'amicizia” (Sentenze Vaticane, 39, 34, Bignone).
2
Contraddirebbe pure a quell'edonismo l’esaltazione della saggezza. Sarebbe certo meglio, secondo
Epicuro, che la saggezza fosse resa in ogni caso prospera dalla fortuna; ma è sempre preferibile la
saggezza sfortunata alla dissennatezza fortunata (Ep. a Men., 135). Sebbene la giustizia sia
soltanto una convenzione che gli uomini hanno stretta fra loro per la comune utilità, cioè per
evitare di farsi reciprocamente danno, è ben difficile che il saggio si lasci andare a commettere
ingiustizia anche se è sicuro che il suo atto rimarrà nascosto e che perciò non gli arrecherà danno.
“Chi ha raggiunto il fine dell'uomo, anche se nessuno è presente, sarà ugualmente onesto” (fr.
533, Usener).
L’atteggiamento dell'epicureo verso gli uomini in generale è definito dalla massima: “È non solo
più bello ma anche più piacevole fare il bene anziché riceverlo» (fr. 544 Usener). In questa
massima il piacere assurge addirittura a fondamento e a giustificazione della solidarietà fra tutti
gli uomini. E difatti Diogene Laerzio ci testimonia l'amore di Epicuro per i genitori, la sua fedeltà
agli amici, il suo senso di solidarietà umana (X, 9).
Quanto alla vita politica, Epicuro riconosceva i vantaggi che essa procura agli uomini, tenendoli
obbligati a leggi che impediscono loro di nuocersi a vicenda. Ma consigliava al saggio di rimanere
estraneo alla vita politica. Il suo precetto è: “vivi nascosto” (fr. 551 Usener). L'ambizione politica
non può essere che fonte di turbamento e quindi ostacolo al raggiungimento dell’ atarassía.
(Nicola Abbagnano).
Giudizi su Epicuro
-
L’antiepicureismo di Cicerone
La scuola di Filodemo (Calpurnio Siculo, Orazio, Virgilio, ecc.)
La condanna cristiana per tutto il Medioevo (Dante)
La riscoperta e la valorizzazione degli intellettuali umanisti e rinascimentali (Poggio
Bracciolini, Lorenzo Valla; “il risorto pensier” del Leopardi)
L’interesse degli scienziati e pensatori del ‘600 e del ‘700
Il disinteresse dell’idealismo
Marx scrive la sua tesi di laurea su Epicuro
La rivalorizzazione dei positivisti e la prima edizione critica delle opere di Epicuro (H.
Usener)
L’attenzione e la ripresa soprattutto dell’etica epicurea da parte dell’esistenzialismo
(Kierkegaard, Heidegger, Jaspers, Sartre, Pareyson).
Introduzione all’Epistola a Meneceo
La lettera a Meneceo, commosso e potente compendio dell’etica epicurea, si apre con un elogio
della filosofia come richiesta e condizione di felicità, che essa assicura fornendo una duplice
garanzia del controllo del tempo: il riappropriarsi del passato attraverso la memoria culturale, e
del futuro attraverso l’abolizione della paura e la conquista della serenità.
Caposaldo dell’etica è l’idea di dio, “essere incorruttibile e beato”, ma queste qualificazioni non
devono essere formule di adulazione enfatica, vuote di senso, bensì principi ermeneutici ai quali
serbare coerenza, senza attribuire quindi al dio nessuna azione e funzione in contraddizione con
essi (dalla lettera ad Erodoto sappiamo che la “fatica” di organizzare il sistema dei corpi celesti è
considerata da Epicuro incomparabile con l’incorruttibilità e la beatitudine): in questa
contraddizione è la vera empietà che Epicuro respinge sdegnosamente da sé con la coscienza di
chi sa di dover affrontare critiche ingenerose, faziose e strumentali. Alla divinità va invece
3
accreditata una “totale familiarità con le proprie virtù e attraverso di essa un rapporto di amicizia e
somiglianza con gli uomini”.
Altrettanto fondamentale è il rapporto con la morte: come si sa, la soluzione epicurea consiste
nello svuotare la morte definendola in via puramente negativa, come negazione della sensazione,
e quindi come non-pertinenza degli uomini: “quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la
morte non ci siamo più noi”. Non è un male, e dunque cessando il timore di essa cessa il desiderio
di immortalità, ed è godibile, dice splendidamente Epicuro, la mortalità della vita; non è neppure
un bene e quindi non si deve rifiutare la vita. L’obiezione attendibile che, se la morte è il nulla, è
però una realtà dolorosamente tangibile e vissuta l’attesa della morte, è risolta da Epicuro
bollando come irrazionale l’attesa del nulla. E di fronte a qualcosa che non ci riguarda non hanno
senso le diverse prospettive dettate dall’erronea attesa, e soprattutto la distinzione tra giovane e
vecchio, che sono uguali da questo punto di vista come uguali erano stati dichiarati di fronte al
dovere della filosofia, cioè dell’autocoscienza.
Segue poi l’affermazione dei canoni del bene e del male: bene primo è il piacere, male primo è il
dolore (distinto in sofferenza fisica e turbamento psichico). Tuttavia la vita umana non si
costituisce attraverso adesioni totalitarie ai valori, ma attraverso una sequenza di scelte
comparative: e in tal senso non tutti i piaceri sono da scegliere quando in prospettiva comportino
un versante negativo, e con lo stesso criterio neppure tutti i dolori sono da evitare. E’ necessaria
una gerarchia dei piaceri che prevede l’opposizione tra desideri naturali e vani, e all’interno dei
naturali ne distingue prioritariamente alcuni necessari. Epicuro può dunque a buon diritto
respingere l’immagine vulgata (e che sempre più sarebbe diventata) del filosofo epicureo dedito
alle gozzoviglie. Al contrario si dà grandissimo valore all’autosufficienza, fondata essenzialmente
sulla scarsezza dei bisogni, e si stabilisce una ferrea interdipendenza tra la felicità e la virtù, con
particolare riguardo alla saggezza.
L’ultima parte della lettera, che riassume i valori morali in un’appassionata affermazione di sé,
sfocia in una polemica difesa della libertà dell’uomo. Il bersaglio polemico è “il destino degli
scienziati”, un feticcio peggiore degli dei, dice beffardamente Epicuro, perché non corruttibile con
le preghiere. Nel mondo epicureo c’è posto per la necessità, per il caso e per la fortuna, che non è
una divinità (non foss’altro che perché si intriga nelle vicende umane), ma non può essere negata:
da lei derivano i “principi” dei beni e dei mali, cioè un quadro situazionale dentro cui all’uomo
viene conservato un margine di intervento guidato dal valore etico-intellettuale della saggezza.
(Guido Paduano)
Si può ben dire che nella lettera a Meneceo sulla felicità si possono cogliere in embrione alcuni
tratti salienti dell’intellettuale laico moderno e contemporaneo (dall’illuminismo in poi).
Il testo della Lettera a Meneceo
ἐπιστολὴ
πρὸς Μενοικέα
περὶ τῶν βιωτικῶν
_______________________________
4
[121] Ἐπίκουρος Μενοικεῖ χαίρειν.
[122] Μήτε νέος τις ὢν μελλέτω φιλοσοφεῖν, μήτε γέρων ὑπάρχων
κοπιάτω φιλοσοφῶν. οὔτε γὰρ ἄωρος οὐδείς ἐστιν οὔτε πάρωρος πρὸς
τὸ κατὰ ψυχὴν ὑγιαῖνον. ὁ δὲ λέγων ἢ μήπω τοῦ φιλοσοφεῖν
ὑπάρχειν ὥραν ἢ παρεληλυθέναι τὴν ὥραν ὅμοιός ἐστι τῶι λέγοντι
πρὸς εὐδαιμονίαν ἢ μὴ παρεῖναι τὴν ὥραν ἢ μηκέτι εἶναι. ὥστε
φιλοσοφητέον καὶ νέωι καὶ γέροντι, τῶι μὲν ὅπως γηράσκων νεάζηι
τοῖς ἀγαθοῖς διὰ τὴν χάριν τῶν γεγονότων, τῶι δὲ ὅπως νέος ἅμα καὶ
παλαιὸς ἦι διὰ τὴν ἀφοβίαν τῶν μελλόντων· μελετᾶν οὖν χρὴ τὰ
ποιοῦντα τὴν εὐδαιμονίαν, εἴπερ παρούσης μὲν αὐτῆς πάντα ἔχομεν,
ἀπούσης δὲ πάντα πράττομεν εἰς τὸ ταύτην ἔχειν.
[123] Ἃ δέ σοι συνεχῶς παρήγγελλον, ταῦτα καὶ πρᾶττε καὶ μελέτα,
στοιχεῖα τοῦ καλῶς ζῆν ταῦτ' εἶναι διαλαμβάνων. Πρῶτον μὲν τὸν
θεὸν ζῶιον ἄφθαρτον καὶ μακάριον νομίζων, ὡς ἡ κοινὴ τοῦ θεοῦ
νόησις ὑπεγράφη, μηθὲν μήτε τῆς ἀφθαρσίας ἀλλότριον μήτε τῆς
μακαριότητος ἀνοίκειον αὐτῶι πρόσαπτε· πᾶν δὲ τὸ φυλάττειν αὐτοῦ
δυνάμενον τὴν μετὰ ἀφθαρσίας μακαριότητα περὶ αὐτὸν δόξαζε.
θεοὶ μὲν γὰρ εἰσίν· ἐναργὴς γὰρ αὐτῶν ἐστιν ἡ γνῶσις· οἵους δ'
αὐτοὺς ‹οἱ› πολλοὶ νομίζουσιν, οὐκ εἰσίν· οὐ γὰρ φυλάττουσιν αὐτοὺς
οἵους νομίζουσιν. ἀσεβὴς δὲ οὐχ ὁ τοὺς τῶν πολλῶν θεοὺς ἀναιρῶν,
ἀλλ' ὁ τὰς τῶν πολλῶν δόξας θεοῖς προσάπτων. [124] οὐ γὰρ
προλήψεις εἰσὶν ἀλλ' ὑπολήψεις ψευδεῖς αἱ τῶν πολλῶν ὑπὲρ θεῶν
ἀποφάσεις. ἔνθεν αἱ μέγισται βλάβαι ἐκ θεῶν ἐπάγονται καὶ
ὠφέλειαι ‹τοῖς ἀγαθοῖς›. ταῖς γὰρ ἰδίαις οἰκειούμενοι διὰ παντὸς
ἀρεταῖς τοὺς ὁμοίους ἀποδέχονται, πᾶν τὸ μὴ τοιοῦτον ὡς ἀλλότριον
νομίζοντες.
Συνέθιζε δὲ ἐν τῶι νομίζειν μηδὲν πρὸς ἡμᾶς εἶναι τὸν θάνατον ἐπεὶ
πᾶν ἀγαθὸν καὶ κακὸν ἐν αἰσθήσει· στέρησις δέ ἐστιν αἰσθήσεως ὁ
θάνατος. ὅθεν γνῶσις ὀρθὴ τοῦ μηθὲν εἶναι πρὸς ἡμᾶς τὸν θάνατον
ἀπολαυστὸν ποιεῖ τὸ τῆς ζωῆς θνητόν, οὐκ ἄπειρον προστιθεῖσα
χρόνον, ἀλλὰ τὸν τῆς ἀθανασίας ἀφελομένη πόθον. [125] οὐθὲν γάρ
ἐστιν ἐν τῶι ζῆν δεινὸν τῶι κατειληφότι γνησίως τὸ μηδὲν ὑπάρχειν
ἐν τῶι μὴ ζῆν δεινόν. ὥστε μάταιος ὁ λέγων δεδιέναι τὸν θάνατον οὐχ
ὅτι λυπήσει παρών, ἀλλ' ὅτι λυπεῖ μέλλων. ὃ γὰρ παρὸν οὐκ ἐνοχλεῖ,
προσδοκώμενον κενῶς λυπεῖ. τὸ φρικωδέστατον οὖν τῶν κακῶν ὁ
θάνατος οὐθὲν πρὸς ἡμᾶς, ἐπειδήπερ ὅταν μὲν ἡμεῖς ὦμεν, ὁ
θάνατος οὐ πάρεστιν, ὅταν δὲ ὁ θάνατος παρῆι, τόθ' ἡμεῖς οὐκ ἐσμέν.
οὔτε οὖν πρὸς τοὺς ζῶντάς ἐστιν οὔτε πρὸς τοὺς τετελευτηκότας,
ἐπειδήπερ περὶ οὓς μὲν οὐκ ἔστιν, οἳ δ' οὐκέτι εἰσίν. Ἀλλ' οἱ πολλοὶ
5
τὸν θάνατον ὁτὲ μὲν ὡς μέγιστον τῶν κακῶν φεύγουσιν, ὁτὲ δὲ ὡς
ἀνάπαυσιν τῶν ἐν τῶι ζῆν ‹κακῶν αἱροῦνται. ὁ δὲ σοφὸς οὔτε
παραιτεῖται τὸ ζῆν› [126] οὔτε φοβεῖται τὸ μὴ ζῆν· οὔτε γὰρ αὐτῶι
προσίσταται τὸ ζῆν οὔτε δοξάζεται κακὸν εἶναί τι τὸ μὴ ζῆν. ὥσπερ δὲ
τὸ σιτίον οὐ τὸ πλεῖον πάντως ἀλλὰ τὸ ἥδιστον αἱρεῖται, οὕτω καὶ
χρόνον οὐ τὸν μήκιστον ἀλλὰ τὸν ἥδιστον καρπίζεται. Ὁ δὲ
παραγγέλλων τὸν μὲν νέον καλῶς ζῆν, τὸν δὲ γέροντα καλῶς
καταστρέφειν, εὐήθης ἐστὶν οὐ μόνον διὰ τὸ τῆς ζωῆς ἀσπαστόν,
ἀλλὰ καὶ διὰ τὸ τὴν αὐτὴν εἶναι μελέτην τοῦ καλῶς ζῆν καὶ τοῦ
καλῶς ἀποθνῄσκειν. πολὺ δὲ χείρων καὶ ὁ λέγων καλὸν μὲν μὴ
φῦναι,
φύντα δ' ὅπως ὤκιστα πύλας Ἀίδαο περῆσαι.
[Θέογνις, 427]
[127] εἰ μὲν γὰρ πεποιθὼς τοῦτό φησιν, πῶς οὐκ ἀπέρχεται ἐκ τοῦ
ζῆν; ἐν ἑτοίμωι γὰρ αὐτῶι τοῦτ' ἐστίν, εἴπερ ἦν βεβουλευμένον αὐτῶι
βεβαίως· εἰ δὲ μωκώμενος, μάταιος ἐν τοῖς οὐκ ἐπιδεχομένοις.
Μνημονευτέον δὲ ὡς τὸ μέλλον οὔτε πάντως ἡμέτερον οὔτε πάντως
οὐχ ἡμέτερον, ἵνα μήτε πάντως προσμένωμεν ὡς ἐσόμενον μήτε
ἀπελπίζωμεν ὡς πάντως οὐκ ἐσόμενον.
Ἀναλογιστέον δὲ ὡς τῶν ἐπιθυμιῶν αἱ μέν εἰσι φυσικαί, αἱ δὲ κεναί,
καὶ τῶν φυσικῶν αἱ μὲν ἀναγκαῖαι, αἱ δὲ φυσικαὶ μόνον· τῶν δὲ
ἀναγκαίων αἱ μὲν πρὸς εὐδαιμονίαν εἰσὶν ἀναγκαῖαι, αἱ δὲ πρὸς τὴν
τοῦ σώματος ἀοχλησίαν, αἱ δὲ πρὸς αὐτὸ τὸ ζῆν. [128] τούτων γὰρ
ἀπλανὴς θεωρία πᾶσαν αἵρεσιν καὶ φυγὴν ἐπανάγειν οἶδεν ἐπὶ τὴν
τοῦ σώματος ὑγίειαν καὶ τὴν τῆς ψυχῆς ἀταραξίαν, ἐπεὶ τοῦτο τοῦ
μακαρίως ζῆν ἐστι τέλος. τούτου γὰρ χάριν πάντα πράττομεν, ὅπως
μήτε ἀλγῶμεν μήτε ταρβῶμεν. ὅταν δὲ ἅπαξ τοῦτο περὶ ἡμᾶς
γένηται, λύεται πᾶς ὁ τῆς ψυχῆς χειμών, οὐκ ἔχοντος τοῦ ζώιου
βαδίζειν ὡς πρὸς ἐνδέον τι καὶ ζητεῖν ἕτερον ὧι τὸ τῆς ψυχῆς καὶ τοῦ
σώματος ἀγαθὸν συμπληρώσεται. τότε γὰρ ἡδονῆς χρείαν ἔχομεν,
ὅταν ἐκ τοῦ μὴ παρεῖναι τὴν ἡδονὴν ἀλγῶμεν· ‹ὅταν δὲ μὴ ἀλγῶμεν›
οὐκέτι τῆς ἡδονῆς δεόμεθα.
Καὶ διὰ τοῦτο τὴν ἡδονὴν ἀρχὴν καὶ τέλος λέγομεν εἶναι τοῦ
μακαρίως ζῆν. [129] ταύτην γὰρ ἀγαθὸν πρῶτον καὶ συγγενικὸν
ἔγνωμεν, καὶ ἀπὸ ταύτης καταρχόμεθα πάσης αἱρέσεως καὶ φυγῆς,
καὶ ἐπὶ ταύτην καταντῶμεν ὡς κανόνι τῶι πάθει πᾶν ἀγαθὸν
κρίνοντες. Καὶ ἐπεὶ πρῶτον ἀγαθὸν τοῦτο καὶ σύμφυτον, διὰ τοῦτο
καὶ οὐ πᾶσαν ἡδονὴν αἱρούμεθα, ἀλλ' ἔστιν ὅτε πολλὰς ἡδονὰς
6
ὑπερβαίνομεν, ὅταν πλεῖον ἡμῖν τὸ δυσχερὲς ἐκ τούτων ἕπηται· καὶ
πολλὰς ἀλγηδόνας ἡδονῶν κρείττους νομίζομεν, ἐπειδὰν μείζων
ἡμῖν ἡδονὴ παρακολουθῆι πολὺν χρόνον ὑπομείνασι τὰς ἀλγηδόνας.
πᾶσα οὖν ἡδονὴ διὰ τὸ φύσιν ἔχειν οἰκείαν ἀγαθόν, οὐ πᾶσα μέντοι
αἱρετή· καθάπερ καὶ ἀλγηδὼν πᾶσα κακόν, οὐ πᾶσα δὲ ἀεὶ φευκτὴ
πεφυκυῖα. [130] τῆι μέντοι συμμετρήσει καὶ συμφερόντων καὶ
ἀσυμφόρων βλέψει ταῦτα πάντα κρίνειν καθήκει. χρώμεθα γὰρ τῶι
μὲν ἀγαθῶι κατά τινας χρόνους ὡς κακῶι, τῶι δὲ κακῶι τοὔμπαλιν
ὡς ἀγαθῶι.
Καὶ τὴν αὐτάρκειαν δὲ ἀγαθὸν μέγα νομίζομεν, οὐχ ἵνα πάντως τοῖς
ὀλίγοις χρώμεθα, ἀλλ' ὅπως ἐὰν μὴ ἔχωμεν τὰ πολλά, τοῖς ὀλίγοις
ἀρκώμεθα, πεπεισμένοι γνησίως ὅτι ἥδιστα πολυτελείας
ἀπολαύουσιν οἱ ἥκιστα ταύτης δεόμενοι, καὶ ὅτι τὸ μὲν φυσικὸν πᾶν
εὐπόριστόν ἐστι, τὸ δὲ κενὸν δυσπόριστον, ὅι τε λιτοὶ χυλοὶ ἴσην
πολυτελεῖ διαίτηι τὴν ἡδονὴν ἐπιφέρουσιν, ὅταν ἅπαν τὸ ἀλγοῦν κατ'
ἔνδειαν ἐξαιρεθῆι, [131] καὶ μᾶζα καὶ ὕδωρ τὴν ἀκροτάτην
ἀποδίδωσιν ἡδονήν, ἐπειδὰν ἐνδέων τις αὐτὰ προσενέγκηται. τὸ
συνεθίζειν οὖν ἐν ταῖς ἁπλαῖς καὶ οὐ πολυτελέσι διαίταις καὶ ὑγιείας
ἐστὶ συμπληρωτικὸν καὶ πρὸς τὰς ἀναγκαίας τοῦ βίου χρήσεις
ἄοκνον ποιεῖ τὸν ἄνθρωπον καὶ τοῖς πολυτελέσιν ἐκ διαλειμμάτων
προσερχομένοις κρεῖττον ἡμᾶς διατίθησι καὶ πρὸς τὴν τύχην
ἀφόβους παρασκευάζει.
Ὅταν οὖν λέγωμεν ἡδονὴν τέλος ὑπάρχειν, οὐ τὰς τῶν ἀσώτων
ἡδονὰς καὶ τὰς ἐν ἀπολαύσει κειμένας λέγομεν, ὥς τινες ἀγνοοῦντες
καὶ οὐχ ὁμολογοῦντες ἢ κακῶς ἐκδεχόμενοι νομίζουσιν, ἀλλὰ τὸ μήτε
ἀλγεῖν κατὰ σῶμα μήτε ταράττεσθαι κατὰ ψυχήν· [132] οὐ γὰρ πότοι
καὶ κῶμοι συνείροντες οὐδ' ἀπολαύσεις παίδων καὶ γυναικῶν οὐδ'
ἰχθύων καὶ τῶν ἄλλων, ὅσα φέρει πολυτελὴς τράπεζα, τὸν ἡδὺν
γεννᾶι βίον, ἀλλὰ νήφων λογισμὸς καὶ τὰς αἰτίας ἐξερευνῶν πάσης
αἱρέσεως καὶ φυγῆς καὶ τὰς δόξας ἐξελαύνων, ἐξ ὧν πλεῖστος τὰς
ψυχὰς καταλαμβάνει θόρυβος.
Τούτων δὲ πάντων ἀρχὴ καὶ τὸ μέγιστον ἀγαθὸν φρόνησις. διὸ καὶ
φιλοσοφίας τιμιώτερον ὑπάρχει φρόνησις, ἐξ ἧς αἱ λοιπαὶ πᾶσαι
πεφύκασιν ἀρεταί, διδάσκουσα ὡς οὐκ ἔστιν ἡδέως ζῆν ἄνευ τοῦ
φρονίμως καὶ καλῶς καὶ δικαίως, ‹οὐδὲ φρονίμως καὶ καλῶς καὶ
δικαίως› ἄνευ τοῦ ἡδέως. συμπεφύκασι γὰρ αἱ ἀρεταὶ τῶι ζῆν ἡδέως
καὶ τὸ ζῆν ἡδέως τούτων ἐστὶν ἀχώριστον.
[133] Ἐπεὶ τίνα νομίζεις εἶναι κρείττονα τοῦ καὶ περὶ θεῶν ὅσια
δοξάζοντος καὶ περὶ θανάτου διὰ παντὸς ἀφόβως ἔχοντος καὶ τὸ τῆς
7
φύσεως ἐπιλελογισμένου τέλος, καὶ τὸ μὲν τῶν ἀγαθῶν πέρας ὡς
ἔστιν εὐσυμπλήρωτόν τε καὶ εὐπόριστον διαλαμβάνοντος, τὸ δὲ τῶν
κακῶν ὡς ἢ χρόνους ἢ πόνους ἔχει βραχεῖς; τὴν δὲ ὑπό τινων
δεσπότιν εἰσαγομένην πάντων ἐγγελῶντος ‹εἱμαρμένην; οὗτος γὰρ
ἑαυτὸν παρέχει τῶν πραχθέντων ὑπεύθυνον, ἃ μὲν κατ' ἀνάγκην
γίνεσθαι τιθέμενος,› ἃ δὲ ἀπὸ τύχης, ἃ δὲ παρ' ἡμᾶς, διὰ τὸ τὴν μὲν
ἀνάγκην ἀνυπεύθυνον εἶναι, τὴν δὲ τύχην ἄστατον ὁρᾶν, τὸ δὲ παρ'
ἡμᾶς ἀδέσποτον, ὧι καὶ τὸ μεμπτὸν καὶ τὸ ἐναντίον παρακολουθεῖν
πέφυκεν. [134] ἐπεὶ κρεῖττον ἦν τῶι περὶ θεῶν μύθωι κατακολουθεῖν
ἢ τῆι τῶν φυσικῶν εἱμαρμένηι δουλεύειν· ὁ μὲν γὰρ ἐλπίδα
παραιτήσεως ὑπογράφει θεῶν διὰ τιμῆς, ἣ δὲ ἀπαραίτητον ἔχει τὴν
ἀνάγκην. τὴν δὲ τύχην οὔτε θεόν, ὡς οἱ πολλοὶ νομίζουσιν,
ὑπολαμβάνων, - οὐθὲν γὰρ ἀτάκτως θεῶι πράττεται - οὔτε ἀβέβαιον
αἰτίαν, οὐκ οἴεται μὲν γὰρ ἀγαθὸν ἢ κακὸν ἐκ ταύτης πρὸς τὸ
μακαρίως ζῆν ἀνθρώποις δίδοσθαι, ἀρχὰς μέντοι μεγάλων ἀγαθῶν ἢ
κακῶν ὑπὸ ταύτης χορηγεῖσθαι· [135] κρεῖττον εἶναι νομίζων
εὐλογίστως ἀτυχεῖν ἢ ἀλογίστως εὐτυχεῖν· βέλτιον γὰρ ἐν ταῖς
πράξεσι τὸ καλῶς κριθὲν ‹μὴ ὀρθωθῆναι ἢ τὸ μὴ καλῶς κριθὲν›
ὀρθωθῆναι διὰ ταύτην.
Ταῦτα οὖν καὶ τὰ τούτοις συγγενῆ μελέτα πρὸς σεαυτὸν ἡμέρας καὶ
νυκτὸς ‹καὶ› πρὸς τὸν ὅμοιον σεαυτῶι, καὶ οὐδέποτε οὔθ' ὕπαρ οὔτ'
ὄναρ διαταραχθήσηι, ζήσηι δὲ ὡς θεὸς ἐν ἀνθρώποις. οὐθὲν γὰρ ἔοικε
θνητῶι ζώιωι ζῶν ἄνθρωπος ἐν ἀθανάτοις ἀγαθοῖς.
____________
Textus: Arrighetti 121 - 135
Fons: Epikur. Briefe, Sprüche, Werkfragmente
ed. Hans-Wolfgang Krautz, Stuttgart 1980
Traduzione
Meneceo,
mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello
occuparsi del benessere dell'animo nostro. Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di
dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è
ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l'età. Ecco che da giovani come da vecchi
8
è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo
avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti
in essa, per prepararci a non temere l'avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la
felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per possederla.
Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice.
Prima di tutto considera l'essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce
la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre
vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla
felicità. Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è
portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha. Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione
popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità. Tali giudizi, che non ascoltano le
nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false. A seconda di come si pensa che gli dei siano,
possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che
essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo.
Poi abìtuati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il
soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L'esatta coscienza che
la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, senza l'inganno del tempo
infinito che è indotto dal desiderio dell'immortalità. Non esiste nulla di terribile nella vita per chi
davvero sappia che nulla c'è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver
paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l'affligge la sua
continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La
morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è,
quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti
non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie
ai mali che vive. Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, cosi non teme di non vivere più. La
vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la
quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce. Chi ammonisce poi il giovane a vivere
bene e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c'è sempre nella vita, anche da
vecchi, ma perché una sola è la meditazione di una vita bella e di una bella morte. Ancora peggio
chi va dicendo: bello non essere mai nato, ma, nato, al più presto varcare la soglia della morte. Se
è cosi convinto perché non se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta se è veramente il suo
desiderio. Invece se lo dice cosi per dire fa meglio a cambiare argomento. Ricordiamoci poi che il
futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro. Solo cosi possiamo non aspettarci
che assolutamente s'avveri, né allo stesso modo disperare del contrario.
Cosi pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono
inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto. Ma fra i necessari
alcuni sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita. Una
chiara conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla
perfetta serenità dell'animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo
ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall'ansia. Una volta raggiunto questo
stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna
cosa, altro non deve cercare per il bene dell'animo e del corpo. Infatti proviamo bisogno del
piacere quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece non soffriamo non ne abbiamo
bisogno. Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo
9
riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e
scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore. È bene primario e naturale per
noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene tralasciarne alcuni da cui può venirci
più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più
grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo. Ogni piacere dunque è bene per sua
intima natura, ma noi non li scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti
sono sempre da fuggire. Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e
dei danni. Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene.
Consideriamo inoltre una gran cosa l'indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba
accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto,
convinti come siamo che l'abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. In
fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l'inutile è difficile. I sapori semplici danno
lo stesso piacere dei più raffinati, l'acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne
manca.
Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d'apprensione verso i bisogni della vita ma
anche, quando ad intervalli ci capita di menare un'esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa
condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte.
Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci,
come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma
quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno. Perché non sono di per se stessi i
banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca
tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto,
al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l'animo causa di immensa sofferenza.
Di tutto questo, principio e bene supremo è l'intelligenza delle cose, perciò tale genere di
intelligenza è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci
aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita
intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa
inseparabili. Chi suscita più ammirazione di colui che ha un'opinione corretta e reverente riguardo
agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che
realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono duramente affliggono per
poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare? Questo genere d'uomo
sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose
accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è
irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi
biasimo o lode. Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai
racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell'atroce,
inflessibile necessità. La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa – la divinità non
fa nulla a caso – e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun
bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l'avvio a grandi beni o mali. Però
è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un
bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato.
Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai
sarai preda dell'ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale
l'uomo che vive fra beni beni immortali.
10
11