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RASSEGNA STAMPA
giovedì 3 luglio 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
del 03/07/14, pag. 14
Medio Oriente
Basta violenze
In queste ore i pensieri corrono veloci verso quella terra che alcuni chiamano santa.
Corrono i pensieri e vanno verso le persone che per quella terra soffrono, che su quella
terra vivono e muoiono. E nei nostri pensieri temiamo che la sofferenza quotidiana inflitta
da un’ingiusta occupazione diventi morte e distruzione di massa, diventi colata di “piombo
fuso” sopra i civili inermi.
Non lo sopporteremmo ancora una volta, non sopporteremo una prova di forza assoluta
come vendetta e non sopporteremo la nostra incapacità di reagire di fronte al dolore e
all’ingiustizia. E questo senza pensare ai molti amici che abbiamo in quel pezzo di terra.
A tutte quelle persone con cui abbiamo condiviso esperienze e che ci hanno insegnato
cosa significa portare avanti una ‘resistenza’ nel 2014, cosa significa mantenere la propria
dignità nell’assenza di libertà, non avere il coraggio di raccontare che il proprio figlio è
stato arrestato mentre faceva un giro con gli amici, né riuscire a parlare della delusione
causata dalla debolezza di una classe politica in cui un giorno si era pure creduto.
Sopportare ogni giorno le umiliazioni inflitte dai soldati, curarsi le ferite, ricostruire le case
distrutte, aspettare che aprano un cancello per andare a scuola o a coltivare i propri
campi, accogliere lo straniero di turno, solidale e compagno, che prima o poi potrà sempre
andar via.
Questo fanno ogni giorno i palestinesi, senza impazzire. I bambini, gli anziani, donne e
uomini, vivono, sopravvivono e convivono con un’occupazione illegale che porta via loro
sempre più terra e più speranze. Questa è la realtà e non è una giustificazione per quello
che è successo. Perché non possiamo giustificare mai la violenza e la morte.
Non possiamo giustificare chi uccide né chi vuol far scontare la colpa per questa terribile
uccisione a un intero popolo. Non si giustificano mai le vittime che diventano carnefici né
chi ogni volta annienta, con azioni terribili, il lavoro dei molti che ogni giorno costruiscono
ponti e relazioni per sconfiggere l’isolamento e l’odio. Infine, non possiamo giustificare chi
crea e diffonde la cultura del più forte, della verità assoluta che si trasforma in fanatismo. E
quindi in queste ore il pensiero va soprattutto alle vittime. Quelle che hanno spazio
mediatico e quelle avvolte nel silenzio. Quelle che hanno libertà di movimento e quelle che
chiuse in una striscia di terra aspettano che un giorno tutto questo abbia fine.
Arci
Da Redattore Sociale del 02/07/14
Accoglienza, Miraglia: “Si procede a tentoni,
migranti spinti ad andare via”
ROMA – “Ormai si procede a tentoni, cercando di recuperare posti in fretta e furia e
continuando a sprecare risorse, senza per questo garantire standard di accoglienza
dignitosi”. E’ duro i giudizio di Filippo Miraglia dell’Arci, sulla gestione dell’accoglienza in
Italia, a fronte di un continuo arrivo di migranti sulle nostre coste. Proprio in questi giorni il
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ministero dell’Interno ha diramato una circolare in cui si prorogano di alcuni mesi i
programmi (in scadenza il 30 giugno) avviati nelle strutture temporanee in attesa di un
nuovo bando di gara che dovrebbe assicurare una prosecuzione fino alla fine dell’anno.
“Si procede per inerzia – spiega Miraglia – si prorogano i posti per l’accoglienza
straordinaria, contestualmente si cerca di ampliare lo Sprar e si chiede alle regioni di
aprire gli hub da 100 posti. Ma quello che manca è un vero piano, per questo non si
capisce neanche questa continua richiesta all’Europa di aiutarci quando di fatto noi non
stiamo facendo la nostra parte”. Secondo il responsabile immigrazione dell’Arci c’è,
infatti, un presupposto sbagliato che va sfatato: “è vero che sono arrivate più persone di
altri anni e stiamo già superando la quota record di 60mila arrivi del 2011 – spiega -Ma la
maggior parte degli arrivi non vengono identificati, così soprattutto i siriani e gli eritrei,
sono liberi di cercare mete migliori dove li attendono parenti e amici, ma anche un sistema
accoglienza più adeguato. Negli altri paesi, infatti, c’è la certezza del diritto che da noi
manca”. Prassi comune vuole ormai che la maggior parte dei migranti, non vengano
identificati allo sbarco, in questo modo vengono “spinti” ad andare altrove con il bene
placito delle prefetture che chiudono un occhio anche per il sovraffollamento dei centri.
“Per chi viene accolto, invece, la situazione è molto difficile perché ormai siamo in
presenza di un sistema misto – aggiunge -Puoi capitare una struttura dove sei seguito
adeguatamente oppure finire in strada, è un terno al lotto”.
La situazione è dunque di “totale incertezza e non c’è una risposta uguale per tutti. E’ una
mala gestione che fa perdere mesi e fa buttare soldi pubblici”. Secondo il responsabile
dell’Arci servirebbe dunque un coordinamento maggiore, con l’ampliamento della rete
Sprar e una gestione che passa per gli enti locali che sono anche più controllabili. “Molte
cooperative per gestire l’accoglienza si sono organizzate con gli alberghi – spiega – ma
nelle strutture con grandi numeri c’è il rischio di far scendere gli standard di qualità e
anche il controllo è minore. Mentre sarebbe meglio inserire queste persone in una struttura
urbana normale, a numero limitato, perché mettendo 300 persone nello stesso hotel c’è il
rischio di una ghettizzazione”. Dunque secondo Miraglia “più che rinnovare i centri di
accoglienza straordinari bisogna aumentare i posti dello Sprar e i posti letto”. “Il ministero
sta cercando in fretta di recuperare posti ma la fretta porta a fare errori enormi – conclude
-si abbassano gli standard e si sprecano risorse pubbliche che in questo campo sono già
pochissime, non ce lo possiamo permettere”. (ec)
Da Immezcla_Storie di Naviganti del 03/07/14
Arci, Meeting internazionale antirazzista
Tutto pronto per il XX Meeting internazionale antirazzista”Abbraccio
Mediterraneo” organizzato dall'Arci, che si svolgerà il 9-10-11 e 12 lugio
a Cecina Mare (Livorno).
“Mediterraneo, spazio eternamente in divenire. Mai unità etnica, né linguistica, religiosa,
politica, o storica. Ma luogo di intreccio di culture, emozioni, conflitti e sfide, - dicono gli
organizzatori-. Oggi come ieri.
Oggi, però, quella natura di spazio aperto e plurale rischia di svanire.
Dal 1988, ha
rappresentato il sepolcro per 19.720 persone. Le immagini del naufragio del 3 ottobre
scorso a largo di Lampedusa generano ancora rabbia e orrore. Dal gennaio 2014, sono
oltre 170 le persone morte in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa, a largo di Grecia,
Libia, Italia e in acque internazionali.
Nonostante tutto questo, nonostante Frontex e i respingimenti, le persone che decidono di
lasciare le sponde Sud del Mediterraneo continuano ad aumentare, consapevoli di
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rischiare la loro vita.
Noi siamo impegnati a restituire al Mediterraneo la sua originaria e
storica vocazione. Sappiamo che questo compito è in capo innanzitutto all’Italia.
Il nostro
è il paese mediterraneo per eccellenza, siamo la sintesi delle culture mediterranee, siamo
stati protagonisti e parte integrante della storia e delle storie che hanno animato nei secoli
questo mare. Eppure oggi non siamo incapaci di accogliere, abbiamo ritirato i ponti
naturali che nel corso dei secoli avevamo costruito.
Al tempo stesso, tutti gli attori
dell’area, assieme a noi, sono chiamati a interrogarsi sulla transizione, a mettere al centro
delle loro azioni e riflessioni l’idea di cittadinanza e ad operare una scelta. Continuare a
chiudersi nella rivendicazione di una realtà nazionale, fondata sulle tradizioni culturali,
soprattutto religiose, e politiche di ognuno. Oppure costruire una nuova idea di
cittadinanza, fondata sull’eguaglianza sociale e sulla diversità e parità delle culture,
presenti e riconosciute anche entro i confini nazionali.
Crediamo che nel primo caso significa ribadire l’appartenenza al proprio territorio e
perpetuare conflitti per preservarne l’autenticità, escludendo tutti coloro che di quel
territorio non fanno parte.
Nel secondo caso significa ri-cominciare a pensare al bacino
del Mediterraneo come nuovo spazio pubblico da costruire nella diversità dei punti di vista,
delle storie e delle culture di ciascun paese, e nel riconoscimento di un “destino comune”
di tutti i popoli dell’area impegnati a realizzarlo e ad assumerlo.
Siamo convinti che
l’approccio delle condizionalità, in cui paesi più avanzati imponevano condizioni a quelli
meno sviluppati, sia fallito.
Abbiamo oggi l’occasione di essere il teatro di una nuova
transizione, che sappia affrontare e risolvere le contraddizioni geopolitiche che il nostro
tempo ci riserva.
Abbiamo l’occasione per riscoprire il senso e la ricchezza dell’abbraccio
mediterraneo.
La XX edizione del Meeting Internazionale Antirazzista vuole partire da questo abbraccio.
Venti anni di impegno nella costruzione di uno spazio comune di dibattito e confronto sul
tema dei diritti. Venti anni di incontri nella consapevolezza che è dal confronto tra
“differenti” che si cresce.
Abbraccio Mediterraneo quindi come incontro e crescita, in uno
spazio che sempre più ha l’esigenza di confrontarsi per costruire un vocabolario comune.
Il programma completo è scaricabile al link: http://meeting.arcitoscana.it/2014/wpcontent/uploads/programma-mia201.pdf
http://www.immezcla.it/notizie-immigrazione/item/480-arci,-meeting-internazionaleantirazzista.html
Da Repubblica.it (Bari) del 03/07/14
Giovinazzo rock dall'1 al 3 agosto,
sfoglia l'album di 15 anni di successi
La storia va avanti da ormai quindici anni, ma prima di annunciare gli ospiti della prossima
edizione, il Giovinazzo rock festival si concede qualche ricordo: in questa galleria di
immagini una selezione dei tanti artisti che si sono esibiti per la manifestazione estiva
organizzata dal circolo Arci Tressett, che conta sul prezioso contributo dei volontari. Da
Caparezza ai Blonde Redhead, passando per Bugo e i Tre Allegri Ragazzi Morti, I Ministri
e A Toys Orchestra, Giuliano Palma, la Bandabardò, Linea 77, Casino Royale, Brunori
Sas, Punkreas e Après la Classe, il Giovinazzo rock festival è sempre stato attento alle
esigenze di un pubblico vario, composto da giovani e famiglie, nonché dei turisti che si
fermano a Nord di Bari. Anche stavolta sarà a ingresso libero, si svolgerà dall’1 al 3 agosto
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e ospiterà anche band emergenti, che in questi giorni si stanno sfidando per conquistare la
finale
di ANNA PURICELLA
http://bari.repubblica.it/cronaca/2014/07/02/foto/giovinazzo_rock-90559182/1/#1
Da XL-Repubblica.it del 03/07/14
Enrico Fontanelli suona “Ancora”
Un piccolo (grande) festival con i compagni musicisti, gli amici, gli ammiratori per ricordare
Enrico Fontanelli, inventore di suoni negli OfflagaDiscoPax, scomparso lo scorso aprile
“Ancora” è il luogo dove ci ritroveremo per Enrico.
Lo faremo insieme alla famiglia, agli amici, ad alcuni degli artisti che hanno collaborato con
lui, agli altri membri degli OfflagaDiscoPax e insieme a tutti coloro che in qualche modo
sono stati coinvolti, sfiorati o convinti in questi anni dal suo lavoro, dal suo rigore creativo e
dalla sua umanità.
Perché “non ci sono percorsi, c’è da camminare”.
Ancora è un piccolo festival per Enrico Fontanelli che si terrà domenica 6 luglio a Mantova,
al Rivage (che sarebbe l’Arci Tom di Mantova in versione estiva), in viale Te n° 25. L’inizio
dei concerti è previsto per le ore 18,00 e si alterneranno e probabilmente mescoleranno
sul palco in ordine sparso:
Anna Magdalena (Milano)
Deborah Walker (Parigi)
Felpa (Daniele Carretti/OfflagaDiscoPax) (Reggio Emilia)
I Camillas (Pordenone)
Japanese Gum (Genova)
Selfimperfectionist (Torino)
Spartiti (Jukka Reverberi/Giardini di Mirò + Max Collini/OfflagaDiscoPax) (Reggio Emilia)
L’ingresso è a offerta libera e quanto raccolto nella serata verrà devoluto al reparto di
oncologia dell’Ospedale di Reggio Emilia.
http://xl.repubblica.it/articoli/enrico-fontanelli-suona-ancora/12099/
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ESTERI
Del 03/07/2014, pag. 14
Ucciso un palestinese “È la vendetta dei
coloni” scontri a Gerusalemme
Aveva 17 anni, rapito mentre tornava dalla moschea L’ira di Abu Mazen.
Netanyahu: “Basta rappresaglie”
FABIO SCUTO
GERUSALEMME
“KAFFIR, kaffir”, urlano gli amici di Mohammed mentre caricano con le pietre le frombole,
la kefiah nasconde i volti e li protegge dai lacrimogeni che la polizia da un paio d’ore sta
sparando senza risparmio sulla Shuafat Road. La strada che taglia in due questo quartiere
di Gerusalemme Est, abitato dai palestinesi, è un campo di battaglia, volano le molotov,
bruciano i copertoni d’auto. La loro rabbia è esplosa quando si è diffusa la notizia che
Mohamed Abu Khdeir, un ragazzo del quartiere di 17 anni, è stato ritrovato assassinato in
un parco dall’altra parte della città alle prime luci dell’alba. In quella che sembra una
vendetta per la morte dei tre seminaristi ebrei, rapiti e uccisi la sera del 12 giugno a
Hebron. Gli investigatori sono ancora cauti, ma tutto lascia pensare che si tratti di una
rappresaglia dei coloni, come dimostrano anche le aggressioni e gli scontri non solo qui a
Gerusalemme ma anche in altre zone di Israele. A fine giornata solo a Gerusalemme si
contano una settantina di feriti, cinquanta arresti. L’odio carsico che attraversa le due
comunità da ieri anche nella Città Santa è merce libera, scorre nelle strade, nei proclami di
vendette delle radio libere, il tam-tam è partito nei web site, su Facebook, su YouTube.
Guerriglia nei quartieri palestinesi nella zona Est, pestaggi e spedizioni punitive dei coloni
contro gli arabi-israeliani a Ovest. C’è stato un gruppo di militari in divisa che si è fatto
riprendere mentre inneggia alla morte degli arabi, ovunque e dovunque. Prende una
pericolosa velocità il divenire degli eventi che gli appelli del presidente Abu Mazen
da una parte e del premier israeliano dall’altra non sembrano in grado di arginare.
Il giovane Mohammed è stato bloccato all’alba di ieri — era appena uscito da una
moschea tra Shuafat e il vicino quartiere di Beit Hanina, dopo la prima preghiera del
mattino — e costretto a salire su un’automobile di colore nero. Racconta suo cugino che si
erano appena salutati, quando Mohammed è stato avvicinato da una Hyundai nera,
qualcuno gli ha detto qualcosa dal finestrino; poi è sceso e ha
spinto il giovane a bordo. «Proveniva dalla direzione di Pisgat Zeev (un insediamento di
coloni adiacente, ndr) ha fatto un’inversione ad U, lo hanno chiamato e poi l’hanno
costretto a salire a bordo. La gente si è accorta di quanto avveniva e ha cercato di
inseguire la macchina». Una sequenza da commando, con il tratto distintivo della
rappresaglia. Un ragazzo innocente, che andava alle superiori, che viveva in una modesta
casa che è proprio davanti alla battaglia in corso sulla strada, invasa dai fumi
nauseabondi dei gas lacrimogeni. L’odio si è preso la vita di Mohammed, come quella di
Naftali, Gilad e Eyal. Poteva prendersi Mousa, un ragazzino che già lunedì sera stava per
essere rapito sempre a Shuafat. La gente del quartiere racconta che alcuni coloni, a bordo
di auto Honda, avrebbero cercato di trascinare il bambino, Mousa Zalum, sulla vettura ed
è stato solo grazie all’immediato intervento della madre e alcuni passanti che il rapimento
non è stato portato a termine. La polizia israeliana ha aperto un’inchiesta e ha preso in
consegna il materiale video registrato dalle telecamere di sicurezza dei negozi circostanti.
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Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha condannato lo «spregevole omicidio», ha
definito l’assassinio del ragazzo palestinese come un «atto abominevole » e ha chiesto
alle forze di polizia di lavorare il più velocemente possibile per trovare i colpevoli
dell’omicidio del giovane, per evitare che si inneschi un meccanismo a catena di vendette
trasversali. Il presidente palestinese, Abu Mazen, gli aveva chiesto una ferma condanna,
così «come noi» — ha ricordato — «abbiamo condannato il sequestro e l’uccisione dei tre
ragazzi israeliani». Netanyahu ha lanciato un appello a tutte le parti: «Non fatevi giustizia
da soli, Israele è uno Stato di diritto e tutti devono rispettare la legge». Già lunedì sera la
polizia israeliana ha effettuato una cinquantina di arresti fra alcuni esponenti dei coloni e
degli ultras del Beit Jerusalem, squadristi noti per la loro xenofobia anti-araba. «Dobbiamo
formare una diga contro l’odio», dice il leader laburista e capo dell’opposizione, Haim
Herzog, e qualcuno raccoglie il ramoscello d’ulivo. E’ la famiglia di Naftali Frankel, uno dei
tre seminaristi assassinati da una banda di Hamas e sepolti solo due giorni fa. Dice Yishai
Frankel, lo zio di Naftali, che «non c’è differenza tra sangue e sangue. Se un giovane
arabo è stato ucciso per motivi nazionalistici è un atto orrendo e orribile, un assassinio è
un assassinio non importa la nazionalità o l’età».
Cavalca invece quest’ondata Hamas, che si è subito ri-appropriato del suo abituale
linguaggio fatto di proclami, minacce e promesse di morte. «Pagherete il prezzo per questi
crimini», avverte il movimento islamista da Gaza, che a sua volta nel mirino perché
considerato responsabile dell’uccisione dei ragazzi israeliani. I suoi leader nella Striscia
sono da giorni “nei rifugi” sottoterra approntati da tempo per queste emergenze. Sul
terreno restano i miliziani-lanciatori che attivano i missili che non cessano di cadere nel
sud di Israele, ieri altri cinque hanno fatto suonare le sirene di allarme in tutte le cittadine
circostanti la Striscia mentre la batteria antimissile “Iron Dome” entrava in funzione e i
caccia con la Stella di David tornavano a colpire.
del 03/07/14, pag. 1
L’abbraccio tra fondamentalisti
Zvi Schuldiner
Territori Occupati. Nelle ultime ore, giovani palestinesi che
protestavano contro questo assassinio si sono scontrati con le «forze
dell’ordine» a Gerusalemme, mentre in città gli attacchi razzisti contro i
palestinesi si sono moltiplicati.
Le Nazioni unite condannano con forza l’assassinio dei tre giovani israeliani rapiti da
fondamentalisti islamici (oppure no) nella regione di Hebron, nei territori occupati da
Israele. Ieri mattina è stato ritrovato il cadavere mutilato di un giovane palestinese di 17
anni che sarebbe stato rapito e poi ucciso da estremisti israeliani (oppure no).
Nelle ultime ore, giovani palestinesi che protestavano contro questo assassinio si sono
scontrati con le «forze dell’ordine»a Gerusalemme, mentre in città gli attacchi razzisti
contro i palestinesi si sono moltiplicati.
E pensare che, solo tre settimane, fa la situazione internazionale di Israele era più che
problematica, e anche a livello interno il primo ministro Netanyahu sembrava seriamente
delegittimato dai passi problematici che aveva compiuto nell’elezione, non molto
importante, del nuovo presidente di Israele. La coalizione governativa si stava incrinando,
mentre riprendevano terreno le forze moderate.
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La propaganda israeliana non sembrava riuscire a convincere il mondo a dire no alla
nuova coalizione di unità palestinese Fatah-Hamas. Anche in Israele si sentivano voci non
sfavorevoli a questa unità, e in Occidente e negli Stati uniti il consenso al nuovo governo
era in crescita.
Molti ritenevano – a ragione – che l’unità palestinese fosse un passo in una direzione
positiva.
Il sequestro è stato un regalo incredibile fatto al governo israeliano. Ha messo
immediatamente in moto tutto l’armamentario della propaganda, e ha dato il via a un
duplice processo: da un lato, un’enorme ondata di repressione contro attivisti di Hamas in
Cisgiordania, un grave colpo alla loro attività politica, sociale, culturale ed educativa.
D’altra parte, una demonizzazione costante destinata non solo all’opinione pubblica di
Israele ma anche a quella internazionale. Insomma, «gli arabi sono sempre gli stessi, i
musulmani, la violenza…»; e dal momento che in Europa e negli Usa non sono molto
meno razzisti che in Israele, funziona sempre!
Giova ripetere quel che già abbiamo scritto – purtroppo varie volte – in queste pagine. Lo
stesso Che Guevara converrebbe sull’opportunità di leggere un po’ meglio la sua
distinzione fra lotta armata e terrore. Il fallimentare sequestro in pochi minuti si è
trasformato in uno spietato triplice omicidio. Tre ragazzi hanno pagato con la vita un
fanatismo criminale che non solo è incapace di operare distinguo ed è del tutto privo di
morale, ma che in più è politicamente idiota.
Sequestrati e sequestratori sono stati cercati per 18 giorni, ma in realtà era abbastanza
chiaro che le vittime erano state uccise fin dall’inizio. Condanniamo in modo assoluto
questo crimine ma raccomandiamo a tutti un po’ di equilibrio, se si vuole parlare in termini
di etica. Il rapimento e l’omicidio si sono verificati poco dopo che l’opinione pubblica
israeliana aveva iniziato a far domande molto pesanti circa la morte dei due giovani
palestinesi ufficialmente avvenuta «nel corso di scontri con le forze israeliane», quando
apparentemente essi non avevano preso parte agli incidenti, già conclusisi, e dunque
erano stati semplicemente assassinati.
Per trovare i sequestratori–omicidi, le operazioni condotte dalle «forze dell’ordine» hanno
provocato la morte di almeno dieci palestinesi. Il fatto che gli alti gradi dell’esercito abbiano
ricordato ai soldati che noi siamo più morali eccetera, e che la popolazione palestinese
non ha colpa, indica che effettivamente si è esagerato con gli abusi nel corso delle
ricerche e che si è poi cercato di mettere un po’ di freno.
Hanno cominciato a cadere con maggiore frequenza missili nel sud di Israele, provenienti
dalla Striscia di Gaza; li abbiamo avvertiti anche nella zona dell’università. Malgrado fonti
militari molto serie abbiano sostenuto che Hamas ha cercato di frenare gli attacchi,
imputabili piuttosto a piccoli gruppi fondamentalisti, tutto questo ha rafforzato la linea della
propaganda, che giorno dopo giorno indicava il responsabile in Hamas e chiedeva al
mondo di condannare «l’unità palestinese con un gruppo terrorista che vuole distruggere
Israele».
Il razzismo di questi giorni è incredibile, ed è molto difficile trasmettere al lettore la
sensazione di un veleno che si è insinuato in tutti i settori della società. Per fare un
riassunto telegrafico: vendetta, forza, ucciderli, distruggere case per punire, costruire più
colonie, aumentare la repressione, non parlare con gli alleati dei terroristi, perché «alla fin
fine anche Abu Mazen li appoggia e li paga».
Da due giorni nel gabinetto della sicurezza statale israeliana sono in corso discussioni
segrete; segrete, ma alcuni dei partecipanti fanno trapelare progetti estremi, che
comprendono una nuova invasione di Gaza, diversi mezzi draconiani, un acuirsi della
legislazione repressiva, più forza, più violenza.
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Paradossalmente, il premier Netanyahu, che per 18 giorni ha allegramente cavalcato il
«dagli al mostro» contro Hamas e l’Autorità nazionale palestinese, si vede adesso
obbligato a schierarsi con l’ala moderata, a fare il moderatore. Di fronte all’alleanza
fondamentalista e nazionalista che oggi domina e influenza l’opinione pubblica, i servizi
segreti e l’esercito sembrano un’isola di moderazione – relativa – che fa presente la
grande pericolosità della situazione attuale. Hanno cavalcato il mostro che ora può
sfuggire loro di mano, per agire in modo incontrollato.
La terza Intifada? Ci sono tutti gli elementi di un’enorme deflagrazione, se gli estremisti
che oggi dettano il ritmo — ministri, parlamentari, leader dei coloni e rabbini
fondamentalisti – non vengono frenati e se gli incidenti a Gerusalemme e nei territori
continuano e si aggravano.
Sarebbe la ricetta di una nuova esplosione che danneggerebbe entrambi i popoli.
del 03/07/14, pag. 9
Coloni scatenati, la vendetta israeliana contro
i Territori
Chiara Cruciati
BETLEMME
Cisgiordania. Case demolite, fattorie date alle fiamme, bambini investiti
dalle auto dei coloni: l'ufficiosa operazione israeliana contro il popolo
palestinese
La punizione collettiva del popolo palestinese sta nel corpo carbonizzato di Mohammad.
Nelle macerie delle case demolite dai bulldozer israeliani in Cisgiordania, perché di
proprietà di palestinesi sospettati dell’uccisione dei tre coloni adolescenti. Sta negli
attacchi feroci contro una fattoria a sud di Nablus, data alle fiamme dai coloni. Sta nella
marcia di centinaia di israeliani nella Città Vecchia di Hebron e nella conseguente
aggressione ai residenti palestinesi.
Sta anche nell’omissione del nome del giovane palestinese ucciso a Gerusalemme negli
articoli delle testate di mezzo mondo, per le quali ci sono individui degni di essere
considerati persone e altri che non restano che un numero. In attesa della reazione del
governo di Tel Aviv al ritrovamento dei corpi dei tre coloni uccisi a Halhul, sud della
Cisgiordania, in Area C (sotto il controllo militare e civile israeliano), a reagire è la base:
movimenti dei coloni, gang, estremisti prodotto di una società militarizzata e fondata sulla
paura del nemico comune.
Ieri è stato un altro giorno di tensione in Cisgiordania. All’alba nel villaggio di Idhna le forze
militari israeliane hanno demolito la casa di Ziad Awwad, altro sospetto nel caso dei tre
coloni, e lasciato 13 persone (di cui 8 bambini) senza un tetto sulla testa, dopo aver dato
alle fiamme – poche ore dopo il ritrovamento dei cadaveri – le abitazioni di due presunti
membri di Hamas, Amer Abu Eisha and Marwan al-Qawasmeh. Negli scontri che sono
seguiti alla demolizione della casa della famiglia Awwad, sei palestinesi sono rimasti feriti.
Martedì era toccato ai negozi del villaggio di Al-Khader, alle porte di Betlemme, distrutti dai
soldati e di nuovo alla città sotto assedio di Hebron: centinaia di coloni hanno marciato per
le strade della Città Vecchia aggredendo i residenti palestinesi. Intanto, a nord della
Cisgiordania, nel campo profughi di Jenin moriva per un colpo di pistola al petto il 18enne
Yousef Abu Zagha. Sempre nella giornata di ieri, l’esercito israeliano ha arrestato 42
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palestinesi tra Hebron, Nablus, Salfit, Tulkarem, Ramallah, Betlemme e Qalqiliya perché
considerati da Tel Aviv membri di Hamas.
Dove non arriva l’esercito, sono i coloni ad operare. Ieri nel villaggio di Aqraba, a sud di
Nablus, la fattoria della famiglia Bani Jaber è stata il target di un gruppo di coloni del vicino
insediamento di Itamar che ha dato fuoco alla struttura. La famiglia è riuscita a mettere in
salvo gli animali, ma la fattoria è andata distrutta. Nelle mura esterne, i coloni hanno scritto
con lo spray le frasi che spesso accompagnano questo tipo di violenze, sempre più
frequenti: “Price Tag”, il prezzo che la popolazione palestinese deve pagare come
punizione per ogni atto che danneggia il movimento dei coloni.
Il giorno precedente a finire nel mirino dei coloni era stata una bambina di soli nove anni,
volontariamente investita da un’auto, Sanabel Attous, del villaggio di Jab’a, ricoverata in
ospedale con gravi ferite alla testa, e il 28enne Nouh Edris, investito a sud di Hebron. Lo
spettro politico israeliano ha ieri condannato l’uccisione di Mohammed a Gerusalemme e
in passato si è più volte espresso contro le aggressioni dei coloni, considerati alla stregua
di schegge impazzite. Schegge che non sono che il prodotto, però, di una politica fondata
sulla violenza e l’espropriazione: nei durissimi commenti dei principali leader israeliani ad
uscire è la voglia di vendetta, di punizione di un intero popolo («Morte al nemico, toglietegli
il sorriso», «Chissà quanti membri di Hamas resteranno vivi dopo stanotte»). I coloni non
fanno che mettere in pratica le violente dichiarazioni della loro classe politica.
Ieri il premier Netanyahu ha condannato l’omicidio di Mohammed Abu Khdeir, definendolo
un «abominevole crimine», dietro pressante richiesta del presidente dell’Autorità
Palestinese Abbas di avviare un’inchiesta seria sull’accaduto. Bibi ha promesso che le
indagini si faranno «perché Israele è uno Stato di legge». Lo stesso Stato, però, che sta
discutendo di come reagire all’uccisione dei tre coloni: se parte della coalizione di
maggioranza (Casa Ebraica in testa) punta all’ovvia espansione coloniale, altri – da Livni a
Lapid – chiedono di limitarsi alla distruzione di Hamas. Gaza è di nuovo nel mirino, facile
preda da gettare in pasto all’opinione pubblica.
Per ora, nessuna decisione definitiva è uscita dalle stanze dei bottoni israeliane: il timore è
che un’azione militare non venga giustificata da una comunità internazionale che negli
ultimi tempi si è mostrata meno propensa ad avallare ogni offensiva di Tel Aviv.
Nel mirino dell’opinione pubblica palestinese finisce, invece, il presidente Mahmoud Abbas
e la ferrea volontà di Ramallah di non mettere in discussione il coordinamento alla
sicurezza con Israele, nonostante il target sia Hamas, “alleato” di governo. Le proteste dei
giorni scorsi contro i simboli della cooperazione (stazioni di polizia e uffici del Dipartimento
del Coordinamento Civile) sono messaggi chiari: la popolazione non accetta più che l’ANP
faccia da specchietto per le allodole dei crimini israeliani.
del 03/07/14, pag. 9
Iraq
Si spacca il fronte islamista
L’autoproclamato califfato di Al-Baghdadi avrà difficoltà a raccogliere intorno a sé i
musulmani di tutto il mondo. Perché per i gruppi islamisti, moderati e non, il battesimo a
califfo Ibrahim del leader dell’Isil rasenta la blasfemia.
Ieri in un nuovo messaggio fatto circolare in rete, Al-Baghdadi chiamava i musulmani ad
imbracciare le armi e unirsi allo Stato Islamico creato unilateralmente tra Aleppo e Diyala,
dalla Siria all’Iraq. «Una nuova era» nella quale l’Islam trionferà, ha detto il leader
invitando tutti a prendere parte alla jihad e a smascherare l’idolo della democrazia.
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Ma già sono giunte reazioni dai diversi angoli del mondo arabo: gruppi armati attivi in Siria
hanno condannato il nuovo califfato e fatto appello ai musulmani ad evitarne l’adesione.
L’associazione sunnita irachena degli Studenti Musulmani ha puntato il dito contro il
tentativo di demolire la già debole unità nazionale, mentre gruppi salafiti aderenti al Fronte
Islamico hanno accusato l’Isil di voler così mascherare i crimini commessi.
E se il fronte islamista si spacca, non è apparso mai unito quello della classe politica
irachena, alle prese con un pericoloso stallo del parlamento chiamato a nominare il nuovo
esecutivo. Nel tentativo di riavvicinare a Baghdad la comunità sunnita e spezzare
l’alleanza tra baathisti e Isil, ieri il premier Maliki ha offerto un’amnistia parziale agli
iracheni che abbandoneranno le file jihadiste.
Ad approfittare del caos iracheno, con scopi e strumenti diversi, sono Teheran e Riyadh.
Ieri il portavoce del governo iraniano ha sottolineato l’intenzione di cooperare con il
governo iracheno. Nessun dettaglio, ma Teheran probabilmente proseguirà con l’invio di
armamenti e, meno palesemente, di consiglieri militari e pasdaran.
Chi invece trova nella divisione settaria dell’Iraq un guadagno è l’Arabia saudita.
Finanziatore dei gruppi islamisti anti-Assad, re Abdallah eliminerebbe un temibile
concorrente nel settore energetico: Riyadh sarebbe l’unica in grado di coprire il gap
lasciato da Baghdad, le cui risorse sono oggetto di spartizione tra Kurdistan e milizie
sunnite. Senza dimenticare l’indebolimento dell’asse sciita a favore dei paesi del Golfo.
Del 03/07/2014, pag. 16
Sarà consigliere economico del presidente egiziano “È un danno per la
sua reputazione e per il partito laburista”
Blair a fianco di Al Sisi bufera sull’ex premier
“Collabora col regime”
ENRICO FRANCESHINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
LONDRA Dopo Lawrence d’Arabia, un altro inglese sembra avviato a lasciare un’impronta
indelebile sul Medio Oriente, ma non tutti, diversamente che nel colonnello della prima
guerra mondiale, vedono qualcosa di eroico nel suo ruolo. Tony Blair ha accettato di fare il
consigliere economico del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, andato al potere l’anno
scorso con un colpo di stato militare e confermato nel suo incarico con il 96 per cento dei
voti in un’elezione di stile dittatoriale. Secondo il Guardian di Londra, l’ex-premier
britannico offrirà la sua consulenza al leader egiziano per lo sviluppo di riforme
economiche e per attirare investimenti esteri, nell’ambito di un programma finanziato dagli
Emirati Arabi Uniti che promette «enormi opportunità di affari» per le persone che vi
saranno coinvolte.
Il suo portavoce afferma che Blair non sarà pagato per i suoi servigi e che non lo farà per
«tornaconto personale», bensì soltanto perché convinto che l’Egitto vada aiutato a
consolidarsi e a lottare contro l’estremismo islamico. Ma un ex-collaboratore del leader
laburista lo critica per la decisione di assistere un regime accusato di avere ucciso 2500
dimostranti e averne imprigionati più di 20mila nell’ultimo anno, dichiarando al quotidiano
londinese (dietro la protezione dell’anonimato) che Blair è diventato “l’eminenza grigia” di
Al Sisi e che il suo lavoro in Egitto gli offre una duplice possibilità: impegnarsi in quella che
considera una battaglia “esistenziale” contro l’Islam radicale e incrementare la propria
attività privata di businessman. «Non sono cose che dovrebbe fare», afferma la fonte
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interpellata dal Guardian. «Si sta mettendo insieme a un regime che chiude in carcere i
giornalisti. Sta scavando una fossa sempre più profonda per sé e per chi gli sta intorno, è
un danno per la sua reputazione e per il partito laburista». L’ex-premier aveva già
suscitato polemiche per le consulenze al servizio di paesi come il Kazakhstan, il Kuwait e
gli Emirati Arabi, che insieme ai compensi ottenuti da banche e società di investimento gli
frutterebbero secondo alcune stime 20 milioni di sterline di guadagni all’anno (25 milioni di
euro). Il mese scorso un gruppo di ex-ambasciatori britannici ha chiesto pubblicamente
che a Blair sia tolto il posto di rappresentante in Medio Oriente del Quartetto (Usa, Russia,
Onu, Ue) per il conflitto di interessi tra le sue funzioni pubbliche e i vantaggi privati, oltre
che — secondo gli ex-diplomatici — per gli scarsi risultati concreti ottenuti da quando
assunse l’incarico non appena lasciata Downing street nel 2007. Recentemente l’ex-leader
laburista ha manifestato l’intenzione di aprire un ufficio della sua società di consulenze ad
Abu Dhabi, per rafforzare i suoi interessi nella regione. Anche Alastair Campbell, suo
portavoce e stratega delle comunicazioni quando era primo ministro, lavorerà con il
governo del presidente Al Sisi in Egitto, scrive il Guardian. Chi non ha abbastanza soldi
per assumere Blair, ironizza la stampa britannica, assume i suoi excollaboratori: Campbell
dà consigli al primo ministro albanese e Peter Mandelson al governo della Serbia.
del 03/07/14, pag. 16
La rivoluzione militare cinese
Simone Pieranni
Cina. In Cina, Xu Caihou potente generale dell’esercito è stato espulso
dal Partito per corruzione. Un segnale che vale per tutti: il Pla verrà
riformato affidando più peso a marina e aeronautica
Dopo un anno e mezzo dal suo insediamento (avvenuto nel novembre 2012), il Presidente
Xi Jinping ha dimostrato di avere le idee piuttosto chiare in quanto a gestione del suo
(ampio) potere. Il suo carisma e la capacità di determinare quanto auspicato negli incontri
ufficiali o informali, costituiscono un segno peculiare della sua leadership, capace di creare
uno straordinario domino di eventi, intrecciati tra loro e successivi alle sue decisioni più
rilevanti.
Per quanto riguarda l’esercito ad esempio, da tempo il numero uno di Zhongnanhai punta
a una riforma capace di ammodernare le forze militari nazionali, dando più rilevanza
all’aeronautica e alla marina, per contrastare le nuove e decisive tensioni nelle zone del
mar cinese, contese con altri Paesi asiatici supportati direttamente o meno dagli Stati uniti.
Obiettivo secondario è quello di scardinare il sistema di relazioni e promozioni legato ai
vecchi generali, cresciuti in un esercito dove la componente «contadina», fin dai tempi di
Mao, era dominante.
Si tratta di modernizzare, riformulare, rivoluzionare. Xi Jinping da sempre ha spinto per
ripulire le forze militari dall’influenza dei «grandi vecchi», da quelle consuetudini cinesi che
consentono ai leader in pensione di conservare sacche di potere tra i funzionari e il
personale civile e militare dell’Esercito. Xi Jinping ha sottolineato anche l’importanza
dell’eliminazione di quelle nicchie di corruzione, che costituirebbero un ostacolo alla
nascita di un esercito tecnologicamente avanzato, in grado di rappresentare in pieno il
«nuovo sogno cinese». Secondo Zhang Ming, professore di scienze politiche
dell’Università Renmin di Pechino, «la sconfitta dell’esercito nella prima guerra sinogiapponese del 1894–1895 è dovuta alla corruzione tra i ranghi».
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Tutti questi auspici del presidente cinese si sono raccolti nell’ultimo caso di corruzione ed
espulsione dal Partito, che questa volta ha colpito molto in alto. Il fatto che la notizia di una
purga sia giunta nel giorno del 93esimo anniversario di vita del partito comunista cinese
(fondato a Shanghai il primo luglio 1921) chiarisce come la liturgia del Pcc abbia un senso
e un peso ancora oggi. Il generale Xu Caihou – fino alla scorsa leadership membro del
Politburo, nonché vice presidente della potente commissione militare centrale e ufficiale
incaricato di supervisionare le nomine all’interno dell’Esercito Popolare di Liberazione — è
stato infatti espulso dal Partito.
Si tratta di una mossa storica da parte di Xi Jinping, perché colpisce il militare in più alto
grado nell’ultimo quarto di secolo e perché consuetudine vorrebbe che ex funzionari ormai
in pensione, fossero lasciati in pace. Tanto più che secondo le indiscrezioni, Xu sarebbe in
fase terminale per un cancro.
Xi Jinping mostra la pietà dei forti, quella che non c’è, rinnovando il messaggio, chiaro:
nessuno verrà risparmiato. Secondo la stampa cinese Xu avrebbe preso più di 35 milioni
di yuan; si tratta di un colpo anche politico: Xu viene considerato vicino a Jiang Zemin, che
qualche mese fa, sentendo i passi di Xi molto vicini al suo cerchio magico, aveva
specificato che le inchieste sulla corruzione rischiavano di ledere l’immagine del Partito
agli occhi della popolazione.
Il problema per Jiang Zemin e gli altri papaveri dell’esercito nostalgici di una Cina che non
è più, è che Xi Jinping è un rullo compressore, animato da volontà di scardinare vecchi
meccanismi, togliersi di torno camarille non gradite, acquisire il controllo totale sui militari e
animare le forze dell’esercito con una straordinaria riforma. Non sarà facile, perché nelle
forze armate si nascondono i covi dei funzionari più conservatori del paese. Già nel 1988
Deng Xiaoping aveva provato un cambiamento, abolendo alcune dei distretti militari e
dismettendo l’impero economico dell’esercito popolare, che aveva raggiunto un giro
d’affari extra militare altissimo (operazione poi perfezionata proprio da Jiang Zemin).
Affidare uguale dignità e importanza alle forze aeree e navali, nell’ambito di un corpo
militare abituato a sentire il peso dei generali «di terra», significa ribaltare gerarchie. A
questo si aggiunge la visita di Xi in Corea del Sud. Un viaggio per più obiettivi: lanciare un
segnale per Kim jong-un sul rischio che l’alleanza con Pechino si affievolisca e per i
generali dell’esercito, che spingono per mantenere la relazione con la Corea del Nord,
vista come cuscinetto contro un Sud a influenza Usa. Xi Jinping si muove, determina,
all’interno di una tradizione ben conosciuta in Cina: «Uccidere il pollo, per spaventare la
scimmia».
del 03/07/14, pag. 16
Abe: ora potete sparare
Marco Zappa
Il Giappone si riarma. Il premier reinterpreta l’«autodifesa» della
Costituzione
Le forze militari giapponesi (conosciute come Forze di autodifesa nazionale) potranno
prendere parte attivamente ad operazioni militari di sicurezza collettiva e avranno più
margine di manovra in caso di incidenti militari etichettati come «zona grigia». Il Giappone
si allinea così alle altre principali potenze internazionali. La decisione è arrivata martedì
primo luglio, una giornata che ha segnato la più importante vittoria politica per il primo
ministro giapponese da quando è in carica. «Non importa quali siano le circostanze,
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proteggerò le vite e la pace del popolo giapponese», ha detto il premier Shinzo Abe al
termine dei lavori.
Da anni, una folta schiera di politici anche all’interno del partito attualmente al governo — il
Partito liberaldemocratico (Pld) — mal tollera l’«inerzia» del Giappone di fronte alle
minacce alla sicurezza nazionale provenienti dall’esterno. La costituzione era l’ultimo
ostacolo alla «normalizzazione» militare del Giappone. Prima, a fine 2013, il governo Abe
ha creato un Consiglio di sicurezza nazionale, diretta emanazione del primo ministro negli
affari della difesa nazionale, e approvato un aumento delle spese militari di circa 600
miliardi di yen (circa 4 miliardi di euro) per i prossimi cinque anni. Infine, ad aprile 2014, è
stato abolito il divieto sull’esportazione di armi, autoimposto a metà degli anni Sessanta.
Dall’immediato dopoguerra in poi, i governi giapponesi hanno adottato più risoluzioni che
riconoscevano il diritto di autodifesa collettiva, in base all’articolo 51 dello Statuto delle
Nazioni Unite, dichiarandone l’incostituzionalità ai sensi dell’articolo 9 della costituzione
postbellica. In esso si legge che «Il popolo giapponese, aspirando sinceramente alla pace
tra le nazioni fondata sulla giustizia e sull’ordine, rinuncia per sempre alla guerra quale
diritto sovrano dello Stato». Questo non ha però impedito aggiramenti e interpretazioni.
Nel 2003, Junichiro Koizumi, «mentore» dell’attuale primo ministro, forza le procedure
parlamentari per sostenere lo sforzo bellico dell’alleato americano e fa approvare l’invio
delle Forze di auto-difesa in Iraq.
Dopo il 1945 nessun soldato del Sol Levante era stato impiegato in zone di conflitto ad alto
rischio, tanto meno senza un mandato delle Nazioni Unite. Nel 2005 il blocco conservatore
del Pld stila la bozza di una riforma costituzionale comprensiva che possa garantire al
Giappone maggiore «visibilità» nelle missioni militari internazionali.
Un cammino, quello di un’eventuale riforma della carta, assai difficoltoso che
richiederebbe la maggioranza qualificata dei due terzi del Parlamento e l’indizione di un
referendum popolare. Ed è qui le cose si fanno più complesse: fino al 2007, infatti, non
esisteva una legge sulla votazione popolare. È proprio sotto Shinzo Abe, al suo primo
incarico di governo, che il provvedimento viene approvato. Ma non basta. Come
sottolineava sul suo blog Andrea Ortolani, esperto di diritto giapponese dell’università
Hitotsubashi di Tokyo, «i giapponesi sono molto affezionati alla loro Costituzione» e, in
linea generale, non esiste un «consenso diffuso alla modifica».
Ecco allora spiegato l’escamotage della «reinterpretazione» dell’articolo 9. Cosciente
dell’impossibilità di raccogliere un vasto consenso nelle due camere, e soprattutto di
ottenere l’ok dei cittadini, Abe ha deciso non correre il rischio di impantanarsi in un
momento in cui il suo governo può godere di una maggioranza parlamentare forte e di un
periodo piuttosto lungo (poco più di due anni) senza elezioni per portare avanti la sua
agenda politica.
Nelle ultime settimane, infatti, più sondaggi hanno dimostrato che più del 50 per cento dei
giapponesi è contrario a una modifica dell’articolo 9. Secondo quanto riferito dall’agenzia
di stampa Kyodo, circa 10 mila persone si sono radunate fuori dall’ufficio del primo
ministro il primo luglio scorso, al grido di «non distruggete l’articolo 9 della costituzione»
(una protesta nella foto reuters). Due giorni prima, a Tokyo, un uomo si era dato fuoco
forse contro la decisione del governo. La protesta è arrivata anche a Hiroshima: «Ciò che
salva le persone non è la guerra», ha spiegato Sunao Tsuboi, direttore della
confederazione delle associazioni di sopravvissuti al bombardamento atomico.
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INTERNI
del 03/07/14, pag. 2
Fischio d’inizio, ed è subito rigore
Renzi presenta il semestre italiano davanti al parlamento europeo
sostituendo al rituale programma immagini evocative
Anna Maria Merlo
L’ Italia, con tutti i suoi difetti e le sue qualità, ha fatto irruzione ieri all’europarlamento, per
l’avvio del semestre di presidenza italiano. Una serie di immagini anche efficaci da parte di
Matteo Renzi — dal selfie dell’Europa che mostrerebbe oggi il volto della “noia”, della
“stanchezza” e della “rassegnazione”, fino all’invito a “ritrovare l’anima” per un’Europa
“della generazione Telemaco”, una “smart Europe” post Ulisse — hanno sostituito la
presentazione più pedante in aula a Strasburgo del programma dettagliato della
presidenza semestrale. Ma le bordate contro il tentativo del primo ministro italiano di
mascherare con un po’ di poesia e di riferimenti classici la vaghezza del programma
concreto sono arrivate subito. Oltre la miseria tutta italiana del “pagliaccio” buttato li’ dal
leghista Borghezio, la destra del Ppe è scesa in campo per contestare l’accento posto
sulla crescita, seconda parte del Patto di stabilità. Se ne è occupato soprattutto Manfred
Weber, capogruppo Ppe di nazionalità tedesca. Come se non fosse successo nulla, come
se non ci fossero milioni di disoccupati e una disperazione sociale che ha mostrato i suoi
effetti alle ultime elezioni europee, Weber ha ancora insistito sui “compiti a casa”, perché
la lezione della crisi è che “i debiti non creano futuro ma lo distruggono”. Renzi aveva
cercato di parare il colpo preventivamente. Nel discorso di apertura ha sottolineato che
l’Italia è tra i paesi al mondo che hanno tra i più importanti avanzi del bilancio corrente
(che permette di mettere il debito pubblico vertiginoso sotto il tappeto) e che, in Europa, è
un contributore netto (notazione ripetuta ben due volte). Dopo l’assalto di Weber, nella
risposta, Renzi non ha più rimesso i guanti, è insorto contro “i pregiudizi” e ha ricordato, di
nuovo, che la Germania nel 2003 aveva violato i limiti dei parametri di Maastricht, manovra
che del resto aveva permesso a Berlino di rilanciare l’economia. Renzi rimanda la mittente
i “compiti a casa” e continua a fare rifermento a “riforme che abbiamo condiviso” e che
l’Italia farà. “Non c’è un’Italia che chiede scorciatoie” ha affermato, rispondendo
indirettamente al primo ministro olandese, Mark Rutte, che ha detto a un giornale che
all’ultimo Consiglio europeo “Olanda e Germania hanno bloccato il tentativo di Francia e
Italia di ammorbidire le regole di bilancio”. Renzi spiega che la posizione italiana “non si
riduce alla richiesta di cambiare le regole”, ma che il rispetto delle regole riguarda anche
favorire la crescita. Il primo ministro non ha dimenticato un riferimento esplicito alla Gran
Bretagna, che si allontana ma che, senza la quale, l’Europa sarebbe “meno ricca, meno
Europa”.
Anche a sinistra ci sono state critiche al discorso di Renzi. Dai Verdi, è stato definito
“ministro della parola”, sperando che si trasformi in “ministro dell’azione”. Il francese Jadot
ha visto un vuoto sul fronte dell’impegno per le nuove energie, visto che l’Italia “non ha
rotto con il passato”. Barbara Spinelli, per la Gue, non ha visto nel discorso di
presentazione di Renzi una messa in discussione delle “regole economiche” che hanno
dominato finora con i risultati deplorevoli che sono sotto gli occhi di tutti, né del “credo
liberista” né delle riforme strutturali che hanno portato “lavoro sempre più precario”. “Tutto
resta com’è – ha affermato Barbara Spinelli – cambiano solo le parole per dirlo”.
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Il parlamento europeo è diviso ideologicamente e non sarà facile costruire una
maggioranza a favore del rilancio economico, lo scontro si complica con l’intrecciarsi delle
posizioni di partito e l’appartenenza nazionale. Renzi, che ha giocato anche a Strasburgo
la carta della gioventù (“ai tempi di Maastricht non ero neanche maggiorenne”) ha un po’
destabilizzato l’istituzione con i riferimenti alla Grecia e alla Roma antiche, al
Rinascimento, alle donne che lottano per la libertà dal Pakistan ai paesi arabi, alla “dignità”
della politica o al “dovere di meritare l’eredità” dei padri fondatori. Ma basta prendere
l’esempio dell’immigrazione per vedere gli scogli a cui andrà incontro il tentativo di far
muovere qualcosa in Europa. Di “solidarietà” con quello che sta succedendo nel
Mediterraneo hanno parlato solo dei deputati italiani (Pd, Gue).
Del 03/07/2014, pag. 2
Renzi, duello con Berlino “Né scorciatoie né
lezioni l’Europa o cresce o muore”
A Strasburgo i popolari tedeschi accusano l’Italia per i conti Il premier:
guardare all’eredità dei padri, come Telemaco
ALBERTO D’ARGENIO
DAL NOSTRO INVIATO
STRASBURGO Matteo Renzi entra nell’aula di Strasburgo e prende posto al banco
riservato alla presidenza dell’Unione. Martin Schulz lo introduce, il premier lo ringrazia:
«Faccio a lei e a tutti gli eurodeputati un grande in bocca al lupo da parte del popolo
italiano, avete la responsabilità di riportare fiducia e speranza nelle istituzioni europee ».
L’emiciclo è quasi pieno, gli indipendentisti euoscettici dello Ukip piazzano tante piccole
Union Jack sui propri banchi. Renzi più tardi gli riserverà una carezza: «Potete voltare le
spalle all’inno, non ai problemi». A fianco del premier siede il ministro degli Esteri Federica
Mogherini. Dietro, lo staff. Renzi spiega all’aula di non voler fare un discorso «di bullet
point», di non volere elencare i punti del programma del semestre italiano: «Potrete
leggere il documento con le nostre priorità». Annuncia quello «speech di visione» di cui
parlavano alla vigilia i suoi. Va a braccio per 17 minuti, al contrario di quanto si era
ripromesso, basandosi solo su un foglio di appunti. L’aula lo applaude una decina di volte,
in modo fragoroso quando parla del compito dell’Europa nel mondo. Ma soprattutto ci sarà
un durissimo scontro sulle politiche economiche con il Partito popolare europeo.
E infatti per raccontare quanto successo a Strasburgo bisogna capovolgere la giornata e
partire dalla fine. Sono le sei del pomeriggio, tre ore dopo l’inizio della plenaria, e Renzi ha
appena finito di replicare agli eurodeputati. Gli onorevoli italiani lo circondano per salutarlo
e rivolto a loro il premier dice: «Sono stato troppo duro? Ma al popolare non potevo non
rispondere». Già, perché il nuovo capogruppo del Ppe, il bavarese Manfred Weber,
prendendo la parola dopo il discorso di Renzi picchia durissimo, negando di fatto quella
flessibilità sui conti che il premier italiano ha incassato la scorsa settimana al summit dei
capi di Stato e di governo. Un principio politico che ora le istituzioni Ue dovranno tradurre
in realtà ma che Weber stronca: «I nuovi debiti uccidono il futuro, non è che perché i
mercati sono più stabili dobbiamo essere flessibili. L’Italia ha un debito del 130% e volete
soldi in cambio di riforme? E poi come facciamo ad essere sicuri che le fate? In questi anni
abbiamo perso fiducia». Una bordata che fa il bis con le parole di fuoco pronunciate in
mattinata all’Aja dal premier olandese Mark Rutte, secondo il quale al vertice di Bruxelles
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di venerdì scorso lui e la Merkel hanno «stoppato» il tentativo di Francia e Italia di
ammorbidire le regole di bilancio.
Renzi nelle repliche risponde duramente a Weber, ricorda che nel 2003 fu la Germania a
sforare il 3% per fare le riforme mentre l’Italia chiede più elasticità, non di sfondare il tetto
di Maastricht. E poi: «A Weber sfugge che parte dei deputati popolari (Ncd e Udc, ndr)
appoggia il mio governo, dunque non so se ha parlato a nome del gruppo o a titolo
personale. Se parlava invece a nome della Germania vorrei ricordargli che è stata Berlino
a sforare per prima». E comunque, se voleva dare lezioni all’Italia, Weber «qui ha
sbagliato posto». Uno scontro che può mettere a rischio i rapporti tra Ppe e Pse che
guidano le istituzioni Ue con una Grande Coalizione. Tanto che a caldo il capogruppo del
Pse, Gianni Pittella, afferma che «senza la flessibilità sulle regole di bilancio sarà difficile
l’accordo con il Ppe sulla fiducia del Parlamento a Juncker», presidente in pectore della
Commissione. In serata Renzi parlando a Porta a Porta cerca di calmare le acque dicendo
di non credere che la nomina del lussemburghese «verrà rimessa in discussione»,
anche se conferma di avere dato l’ok a Juncker solo perché c’era il documento approvato
dai leader che lo «impegna» politicamente sulla flessibilità. L’incidente con Weber rischia
di offuscare una giornata che in realtà ha colori diversi. Il premier davanti ai 751
eurodeputati fa un discorso profondamente renziano: «Se oggi l’Europa si facesse un
selfie nell’immagine vedrebbe il volto della stanchezza, della rassegnazione. Con estrema
preoccupazione dico che l’Europa oggi mostrerebbe il volto della noia». Fa l’esempio di
Italia e Grecia, paesi che ieri si sono passati il testimone della presidenza di turno
dell’Unione. Spiega che parlando di Atene e Roma non si pensa al Partenone e al
Colosseo, all’agorà e ai templi, ad Anchise ed Enea, «pensiamo invece alla crisi e allo
spread». Per questo, scandisce Renzi, «la vera sfida è ritrovare l’anima dell’Europa, il
senso più profondo dello stare insieme». Poi arriva la metafora omerica: Renzi («non ero
maggiorenne quando c’è stata Maastricht») si definisce parte di «una generazione nuova,
la generazione Telemaco», figlio sul quale grava una responsabilità maggiore rispetto a
quella del padre Ulisse. Che riportata al presente è quella di «raccogliere l’eredità dei padri
fondatori dell'Unione e assicurare un futuro a questa tradizione, rinnovandola giorno per
giorno». E l’eredita per Renzi si rinnova facendo svoltare l’Europa: «L’Italia non viene qui a
chiedere, ma a dire che è la prima che ha voglia di cambiare e la crescita non la chiede un
solo Paese, la chiede tutta Europa altrimenti non abbiamo futuro». Il premier ricorda che
non chiede di cambiare le regole, ma di applicarle integralmente visto che il Patto si
chiama «di stabilità ma anche di crescita». Dunque «non chiediamo scorciatoie, ma ci
faremo sentire con tutta la forza di un grande paese». Perché «non siamo un puntino su
Google Map, siamo una comunità» e vogliamo un’Europa più semplice, «una smart
Europe». Un continente più leggero, più facile, come piace al premier britannico Cameron.
Al quale tributa anche il riconoscimento che «un’Europa senza Londra sarebbe meno
Europa». E Cameron, da Downing Street, gradisce.
Del 03/07/2014, pag. 4
Sgarbo ai giornalisti di Strasburgo per andare
da Vespa
C’è una prima volta per tutto. Anche Matteo Renzi, il turbo-comunicatore, stavolta è
scivolato su una buccia di banana, con uno sgarbo fatto ai giornalisti europei. La
conferenza stampa che tradizionalmente vede insieme il presidente di turno, quello del
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parlamento e della Commissione, è stata infatti inspiegabilmente cancellata da Renzi dopo
essere stata annunciata sugli schermi di Strasburgo per tutta la giornata con tanto di
orario. In Italia magari nessuno ci farebbe caso, ma la sala stampa europea è un ambiente
suscettibile e i giornalisti non sono famosi per essere compiacenti con i politici e con i
premier italiani in particolare (chiedere a Berlusconi). Oltretutto si rischia anche un
incidente diplomatico, visto che l’appuntamento coinvolge Schulz e Barroso.
Ad aggravare la situazione c’è anche il tam-tam del palazzo: tutti accreditano l’idea che
Renzi abbia fretta di tornare a Roma per partecipare a Porta a porta. Così, mentre si
rincorrono le voci sulla conferenza stampa prima confermata, poi cancellata, poi di nuovo
fissata, è lo stesso Martin Schulz, parlando con i giornalisti prima che la seduta inizi, a
tagliare la testa al toro. Confermando involontariamente i sospetti: «Non è la prima volta
che salta una conferenza stampa. Non è perché non vogliamo ma eccezionalmente ed
esclusivamente a causa di restrizioni di orario del premier. Non spetta a me commentare
l’agenda di un presidente del Consiglio».
I colleghi stranieri si lamentano. La tradizione non scritta del parlamento europeo («dai
tempi del trattato di Maastricht », ricorda un anziano frequentatore del palazzo) vuole
infatti che il premier di turno, all’inizio del semestre, si sottoponga alla domande sul suo
programma. Senza restrizioni di argomenti o di tempi. Invece Renzi sembra sfuggire
ai giornalisti, come aveva preso a fare Berlusconi negli ultimi, tormentati, anni del suo
mandato. L’opposizione chiaramente ci salta su. Il leghista Matteo Salvini non si lascia
sfuggire l’occasione e in aula attacca: «Ci son rimasto male, mi aspettavo di più, forse la
stanchezza, forse il fatto che non può rispondere alle domande dei giornalisti perché deve
partecipare a una trasmissione televisiva in Italia». José Barroso, finito di parlare, si alza e
se ne va. Così fa Renzi, per una volta fuori sincrono rispetto all’umore dei media.
del 03/07/14, pag. 3
Gallino: «L’antidoto al Fiscal Compact è la
partecipazione popolare»
Roberto Ciccarelli
Intervista. Oggi al via la raccolta firme per il referendum «Stop austerità,
sì alla crescita». Il sociologo torinese lo appoggia insieme ad una
possibile iniziativa legislativa popolare. «Renzi nasconde la situazione
economica. Non se ne rende conto, anche perchè aderisce al credo
neoliberale dominante»
La flessibilità del rigore produce confusione nel governo. Il sottosegretario Del Rio ha
rilanciato gli Union bond, un fondo federale al quale gli stati conferiscono pezzi del loro
patrimonio immobiliare usato come garanzia per investimenti strutturali e per diminuire il
debito, mentre per il ministro dell’Economia Padoan «la questione non è all’ordine del
giorno». Con il sociologo Luciano Gallino, già autore del più affilato libro contro l’austerità,
Il colpo di Stato di banche e governi (Einaudi), proviamo a esplorare le ragioni di questo
conflitto. «La proposta di Del Rio viene da quella Prodi-Quadrio Curzio di qualche anno fa
– afferma Gallino –In questo momento equivale a dare al vicino le chiave di casa e la
password del proprio conto in banca, lasciando intendere di fare quello che vuole. La
mutualizzazione del debito così intesa significa cedere la sovranità economica ad elementi
incontrollabili».
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Il ministro Padoan sostiene che per la crescita e la sostenibilità del debito non
bisogna cambiare le regole e applicare la flessibilità promessa da Renzi. È
realistico?
Il realismo è fatto di numeri, regole, definizioni. Finché si parla genericamente di
flessibilità, chiunque può intenderla come vuole. La politica economica fino ad oggi
adombrata dal governo instilla ulteriori dosi della medicina dell’austerità basata
sull’accrescimento dell’avanzo primario, la riduzione delle spese statali che hanno scavato
un buco enorme tra il prelievo fiscale dello stato e quello che lo stato restituisce ai cittadini
in beni e servizi. Qualcuno del governo ha detto che occorre ridurre ancora il peso dello
stato sull’economia. Data la situazione in cui ci troviamo è l’annuncio di un suicidio.
Ieri a Strasburgo Renzi ha detto di non volere cambiare le regole dell’austerità, ma
che serve una crescita che purtroppo non ci sarà. C’è qualcosa che non torna. Sta
forse nascondendo la reale situazione dell’economia?
Direi proprio di si. In parte non se ne rende conto, in parte è d’accordo perchè la mentalità
del suo governo è simile a quella dei governi precedenti che hanno sposato il credo
neoliberale. Le idee per uscire dal guado non ci sono e continuano ad insistere sulle solite
politiche: sgravi fiscali per le imprese, qualche euro per i consumi, leggine per modificare il
mercato del lavoro. Così nel 2100 saremo allo stesso punto, ma in una situazione
certamente peggiore. Occorre qualche grosso progetto, a livello europeo, per un robusto
rilancio degli investimenti connessi all’occupazione. Invece gli interventi a pioggia in cui
questo governo è specializzato, come i precedenti, non hanno alcuna effetto sulla crescita.
Pensare che un’azienda non assuma personale perchè gli costa qualche punto di
percentuale in più è una pia illusione. In Italia non si assume perchè non si ha idea di
quale prodotto vendere domani.
Non si parla mai di fiscal compact che imporrà dal 2016 tagli al debito pubblico per
50 miliardi all’anno per vent’anni. Secondo lei perché?
Le pressioni di Bruxelles, della Bce e della Germania per applicarlo alla lettera sono tali
che non si vede come non si possa applicarlo. Stiamo parlando di decine di miliardi per
abbattere il debito pubblico ma che graveranno sull’avanzo primario. Seguendo una
tendenza ventennale, nel 2013 lo stato italiano ha prelevato dai cittadini una somma
superiore ai 500 miliardi, restituendo in termini di acquisto di beni, servizi e stipendi poco
più di 430 miliardi. Questo non basta per far fronte il fiscal compact e si punta a dilatare il
divario tra il prelievo fiscale e quello che lo stato restituisce ai cittadini. Per questo l’idea
dello stato minimo è folle: i media e i governi hanno imposto l’idea che quella statale è solo
una spesa passiva, mentre invece corrisponde agli stipndi degli insegnanti, dei medici, per
i servizi pubblici. Se uno taglia 50 miliardi in nome dell’avanzo primario, il risultato è un
salasso dell’economia reale. Con la conseguenza di abbattere la domanda, aumentare la
disoccupazione e la deflazione.
Oggi parte la raccolta firme per il referendum no fiscal compact. Cosa ne pensa?
È molto positivo. Non tanto perchè pensi che ne usciranno delle soluzioni immediate.
L’insieme di forze e poteri che si oppongono al cambiamento delle politiche fiscali e
monetarie sono tali da non sperarci. Ma è importante che un buon numero di cittadini si
renda conto dei problemi in cui siamo, oscurati dal silenzio dei media.
C’è chi invece propone un’iniziativa legislativa popolare sullo stesso tema che
potrebbe affiancarsi al referendum. È una strada percorribile?
Più se ne parla, meglio è. La proposta fatta da Gaetano Azzariti su «Il manifesto» si
riferisce all’iniziativa dei cittadini europei (Ice) introdotta dall’articolo 10 del Trattato di
Lisbona e in vigore dall’aprile 2012. Questo tipo di iniziativa prevede che i cittadini
possano prendere posizione su questo o su quel tema. Ben venga dunque anche il ricorso
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a questo tipo di strumenti che hanno il vantaggio di stare nei trattati. Si tratta di chiedere
qualcosa alla Commissione ciò che si è guardata bene dal fare: la partecipazione. Così
facendo è riuscita a tenere nascoste le conseguenze dei vari trattati. Come si vede dalle
trattative segrete sul trattato Usa-Ue sul libero commercio (Ttip), uno degli aspetti
inqualificabili della comissione a guida Barroso è non avere informato i cittadini sulle sue
conseguenze. Da mesi sono in corso trattative e negoziati che mettono a rischio i servizi,
l’agricoltura, la proprietà intellettuale, i diritti del lavoro e molto altro. E nessuno sa nulla. È
una situazione inaudita. Oggi bisogna dare voce ai cittadini, senza però illudersi sui
risultati a breve termine.
del 03/07/14, pag. 3
Progetti, i veri «compiti» da fare
Andrea Del Monaco
«Si presenta bene, ma non dà dettagli sulle politiche economiche. Assomiglia a Tony
Blair». Così Farage ha commentato a Sky News il discorso di Renzi al Parlamento
europeo. Secondo il premier «non c’è solo la stabilità ma anche la crescita (…).
Assicureremo un domani alla Ue». Oggi i Trattati Ue non consentono crescita. Per
garantire un domani occorre creare lavoro vero; per farlo occorre investire. O si
mantengono le regole attuali aumentando disoccupazione e fallimenti di imprese oppure si
cambia il patto di stabilità e si concede la possibilità di un piano di sviluppo. Al contrario,
nel documento «Strategic Agenda for the Union in Times of Change» (che i 28 leader
europei hanno approvato il 27 giugno) si parla solo di «un buon uso della flessibilità che è
prevista nelle regole dell’esistente patto di stabilità e crescita».
Sull’aggettivo «esistente» si sgretola la presunta vittoria italiana sul rigore tedesco. Non
abbiamo ottenuto nulla sullo sforamento del patto perché il riferimento al «buon uso della
flessibilità» è slegato dall’applicazione delle 4 regole d’oro dell’art. 126, par. 3, del Trattato
di funzionamento della U3 (Tfue); rafforzate dal fiscal compact (in vigore da gennaio 2013)
sono i quattro cardini dell’austerità: a) l’impegno ad avere un bilancio pubblico in pareggio
(in equilibrio) o in avanzo (positivo); b) il rapporto deficit/Pil inferiore al 3%; c) salvo casi
eccezionali è attivato automaticamente un meccanismo di correzione per lo Stato che
sfora; d) inserimento del fiscal compact negli ordinamenti degli stati membri,
preferibilmente in Costituzione.
Vediamo il margine di flessibilità esistente. Il Protocollo n. 12 allegato ai trattati europei
sulla procedura sui disavanzi eccessivi (sforamento tetto del 3%; rapporto debito/Pil sopra
il 60%) ammette scostamenti a condizione che: il superamento del 3% sia eccezionale e
temporaneo; il rapporto disavanzo pubblico/Pil diminuisca in modo sostanziale e continuo;
il rapporto debito pubblico/Pil si stia avvicinando in modo adeguato al valore di riferimento
del 60%. Solo grazie a questa locuzione l’Italia nel 1998 entrò nell’euro poiché su un piano
contabile il rapporto debito pubblico/Pil era pari al 121,6%. Ora siamo al 135, sarà
impossibile avere margini di flessibilità. Quali sanzioni rischiamo? La Banca europea per
gli investimenti potrebbe interromperci i prestiti oppure il Consiglio Ue potrebbe chiederci
di costituire un deposito infruttifero a Bruxelles fino allo 0,3% del Pil (4,8 miliardi circa) per
ogni punto di sfondamento del 3%. L’unica eccezione contemplata è che Bruxelles
riconosca che l’Italia è in una grave recessione.
Questo Renzi avrebbe dovuto dire ieri. Vediamo cosa ci aspetta. Il ministro Padoan
presiederà l’Eurogruppo il 7 luglio, l’Ecofin l’8 luglio: lì si approveranno le
Raccomandazioni per i 28 paesi Ue. L’Italia è in difficoltà dopo aver annunciato ad aprile il
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rinvio del pareggio strutturale di bilancio dal 2015 al 2016. Bruxelles nelle
Raccomandazioni non concorderà con l’Italia perché l’aumento del Pil nel 2014 sarà al
massimo dello 0,6% (stima Bce e Fmi) e non dello 0,8 come sostenuto dal governo.
Qualora l’Italia non invertisse l’andamento del rapporto debito/Pil, Bruxelles ci chiederebbe
una manovra aggiuntiva ad ottobre: tra i 17 e i 25 miliardi di euro per coprire anche la
stabilizzazione del bonus Irpef da 80 euro e la cassa integrazione in deroga. Soluzioni
alternative? Occorre abolire il pareggio di bilancio e alzare il limite del 3% nel rapporto
deficit/Pil. O almeno escludere dal patto di stabilità il cofinanziamento italiano ai
programmi Ue. Sono 55 miliardi fino al 2020, la metà dei 110 dei programmi regionali e
nazionali. Avremo due canali finanziari.
Primo: i rimanenti 26,4 miliardi dei programmi del ciclo 2007–2013 cofinanziati dal Fesr
(Fondo europeo di sviluppo tegionale), dal Fse (Fondo sociale europeo) e dal Feasr
(Fondo europeo agricolo di sviluppo rurale). Dobbiamo spenderli entro il 2015 altrimenti
l’Ue riprenderà il cofinanziamento. Secondo: gli 84,2 miliardi dei programmi 2014–2020:
metà cofinanziamento europeo, metà cofinanziamento italiano. Secondo il leader M5S
Grillo la Ue non deve dare i fondi europei all’Italia perché vanno alla mafia. Assurdo: senza
questi soldi il Meridione non uscirebbe dalla crisi. Per Puglia, Sicilia, Calabria, Campania e
Basilicata ci sono i rimanenti 18,3 miliardi del ciclo 2007–2013 e circa 50 miliardi del ciclo
2014–2020. «I problemi italiani nascono dall’Italia e non dall’Ue (…). L’Italia non chiede
scorciatoie, faremo la nostra parte» ha detto ieri Renzi. Per coerenza dovrebbe fare ciò
che Bruxelles chiede proprio sui fondi Ue. Affinché l’Italia possa spendere questi soldi, la
Commissione deve approvare il documento di programmazione: l’accordo di partenariato.
Il 10 marzo la Commissione con 45 pagine di Osservazioni ha criticato il documento
inviato dal governo Letta il 9 dicembre poiché «manca completamente l’analisi della
capacità amministrativa».
Bruxelles vuole «personale sufficiente e qualificato» in materia di controllo, un «adeguato
sistema informativo», e, poiché le autorità italiane di gestione devono avere personale
competente e adeguato, chiede al governo una «procedura di verifica» del loro personale:
qualora la verifica fosse negativa, il governo dovrebbe attuare un piano di miglioramento
oppure sostituire l’autorità preposta. Sul monitoraggio indipendente Bruxelles chiede quale
percentuale di progetti sarà «oggetto di una visita almeno una volta durante l’esecuzione»
(p. 42) e giudica non chiare le misure concrete per garantire nelle regioni meridionali le
competenze per usare i fondi con efficacia e trasparenza (p. 43).
L’Italia lo ha fatto? No. Il 22 aprile il governo ha inviato il nuovo Accordo di Partenariato.
Nelle Raccomandazioni all’Italia del 2 giugno il Consiglio Ue a pag. 5 scrive ancora che
sulla «gestione dei fondi Ue» continuano a ripercuotersi «l’inadeguatezza della capacità
amministrativa e la mancanza di trasparenza, di valutazione e controllo della qualità»;
sono stati attuati solo «interventi parziali e incompleti, soprattutto nelle regioni
meridionali».
*esperto fondi strutturali europei, già consulente II Governo
del 03/07/14, pag. 15
Un’estate contro il pareggio di bilancio
Giorgio Airaudo, Giulio Marcon
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Fiscal compact. La raccolta firme per il referendum e la proposta di
legge di iniziativa popolare possono dare un contributo a rilanciare una
mobilitazione dal basso contro le politiche di austerità in Europa
Le osservazioni di Gaetano Azzariti di ieri su il manifesto a proposito del referendum sul
fiscal compact sono sicuramente pertinenti e utili e meritano un dialogo.
Dopo ormai due anni di inazione, il merito dei promotori del referendum — cui abbiamo
aderito– è quello di avere rilanciato l’urgenza della battaglia contro l’austerità. I promotori
non vogliono «l’austerità flessibile o espansiva», ma il loro obiettivo è riassunto dal nome
del sito web che promuove l’iniziativa: «Stop austerità», senza se e senza ma.
Sappiamo che non era possibile intervenire direttamente — pena l’ovvia incostituzionalità–
con l’abrogazione delle norme della legge 243/2012 che impongono il pareggio di bilancio.
I quesiti — allargando le maglie della legge e revocando le disposizioni più estreme– sono
il classico granello di sabbia che inceppa il meccanismo. E, inoltre, lo ammette con onestà
lo stesso Azzariti, come nel caso dei referendum dell’acqua e del nucleare i quesiti
acquistano un significato che va oltre le norme (spesso molto tecniche e specifiche) che si
vogliono abolire. E se questo referendum raccogliesse le firme necessarie e riuscisse poi
a ottenere i voti necessari, il segno politico sarebbe chiaro: una critica alle politiche di
austerità e al fiscal compact.
I promotori di quel referendum si sono mossi nelle maglie di quesiti che potessero sfuggire
alla dichiarazione di incostituzionalità della Corte: vedremo, una volta raccolte le firme,
cosa succederà. Un altro merito, in ogni caso, del referendum è di avere riaperto con
questa iniziativa, che può avere tutte le aporie che si vuole, l’urgenza di una mobilitazione
popolare e dal basso contro le politiche di austerità.
Azzariti dice: servirebbe una proposta di legge di modifica costituzionale dell’articolo 81 sul
pareggio di bilancio. Bene, già fatto. L’hanno presentata (è la numero 1954) i deputati di
Sel il 15 gennaio scorso ed è ferma nella palude dei lavori parlamentari. Costruiamo
un’iniziativa popolare per chiedere alla Camera dei Deputati di calendarizzarla e di
discuterla in tempi brevi, magari iniziando la dicussione nel semestre di presidenza
italiana. Continua Azzariti: servirebbe che la stessa proposta fosse oggetto di una raccolta
di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare.
Bene, noi siamo della stessa opinione e i deputati di Sel hanno da tempo pronto il testo
(che ricalca quello della proposta di legge presentata il 15 gennaio scorso) e non hanno
ancora ufficializzato la presentazione della raccolta di firme, nella speranza che possa
essere discussa e oggetto di una iniziativa partecipata e unitaria. C’è poco tempo — al
massimo una settimana– perché la raccolta di firme potrebbe essere fatta in parallelo con
la raccolta delle firme del referendum e non possiamo permetterci due mobilitazioni
separate. Quindi incontriamoci presto.
Infine stiamo ragionando su un’altra mobilitazione: quella dell’iniziativa dei cittadini europei
(in sostanza, simile alla nostra proposta di legge di iniziativa popolare) contro il fiscal
compact (un milione di firme da raccogliere in un anno in almeno 7 paesi dell’Unione
Europea) che avrebbe il grande valore di dare un segno europeo e non solo nazionale alla
mobilitazione contro le politiche dell’austerità. Stiamo lavorando alla messa in rete di
campagne e soggetti europei per avviare già dall’autunno questa iniziativa.
Referendum, proposte di legge (parlamentari e di iniziativa popolare), iniziativa europea:
evitiamo le contrapposizioni e i distinguo a favore di una mobilitazione unitaria contro le
politiche di austerità.
Guardiamo alla sostanza politica. La raccolta di firme di questa estate per il referendum e
la proposta di legge di iniziativa popolare possono dare un contributo a rilanciare una
mobilitazione dal basso contro le politiche di austerità in Europa.
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Del 03/07/2014, pag. 6
LA GIORNATA
L’ex ministro si appella al decreto del governo. Ma Orlando: “Decide il
giudice” Immunità, il governo ci ripensa e oggi il premier incontra anche
i 5Stelle
Fi vuole la norma salva-Galan “Non può
andare in carcere” Riforme, Renzi vede
Berlusconi
LIANA MILELLA
ROMA Alla vigilia di un nuovo incontro tra Renzi e Berlusconi, ma anche tra il premier e
M5S, sulle riforme esplode il caso Galan. Il tema dell’immunità resta caldo, anche se il
ministro Boschi lascia intendere che «la norma potrebbe cambiare in aula». Ma l’ex
governatore rimette in campo la palla di un’immunità giocata in chiave super protettiva per
parlamentari accusati di reati comuni. La norma non lo riguarda, e basta leggerla, ma lui
cerca di approfittarne lo stesso per allontanare nel tempo la decisione della Camera sulla
richiesta di arresto che incombe da Venezia. Succede che nell’ultimo decreto monstre del
governo su pubblica amministrazione, poteri di Cantone, ma anche sulle misure
compensative per chi ha subito un trattamento inumano in carcere, c’è pure la norma che
blocca la custodia cautelare se il giudice ritiene che, alla fine di un processo, al
condannato verrà inflitta una pena che non supera i tre anni. Lo stesso decreto stabilisce
che non ci può essere carcere preventivo se l’imputato può godere della sospensione
condizionale della pena. Norme “vecchie” perché erano già contenute nel ddl sulla
custodia cautelare, che da tempo fa il ping pong tra Camera e Senato. Approvata in
doppia lettura con una formula troppo stringente e che aveva allarmato l’Anm, è stata
inserita nel decreto, come spiega il Guardasigilli Orlando, proprio per modificarla
e mettere nelle mani del giudice, senza automatismi, l’eventuale decisione sull’arresto. Ma
se la norma è questa Galan che c’entra? I magistrati di Venezia vogliono arrestarlo per
corruzione, pena massima prevista 5 anni, e quindi è tutto da dimostrare che in un caso
del genere il giudice possa ipotizzare adesso, con l’inchiesta sul Mose agli esordi, che
l’esponente di Fi possa ottenere una condanna molto più bassa del massimo della pena
prevista per un reato grave come la corruzione. Tuttavia, chi politicamente sta dalla parte
di Galan ci prova lo stesso. Ecco che a Montecitorio, nella giunta per le autorizzazioni
della Camera, presieduta dall’ex Pdl e ora Fratelli d’Italia Ignazio La Russa, è proprio il
forzista Gianfranco Chiarelli a chiedere di respingere la richiesta d’arresto perché a Galan
si applicherebbe la norma più favorevole dello stop alla custodia cautelare. La rissa, a quel
punto, è inevitabile perché il Pd insorge e con Franco Vazio sostiene che la giunta non è
un giudice di seconda istanza, ma deve solo «valutare l’eventuale presenza di un fumus
persecutionis nella richiesta ». Galan, se vuole, potrà semmai far valere il principio del
nuovo decreto in sede di riesame a Venezia. Ma tant’è, La Russa preferisce il rinvio all’11
luglio, nonostante M5S insista su un voto che non può andare oltre quella data.
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Del 03/07/2014, pag. 6
Per le pene sotto i 3 anni cambiata la norma
sul carcere cautelare
La legge era stata contestata dalle toghe E Galan aveva già chiesto di
usufruirne
Alessandra Arachi
Giancarlo Galan avrebbe voluto approfittare volentieri di una norma che non prevedeva il
carcere cautelare per reati la cui pena era sotto i tre anni. Ma l’ex governatore del Veneto
— per il quale, comunque, essendo ora deputato di Fi, è la Camera che deve dare
l’autorizzazione all’arresto— non si era aggiornato. Da pochissimi giorni la legge, che era
stata contestata in diverse occasioni dalle toghe, non esiste più. Lo ha fatto sapere con
una nota il ministro della Giustizia Andrea Orlando.
Chiara la nota di via Arenula: esisteva una norma, approvata da entrambi i rami del
Parlamento, che prevedeva il divieto di qualsiasi misura cautelare detentiva nel caso di
previsione di una pena non superiore ai tre anni. «Ma il 26 giugno scorso il Governo è
intervenuto per correggere questa norma con un decreto legge dove, tra le altre cose,
viene prevista proprio la revisione della disciplina della custodia cautelare».
Con la correzione del governo adesso non ci saranno più automatismi, ma spetterà al
giudice decidere di volta in volta. Più precisamente, come dice la nota: «Sarà il giudice ad
esprimere in concreto una prognosi sulla pena concretamente applicabile all’esito del
processo, al solo scopo di evitare che l’imputato subisca una limitazione della propria
libertà in via cautelare rispetto a una pena che non dovrà essere eseguita all’esito della
condanna». Dal ministero di via Arenula danno anche altre spiegazioni e dicono che il
provvedimento, proprio perché un decreto, potrà essere modificato.
Spiegano: «Il testo introdotto, che prevede quindi la possibilità di applicare gli arresti
domiciliari anche per pene inferiori a tre anni nella direzione di garantire una maggiore
sicurezza dei cittadini, consentirà comunque al Parlamento di intervenire sulla materia con
eventuali correzioni». Giancarlo Galan aveva chiesto l’applicazione di una norma che era
contenuta nel provvedimento così detto «svuotacarceri» e che proprio ieri alcuni organi di
stampa avevano rilanciato con grande enfasi accusando il governo di «lasciare i ladri fuori
dalle carceri». Implicato nell’inchiesta sulle tangenti per il Mose, Giancarlo Galan continua
a professare la sua innocenza e ieri ha protestato di nuovo. «Mi è stata negata,
espressamente, la facoltà di difendermi davanti all’autorità giudiziaria», aveva detto nei
giorni scorsi l’ex-governatore del Veneto profetizzando che i giudici lo ascolteranno
soltanto una volta dentro il carcere. Intanto, proprio ieri, è finita agli arresti nella sua casa
di Vicenza Amalia Sartori: nella vicenda Mose la donna è accusata di finanziamento illecito
ai partiti. E fino ad ora era rimasta ancora libera perché quando era stata firmata
l’ordinanza di custodia cautelare era ancora parlamentare europea nelle file di Forza Italia.
Del 03/07/2014, pag. 14
LETTERA DEI MINISTERI GIUSTIZIA-INTERNI AI TRIBUNALI: NON CE LI CHIEDETE
PIÙ
Finiti i braccialetti elettronici
24
Scatta il «numero chiuso»
Nel contratto solo 2.000. Nuova gara non prima del 2015. Il capo della Polizia: «Non
sarà possibile esaudire nuove richieste»
di Luigi Ferrarella
Che begli annunci, che magnifiche sorti e progressive: «In prospettiva è auspicabile un
uso più esteso dei “braccialetti elettronici”» per il controllo a distanza dei detenuti ammessi
agli arresti domiciliari, raccomanda il 24 giugno ai magistrati una circolare del Ministero
della Giustizia. Del resto il 17 dicembre 2013 il comunicato stampa del governo Renzi
celebrava questa «sicura garanzia in ordine al mantenimento di adeguati standard di
controllo istituzionale sui detenuti».
Peccato che braccialetti elettronici non ce ne siano più: erano solo 2.000 quelli disponibili
nel contratto Telecom, sono tutti finiti, e procurarne altri non sarà possibile per almeno un
anno. Sta scritto in una lettera del 19 giugno del capo della Polizia, che la medesima
circolare del 24 giugno del gabinetto del Ministro della Giustizia allega e «prega di
comunicare agli uffici giudiziari in attesa che il Ministero dell’Interno giunga a una nuova
Convenzione che amplii la disponibilità dei “braccialetti elettronici”».
D’ora in avanti o si fa come in alcune sedi, dove le carceri stanno già cominciando a
comunicare ai giudici che «l’applicazione del braccialetto elettronico è momentaneamente
sospesa per raggiungimento della soglia contrattuale minima», e dove dunque le persone
poste ai domiciliari dai giudici non saranno più monitorate elettronicamente, ma solo
(come prima) dagli estemporanei controlli delle oberate forze dell’ordine. Oppure ci si
attrezza pazientemente per il “riciclo”, invece che dei regali di Natale, dei braccialetti a
“numero chiuso”: cioè si aspetta che una persona finisca gli arresti domiciliari con il
“braccialetto”, e si corre a prenotarlo (uno degli sempre stessi 2.000) per dirottarlo subito
su altri in attesa. Non è un gran periodo per la logistica della giustizia: ieri al Csm il
consigliere Auriemma ha segnalato «il blocco del sistema informatico che nel Tribunale
civile di Roma ha impedito del tutto i depositi degli atti da parte di giudici e avvocati e
l’intera attività di cancelleria». Ma questa dei braccialetti è l’ultima peculiare puntata della
telenovela legislativa-economica su quella che in realtà è una cavigliera idrorepellente,
impermeabile, resistente a 70 gradi di temperatura e a 40 chili di forza di strappo. Già
aveva divorato oltre 80 milioni di euro dall’infelice esordio nel 2001, tanto da produrre poi
sino al dicembre 2013 (quando in utilizzo ve n’erano solo 55 in 8 uffici giudiziari) «una
reiterata spesa antieconomica e inefficace», per dirla con le parole della Corte dei Conti
ben meno icastiche della colorita sintesi in Commissione Giustizia nel 2011 del vicecapo
della polizia Cirillo: «Se fossimo andati da Bulgari, avremmo speso meno». Ma il 17
dicembre 2013 il governo Renzi dei ministri Alfano (Interni) e Orlando (Giustizia), come
una delle valvole di sfogo per l’intollerabile sovraffollamento carcerario, punta di nuovo su
questo strumento regolato da un discusso e travagliato contratto con Telecom da 11
milioni l’anno. Al 19 giugno, quando scrive il capo della Polizia, erano già «attivi 1.600
dispositivi, con una previsione di saturazione del plafond di 2.000 unità entro giugno». È
successo: i braccialetti sono finiti, e «non sarà più possibile» - scrive Pansa - esaudire le
ulteriori richieste, «se non attraverso il recupero degli apparati non più utilizzati». Infatti
«l’ipotesi di ampliare il numero dei dispositivi previsti in Convenzione non appare
percorribile» perché questo contratto, bersagliato dai ricorsi, «è stato dichiarato inefficace
dal Consiglio di Stato, che ne ha prorogato la validità fino al 31 dicembre 2014». E rifare
l’appalto? Il ministero dell’Interno promette di aver «già avviato le iniziative volte alla
definizione di un Capitolato tecnico da porre a base di una gara per il nuovo servizio di
braccialetto elettronico, ma i tempi necessari allo svolgimento della procedura non
consentiranno l’attivazione del servizio prima di marzo-aprile del prossimo anno» 2015.
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Del 03/07/2014, pag. 9
Il leader Ncd pronto a riconoscere tutele giuridiche a tutte le coppie di
fatto. I paletti: niente adozioni e reversibilità
Svolta di Alfano sui gay “Sì alle unioni civili
ma più aiuti alle famiglie”
ALESSANDRA LONGO
ROMA Chi l’ha detto che il Nuovo Centro Destra di Alfano è chiuso ad ogni dialogo sul
tema dei diritti delle coppie di fatto anche omosessuali? Angelino Alfano interviene
direttamente per spiegare certe reazioni parecchio contrariate in casa sua dopo la sortita
di Berlusconi, che si è detto pronto a «dar battaglia» sui gay. Dunque la linea ufficiale è
questa: «Rispettiamo l’affettività di tutti - dice Alfano - Se c’è da garantire maggior tutela ai
problemi delle tante persone che convivono noi siamo pronti. La soluzione sia però
pragmatica e non ideologica. La nostra è un’apertura con un avvertimento: non si tocchi la
famiglia naturale, composta da uomo e donna, come recita la Costituzione all’art.31 («La
Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della
famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie
numerose»). Anzi, in autunno devono partire dei provvedimenti, nel contesto della legge di
stabilità e delega fiscale, che la rafforzino, perché è la famiglia il vero centro dello sviluppo
sociale di questo Paese».
Ministro Alfano, l’Ncd ci ha ripensato? C’è un cambio di linea?
«Assolutamente no. Non abbiamo difficoltà a ragionare, nell’ambito del codice civile, di un
tema che esiste ed è la tutela delle persone che convivono, anche gay. A patto che non si
neghi il valore della famiglia, fatta da uomo e donna. Noi chiediamo un ribaltamento della
politica fiscale che è ancora retaggio degli Anni Settanta. Nella prossima legge di stabilità
devono essere raggiunti degli obiettivi precisi. Penso al
Fattore famiglia che deve diventare l’elemento qualificante dell’azione fiscale del Paese.
Ricordiamoci che, se l’Italia ha retto durante la crisi, lo si deve alle famiglie che hanno
assistito gli anziani, mantenuto i giovani disoccupati. Sono loro la colonna vertebrale e
vanno premiate con interventi mirati».
Mi faccia riassumere: si può discutere di tutela alle coppie gay però solo se si
promuove la famiglia tradizionale.
«Non è uno scambio. Noi siamo pronti ad un’accelerazione su questo genere di tutele, la
nostra è un’apertura significativa. Tuttavia ci sono tre paletti e una questione politica».
Cominci dalla questione politica.
«L’argomento va deideologizzato e la soluzione non può prestarsi ad estensione anche
per sola via giurisprudenziale del matrimonio, dell’adozione, delle provvidenze. In nessun
caso si deve far passare l’idea che si sta lavorando ad un superamento della famiglia così
come la prevede la Costituzione».
I tre paletti.
«No ai matrimoni gay, no alle adozioni gay o all’utero in affitto, no alla reversibilità delle
pensioni che oggi costa più di 40 miliardi all’anno ed è la più costosa in Europa. Nessuno
capirebbe perché i maggiori oneri verrebbero inevitabilmente sottratti alla famiglia o ad
altre emergenze».
Da Giovanardi a Sacconi i toni degli “alfaniani” sono stati parecchio ultimativi.
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«La nostra posizione di merito è la stessa, come testimoniano i nostri disegni di legge:
rispetto di tutte le affettività e promozione della famiglia. Il meccanismo degli 80 euro deve
essere ampliato alle famiglie che guadagnano più di 1500 euro al mese ma hanno più figli.
Non possiamo immaginare che si intervenga sulle convivenze dimenticando loro. In
autunno dobbiamo riformare il sistema passando dalle multidetrazioni all’inserimento del
Fattore famiglia».
L’apertura sulla tutela delle coppie di fatto può eliminare un ostacolo tra voi e Renzi
dentro il governo?
«Lavoreremo perché si arrivi ad un accordo. Il tutto deve far parte di un equilibrio purché
siano salvi i principi».
Ce la farete?
«Ce la possiamo fare. Ma voglio vedere come si atteggiano i paladini dei cosiddetti diritti
rispetto ai bisogni delle famiglie».
Come mai Forza Italia ha preso la linea della battaglia per i gay?
«Non commento, è la loro linea. Noi siamo un’altra cosa».
I teocon si sentono meno di un tempo.
«È un fatto che dentro Forza Italia l’area favorevole alla famiglia è in difficoltà. Ma non
voglio entrare in vicende altrui».
Quanto conta Papa Francesco nelle dinamiche che si son venute a creare nella
politica italiana?
«La Chiesa cattolica non ha cambiato posizione sui principi, questo Papa ha solo
sottolineato la misericordia e la volontà di comprendere le nuove realtà della comunità
ecclesiastica, lasciando, come sempre, alla responsabilità dei laici di tradurre in azione
civile».
Del 03/07/2014, pag. 1-10
Imu Chiesa, esenzione facile per scuole e
cliniche private
VALENTINA CONTE
ROMA Scuole paritarie e cliniche convenzionate sono di fatto esentate dal pagamento di
Imu e Tasi. E in modo ben più ampio di quanto avviene ora, specie per le scuole. Agli
istituti si assegna un parametro di retta — dai 5.700 ai circa 7 mila euro l’anno — al di
sotto del quale sono esentati dalle tasse. Un parametro in grado di escludere anche chi fin
qui pagava. Per gli ospedali basta l’accreditamento pubblico.
Scuole paritarie e cliniche convenzionate con il sistema sanitario nazionale sono di fatto
esentate dal pagamento di Imu e Tasi. E con ogni probabilità in modo ben più ampio di
quanto avviene ora, specie per le scuole. La vicenda “Imu Chiesa” dopo ben due anni dal
decreto Monti - quello che introdusse l’uso misto degli edifici di proprietà degli enti non
commerciali (con le sole porzioni adibite ad attività di lucro soggette al pagamento
dell’imposta) - arriva dunque ad una fine. Sancita ora, al terzo esecutivo dopo Monti e
Letta, dall’atteso decreto del ministero dell’Economia firmato da Padoan il 26 giugno. Che
rimanda al nuovo modello di dichiarazione Imu-Tasi per gli “Enc” (enti non commerciali) di
color violetto e alle relative “Istruzioni”. Laddove si assegna, per le scuole, un parametro di
retta annuale al di sotto del quale l’istituto è esentato dalle tasse. Un parametro assai
generoso, dai 5.700 ai circa 7 mila euro l’anno. In grado di escludere anche chi fin qui
pagava. Per gli ospedali basta l’accreditamento pubblico. Più difficile sfuggire al fisco per
27
alberghi e bed&breakfast. Dimezzate anche le sanzioni per chi non ottempera, fino a 258
euro (in base alla vecchia legge Ici e non a quella Tasi). Il termine per presentare le
dichiarazioni relative al 2013 e 2012 (anni in cui non si è di fatto versato nulla) è il 30
settembre.
del 03/07/14, pag. 12
G8, chiesto risarcimento milionario a cinque
agenti
Botta e risposta tra Corte dei Conti e sindacati sul tema risarcimenti G8. L’altro giorno il
procuratore della Corte dei Conti di Genova ha chiesto un maxi risarcimento di oltre
1milione di euro a 5 poliziotti e dirigenti di polizia (fra loro l’ex numero 2 della Digos
genovese Alessandro Perugini) che avevano preso parte al violento pestaggio di Marco
Mattana, allora minorenne, durante il G8 di Genova del 2001. I cinque agenti e dirigenti,
citati in giudizio per il danno d'immagine patito dalla polizia, sono stati tutti già condannati
con sentenza in giudicato. Il danno di immagine calcolato ammonta a 1 milione e 120 mila
euro e le parole di accusa di Bogetti contro la classe dirigente di allora sono durissime:
«Se il ministero dell' Interno, come sarebbe stato doveroso, si fosse costituito parte civile
per il gravissimo danno all'immagine patito dal corpo della Polizia di Stato e dallo stesso
Stato, i quali si sono mostrati violenti e prevaricatori in spregio delle leggi, della
Costituzione e degli stessi principi dello stato di diritto, la presente azione di responsabilità
non sarebbe stata necessaria, perché certamente per tale danno - ancora più grave, se è
consentita la comparazione, di quello patito dalle singole vittime accertate - sarebbe stata
pronunciata una severa condanna». La condotta degli agenti viene definita «vile
aggressione» dal procuratore Bogetti, il quale ha anche ricordato come, in sede penale, gli
imputati siano stati condannati in via definitiva per alcuni dei suddetti episodi e per altri si
siano salvati solo grazie all'intervento della prescrizione. Senza mezzi termini la reazione
del sindacato di polizia. Gianni Tonelli, segretario generale del Sap, non usa mezze
parole: «Non basta essere condannati in sede penale. Nonè sufficiente essere obbligati a
rifondere un risarcimento civile che ti costringe a vendere anche la propria casa. Vogliamo
poi parlare delle sanzioni disciplinari interne? Tutto questo, per qualche magistrato, è
troppo poco. Adesso ci manca solo la richiesta di risarcimento di un milione di euro per
danno d'immagine da parte della Corte dei Conti». «Ai delinquenti che devastano le nostre
città - dice Tonelli - e agli amministratori arrestati per ruberie varie è stato mai contestato il
danno d'immagine allo Stato? È curioso, per altro, che la richiesta venga dal procuratore
Ermete Bogetti, che già nel 2007, quando era responsabile della magistratura contabile
piemontese, contestò a svariati colleghi che avevano semplicemente fatto il proprio dovere
durante alcuni scontri in Valsusa un'analoga azione di responsabilità per danno alla
finanza pubblica per comportamento lesivo dell'immagine e del prestigio del Corpo e dello
Stato. Non aggiungo altro ».
del 03/07/14, pag. 12
Aldrovandi, stipendio sequestrato agli agenti
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Sequestro conservativo di un quinto dello stipendio e di beni mobili e immobili a carico dei
quattro agenti di polizia condannati per la morte di Federico Aldrovandi, a copertura di un
danno erariale subito dal ministero dell'Interno pari, complessivamente, a 1 milione e
870mila euro: è quanto ha disposto la Corte dei conti dell'Emilia Romagna accogliendo la
richiesta della Procura regionale contabile. Dopo le verifiche istruttorie, la Procura della
Corte dei conti dell'Emilia Romagna aveva parlato della sussistenza di una grave
fattispecie di danno erariale subita dal ministero dell' Interno, che nel 2010 aveva stipulato
un atto negoziale di transazione in favore dei familiari del 18enne, morto nel settembre
2005 in un parco pubblico a Ferrara nel corso di un controllo di polizia. Ciascuno dei
quattro agenti condannati in via definitiva per l'«eccesso colposo nell'omicidio colposo» di
Federico Aldrovandi, secondo quanto stabilito dai magistrati contabili, dovrà risarcire una
danno di 467mila euro. L’udienza di comparizione, in cui si discuterà della convalida
dell’atto di sequestro conservativo, davanti ai giudici della sezione giurisdizionale della
Corte dei conti per l’Emilia Romagna è fissata per la settimana prossima, il 9 luglio. A
sostegno dell’azione di risarcimento del danno erariale hanno concorso una serie di
motivazioni, quelle che sono riportate nelle vari sentenze penali già passate in giudicato in
questi anni. Infatti, secondo la Procura regionale, le motivazioni addotte dai vari giudici
(soprattutto quelli di Cassazione che hanno posto il sigillo finale sul caso, confermando
tutti i rilievi dei giudici di primo grado e d’appello) hanno delineato tutti gli elementi di fatto
circostanziati negli atti, imputabili ai quattro agenti, che costituiscono la fonte di causa del
danno arrecato agli eredi a seguito della morte di Federico Aldrovandi. «È quello che
speravo, mi aspettavo e ritengo giusto, profondamente giusto» commenta Patrizia Moretti,
la mamma di Federico Aldrovandi: «Mi sembra - aggiunge - che alla fine la giustizia arrivi
davvero: questa è un grande notizia e sono senza parole. Il provvedimento della Corte dei
conti, anche se ancora parziale e non definitivo, è il completamento giusto della sentenza
di condanna per la morte di mio figlio». I sindacati di polizia hanno accolto invece come un
accanimento la notifica del sequestro conservativo di 1/5 dello stipendio e dei beni dei
quattro agenti (Paolo Forlani, Enzo Pontani, Luca Pollastri e Monica Segatto) che nel
frattempo hanno scontato la pena cui sono stati condannati e sono tornati in servizio: «È
un provvedimento eccessivo, mi sembra un accanimento» spiega Stefano Parziale
segretario del Silp di Ferrara ricordando i mezzi che hanno a disposizione i colleghi per
potersi difendere «con uno stipendio che non arriva a 1500 euro al mese». «Che vengano
ora a chiedere il risarcimento ai colleghi lascia alquanto perplessi » spiega Stefano
Paoloni, presidente del Sap: «È questo il trattamento che il nostro paese riserva agli
operatori di polizia ci lascia sbalorditi, prima decide un risarcimento in modo autonomo (lo
fece il ministero degli Interni dopo il processo di primo grado, risarcendo la famiglia, senza
consultare i legali degli agenti sotto processo, ndr) e poi ne chiede conto ai propri
operatori: ricordo ciò che ripetiamo da tempo, che in questa vicenda le vittime sono
sempre state 5, Federico Aldrovandi e i 4 colleghi. Questo provvedimento è la conferma:
ovviamente abbiamo fiducia nell'esito del giudizio della Corte dei conti che valuterà il caso
con attenzione e ci auguriamo non ritenga di adottare conseguenze patrimoniali ai colleghi
che debbono rispondere di reati di natura colposa al di fuori della propria volontà ».
Del 03/07/2014, pag. 21
“Aldrovandi, gli agenti devono risarcire”
sequestrate case e un quinto dello stipendio
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FERRARA Sequestrati soldi, beni e un quinto dello stipendio agli agenti condannati per la
fine di Federico Aldrovandi, il ragazzo diciottenne di Ferrara morto il 25 settembre 2005,
dopo una colluttazione con i poliziotti che lo avevano fermato.
«Finalmente si è arrivati al completamento della giustizia per la morte di mio figlio. È quello
che speravo, mi aspettavo e ritengo giusto, profondamente giusto», dice Patrizia, la
mamma di Federico. Mentre il padre Lino aggiunge: «È giusto che non siano i cittadini a
pagare per chi quella mattina si è reso responsabile della morte di mio figlio che diceva
basta e chiedeva aiuto».
I quattro agenti condannati per la morte di Aldrovandi, si sono infatti visti sequestrare beni
e soldi per conto dello Stato. Stato che chiede loro i danni per comportamento colpevole,
per gli errori commessi durante lo svolgimento del servizio. Ad aver deciso il sequestro è
la Corte dei conti di Bologna, per 1 milione e 870 euro a copertura del danno erariale che
lo Stato ha avuto, risarcendo nel 2010 la famiglia Aldrovandi: ora gli agenti Paolo Forlani,
Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri dovranno risarcire un danno di 467mila
euro a testa. Il sequestro sarà discusso nell’udienza alla Corte dei Conti il 9 luglio.
Dura e critica la reazione dei sindacati: «È eccessivo, mi sembra un accanimento» spiega
Stefano Parziale segretario del Silp di Ferrara. «La distruzione delle vite dei colleghi è
completa. Le migliaia degli operatori che lavorano ogni giorno terranno tutto questo bene a
mente», aggiunge Franco Maccari, Segretario Generale del Coisp. Perplesso il presidente
del Sap, Stefano Paoloni: «Che vengano ora a chiedere il risarcimento ai colleghi ci lascia
sbalorditi, prima si decide un risarcimento in modo autonomo (senza consultare i legali
degli agenti sotto processo) e poi si chiede conto ai propri operatori?».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 03/07/14, pag. 7
L’emergenza è per i dispersi
Luca Fazio
“Circa” trenta. “Almeno” una settantina. La rassegnazione è una modalità dell’abitudine. E
così ci siamo rassegnati a conteggiare i morti al metro cubo o a spanne. Tutti i giorni. Tanti
quanti ce ne stanno in una ghiacciaia di due metri per tre, uno sopra all’altro, tecnicamente
si direbbe strage.
L’altro giorno dovevano essere “circa” trenta i cadaveri imprigionati nel barcone
ormeggiato nel porto di Pozzallo e invece, dopo una straziante operazione di recupero, ne
sono stati estratti quarantacinque: ci siamo sbagliati di quindici. Sempre strage è. Ma oggi
è un nuovo giorno. Dunque un altro quarto d’ora di celebrità collettiva — non un volto, non
un nome provocherà un nodo alla gola — tocca ad altri esseri umani che nei giorni scorsi
sono stati inghiottiti dal mare in un altro naufragio: “almeno” una settantina. Forse 74.
Ancora strage.
Meno impressione desta un altro annegamento collettivo sfuggito alla conta quotidiana:
“solo” due morti e quattro dispersi in non si sa bene quale altro viaggio verso l’Italia.
Le due nuove tragedie sono state annunciate ieri dall’Unhcr dopo aver raccolto le
testimonianze di ventisette superstiti sbarcati martedì a Catania dalla nave Orione. La
notizia dell’ennesima strage è stata confermata anche dalla procura di Catania, che ha
aperto un’inchiesta sul gommone scomparso nel canale di Sicilia.
Contemporaneamente, a Strasburgo, è andato in scena il Matteo Renzi show. E’
commovente constatare che nel suo lungo discorso il presidente del Consiglio abbia avuto
il buon cuore di infilare qualche riga sull’impegno italiano per “far fronte alle stragi” nel
Mediterraneo: “Con la condivisione degli altri paesi e della Commissione riusciremo a far
fronte in modo più deciso per il futuro ai flussi migratori con Frontex plus”. Ma è un’altra la
frase destinata a lasciare il segno: “Se continuiamo a rinchiuderci nelle nostre frontiere
non andremo da nessuna parte. Il protagonismo dell’Europa non è solo nelle esigenze
economiche ma anche nella dimensione umana: voi rappresentate un faro di civiltà, la
civilizzazione della globalizzazione”. Sarebbe da incidere a futura memoria su migliaia di
lapidi lungo le coste della Sicilia, magari un giorno qualcuno la rileggerà come quel
“vincere e vinceremo” sbiadito sui muri.
Sicuramente meno gloriosa l’audizione del ministro degli Interni Alfano che ieri in Senato,
mentre in Sicilia si contavano i morti, si è limitato a farsi gli auguri — “il semestre italiano di
presidenza può essere una svolta” — prendendosela con i “mercanti di morte”, non senza
concedersi un briciolo di umanità per le agenzie di stampa: “Anche i morti, non solo i vivi,
volevano arrivare in Europa”. Quanto a loro, i vivi, anche con questo governo hanno poco
da stare sereni: “L’ipotesi della soppressione dei Cie è difficilmente praticabile, visto che
sono continuamente all’opera” (cinque prigioni per cinquecento prigionieri che non hanno
commesso alcun reato).
Se non fosse inutile, il ministro Alfano, invece di rivendicare le prigioni per innocenti
mentre è in corso un’ecatombe, potrebbe segnarsi quanto detto ieri dall’agenzia dell’Onu
per i rifugiati, e cioè “la necessità che i governi forniscano urgentemente alternative legali
ai pericolosi viaggi in mare”. Significa agevolare l’ingresso per ragioni umanitarie,
“garantendo alle persone disperate e bisognose di un rifugio la possibilità di cercare e
trovare protezione e asilo”. Non Frontex plus.
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Oltre alla drammatica conta dei morti, ogni giorno bisogna avere a che fare anche con i
vivi, e se fossimo un altro paese sarebbe una gran bella notizia: ieri pomeriggio, nel porto
di Augusta (Sr), sono sbarcati altri 150 migranti soccorsi dalla guardia costiera a 100
miglia a sud est dalla costa. Stanno tutti bene. Sabato sera, invece, a Pozzallo, ci sarà una
fiaccolata per ricordare con una preghiera comune le 45 persone morte su quel
peschereccio ancorato nel porto. E’ una idea del sindaco Luigi Ammatuna. Ha detto che
sarà una fiaccolata multiculturale e aperta a tutti i culti religiosi. Incredibilmente, non sono
attese milioni di persone.
Del 03/07/2014, pag. 20
In 27 si sono salvati: “Ma a bordo eravamo più di cento” E a Pozzallo
salgono a 45 gli uomini asfissiati nella stiva
Un’altra strage in mare affonda un gommone
80 migranti dispersi
ALESSANDRA ZINITI
DAL NOSTRO INVIATO
CATANIA Ogni profugo che scende racconta nuove storie di morte e di orrore. «Non
c’eravamo solo noi su quel gommone. Da Al Zwara siamo partiti in centouno. Gli altri sono
caduti in mare, sono affogati, quando ci hanno salvati erano già scomparsi tra le onde».
Basta fare una sottrazione ed ecco il numero di una nuova tragedia: dei centouno stipati
su quel gommone che ha cominciato a sgonfiarsi dopo mezza giornata di navigazione ne
sono arrivati solo ventisette. Tanti erano i profughi che un mercantile, che sabato ha
avvistato l’imbarcazione mezzo affondata, ha poi consegnato alla nave Orione della
Marina militare. Dunque all’appello mancherebbero in settantaquattro. Dispersi come
dispersi sarebbero altri quattro ragazzi, un marocchino e tre subsahariani, saliti a bordo di
un barcone senza un goccio d’acqua da bere e buttatisi in mare nel folle tentativo di
raggiungere un’altra nave che incrociava poco distante, mentre altri due uomini (dopo aver
bevuto acqua di mare) sarebbero morti a bordo disidratati e sarebbero poi stati gettati in
acqua: entrambi siriani, un giovane e un anziano. I loro compagni, 215, ancora con negli
occhi l’orrore della loro fine, sono stati salvati poche ore dopo dal mercantile “Asso” e sono
sbarcati ieri mattina a Porto Empedocle. E la triste contabilità di chi non ce l’ha fatta è
aumentata di altre sei unità. «La barca sulla quale viaggiavamo — hanno raccontato agli
operatori dell’Unhcr — era partita dalla Libia sabato ma il secondo giorno si è rotto il
motore e siamo rimasti fermi, in balia del mare, senza acqua da bere».
Ancora ottanta vittime, dunque, solo nell’ultimo weekend, almeno stando al racconto di chi
ce l’ha fatta, che vanno ad aggiungersi ai quarantacinque morti asfissiati all’interno della
stiva di quel barcone trainato ieri a Pozzallo dalla nave Grecale e sul quale viaggiavano in
seicentoundici. Sulle salme, tutte di giovani o di giovanissimi uomini del centro Africa,
recuperate con molta difficoltà dai vigili del fuoco, ieri sono cominciate le autopsie per
verificare le cause della morte, mentre gli investigatori della squadra mobile di Ragusa
hanno individuato ed arrestato i due scafisti del viaggio che ha fruttato agli organizzatori
più di un milione di dollari. I due, un senegalese e un gambiano, sono accusati anche di
sequestro di persona, per aver tenuto i migranti costretti nella stiva impedendo loro l’unica
via di fuga. Le notizie, ancora vaghe, delle nuove vittime sono arrivate ieri grazie alle
testimonianze degli ultimi arrivati raccolte dagli operatori dell’Unhcr che stima in 500 i
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migranti morti nel Mediterraneo dall’inizio del 2014. Una stima sicuramente per difetto visto
che, certamente, di altri incidenti e naufragi non è mai arrivata notizia. Il racconto
dei profughi sbarcati a Catania dalla nave Orione è considerato attendibile dagli inquirenti.
La conferma arriva anche dal procuratore di Catania Giovanni Salvi, che ha aperto
un’inchiesta: «Il naufragio — spiega — sarebbe avvenuto per le pessime condizioni del
gommone, che era sovraffollato, sul natante infatti risulta che si trovassero 101 persone.
Queste informazioni naturalmente sono provvisorie e dovranno essere oggetto di ulteriore
verifiche».
del 03/07/14, pag. 6
«Un centro in ogni regione, tre livelli di
accoglienza»
● Pronto il Piano nazionale accoglienza profughi ● Il 10 luglio l’atteso
via libera delle Regioni
Tre livelli di accoglienza, un centro in ogni regione, percentuale di ospiti stranieri in
proporzione alla grandezza della singola regione, 30 euro il costo medio al giorno per ogni
immigrato/rifugiato, libertà di muoversi in area Schengen una volta avvenuta
l’identificazione. Il Piano è pronto e attende il via libera definitivo giovedì 10 luglio quando
si riunirà la conferenza Stato- Regioni. I timori che qualche governatore, ad esempio
Lombardia e Veneto si possano opporre, è nelle cose. «Ma - ragionano dal Viminale - se
la nostra proposta fallisce si deve sapere che un secondo dopo si va in emergenza, cioè
con la nomina di un Commissario speciale che a quel punto imporrà le sue decisioni».
Ieri il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha spiegato le linee principali del suo mandato
davanti alla Commissione Affari costituzionali del Senato. «Anche i morti, non solo i vivi,
volevano arrivare in Europa - ha detto - noi chiediamo all'Unione Europea che mandi
Frontex ad occuparsi del Mediterraneo. Il semestre italiano di presidenza può e deve
essere una svolta». L’Italia comincia il semestre con le carte in regola: non si è mai
sottratta, a differenza di altri paesi che affacciano sul Mediterraneo, alle operazioni di
soccorso, si può dire che se ne sta facendo carico - nonostante appelli e promesse unilateralmente. E ora è anche in grado di presentare un Piano nazionale di accoglienza
dei profughi. Perchè di questo si parla davanti ai numeri degli sbarchi: oltre 65 mila
dall’inizio dell’anno; furono 61 mila nell’estate 2011 dopo la primavera araba. Mai stati così
tanti. Un flusso migratorio, ha proseguito Alfano, «difficile da bloccare » che sarà uno dei
temi principali dell'agenda del semestre.
Un flusso migratorio che l’Italia vuol dimostrare di saper gestire e non solo subìre. Alfano
ha dato la delega per immigrazione al sottosegretario Domenico Manzione, lucchese, ex
magistrato. Il Piano è articolato su tre livelli. Il primo prevede due grandi centri di prima
emergenza in Sicilia, la regione dove avvengono gli sbarchi e che attualmente ospita il
35% degli arrivi («una percentuale insopportabile per l’isola»). Si tratta di due hub (come
gli aeroporti da dove poi si può partire per tutte le destinazioni), due centri dove avverrà la
primissima accoglienza, l’emergenza, i primi controlli sanitari, cibo e abiti. «La Difesa sta
provvedendo ad indicare i siti - spiegano al Viminale - non ci saranno nè campi, nè tende.
Parliamo di strutture abitabili come caserme e, perchè no, anche immobili sequestrati alle
mafie». Il lasso di tempo previsto di presenza nel primo livello è «intorno a una settimana,
a secondo del numero degli arrivi». Il secondo livello prevede la fase delle mediazione
culturale, linguistica, dell’identificazione e, solo a quel punto, dell’eventuale domanda di
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asilo per ottenere lo status di rifugiato. È a questo punto che, in genere, si crea il tappo.
«Molte di queste persone - si spiega - non vogliono farsi identificare, non accettano di farsi
prendere le impronte digitali. Di fronte a questa eventualità, però, saremo inflessibili: chi
non accetta l’identificazione deve sapere che verrà trasferito in un centro di accoglienza da
cui non potrà uscire». Lo straniero che, invece, collabora, subito dopo l’identificazione sarà
trasferito alle strutture che rappresentano il terzo livello del Piano nazionale, i cosiddetti
SPRAR (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati) dove lo straniero avvia un
percorso di integrazione se decide di restare in Italia. Oppure («la maggior parte delle
volte») avvia le pratiche per il ricongiungimento familiare in un paese di area Schengen. A
livello di costi il governo è convinto che un sistema così integrato «pur non potendone
prevedere i numeri» possa costare meno di quello che accade oggi che siamo in piena
emergenza e gli arrivi vengono dirottati in alberghi e pensioni.
Difficile fare calcoli precisi perchè le presenze oscillano in continuazione. Di certo, una
volta avviato il Piano, i costi saranno più contenuti e controllati visto che si parla di 30 euro
al giorno. Lo Stato trasferirà alle Regioni che a loro volta utilizzeranno i volontari del Terzo
Settore. Tutti già consapevoli, e si spera immuni, delle truffe avvenute in passato.
L’emergenza, finora, ci è costata circa 10 milioni al mese. Trecentomila se ne vanno ogni
giorno solo per Mare Nostrum. Un costo non più sopportabile.
del 03/07/14, pag. 7
«Adesso l’Europa deve consentire gli
ingressi»
Carlo Lania
Intervista/Carlotta Sami, portavoce Unhcr. «Barconi caricati
all’inverosimile dai trafficanti. I migranti devono poter attraversare
legalmente il Mediterrano»
«Mare nostrum non solo deve continuare ma deve essere rafforzata, perché gli
attraversamenti non cesseranno. Ma l’Unione europea deve anche adottare delle misure
che permettano ai migranti di attraversare legalmente il Mediterraneo». Le ultime tragedie
dell’immigrazione sono state denunciate ieri dall’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni
unite per i rifugiati, che ha dato notizia di due naufragi nei quali potrebbero aver perso la
via complessivamente un’ottantina di migranti. Sono le ultime vittime di una strage molto
spesso silenziosa che, sempre secondo l’Unhcr, avrebbe provocato almeno 500 morti
dall’inizio dell’anno a oggi. «Sono stime che abbiamo calcolato tenendo conto delle
persone morte nel mar Egeo, tra la Libia e l’Italia e nei naufragi avvenuti davanti alla Libia
e alla Tunisia, ma anche delle persone morte davanti alle coste spagnole» spiega Carlotta
Sami, portavoce dell’Unhcr per il sud Europa. «Gli ultimi due incidenti sarebbero avvenuti
tra sabato e lunedì scorso e entrambe le imbarcazioni sarebbero partite dalla Libia. Nel
primo caso si tratta di un gommone con almeno 70 persone che si sarebbe ribaltato. Il
secondo riguarda invece un barcone che è andato in avaria dopo un paio di giorni. I
dispersi in questo caso sono sei: un marocchino, tre africani a due siriani.
Mare nostrum ha permesso di salvare migliaia di vite, ma purtroppo nel
Mediterraneo si continua a morire. E’ chiaro che l’operazione di pattugliamento non
basta più. Cosa serve ancora?
Prima di tutto direi che c’è un aumento della violenza usata dai trafficanti nei confronti dei
migranti e un’assenza di scrupoli nel caricare queste barche fino all’inverosimile. Sembra
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poi esserci un accanimento particolare verso i subsahariani, probabilmente perché hanno
meno soldi da dare. Questo è sicuramente un dato: i trafficanti caricano sempre più
persone su barche che sono sempre più insicure. Ci sono gommoni che basta un’ondata
per mandarli a fondo. Ma ci preoccupa molto anche la situazione in Libia, sia dal punto di
vista politico che delle condizioni dei migranti. L’instabilità politica si ripercuote in maniera
diretta e grave su di loro.
Che notizie avete per quanto riguarda i migranti?
C’è un network di sfruttamento gravissimo e una situazione umanitaria gravissima nei
cosiddetti centri di detenzione governativi in cui i migranti vengono portati. E poi ci sono
centri creati dagli stessi trafficanti dove vengono portati soprattutto i rifugiati eritrei, che lì
vengono torturati e ricattati finché non pagano per essere liberati. Parliamo di persone che
arrivano in Italia in condizioni davvero gravi, di donne che restano incinta dopo essere
state violentate e questo rende tutto molto più tragico. E poi c’è la fase in cui vengono
messi sulle barche, che è molto violenta. Tanti rifugiati ci hanno raccontato di essersi
spaventati per quante persone c’erano sulla barca e quando hanno cercato di ribellarsi
sono stati picchiati come bestie. Per mettere fine a tutto questo come Unhcr chiediamo
due cose: di continuare lo sforzo si salvataggio in mare che non deve essere abbandonato
e anzi deve essere allargato e diventare europeo in tutto il Mediterraneo. Dopo di che
chiediamo che si metta a punto un piano per quelle che noi chiamiamo misure legali
alternative, ovvero delle alternative legali per l’attraversamento del Mediterraneo. Nella
sostanza si tratta di programmi di reinsediamento, ammissione umanitaria e facilitazione di
ricongiungimenti familiari, insieme a un’interpretazione elastica del regolamento di Dublino
che faciliti in particolare proprio i ricongiungimenti familiari. Bisogna evitare che una
persona che è stata riconosciuta in Europa come rifugiato, faccia arrivare la famiglia
facendola partire dalla Libia con una barcone.
Tutto questo però è possibile solo aprendo uffici vostri e dell’Unione europea nei
paesi di transito.
Per quanto riguarda i siriani potrebbe essere fatto in buonissima parte attraverso i nostri
campi dove già esaminiamo le richieste di asilo. Per quanto riguarda gli eritrei, invece, la
difficoltà più grandi le abbiamo in Libia dove dobbiamo capire se esiste la possibilità di
stipulare accordi seri tra i governi europei e Tripoli.
del 03/07/14, pag. 7
L’odissea degli eritrei nel Sinai
Giuseppe Acconcia
IL CAIRO
Egitto. Human Rights Watch: «Le polizie (egiziane e sudanesi) sono
conniventi con i trafficanti di esseri umani»
Il Sinai è una regione fuori controllo dove è in corso una punizione collettiva da parte
dell’esercito egiziano dei beduini che, per disperazione, decidono di sostenere i jihadisti
locali. È una regione dove non solo fioriscono i traffici illegali di oppio, ma anche di
migranti. Secondo un report, anticipato al manifesto da Heba Morayef, responsabile di
Human Rights Watch al Cairo, dal 2006, decine di migliaia di eritrei che tentavano di
scappare dal loro paese sono stati deportati nella penisola del Sinai. Fino al 2010,
passavano per il Sinai volontariamente ma negli ultimi tre anni hanno subito arresti,
torture, sono stati vittime di traffici o uccisi.
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Trafficanti sudanesi hanno rapito e venduto a trafficanti egiziani migliaia di eritrei per
estorcere somme di denaro ai parenti delle vittime. Spesso i familiari hanno ricevuto
telefonate durante le quali si sentivano le grida dei migranti che subivano torture (stupri,
mutilazioni, ustioni, elettro-shock, ecc.). Un trafficante beduino ha ammesso le sue
responsabilità e descritto come avviene la compra-vendita di eritrei. «Li compro e rivendo
per puro profitto. Non li torturo perché commetterei un peccato – ha aggiunto a condizione
dell’anonimato — l’ultimo gruppo risale a pochi mesi fa. Quando ho iniziato nel 2009,
pagavo 100 dollari a persona, ma quest’anno ho dovuto pagare fino a 600 dollari. Tra il
2010 e il 2011, compravo cinque migranti al giorno, quindi circa 1500 all’anno».
Molti eritrei hanno raccontato questi episodi a organizzazioni per i diritti umani e
all’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr). Le violenze sono state facilitate dalla
collusione tra i trafficanti sudanesi, la polizia egiziana e i militari che hanno fermato le
vittime di traffico nelle stazioni di polizia chiudendo un occhio sulle violenze e restituendo
le vittime ai loro aguzzini. Le autorità egiziane e sudanesi non hanno perseguito nessuno
dei responsabili di questi crimini, violando i loro obblighi come firmatari di leggi che vietano
il traffico di esseri umani.
L’odissea degli eritrei inizia nell’est del Sudan nel campo profughi più vicino all’Eritrea
dove si trovano circa 75mila connazionali, soprattutto musulmani, alcuni dei quali vivono lì
da decenni. Tra il 2004 e il 2012, anche circa 2mila cristiani tigrini si sono registrati nel
campo denunciando abusi e violenze. Molti di loro, per le misere condizioni del campo,
hanno ripreso il viaggio verso il Nord Africa e l’Europa. Alcuni hanno raggiunto Khartoum e
Cairo, altri si sono diretti verso la Libia, l’Unione europea, Gibuti e l’Arabia saudita. Nel
2010, sono state pubblicate le prime prove di contrabbandieri che hanno trasformato i loro
«clienti» abusandone per estorcere denaro alle loro famiglie. A Kassala, la polizia
sudanese ha direttamente consegnato gli eritrei ai trafficanti. Lo stesso è avvenuto oltre il
confine egiziano, dove la polizia è sempre stata collusa con i trafficanti a partire dai checkpoint al confine sudanese o nei pressi del Canale di Suez.
In Egitto, nessun ufficiale di polizia è stato perseguito per collusione con i trafficanti.
Quando i poliziotti egiziani nel Sinai hanno fermato migranti eritrei al confine, ne hanno
trasferiti alcuni alle corti militari o civili della città costiera di al Arish, altri nelle stazioni di
polizia. Gli eritrei rimangono poi in prigione per mesi: vengono di solito rilasciati solo
quando mostrano un biglietto aereo. E così le vittime di traffico sono tenute in ostaggio per
una seconda volta arbitrariamente dalla polizia egiziana.
Secondo Unhcr, alcuni dei sopravvissuti della strage di Lampedusa dello scorso ottobre, si
erano registrati come rifugiati proprio nei campi sudanesi ed etiopi. All’inizio del 2013, i
rifugiati eritrei richiedenti asilo sono stati 300mila con oltre il 90% di richieste accolte. Negli
ultimi dieci anni, 130mila eritrei si sono registrati nei campi sudanesi orientali e in Etiopia.
Gli eritrei in Egitto vivono nello slum periferico di Ard al-Liwa. Chi resta ha già parenti o
relazioni consolidate. Molti di loro raccontano di aver subito discriminazioni e tentativi di
rapimento da parte di beduini che volevano deportarli nel Sinai.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 03/07/14, pag. 6
Dopo il trasbordo preoccupa l’idrolisi
Silvio Messinetti
Calabria. Lo smaltimento delle armi chimiche siriane procede a ritmo di
6/7 container all’ora, ma sulla fase successiva dubbi e silenzi
«Quella di Gioia Tauro è stata la scelta giusta, oggi lo ha dimostrato». È in forma
smagliante il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, incontrando i giornalisti a Gioia
Tauro dopo il suo sopralluogo nel porto alle operazioni di trasbordo delle armi chimiche,
sottolineando «la professionalità e la tecnologia avanzata di cui l’Italia è all’avanguardia».
Galletti ha specificato che «non si tratta solo di un’operazione tecnica, ma di riaffermare il
valore della sicurezza e della pace nel mondo». »L’Italia è capace di fare cose belle che
molte parti del mondo ci invidiano», ha aggiunto concludendo che «qui si è scritta oggi una
buona pagina per il Paese».
Il ministro si è detto soddisfatto per come è stata gestita tutta l’operazione del trasbordo
delle armi chimiche, fin dalla fase preparatoria: «Quando la popolazione ha delle
preoccupazioni, l’informazione e la trasparenza hanno insegnato che pagano. Lo dimostra
la tranquillità di oggi». Ma fuori dalle veline governative, non tutto è filato per il verso
giusto. I Vigili del fuoco saliti sul cargo danese Ark futura per un operazione cosiddetta di
bunkeraggio hanno scoperto una serie di scorie già trattate e imballate, dunque già pronte
per la Germania. «È chiaro che una parte dell’idrolisi è stata già fatta a largo durante il
viaggio fuori dai programmi prestabiliti» ci spiega Tonino Jiritano dell’Usb. In tutta questa
vicenda dell’arsenale chimico, in effetti, c’è un elemento di non detto, aspetti tenuti
riservati fino all’ultimo e particolari che non verranno mai chiariti. A cominciare dalla fase
successiva al trasbordo, quella nota come idrolisi. La Cape Ray, la nave statunitense,
dovrebbe portare gli agenti chimici trasbordati a Gioia in una zona del mar Mediterraneo
ad ovest dell’Isola di Creta, dove subirebbero il trattamento mediante idrolisi. A tal rigurado
sulla Cape Ray sono stati installati due sistemi Field Deployable Idrolisi System che
neutralizzano gli agenti chimici mescolandoli con acqua e altri reagenti come idrossido di
sodio e ipoclorito di sodio e poi riscaldandoli fino a trasformarli. Le scorie risultanti dal
trattamento saranno inviate verso altri paesi in primo luogo la Germania. «Ma non è detto
che non vengano usate per produrre altre armi» eccepiscono i pacifisti di Sos
Mediterraneo.
Che non sono tranquilli sull’idrolisi in mare aperto. «Il metodo che si utilizza per
distruggere sostanze così nocive è sempre stato la combustione. E le volte che si è scelta
l’idrolisi lo si è fatto in porto». Inoltre il cargo americano è una nave vecchia, fabbricata nel
1977. E farebbe questa operazione non nell’Oceano ma nel Mediterraneo che è un mare
chiuso dove il vento soffia a 6,5 Beaufort. «Se il vento dovesse soffiare a più di tre nodi
bisognerà sospendere le operazioni». Galletti ha detto che l’operazione è rispettosa
dell’ambiente e dell’ecosistema. Non di questo avviso gli scienziati greci dell’Università di
Creta secondo cui «queste sostanze chimiche sono miscele di agenti tossici e velenosi
che non possono essere del tutto inattivate in modo da non far danniagli organismi viventi
solo con l’idrolisi. È un metodo estremamente pericoloso con conseguenze nefaste per
l’ambiente mediterraneo e i popoli vicini. Si rischia la necrosi assolutadell’ambiente
interessato e l’inquinamento marino tra il mar libico e il mar di Creta». Galletti sul punto è
stato reticente e non si è pronunciato. Così come rimane il dubbio che questo materiale di
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risulta venga effettivamente neutralizzato oppure riciclato per costruire nuovamente armi. Il
trasbordo procede a ritmo di 6/7 container all’ora. Nel mentre, all’esterno, fuori dalla zona
di sicurezza, un gruppo di persone contesta sotto il sole. Indossano magliette con scritto:
«Ci state ammazzando di tumore». Firmato: la Piana di Gioia Tauro.
Si tratta dei residenti del quartiere Fiume, nel quale ricadono tutti gli impianti compreso il
termovalorizzatore. Con loro ci sono anche i bambini. E la loro protesta, spiegano, è
legata, oltre che al trasbordo, anche alla presenza di tutti gli stabilimenti che loro ritengono
nocivi. Galletti anche sul punto indossa i panni del pompiere e rassicura: «Su questa area
abbiamo già avviato con l’Arpa un programma finanziato con fondi europei, nei fondi di
coesione, di monitoraggio di alcune zone sulle quali è stata segnalata la presenza di rifiuti
pericolosi». Ma in pochi ci credono. A queste latitudini hanno imparato a diffidare di facili
promesse e vane illusioni.
del 03/07/14, pag. 6
Assemblea al Comune: «L’articolo 5 del piano
casa è incostituzionale»
Valerio Renzi
ROMA
I movimenti per il diritto all’abitare a Roma vogliono uscire dall’angolo dove il governo,
alcuni quotidiani e la magistratura, li vogliono costringere. Prima gli sgomberi, senza
indicare una soluzione per le famiglie messe in mezzo ad una strada; poi l’arresto dei
portavoce Paolo Di Vetta e Luca Fagiano; infine la notizia riportata da «Il Tempo» di un
fascicolo prodotto dal pool antiterrorismo che chiede lo sgombero di 60 edifici. Su tutto, il
Piano Casa licenziato dall’esecutivo di Matteo Renzi che porta il nome del ministro delle
Infrastrutture Maurizio Lupi. L’articolo 5 del provvedimento viene considerato un attacco
alle occupazioni abitative perché nega l’allaccio di utenze, impone il distacco di acqua, gas
e luce e respinge la possibilità di chiedere la residenza.
I movimenti hanno affrontato questi problemi durante un’assemblea convocata nella Sala
del Carroccio in Campidoglio a Roma. Allo stesso tavolo si sono seduti alcuni esponenti
istituzionali. Ad aprire l’assemblea uno dei volti storici della lotta per la casa, Bruno
Papale: «chiediamo alla politica una nuova maniera di confrontarci — ha detto —
L’emergenza abitativa deve essere affrontata come una questione sociale, non delegare la
soluzione del problema alla stampa e alla magistratura». L’ex consigliere comunale di
Action Andrea Alzetta, ha accompagnato al tavolo una signora dell’occupazione di via
Pecile, una dei primi casi di diniego della residenza con l’applicazione dell’articolo 5. «Noi
così non esistiamo, siamo invisibili» ha detto la donna. «Le occupazioni — ha aggiunto
Alzetta — conferiscono al patrimonio pubblico e privato abbandonato un senso sociale,
non indicano solo la soluzione dell’emergenza abitativa. Questo patrimonio deve essere
messo a disposizione della città e non venduto per buttare dei soldi nel pozzo senza fondo
del debito».
Per la parlamentare di Sel Celeste Costantino l’articolo 5 equivale all’istituzione del reato
di povertà: «prima è diventato illegale essere clandestini, ora sei perseguitato anche se
povero». Ha preso la parola Roberta Lombardi, una degli esponenti più in vista del
Movimento 5 stelle, che ha già portato la sua solidarietà a Paolo Di Vetta, ristretto ai
domiciliari. Per M5S i contributi pensionistici dovrebbero finanziare un piano per
l’emergenza abitativa e direttamente le pensioni. «Siamo disponibili a fare da scudi umani
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contro gli sgomberi e gli sfratti» ha detto Alessandro Di Battista (M5S). Per l’ex segretario
del Pd romano Marco Miccoli, ora parlamentare e aperto al dialogo a sinistra del suo
partito, il compito più duro: rappresentare quello che è indicato come principale
responsabile della stretta repressiva: il Partito democratico. «Quello della casa non è un
problema di ordine pubblico — ha detto — non sono gli arresti che risolvono il problema
dell’emergenza abitativa». Per Miccoli, è necessario un confronto sull’uso dei fondi
stanziati dal decreto Lupi contro gli sfratti per morosità incolpevole e per chiarire come
l’articolo 5 non può essere retroattivo. Ma alla platea questo non è bastato. «Il blocco degli
sfratti lo abbiamo chiesto incontrando anche Lupi e con grandi manifestazioni, ma il
parlamento non l’ha mai votato» hanno sostenuto Luciano dei Blocchi Precari
Metropolitani e l’avvocato dei movimenti Perticaro.
Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista, ha annunciato l’azione di protesta
dell’europarlamentare della Lista Tsipras Eleonora Forenza che, in occasione del discorso
di Mattero Renzi a Bruxelles in occasione dell’inizio del semestre europeo a guida italiana,
ha esposto un manifesto di solidarietà con i movimenti italiani. In sala altri amministratori di
centrosinistra, soprattutto dei municipi, hanno espresso la loro preoccupazione sulle
conseguenze dell’applicazione dell’articolo 5. Tutti convinti della sua incostituzionalità.
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INFORMAZIONE
del 03/07/14, pag. 5
I freelance scendono in piazza
Roberto Ciccarelli
Giornalisti. Manifestazione contro l’intesa Fieg-Fnsi sull’equo
compenso: martedì 8 a Roma. Nei prossimi giorni verrà presentata
un'interrogazione al governo che chiede il ritiro dell'intesa sui
giornalisti precari, primo firmatario Adriano Zaccagnini. Intanto il
sindacato si spacca su un contratto che è la prima applicazione della
legge Poletti sui contratti a termine e l'apprendistato
Una manifestazione di protesta a Romaorganizzata dai giornalisti freelance l’8 luglio sotto
la sede del sindacato , la Federazione nazionale della stampa, per chiedere il ritiro
dell’accordo sull’equo compenso. Un referendum sul nuovo contratto nazionale firmato dal
sindacato con gli editori della Fieg da svolgere nelle associazioni della stampa e nelle
redazioni.
Un appello per il referendum è stato già firmato da giornalisti come Riccardo Iacona,
Milena Gabanelli, Fiorenza Sarzanini o Marco Imarisio. A giorni verrà presentata
un’interpellanza al presidente del Consiglio Renzi, primo firmatario Adriano Zaccagnini (ex
M5S, ora nel gruppo misto), che, tra l’altro, chiede il ritiro della delibera «perchè
anticostituzionale e contraria ai principi della legge sull’equo compenso». Sabato 5 luglio a
Roma si terrà un’assemblea nazionale «per porre le basi di un nuovo sindacato».
Sono le iniziative annunciate ieri alla Camera in una conferenza stampa convocata dai
freelance alla quale hanno partecipato, tra gli altri, il presidente dell’ordine dei giornalisti
Enzo Iacopino e il segretario dell’associazione stampa romana Paolo Butturini.
«Credo — ha detto Iacopino — che il primo nemico che i giornalisti abbiano oggi si ritrovi
nel gruppo dirigente della Fnsi. Non nel sindacato in generale, di cui c’è bisogno, ma nei
dirigenti attuali perché hanno fatto una cosa che con la tutela dei colleghi non ha nulla a
che vedere». Immediata reazione del segretario generale della Fnsi Franco Siddi: «Parlare
senza documentarsi è peccato mortale – ha detto Siddi – Nell’accordo nessun diritto è
stato leso. Se ne sono aggiunti altri a tutele crescenti, dove non ce n’erano, e a
salvaguardia degli istituti della categoria, della previdenza per giornalisti Inpgi. La
disinfomatia è un peccato mortale».
Il sindacato dei giornalisti italiani si spacca mentre si moltiplicano le voci su azioni
giudiziarie e i Cdr di varie testate hanno espresso pareri negativi sull’accordo. Per i
dipendenti il contratto introduce nuove tipologie di assunzioni, come il salario di ingresso,
che abbassano le tutele di chi è alle prime armi e di chi è rimasto senza lavoro. La miccia
che ha fatto esplodere la rivolta è stata l’intesa sull’equo compenso.
Per l’Fnsi introduce i precari nell’ambito di un contratto nazionale. Per i precari fotografa la
realtà dello sfruttamento. La delibera firmata dal sottosegretario Lotti quantifica il
contributo minimo in 250 euro al mese, 20 euro lordi ad articolo per un quotidiano. Non
conta l’argomento, il taglio, la lunghezza di un’inchiesta sulle mafie, una cronaca sportiva o
un reportage dall’estero: la paga ritenuta equa per 144 articoli all’anno è di 250 euro al
mese per articoli minimo da 1600 battute, per i periodici 1800, 7 mila per i mensili. Una
riga di meno e non si rientra nell’equo compenso.
Se il collaboratore scrive da 145 a 288 articoli verrà pagato il 60% di 250 euro. Scrivendo
notte e giorno, Natale e Ferragosto compresi, da 289 a 432 articoli, potrebbe ricevere il
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50% di 250 euro. Da qui le critiche di «incostituzionalità» al contratto, di lesione del diritto
ad essere informati e alla libertà di lavorare per informare. Più lavori, meno vieni pagato. In
questo modo, rischia di lavorare solo chi può permettersi di guadagnare 250 euro minimi
al mese.
Per l’associazione XX maggio l’accordo vale solo per i contratti di co.co.co. Secondo i dati
Inpgi 2011 a 11.363 giornalisti su 47.727, tra i quali ci sono i pensionati che continuano a
lavorare con questa modalità. Il compenso minimo non verrà applicato se non si
percepisce un compenso da attività giornalistica inferiore ai 3 mila euro all’anno.
Secondo i dati del rapporto sulla libertà di stampa, diritto all’informazione (Lsdi) il 48,9%
dei giornalisti autonomi nel 2012 aveva un reddito inferiore ai 5 mila euro e il 18,7% ai
mille. Con la crisi è probabile che questa media sia inferiore ai 3 mila euro. La platea a cui
si applica l’accordo si riduce così a 7.954 giornalisti. Per chi, infine, lavora con la partita
Iva o con la ritenuta d’acconto per avere 250 euro al mese deve avere lavorato per lo
stesso committente 8 mesi all’anno per 2 anni e il suo guadagno deve rappresentare l’80%
dei corrispettivi annui.
Infine, l’accordo sull’equo compenso si applica solo agli editori che ricevono i contributi per
l’editoria. Il nuovo contratto giornalistico ha un valore politico importante perché applica,
per la prima volta, la legge Poletti sui contratti a termine «acausali» di 36 mesi in un
contratto nazionale e introduce la figura dell’«apprendistato professionalizzante».
del 03/07/14, pag. 13
Il canone Rai per i pc
pasticcio da un miliardo
Un pasticciaccio brutto. E’ quello del canone speciale Rai, che negli ultimi giorni sta
creando polemiche a non finire e soprattutto tanta confusione. E proprio la confusione
potrebbe essere stato il vero obiettivo (raggiunto) di tutta questa storia.
LETTERE
Solo così si può infatti spiegare l’invio di lettere ai milioni di partite Iva per il pagamento del
pc aziendale, senza specificare che a versare i 407,35 euro devono essere soltanto coloro
che utilizzano i computer come televisori (digital signage). E senza aggiungere che non va
corrisposto nel caso sia già avvenuto il pagamento per il possesso di uno o più televisori. Il
concetto era già stato chiarito nel 2012 dall’allora ministro dello Sviluppo Economico,
Corrado Passera, che emanò una circolare per individuare i soggetti effettivamente tenuti
a versare il canone speciale, vale a dire «i proprietari di apparecchi atti o adattabili alla
ricezione di trasmissioni radiotelevisive in esercizi pubblici, in locali aperti al pubblico o
comunque fuori dell’ambito familiare, o che li impiegano a scopo di lucro diretto o
indiretto». Ma nella confusione che si è scatenata subito dopo la ricezione delle lettere, la
speranza era (ed è) probabilmente quella di ottenere il pagamento da parte di alcuni dei
destinatari, mettendo insieme un bel gruzzoletto. In totale, come sottolineato anche da
alcune associazioni di categoria, la mossa potrebbe portare addirittura un miliardo di euro.
Il sottosegretario all’Economia, Giovanni Legnini, è stato piuttosto chiaro nel dare un
giudizio sull’operazione: «La Rai, nella migliore delle ipotesi, ha fatto un pasticcio. La
comunicazione arrivata a milioni di partite Iva si poteva fare meglio. Si poteva essere più
chiari e precisi, individuando meglio i destinatari. Capisco la rabbia degli imprenditori, sono
persone che lavorano e alle quali non dobbiamo far perdere tempo».
RABBIA
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Ed in effetti gli imprenditori sono molto arrabbiati. Daniele Vaccarino, presidente della Cna
(Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa, ndr) in una
lettera alla presidente Rai, Anna Maria Tarantola, ricorda come gli imprenditori dovranno
«rispondere a una richiesta infondata ed ancora una volta le categorie produttive sono
chiamate a farsi carico di incombenze altrui, sottraendo alla loro attività energie preziose».
«Per la seconda volta» prosegue la lettera «ci troviamo di fronte a questa incresciosa
situazione. Nel 2012, l`allora ministro Corrado Passera emanò una circolare per
individuare i soggetti effettivamente tenuti a versare il canone speciale Rai. A due anni da
quei chiarimenti, muovendo dallo stesso errato presupposto, la Rai torna a colpire nel
mucchio con lo strumento dell`invio massivo di generici “solleciti di pagamento” (con
allegati bollettini) che, nella sostanza, scaricano l`onere della prova sui destinatari ». Se da
un lato infatti viene scongiurato il pagamento del canone per il semplice fatto di possedere
un pc sulla scrivania dell’ufficio, dall’altro resta alle aziende il compito di dichiarare l’utilizzo
dei propri apparecchi e non sempre la cosa risulta essere di facile interpretazione. Anche
Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato imprese, attacca: «In questo momento di
gravi difficoltà per i nostri imprenditori, di tutto abbiamo bisogno tranne che di altri balzelli
così onerosi, assurdi e illegittimi. Per questo chiediamo al ministro per lo Sviluppo
economico Federica Guidi di compiere al più presto e senza esitazioni un intervento
immediato per modificare le norme che impongono il pagamento del canone. E chiediamo
anche di escludere dall’applicazione del tributo gli apparecchi che fungono
inequivocabilmente da strumento di lavoro per gli imprenditori. Quanto accaduto negli
ultimi giorni ha dell’incredibile e speriamo finisca presto». Camilla Fabbri, senatrice del
Partito democratico e membro della commissione di vigilanza Rai, pensa che «questo
pasticcio del canone speciale andasse e potesse essere evitato. La Rai poteva essere più
attenta nell’individuare i destinatari delle sue lettere e più chiara nello spiegare cosa si
deve fare. Bene ha fatto il Governo, attraverso le parole di Giovanni Legnini a precisare
meglio la questione. Molti imprenditori, alle perse con tante difficoltà, non hanno bisogno di
ulteriori problemi nel pagare le tasse e soprattutto non hanno bisogno di perdere tempo
con incombenze burocratiche che non devono pesare sulle loro spalle. Rimane tutto
intero, anche e soprattutto alla luce di questa vicenda, il problema della riforma del canone
della Rai».
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CULTURA E SCUOLA
del 03/07/14, pag. 7
Flessibilità e stipendi, ecco come si cambia
Una legge delega per cambiare l’istruzione in Italia ● Apertura degli
istituti di pomeriggio, orario a 36 ore settimanali ● Risparmi per 1,5
miliardi ● Resta aperto il nodo dei precari storici
Una legge delega per cambiare verso alla scuola italiana. Con apertura degli istituti anche
di pomeriggio, orario a 36 ore settimanali per tutti i docenti di ruolo con un aumento dello
stipendio ma solo per chi svolga incarichi supplettivi particolari, cancellazione delle
supplenze brevi e delle graduatorie di istituto, e molto altro.
A questo lavora al Miur il sottosegretario Roberto Reggi con il gruppo chiamato a
elaborare proposte sulla carriera degli insegnanti (su cui è arrivata anche un’indicazione
Ue per una maggiore diversificazione dei percorsi dei docenti), con l’obiettivo appunto di
portare una bozza di legge sul tavolo del premier Renzi tra meno di 15 giorni. Al centro
dell’impianto una parola chiave, flessibilità, e una figura, quella del dirigente scolastico
chiamato a gestire tutta l’organizzazione degli orari. Un impianto che non dovrebbe
comportare costi aggiuntivi ma piuttosto risparmi, per 1.5 miliardi, grazie appunto all’addio
alle chiamate esterne per supplenze inferiori ai 15 giorni (gli assenti saranno sostituiti dai
colleghi di ruolo dello stesso istituto). Ma anche all’ipotesi di taglio di un anno nel percorso
delle superiori, da ridurre da 5 a 4 anni. Si prevedono poi I’apertura prolungata fino a sera
degli istituti e il calendario allungato fino a luglio, per costruire l’idea di una scuola come
«spazio educativo permanente», dove possa studiare chi deve recuperare e più in
generale aperta al territorio e alle sue associazioni. Per fare questo però il governo
chiederebbe «la disponibilità» degli insegnanti a un impegno di 36 ore settimanali, il
doppio delle attuali 18 ore di lezione in classe delle superiori (si arriva a 24 e 25 in
materne ed elementari). In cambio, oltre agli scatti stipendiali ci sarebbero premi per i
docenti che prestano il tempo eccedente le lezioni a ruoli di coordinamento, «al recupero,
alla formazione di altri docenti, a laboratori di musica inglese o informatica piuttosto che al
supporto amministrativo », spiega il sottosegretario. Insomma si guadagnerà di più, ma
solo lavorando di più. Una filosofia già anticipata dal ministro Giannini. Quanto agli
aumenti contrattuali “di base” (a prescindere cioè da nuove funzioni da ricoprire) che
sindacati e insegnanti chiedono a gran voce da tempo per adeguare ai livelli europei un
contratto bloccato da 7 anni, «su quelle ragioneremo, non ho risposte a tutto. Sono un
ingegnere - ricorda Reggi -, ho in mente un modello che mutua da altre esperienze di tipo
aziendale».
FLESSIBILITÀ E RISORSE AGGIUNTIVE
Il sottosegretario cerca di parare le critiche che già travolsero analoghi progetti. Critiche
centrate su un dato di fatto: le lezioni rappresentano solo una parte dei compiti dei docenti,
tra preparazione, correzioni, progetti e rapporti con le famiglie già oggi si va ben oltre la
fantomatica soglia delle 18 ore. «Se ognuno sta fermo sulle proprie posizioni non si vince
la sfida del rinnovamento della scuola - arringa allora Reggi -. E se vado al Ministero
dell’Economia con un nuovo Patto per la scuola, come questo, e più flessibilità ho certo
più possibilità di portare a casa risorse aggiuntive ». Un nodo, quello delle risorse, su cui
sindacati e docenti vorrebbero il vero cambio di passo dopo anni di tagli. Reggi auspica
intanto che «il bilancio del Miur rimanga stabile per i prossimi tre anni, altrimenti è
impossibile fare una buona programmazione». La rassicurazione per gli insegnanti è che
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«così realizzeremo veramente l’autonomia scolastica, sarà ciascun dirigente a valutare
come usare al meglio le singole risorse umane. So che già oggi c’è chi fa anche più di 40
ore, ora chi continuerà così ma a scuola avrà degli incentivi, chi non potrà o non se la
sentirà si accorderà con il dirigente». Resta da chiarire comeil «Patto sulla scuola » gestirà
l’anomalia italiana degli oltre 150 mila precari storici e strutturali. La proposta indica
assunzioni dalle Graduatorie a esaurimento finché non saranno svuotate. Dunque ci
saranno 150 mila assunzioni? «So che abbiamo un precariato di qualità, un bacino di
insegnanti formati, è un tema aperto e un problema che andrà affrontato», ammette Reggi.
Assicurando che comunque le assunzioni «saranno moltissime, tra il 2017 e il 2022 andrà
in pensione il 40% dei docenti». La svolta immaginata da Reggi dovrebbe arrivare appunto
per via legislativa, per poi aprirsi «a un momento di consultazione generale: siamo solo
all’inizio di un percorso e tutti potranno migliorare questa che è la mia personale proposta.
Spero venga accolta senza pregiudizi ».
Del 03/07/2014, pag. 11
LA GIORNATA
Dopo l’anticipazione di “Repubblica” su settimana di 36 ore e incentivi,
l’altolà dei sindacati: dovete dialogare con noi Riserve anche dal Pd.
Faraone: prima aumentare gli stipendi. Ma il ministro Giannini
conferma: entro agosto la legge
Piano scuola, la rivolta degli insegnanti
CORRADO ZUNINO
ROMA La reazione dei sindacati degli insegnanti al Piano scuola è dura, e rapida. A
“Repubblica” il sottosegretario Roberto Reggi, che ha ampie deleghe da parte del ministro
dell’Istruzione Stefania Giannini, aveva anticipato: allungamento dell’orario a 36 ore,
aumenti per i docenti che chiedono responsabilità e offrono competenze specifiche
(lingue, informatica), istituti aperti fino alle 22 e fino alla fine di luglio, un unico canale di
assunzione che passa per la laurea magistrale.
Ieri, di prim’ora, la rappresentativa Gilda ha parlato apertamente di sciopero: «La scuola
viene considerata dalla politica come una caserma, per certi versi un’azienda», ha detto il
coordinatore Rino Di Meglio, «se quello che il ministro Giannini vuole presentarci è un
contratto di autorità, scavalcando
i sindacati, da settembre sarà guerra aperta». E così i Cobas: «Invitiamo i sindacati di
base a un’azione comune», la Cub scuola. La Cgil (Flc) parla di tagli montiani: «Nomi
nuovi, ma pratiche vecchissime. Legge delega al posto del contratto, lavoro gratis,
raddoppio delle ore per i docenti e licenziamento dei precari». Ma è disposta a discutere
«tutti i cambiamenti necessari». L’Anief: «È uno tsunami che spazza via quasi mezzo
milione di supplenti e riduce di un anno le superiori». L’Ugl, a destra, è critica, la Cisl
aperta. Per gli studenti «il ministro non ha un’idea di scuola» e amplifica «la retorica del
docente fannullone», ma l’Uds chiede di portare avanti l’idea degli istituti aperti fino a sera.
Il ministro Giannini conferma che la riforma contrattuale
correrà veloce: «Entro la fine dell’estate presenteremo il decreto legislativo per la
riorganizzazione della scuola. Se possibile, prima delle ferie estive. Decreto per le cose
più urgenti e poi, probabilmente, una legge delega».
Nel Pd ci sono già voci diverse. Francesca Puglisi, capogruppo Pd in commissione
Istruzione al Senato, si allontana dalla Cgil: «Scuole aperte tutto il giorno, anche per fare
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musica e sport. Chi tuona preventivamente contro, sbaglia. Questa proposta accoglie le
linee guida di molti sindacati». Davide Faraone, responsabile Scuola del Pd, e la
parlamentare Simona Malpezzi, chiedono invece un aumento per tutti: «Alla crescita
dell’orario scolastico degli insegnanti dovrà corrispondere una crescita delle retribuzioni. Il
contratto è bloccato da ben sette anni». Favorevole alla riforma il Pdl.
Del 03/07/2014, pag. 1-23
IL RACCONTO
Se il carcere mette i libri all’indice
ADRIANO SOFRI
DOVETE andare in galera: abbracciate i vostri cari, mettete nel sacco spazzolino,
biancheria di ricambio, e due libri — forse i due libri prima dello spazzolino? — un
romanzo da rileggere, e un saggio recente, o forse un dizionario portatile. All’arrivo, vi
lasciano lo spazzolino, vi tolgono i libri. Se eravate novellini, e credevate che davvero le
arance fossero permesse, e anche i libri rilegati, dovrete rassegnarvi allo scempio delle
copertine rigide strappate via, per regolamento — ragioni di sicurezza.
Ogni tanto si ricomincia, con la questione dei libri in cella: se siano una concessione, o un
diritto. In Inghilterra è appena successo con la breve detenzione di un ex-deputato
laburista ed ex-ministro, Denis MacShane, condannato per aver falsificato i rimborsi
(risonanza enorme, cifra modesta in confronto alle nostre) cui furono confiscati i libri che si
era portato dietro. Caso che ha fatto esplodere uno scandalo tuttora non sopito. Il ministro
della giustizia, Chris Grayling, ha fatto sapere che il divieto di portarsi dietro libri o riceverli
per pacco o dai parenti è una misura tesa a far sì che i detenuti li meritino: in sostanza, i
libri devono essere un premio alla buona condotta. Per fortuna, un’insurrezione ha accolto
la pretesa. Di spirito poetico dotata, la scrittrice Cathy Lette ha avvertito: «Lo impaleremo
sui nostri pennini».
ALTRI hanno commentato che condannare a morire di fame di lettura è indegno della
Gran Bretagna. Da noi, Marcello Dell’Utri ha minacciato lo sciopero della fame per il
divieto (ora caduto) a tenere in cella più di due volumi: «Per me i libri sono come l’acqua»,
ha detto. I libri sono come l’acqua per tutti i carcerati, o come una zattera. La prigione è un
naufragio e non è un caso che all’inizio d’estate le pagine di varietà ricomincino con la
domanda: «Che libro vi portereste su un’isola deserta?», Che libro vi portereste in carcere.
Magari uno di quelli che in carcere sono stati dettati o concepiti, Il Milione, o il Don
Chisciotte , o l’impressionante antologia raccolta da Daria Galateria, “Scritti galeotti.
Narratori in catene dal Settecento a oggi” (Sellerio: ne mancano pochi). Ma la tradizione
grandiosa della scrittura in carcere non è nemmeno paragonabile alla tradizione
inaccertabile della lettura in carcere. In Inghilterra, avendola detta grossa, i responsabili
delle carceri hanno ripiegato sulle ragioni di sicurezza: i pacchi vanno controllati, e il
personale è poco, e i fondi sono tagliati… Come le copertine rigide. Sciocchezze. Poche
cose sono facili da controllare come i libri. Ma il tema scatenato dall’ottusità penitenziaria
porta lontanissimo. In Brasile, Dilma Roussef (ex-detenuta) sperimentò due anni fa la
concessione di 4 giorni di riduzione della pena per ogni libro letto — per un massimo di 12
libri, 48 giorni. In ambedue i casi, quello che riduce la lettura a un premio
alla buona condotta e quello che considera buona condotta la lettura, c’è un malinteso:
che leggere libri renda migliori, e contribuisca a risocializzare. È vero per la gran parte
delle persone, dentro e anche fuori del carcere: ma può anche non esserlo. Quello che
conta è che la lettura — e il suo reciproco, la scrittura — è un’attività ormai connaturata all’
homo sapiens sapiens, e lo è infinitamente di più dove è privato della libertà. I libri e i
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giornali sono, oltre che la radio e la tv, ciascuno a suo modo, il mondo surrogato che
permette ai carcerati di tirare avanti. In galera l’aria guadagna un senso diverso e
calcolato: l’ora d’aria. Nemmeno l’aria che respiri ti rende migliore: semplicemente, ti
impedisce di soffocare. Così la lettura. In ogni carcere italiano dovrebbe esserci una
biblioteca: c’è nella maggioranza. Spesso è ancora povera, specialmente di libri e giornali
adatti alla popolazione straniera. Spessissimo non accoglie i detenuti in modo che
possano guardare i libri, sfogliarli, sceglierli. Molto si fa, da volontari e enti locali (che
hanno per legge la responsabilità delle biblioteche carcerarie) scontrandosi con gli
impedimenti e a volte i boicottaggi quotidiani della vita carceraria. Perfino regalare libri alle
biblioteche carcerarie è un’impresa, fra passaggi burocratici e questioni di catalogo e
spazio. I detenuti chiedono soprattutto libri sulle questioni ultime, dicono gli esperti:
filosofia, religione. Può darsi, i letti a castello propiziano la metafisica. Cercano soprattutto
storie d’amore, su cui vagare, e imparare a scrivere lettere d’amore. La vecchia categoria
degli “scrivani” ha questo grande privilegio, di fare da Cyrano di mille Rossane, e intanto
imparare dagli altri, da quelli che non trovano le parole appropriate, che non sanno
scrivere, le parole sorprendenti che loro non avrebbero immaginato. C’è un’ultima
questione: per i liberi non solo la lettura dei libri è necessaria e naturale come l’aria e
l’acqua, ma anche internet, e gli e-book, e il resto. Fino a quando penseremo che sia un
lusso proibito per i detenuti, e che scrivere mail, per chi è autorizzato a scrivere e ricevere
lettere senza censura, sia impensabile? I liberi si castigano spesso accontentandosi del
mondo virtuale. I prigionieri sono mutilati anche di quello.
Del 03/07/2014, pag. 30
I padroni dell’arte
Il monopolio delle case d’asta, le star del contemporaneo costruite a
tavolino I collezionisti che gonfiano i prezzi Le fiere e le biennali
diventate “brand” Benvenuti nel mercato più ricco e glamour del mondo
DARIO PAPPALARDO
«OGGI l’arte è un super business. Dopo il traffico di droga e la prostituzione, è il più
grande mercato senza regole del mondo». A lanciare la provocazione è Matthew CareyWilliams, curatore della galleria White Cube di Londra, che si è lasciato andare così a
Georgina Adam, esperta di economia
dell’arte e firma di The Art Newspaper . Una battuta. Ma un fondo di verità c’è. Perché il
mercato dell’arte contemporanea non è mai stato ricco, potente e spregiudicato come in
questo momento. Dal 2004 al 2012 il giro di affari è aumentato del 564 per cento. Con
buona pace della crisi mondiale. La casa d’aste
Christie’s, nel 2013, ha battuto ricavi per 7,12 miliardi di dollari; la rivale Sotheby’s per 6,3
miliardi. In due si giocano il destino del collezionismo dei più ricchi della Terra: 2170
“happy few” (la stima è del gruppo di ricerca Wealth-X) che si sfidano a colpi di status
symbol e di beni rifugio in un risiko le cui pedine sono le opere di Jeff Koons, Damien
Hirst, Takashi Murakami e non troppi altri. La sera del primo luglio, da Christie’s Londra, a
segnare i nuovi record personali sono stati lo scozzese Peter Doig — quasi 17 milioni di
dollari per un autoritratto — , Tracey Emin — 4 milioni e mezzo per My Bed , il letto sfatto
pieno di calze, preservativi usati e assorbenti — e Michelangelo Pistoletto, che con Amanti
ha sfiorato i quattro milioni di dollari. Va da sé che il Francis Bacon di
Study for Head of Lucian Freud sia stato la star con quasi 20 milioni di dollari, in una
serata che in tutto ne ha raccolti 169,8. I top collezionisti sono interessati a 50-100 artisti al
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massimo, sempre gli stessi fino a che la parabola di questi non discende e il mercato
decide di sfornarne altri pronti all’uso. Sì perché, come sostiene Georgina Adam, che ha
appena pubblicato uno studio fondamentale: Big Bucks — The Explosion of the Art Market
in the 2-1st Century (edito da Lund Humpries), «Una caratteristica di questo secolo è la
straordinaria ascesa di alcuni giovani artisti la cui carriera è stata totalmente creata dal
mercato e probabilmente portata avanti per il mercato stesso». L’approvazione dei critici e
la consacrazione nei musei statali ormai contano poco.
Esemplare è il caso Dan Colen. Classe 1979, nato nel New Jersey, l’artista è stato
lanciato dalla Gagosian, prima mega gallery mondiale con 13 sedi nel pianeta e un
fatturato da 1 miliardo di dollari l’anno (2012). I suoi dipinti sono stati esposti nel 2006 nelle
toilette della galleria e poi venduti a 10 mila dollari ciascuno. Il 12 maggio scorso l’opera
Boo Fuck’n Hoo è stata battuta da Christie’s per 2,26 milioni di dollari. Pare fosse stata
acquistata la prima volta per 26 mila dollari. In meno di un decennio, insomma, Colen ha
visto lievitare le sue quotazioni del 12mila per cento. Merito, fortuna o costruzione a
tavolino? Dietro Colen c’è il potente collezionista e mercante d’arte americano Peter Brant.
Lo stesso, tanto per intenderci, che nel novembre 2013, sempre da Christie’s, ha rivenduto
il Balloon Dog di Jeff Koons a 58,4 milioni di dollari, cifra mai raggiunta da un artista
vivente. Proprio in contemporanea con l’asta di maggio la Brant Foundation di Greenwich,
Connecticut, ha inaugurato la prima retrospettiva dedicata al trentacinquenne Colen: Help!
( aperta fino al 7 settembre). Al vernissage c’erano attori di Hollywood capitanati da
Leonardo Di Caprio, top model — lo stesso Brant ne ha sposata una degli anni d’oro:
Stephanie Seymour, ex della stella pop Axl Rose — e inviati di Vogue. Il lancio di un
artista è un evento glamour, ovviamente. Ma anche una manovra finanziaria. L’opera
record di Colen battuta da Christie’s era stata “garantita” da terzi: se fosse rimasta
invenduta, un garante misterioso l’avrebbe acquistata a una cifra pattuita
precedentemente con la casa d’asta. Quella delle “prevendite assicurate” è una
consuetudine di Christie’s come di Sotheby’s. Non è un segreto, ma uno stratagemma
solo relativamente trasparente, questo sì. Le “garanzie” fanno lievitare la stima delle opere
d’arte, anche e soprattutto quelle di un artista che non ha ancora raggiunto la fama. Negli
ultimi anni astri del contemporaneo come Jacob Kassay, Matthew Day Jackson e Oscar
Murillo sono stati lanciati così. Secondo lo studio di Georgina Adam, a rifornire di garanzie
le case d’asta sarebbero collezionisti e mercanti insieme. Tra questi Adam cita, oltre a
Peter Brant, i Mugrabi, la famiglia reale del Qatar e il gallerista di New York William
Acquavella. Un “cerchio magico” che decide sorti e quotazioni del mercato dell’arte. Anche
perché ormai la figura di chi colleziona è indistinguibile da quella di chi vende, pompando i
prezzi. Ai livelli più alti della piramide un “mecenate” è diventato uno specullector, un
collezionista speculatore: ha una raccolta sua, magari siede nel cda di un museo o di una
casa d’aste. Talvolta può vantare tutte e tre queste cose insieme. E gestire un parco artisti
in entrata e in uscita. Come François Pinault, che dal 1998 è il padrone di Christie’s, ma
anche di due spazi espositivi d’eccezione come Punta della Dogana e Palazzo Grassi a
Venezia, musei privati che diventano vetrine di parte della sua collezione da 2000 opere.
Ancora Adam: «Con l’ascesa dei musei privati, i collezionisti hanno sempre più la
possibilità di abusare della loro posizione, usando le istituzioni personali per promuovere
artisti che in seguito immettono sul mercato». Brant, Gagosian, Pinault sono dei brand
molto più potenti degli artisti che gestiscono. Se Christie’s e Sotheby’s sono i ristoranti di
lusso dove le élite — e le banche anche — si siedono e si sfidano, le fiere sono diventate i
nuovi fast food, dove l’arte contemporanea si divora velocemente. Nel 1970, erano solo tre
quelle che davvero contavano. Nel 2012, hanno superato quota 200. Cento, invece, sono
le biennali. Art Basel è come un marchio in franchising: ha inaugurato a Miami nel 2002 e
poi anche a Hong Kong, dove nel maggio scorso si è tenuta con afflusso record la
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seconda edizione. L’anno prossimo sarà Los Angeles ad aprire le porte al mercato. La
domanda è in continua crescita perché le fiere si accordano perfettamente al
cambiamento di profilo del collezionista: i nuovi ricchi della finanza, dell’immobiliare, ma
anche dello star system, non sono necessariamente competenti nel settore. Così come
quelli provenienti dalle economie in ascesa: Cina, Russia, Qatar, Emirati Arabi. Per il
collezionista emergente e con poco tempo, l’ art fair, magari con qualche art advisor
stipendiato come suggeritore, diventa un conveniente e veloce onestop shop . Una
fermata mordi e fuggi per combinare un buon affare e appendere uno status symbol in
salotto senza troppa fatica: anche i Beckham, in fin dei conti, hanno a casa un Damien
Hirst. Gli artisti, ovviamente, si adeguano. A prezzo e misura ridotti Ai Weiwei come
Tracey Emin realizzano opere da vendere appositamente in fiera: i neon con gli slogan
stupidi della artista inglese furoreggiavano all’ultima Art Basel Miami Beach.
Francis Outred di Christie’s ha detto che in vita si aspetta di vedere battuta all’asta
un’opera per un miliardo di dollari. Il record, per ora, sono i 142,4 milioni del Francis Bacon
dello scorso anno: Three Studies of Lucian Freud . Qualcuno dice che la bolla sia
destinata a scoppiare. Per ora, sembra proprio di no.
del 03/07/14, pag. 18
La follia degli Opg
Un doc dà voce a Luigi, «il matto»
Ieri su Rai3 il film di Francesco Cordio, atto d’accusa della condizione
disumana nei manicomi giudiziari
Anita Eusebi
«MA DOVE MI STANNO PORTANDO ADESSO, IN MANICOMIO? I MANICOMI SONO
CHIUSI, IO SAPEVO».Luigi Rigoni ha vissuto sulla propria pelle l’inferno degli Ospedali
Psichiatrici Giudiziari e la sua testimonianza è il filo conduttore di LoStatodellafollia, il film
documentario del regista Francesco Cordio che denuncia l’orrore degli Opg, integrando la
narrazione di Rigoni con i filmati realizzati dallo stesso Cordio durante i sopralluoghi
effettuati a sorpresa negli Opg nel 2010 dalla Commissione Parlamentare d’Inchiesta
sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, presieduta da Ignazio Marino.
Lo Stato della follia, passato in tv ieri sera a Doc3, il contenitore per documentari della
terza rete Rai, è un pugno in faccia a chi calpesta i più elementari diritti,
costituzionalmente garantiti, di ogni essere umano. Uno spietato atto di accusa, una
richiesta di verità e giustizia. Ed è una carezza di rispetto, alla dignità di vite dimenticate
negli Opg, agli sguardi spenti dall’abuso di psicofarmaci, da celle di isolamento e letti di
contenzione. «L’impatto è stato devastante – afferma Cordio - tornare a casa da quei
luoghi è stato un incubo, carico di urla, strazi, odori, sofferenze, occhi e mani che non si
scollavano di dosso. Ogni volta uscire era insieme un sollievo e una condanna: il pensiero
impotente di lasciare quelle persone alla loro non-vita». «Ciò che vedemmo destò in noi
sconcerto, turbamento e profonda indignazione», dichiara Marino. «Il film di Cordio è un
lavoro importante perché rompe il velo del silenzio e dà voce a persone dimenticate da
tutti. E lo fa da testimone di una storia». Le immagini sono crude, la realtà lo è ancora di
più. Immagini che lasciano addosso un senso terribile di rabbia e impotenza, di vergogna
e dolore, per lo stato di massimo degrado da un lato, il senso profondo e drammatico di
abbandono, desolazione e umanità dall’altro. «Signori del Senato apritemi la porta vi devo
parlare, mi trattano male, tutti devono sapere la verità su cosa succede qua dentro», grida
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qualcuno reclamando l’attenzione della telecamera, mentre gli agenti di sicurezza corrono
svelti a chiudere le celle, a zittire, ad allontanare. C’è chi invoca il padre perché lo venga a
salvare, «sto a mori’ qua dentro, io non so’ pericoloso - dice -. Ero un bambino normale».
Persone. Restano in Opg con il marchio «pericoloso per sé e per gli altri» - anche se non
hanno mai ucciso nessuno - ma per aver preso a calci una slot machine; o per una rapina
di settemila lire compiuta più di vent’anni fa, con la mano sotto la maglia a mo’ di pistola.
Misure di sicurezza prorogate all’infinito che rispondono a perizie psichiatriche che
neanche si trovano più. E accanto alla presunta pericolosità, l’incapacità di intendere e
volere, «una concezione che dopo Freud è stata superata dalla scienza», afferma lo
psichiatra Vittorino Andreoli. Forse. Comunque non certo dal Codice Penale. E la
responsabilità di eventuali crimini va tutta alla malattia, come se la persona non esistesse
nemmeno. «Ma Van Gogh quando dipingeva era lui a dipingere, o la sua follia? E Proust,
Saba, Pavese, Dick, Campana, erano loro a scrivere o la loro depressione, la loro
schizofrenia?». Queste le parole sullo sfondo della voce narrante di Rigoni. In Opg c’è chi
resiste vent’anni, chi tre giorni. C’è chi sopravvive all’inferno, e chi si arrende. «Nel caso
passassero settimane senza che nessuno si impiccasse, veniva quasi da chiedersi come
mai? - dice Rigoni - Che ogni tanto qualcuno si impicchi è il minimo che possa accadere in
luoghi come questi». «Fa quasi sorridere se non ci fosse da piangere», commenta un
ragazzo tra gli internati, con una lucidità, un’ironia e una rassegnazione che ferisce più
delle urla in sottofondo. «L’uomo è un animale che si abitua sempre. Ma qua viene messo
a dura prova», ribadisce con grande dignità. E fa male sapere che proprio lui di lì a poco si
è tolto la vita. Il film Lo Stato della follia, trasmesso ieri sera, è stato dedicato a lui, «a tutti
quelli che messi a dura prova non sono riusciti ad abituarsi ». Ospedale Psichiatrico
Giudiziario, un’accozzaglia di tre parole, un eufemismo d’origine lombrosiana, laddove di
luogo di cura non v’è traccia, né c’è nulla di psichiatrico se non la follia di continuare a
mantenere ancora in piedi istituti di questo tipo, «luoghi orrendi, istituzioni che vorrebbero
curare la malattia e contenere la pericolosità, ma che come tutte le istituzioni totali la
malattia la riproducono, perché invece di essere posti di cura sono fabbriche di malattia».
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 03/07/2014, pag. 36
Per la prima volta un libro fotografico racconta il simbolo delle lotte
femministe
Quel gesto spudorato con cui le donne
cambiarono la storia
SIMONETTA FIORI
QUASI sempre sorridono. E anche quando la bocca disegna rabbia, lo sguardo è ironico,
luminoso, fiero della nuova sfida. Ridono le donne, così meravigliosamente diverse tra
loro. Giovani e vecchie, anche molto vecchie, filiformi e grasse, borghesi up-to-date e
casalinghe in vestaglia, botticelliane e goffe, tutte lunarmente distanti da canoni estetici
omologanti. Sono le donne degli anni Settanta, ritratte mentre compongono nell’aria quel
gesto spudorato che segnerà la storia del femminismo. Un triangolo fatto con le dita,
unendo le punte dei pollici e quelle degli indici. In mezzo il vuoto, il varco di libertà
attraverso cui passò una rivoluzione. Forse l’unica che ci sia stata veramente in Italia. È
merito di una piccola casa editrice, Derive Approdi, riproporre dopo quarant’anni l’album
fotografico del gesto iconico delle lotte femministe. Nelle mani era custodito lo scandalo.
Le dita ribelli annunciavano al mondo che le donne erano padrone: del corpo, della
sessualità, della contraccezione. Di nuove relazioni sentimentali e sociali. Di un modo
diverso di stare a casa, in fabbrica o all’università. E di un nuovo immaginario che ribaltava
logiche patriarcali. La favola bella della costola di Adamo era finita. Cominciava un’altra
storia, narrata per la prima volta da una voce femminile ( Il gesto femminista. La rivolta
delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte , a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna,
pagg.168, euro 20).
Ma come nacque quella “mossa simbolica” destinata a sconvolgere un paese che ancora
ammetteva il delitto d’onore, “le pene corporali” dei mariti e dei padri, un diritto di famiglia
arretrato? Al pari di tanti segni consegnati al mito, è difficile rintracciarne l’origine.
Rovistando tra le memorie femministe, Laura Corradi ci conduce a Parigi, tra migliaia di
persone riunite alla Mutualité. È il 1971, l’atmosfera carica di pathos. Performance
musicali, filmati e testi recitati evocano le violenze contro le donne. Tra gli ospiti illustri
anche Simone de Beauvoir. Dalla platea s’alza una giovane militante italiana che unisce
pollici e indici per aria. Il gesto della vagina. «Istintivamente mi venne da fare così»,
racconta ora Giovanna Pala. «Il simbolo, per la prima volta, l’avevo visto sulla copertina di
una rivista francese, Le Torchion Brule . Mi aveva colpito per l’immediatezza del
messaggio. Quando alcuni ragazzi alzarono il pugno chiuso, io feci quell’altro segno,
anche per affermare la mia diversità». L’Espresso, ancora in formato lenzuolo, uscì con
una foto di Giovanna in copertina. E in pochi mesi l’impudico gesto si sarebbe impadronito
del movimento delle donne. Se molte cose del femminismo le avevamo importate dal
Nord America, la rivoluzione del triangolo fece il percorso inverso, dall’Europa a New York.
Bisogna però aggiungere che Oltreoceano, sin dalla metà degli anni Sessanta, la Vagina
painting della giapponese Kubota aveva inaugurato la stagione creativa delle Betty
Dodson, Judy Chicago e Niki de Saint Phalle, tutte decise a violare nell’arte il tabù
dell’iconografia vulvare. Per l’ignaro Courbet dell’ Origine del mondo cominciava un’epoca
di rinnovata fortuna. Non tutte le donne approvavano. Molte se ne ritraevano con fastidio o
ne denunciavano l’ambivalenza. Miriam Mafai, rievocando le piazze ardenti di quegli anni,
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confessa lo smarrimento delle più anziane. Anche Paola Agosti, sapientissima fotografa
del movimento, ammette la fatica del confronto con “l’ideologia femminista”. E gli uomini?
Tra tante militanti, sociologhe, antropologhe, filosofe, storiche dell’arte e registe
interpellate dal Gesto femminista , s’avverte la mancanza di una voce maschile. Come
reagirono alla provocazione? “Sordi” e “ciechi”, sintetizza nel suo bel saggio Letizia
Paolozzi. Sappiamo poco di ciò che accadde all’identità dell’uomo. Quasi nessuno
intercettò il baldanzoso gesto che rovesciava il mondo. Ritirarsi nel proprio guscio fu la
pratica più diffusa. Far finta di niente, sperare che la ricreazione finisse.
Ma la campanella sarebbe suonata troppo tardi.
E oggi, cos’è rimasto del significato politico di quel simbolo? Se esporre allora l’organo
della sessualità ebbe un’innegabile carica dirompente, riproporlo oggi diventa un atto
imputabile di ambiguità. Consegnato il gesto delle mani al robivecchi del femminismo,
sopravvive invece il segno genitale che in anni più recenti ha nutrito in America
l’iconografia delle Vagina Warriors e del V-day. Una bandiera estetica che rischia di
annacquare la portata sovversiva delle origini. Le “vagine parlanti” di Eva Ensler - nota con
lucidità Laura Corradi - tendono a inchiodare le donne al sesso biologico, esattamente
come nel passato. La sessualità diventa la componente predominante dell’identità
femminile, lasciando in ombra quelle trasformazioni sociali ed economiche che un tempo
erano parte essenziale della protesta. Lo spiegano bene le femministe culturalmente più
agguerrite: emanciparsi non significa solo far carriera o amabilmente colloquiare con il
proprio organo sessuale. Non è un caso che sull’attivismo nordamericano cresciuto intorno
ai Monologhi della Ensler siano fioccate accuse di colonialismo: è la critica mossa dalle
donne escluse, quelle del vasto mondo non occidentale. Anche sul topless delle Femen, le
studentesse che mettono in mostra il corpo al posto delle armi, s’allunga il sospetto di
voyerismo. E qualche perplessità sollevano gli show che spettacolarizzano il dolore delle
donne puntando sull’effetto mediatico e su corpi attraenti. Il salto di civiltà viene disegnato
anche dalle diverse “parole d’ordine” scandite nel tempo. Da “Il corpo è mio e lo gestisco
io”, didascalia del femminismo storico, a “Figa è bello” e “Fuck me” ora orgogliosamente
esibiti su magliette aderenti. Ancor più di poderosi trattati, pochi slogan possono
raccontare il tramonto di una speranza collettiva. E spiegare perché oggi le ragazze, molto
più libere sessualmente, sorridano di meno di quelle nonne assai più libere nella testa.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 03/07/2014, pag. 1-24
Pensioni, ultima chiamata per gli errori Inps
fino al 2011
Gli assegni calcolati dall’Istituto saranno definitivi La lettera In un
messaggio alle sedi viene raccomanda tolleranza nella valutazione dei
casi
di Isidoro Trovato
Se non è un condono tombale, gli somiglia tanto. Il 5 luglio verranno azzerati gli errori
commessi (dal 2001 in poi) dall’Inps nel calcolo della pensione. A partire dal 6 luglio,
quindi, i pensionati che negli anni passati avevano riscontrato errori di calcolo nelle loro
pensioni non potranno più rivendicarne la rettifica a proprio favore. A sollevare il problema
sono i consulenti del lavoro che, con la circolare della Fondazione studi sottolineano le
criticità. Tutto nasce dalle previsioni contenute nella legge 111/2011, riprese nel
messaggio Inps numero 4774 del 19 maggio scorso: la norma introduce un termine di
decadenza triennale per il diritto dei pensionati a ricorrere in giudizio contro gli errori
dell’Istituto di previdenza nazionale. Fino a ora invece i pensionati avevano dieci anni per
ricorrere e chiedere una rettifica. Secondo i calcoli effettuati dalla Fondazione studi dei
Consulenti del lavoro, la platea potenziale non è indifferente: in Italia infatti circa il 38%
delle pensioni contiene degli errori di calcolo. Il che significa che in ballo, potenzialmente,
ci sarebbero oltre 7 milioni di cittadini. Gli sbagli di calcolo, quando sono a sfavore del
pensionato sia aggirano mediamente su un importo di 30 euro al mese. Se l’impossibilità a
ricorrere riguardasse tutta la platea potenziale, l’impatto di questo «taglio» salirebbe a
circa 3 miliardi di euro. Con la previsione della decadenza è stato stabilito un periodo di tre
anni entro i quali il pensionato deve accorgersi degli errori commessi dall’Inps nel calcolo
della propria pensione; in assenza di contestazione, perderebbe questo diritto anche per il
futuro mantenendo dunque una pensione sbagliata a vita. La norma non contiene un
regime transitorio e dunque si applica anche agli errori commessi prima dell’entrata in
vigore della legge 211/2011 decreto 98 e quindi anche prima del 6 luglio 2011. Ma quali
sono le «sviste» di calcolo più frequenti che si riscontrano nel cedolino dei pensionati? Si
va dai lavoratori vicini alla pensione che sono stati licenziati ed inseriti nelle liste di
mobilità, per poi passare ai casi di erroneo accredito della contribuzione come spesso
capita in occasione di periodi di malattia, maternità, cassa integrazione; per finire agli
errori di calcolo derivanti da erronea valutazione dei redditi dei pensionati nonché dalla
non corretta applicazione della rivalutazione delle pensioni. Attenzione però, dall’Inps
fanno sapere che saranno tutelati da questa norma tutti coloro che hanno già presentato
ricorso contro errori di calcolo. Dunque chi ha già avanzato ricorso all’Inps non corre rischi.
Ma si tratta di migliaia di pensionati che hanno scovato (da soli o grazie all’assistenza di
esperti) l’errore. E gli altri? Questo tipo di falle non sono di semplice individuazione perché
l’unico depositario di tutti gli elementi di calcolo è lo stesso Istituto di previdenza che non
ha obbligo di segnalare gli eventuali errori. Inoltre emergerebbe una strana sproporzione
in questa vicenda: mentre per il pensionato tra qualche giorno entra in vigore un termine di
tre anni per accorgersi dell’errore, l’Inps continua a conservare il più ampio termine di dieci
anni per richiedere la restituzione delle somme riconosciute e non dovute al pensionato.
Sulla questione però esiste una posizione «buonista» dell’Inps che nel giò citato
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messaggio numero 4774 ha precisato che la decadenza si applica solo alle nuove
liquidazioni di pensione a decorrere dal 6 luglio 2011 e non anche agli errori arretrati.
Questo perché, in caso di ricorso e di controversia, la decadenza anche degli errori
accumulati in passato la rileva il giudice d’ufficio indipendentemente dalla buona volontà
delle parti. A tutto ciò si aggiunge, fanno sapere dall’Istituto nazionale di previdenza, la
«totale disponibilità a rivedere eventuali errori di calcolo, indipendentemente dalla
scadenza indicata dalla legge». Fatta salva la fiducia nella disponibilità al dialogo da parte
dell’Inps, resta la sensazione che la vicenda sia di grandi proporzioni e dai confini
normativi tutt’altro che definiti.
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