RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE Cassazione penale

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RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE Cassazione penale
RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE
Cassazione penale sez. I sentenza 21.03.2014 n. 13391
...(omissis)...il delitto di resistenza a pubblico ufficiale previsto dall'art. 337 cod. pen. può essere
integrato, oltre che da comportamenti esplicitamente minatori, (quali quelli specialmente
evidenziati dal giudice di merito), anche da una condotta ingiuriosa nei confronti del soggetto
passivo, quando essa, lungi dal rappresentare l'espressione di uno sfogo verbale fine a sé stesso,
assuma modalità tali da rivelare la volontà di frapporre ostacoli, mediante la sequenza di
espressioni ingiuriose, allo svolgimento dell'atto di ufficio ...(omissis)...(in particolare la minaccia
di parlare con il proprio avvocato e di "far rovinare" i verbalizzanti)...(omissis)...
Ritenuto in fatto
C.G. veniva rinviato a giudizio per rispondere dei reati previsti da: A) art. 337 cod. pen. perché,
sottoposto alla misura della sorveglianza speciale, rifiutando di aprire la porta di casa, usava
minaccia consistita nel profferire le seguenti espressioni "andate a fare in culo, non siete nessuno,
stronzi di merda, vi devo rovinare, 'sti uomini di merda, mi avete rotto il cazzo, domani parlo con
l'avvocato e vi faccio rovinare, così capite chi comanda qua, per opporsi ai pubblici ufficiali della
Questura di Avellino mentre compivano un atto dell'ufficio, consistito nell'effettuate un controllo
presso l'abitazione dell'imputato; B) art. 9 della legge n. 1423 del 1956, perché, mediante la
condotta precedentemente descritta, violava gli obblighi inerenti la misura di prevenzione della
sorveglianza speciale aggravata dall'obbligo di soggiorno, con particolare riguardo all'obbligo di
rispettare le leggi. In Avellino il 4 e 5 febbraio 2007.
Con sentenza del 29.9.2008 il Tribunale di Avellino, dichiarava non doversi procedere nei confronti
dell'imputato per i reati di ingiurie e minaccia semplice, così riqualificata l'imputazione del reato di
cui all'art. 337 cod. pen.; assolveva l'imputato dal reato previsto dall'art. 9 comma 2 legge n. 1423
del 1956 perché il fatto non sussiste.
Con sentenza del 26.6.2012 la Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza appellata dal
Procuratore generale, dichiarava l'imputato colpevole dei reati originariamente ascrittigli,
condannandolo alla pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione.
Avverso la sentenza di appello il difensore ricorre per i seguenti motivi: 1) violazione di legge e
mera apparenza della motivazione, non avendo la Corte di appello fornito una chiara indicazione
della natura della presunta attività di ufficio dei pubblici ufficiali ostacolata dal ricorrente; 2) non
configurabilità della violazione della norma penale quale autonoma violazione delle prescrizioni
relative alla sorveglianza speciale.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato.
1. La Corte di appello ha ritenuto che le espressioni ingiuriose e minatorie profferite dall'imputato e
riportate nel capo di imputazione (in particolare la minaccia di parlare con il proprio avvocato e di
"far rovinare" i verbalizzanti), erano inequivocabilmente dirette ad intimidire gli agenti della
Questura di Avellino, al fine di opporsi all'atto di ufficio che essi stavano compiendo mediante il
controllo della presenza in casa del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale.
La motivazione, incensurabile nel merito, è giuridicamente corretta considerato che il delitto di
resistenza a pubblico ufficiale previsto dall'art. 337 cod. pen. può essere integrato, oltre che da
comportamenti esplicitamente minatori, (quali quelli specialmente evidenziati dal giudice di
merito), anche da una condotta ingiuriosa nei confronti del soggetto passivo, quando essa, lungi dal
rappresentare l'espressione di uno sfogo verbale fine a sé stesso, assuma modalità tali da rivelare la
volontà di frapporre ostacoli, mediante la sequenza di espressioni ingiuriose, allo svolgimento
dell'atto di ufficio (conforme Sez. 6, n. 1737 del 14/12/2012 - dep. 14/01/2013, D'Elia, Rv. 254203).
2. La Corte di appello, in conformità alla costante giurisprudenza di legittimità, ha correttamente
ritenuto la configurabilità del concorso formale tra ogni singolo reato, commesso dal soggetto
sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, e la simultanea violazione, prevista
dall'art. 9 della legge 27 dicembre 1956 n. 1423, della prescrizione di vivere onestamente e di
rispettare le leggi. (da ultimo Sez. 1, n. 26161 del 20/06/2012, P.G. in proc. Albini, Rv. 253090).
A norma dell'art. 616 cod. proc. pen. il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese
processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.