consolare gli afflitti - Parrocchia Sant`Ippolito
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consolare gli afflitti - Parrocchia Sant`Ippolito
“Quello che avete fatto al più piccolo fra voi…” 20 Febbraio 2012 “CONSOLARE GLI AFFLITTI” Parlando di Antonio, il grande monaco e asceta Atanasio ha scritto: "Quale sofferente incontrò Antonio senza ricevere in cambio della gioia? Chi andò da lui nell'afflizione e non tornò nella consolazione? Chi andò da lui piangendo i propri morti e non tornò senza avere deposto il proprio lutto? Chi si recò da lui nell'ira senza ritornare disposto all'amicizia? Quale povero, afflitto, venne da lui e, alle sue parole e alla sua vista, non disprezzò le ricchezze e non accertò con gioia la sua povertà? Quale monaco, privo di fiducia in sé, giunto da lui, non divenne subito più forte? Chi venne da lui tormentato dal demonio e non tornò liberato? Chi si avvicinò tormentato dalle preoccupazioni e non ritrovò subito la serenità dell'anima?". L'antica biografia di Antonio testimonia di un uomo reso capace di autentica consolazione, di essere ministro della consolazione di Dio. La cosa non è certamente scontata, come rileva Paolo De Benedetti riferendosi ai nostri giorni: "Tra le più praticabili opere di misericordia spirituale ce ne una di cui si ha sempre più bisogno man mano che la vita e la società si plasmano sul modello della città, e che questa società tuttavia non pratica affatto: consolare gli afflitti. La civiltà contemporanea teme gli afflitti e li sfugge, perché teme il contagio dell'afflizione e non sa portare il contagio della consolazione. E in realtà non è facile consolare, specialmente se si crede che ciò consista in un obbligo da adempiersi mediante un discorso". Ma che cosa significa, esattamente, consolare gli afflitti? Chi appartiene a questa categoria? E come si fa a consolarlo; quando è possibile; quando è opportuno? «Afflictus», in latino, vale «abbattuto, rovinato, afflitto» (Cicerone, Sallustio) ed è il participio di «adfligěre, affligěre», che significa «battere, sbattere, gettare giù, abbattere», tanto nel significato materiale dell’espressione, quando in quello psicologico e morale. Cesare scrive: «Tempestas naves Rhodias afflixit»: «La tempesta sconquassò le navi dei Rodi»; Cicerone dice che «Pompeius ipse se afflixit»: «Pompeo s’è rovinato da sé»; e sempre Cicerone afferma che «Perturbationes animos affligunt»: «Le passioni affievoliscono la forza d’animo». Nell’italiano moderno è andato perso il significato materiale del verbo ed è rimasto solo quello spirituale: l’afflizione è uno stato dell’animo e l’essere afflitto è la condizione di chi sia profondamente triste, deluso, amareggiato, sconfortato, privo di fiducia e di speranza che le cose possano rimettersi al meglio. Ciò detto, bisogna tuttavia osservare che gli afflitti non appartengono tutti ad un’unica, indistinta categoria, ma che in essi si possono riconoscere almeno due categorie fondamentali: quelli che soffrono per delle circostanze obiettive e quelli che soffrono essenzialmente per mancanza di fiducia in se stessi e perché ingigantiscono i problemi. La distinzione, lo sappiamo bene, è estremamente ardua: è quasi impossibile separare, con una linea netta, le circostanze oggettive dalla percezione soggettiva; di fatto, ciascun essere umano vede la realtà esterna attraverso il filtro della propria coscienza, delle proprie aspettative, dei propri timori e pregiudizi e, così facendo, carica la percezione di quella di un pesante fardello di idee e sentimenti personali, che magari nulla hanno a che fare con il dato originario. Pure con ciò, non possiamo fare a meno di constatate che sono essenzialmente due gli atteggiamenti fondamentali verso la vita: quello attivo e quello passivo. 1 Il primo rielabora incessantemente le proprie esperienze, positive o negative che siano, per approfondire la propria esperienza del reale e per perfezionare la propria evoluzione spirituale; il secondo si abbandona stancamente alla vita, entusiasmandosi quando le cose vanno bene ed abbattendosi, magari anche oltre la misura del giusto e del ragionevole, quando vanno male. Il primo atteggiamento è quello delle persone forti, che non si scoraggiano facilmente e che, quando cadono, hanno solo bisogno di raccogliere nuovamente le forze per tornare ad alzarsi in piedi; il secondo è quello delle persone stanche, le quali, continuamente assumono quella che le circostanze esterne impongono loro, così nel bene come nel male. Quasi tutti, quando soffriamo, desideriamo in fondo di sentire una parola buona o ricevere un gesto, anche soltanto uno sguardo di simpatia e di comprensione, da un amico, da un parente, da un conoscente, fosse pure da un estraneo. D’altra parte, non tutti riescono ad aprirsi o, peggio, vogliono realmente essere consolate per ricostituire le proprie forze e rimettersi in piedi; ve ne sono di quelle che vorrebbero seguitare a lamentare all’infinito per poter essere consolate all’infinito e via così, in una spirale senza fine. Appunto, in che cosa consiste la consolazione? La consolazione è una pratica di umanità che l'uomo in quanto tale conosce, auspica, chiede, mette in atto, di fronte alle situazioni di morte, di sofferenza fisica e morale, di vecchiaia, di solitudine e abbandono. Meglio, di fronte a persone nel lutto, nella sofferenza, nella vecchiaia, nell'isolamento, nell'abbandono. L'antichità sviluppò una vera e propria arte della consolazione che si diversificava in rapporto alle differenti situazioni di afflizione (anche un lutto è differente se si riferisce a una morte improvvisa, a una morte tragica, alla morte di un bambino appena nato, alla morte di un figlio già grande, a una morte prematura, a una morte nell'anzianità) e i filosofi erano i depositari di tale consolazione. Se vino, musica e sonno potevano essere consigliati come mezzi di consolazione, l'arte di consolare consisteva in una presenza compassionevole, nella capacità di parole sentite di incoraggiamento e vicinanza, in visite di condoglianze e in biglietti o lettere di tono consolatorio. Il verbo greco che indica l’atto di consolare parakalein significa ad un primo livello, "chiamare accanto", "far venire a sé", quindi significa "esortare", "supplicare", e anche "consolare". Nella consolazione si tratta di creare una prossimità, di farsi "presenza accanto" a chi è nella desolazione e nella solitudine. Certamente a volte essa può essere realizzata con parole. Paolo, nella prima lettera ai cristiani di Tessalonica, annuncia la speranza cristiana di fronte alla morte per consolare una comunità afflitta per la morte di alcuni membri (1Ts 4,13-17) e conclude: "Consolatevi dunque a vicenda con queste parole" ( 1Ts 4.18). Una consolazione reale è spesso costituita da una presenza capace di ascolto. Una presenza che non svilisce la disgrazia dell'afflitto con parole banalizzanti o falsamente rassicuranti, con parole illusoriamente spirituali, con discorsi teologici, che inevitabilmente non raggiungono il tragico che la persona sta vivendo, anzi se ne distanziano. Nel testo giudaico dei Pirqé 'Avot (4,18) si dice: " Non cercare di consolare il tuo compagno mentre il suo morto è steso davanti a lui". La consolazione, come il dolore e il lutto, ha i suoi tempi. Affrettare discorsi e parole spesso è segno di angoscia e di paura di fronte all'afflizione dell'afflitto. Più difficile, ma più efficacemente capace di raggiungere l'altro nel suo dolore, è ascoltare la sua sofferenza, lasciare che sia il suo silenzio, il suo animo, a suggerire gesti, tempi, movenze, silenzi, parole, sguardi, abbracci, carezze, distanze, per poter essergli realmente di consolazione. Il rischio, infatti, è di credersi capaci di consolare e fallire l'incontro con l'afflitto. Occorre spogliarsi dalle forme di "potere" che ci possono abitare, rinunciare alle risposte salvifiche, all'illusione di possedere "tecniche" di consolazione. Né mai colui che si fa prossimo a chi è nel dolore potrà sostituirsi a lui, altrimenti la sua azione sarà di violenza, non di incontro e di consolazione. Di fronte a un lutto, poi, è essenziale rispettare il dolore e accettare che la crisi innescata dalla 2 perdita faccia il suo corso. Certamente, la solitudine a volte spaventosa aperta da un'esperienza di lutto, può divenire il passaggio attraverso cui la persona accede a una presa di contatto più profonda con sé stessa, a una più lucida assunzione della propria unicità, e questo proprio nel momento in cui essa impara a vivere senza la persona defunta. Vitale, nell'azione di consolazione, è guardarsi dalla presunzione di saper e poter consolare, dal delirio di onnipotenza di pensare che il benessere dell'altro dipenda da noi. La consolazione non è un intervento anestetico! Si tratta di entrare in qualche modo nella situazione di sofferenza dell'altro, o meglio, di essere accanto all'altro nella sua sofferenza, e di mostrare empatia comunicandogli il nostro sentirlo che avviene mediante un equilibrato e sapiente rapporto di tensione del corpo, attenzione della mente e finezza delle emozioni. Consolare è una fatica che esige un lavoro su di sé. Le parole e gli atteggiamenti di chi porge le condoglianze sono spesso la fiera della superficialità, il trionfo dell'imbarazzo, un doveroso rituale a cui non ci si può sottrarre ma di cui non si è all'altezza. Solo chi ha vissuto un lutto e ha saputo abitarne il dolore, assumerne il vuoto, lasciarsi plasmare dalla mancanza, può nobilitare, con la sua discrezione e la sua intelligenza di ciò che sta avvenendo nell'animo di chi è nel lutto, quell'incontro. E le parole o i gesti "adeguati" compiuti nei confronti di chi era nel lutto, restano scolpiti nella memoria di chi li ha ricevuti come gemma preziosa e rara. Tanta è la forza della consolazione. Realtà invece sconsolante è che spesso non vi è chi consoli. Nella Bibbia ritorna frequente questo lamento ("Ho atteso consolatori, ma non ne ho trovati": Sal 69.21: cfr. Lam 1.9-16) o questa amara constatazione ("Ecco il pianto degli oppressi che non hanno chi li consoli: da parte dei loro oppressori sta la violenza, mentre per essi non c'è chi li consoli": Ql 4.1 ). Di contro, a volte, colui che ha subito un lutto, non vuole essere consolato, non vuole facili e rapidi conforti esprimendo così il tragico della perdita, il suo carattere irrimediabile e definitivo, e suggerendo che la consolazione dovrà attenersi alla volontà, al quadro relazionale e ai tempi dell'uomo nell'afflizione. La consolazione è una prossimità che giunge fino all'intimità (2Sam 12.24: Davide che consola Betsabea): tra le espressione usate in parallelo vi è "parlare sul cuore" (Gen 50.21: Is 40.1-2) che designa il gesto amoroso e affettuoso di chi appoggia il proprio capo sul petto della persona amata ( vedi l’apostolo Giovanni e Gesù nell’ultima cena) e a cui rivolge parole che vogliono raggiungerla in profondità, nel cuore. Si tratta di una comunicazione intima, personalissima. In questo modo la consolazione appare un elemento essenziale della cura che Dio ha per il suo popolo e le sue creature. Cura tesa alla pienezza di vita del suo popolo. E poiché nella storia della salvezza la pienezza di vita è escatologica, si comprende che la consolazione sia arrivata a significare e definire i tempi messianici ("Simeone aspettava la consolazione di Israele": Lc 2,25) e che il Messia abbia tra i suoi nomi. Menachem. il Consolatore (Gesù stesso è chiamato Paràkletos, Consolatore, in 1Gv 2.1). È significativo che l'immagine forse più commovente che esprime la salvezza escatologica sia quella di Dio che asciuga le lacrime dagli occhi delle creature umane sofferenti e afflitte (Ap 7.17; 21.4). Una simile immagine è creata da chi nel mondo ha conosciuto concretamente l'afflizione e il pianto e d'altra parte, da chi già qui in terra, ha cominciato a consolare, ad alleviare le sofferenze, a rimuovere le cause delle oppressioni e delle afflizioni. Certo, la consolazione definitiva, nel cristianesimo, è escatologica, è opera di Dio perché vuole essere consolazione radicale di fronte al male, alla morte e al peccato. Questa consolazione può venire solo da Dio, "il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione"' (2Cor 1,3) Gesù, che ha conosciuto l'afflizione del lutto piangendo la morte dell'amico Lazzaro (Gv 11,35), ha a sua volta consolato chi si trovava nel lutto (Lc 7,13) e insegnato ai discepoli a "piangere con chi piange" (Rm 12,15), promettendo la beatitudine a chi nell'oggi storico conosce afflizioni a causa del Regno (Mt 5,4). Gesù, nel racconto dell’Ultima cena, promette ai suoi discepoli la venuta del Paraclito, il Consolatore, che è poi un altro nome dello Spirito Santo, (Paracletos) non viene dal latino, ma dal greco - la lingua dei Vangeli - ed è un termine tratto dal 3 linguaggio giuridico, che significa «avvocato», ossia qualcuno che parla in difesa di qualcun altro. Dicevamo che non tutti desiderano davvero essere consolati nelle loro afflizioni: perché non tutti sono disposte ad accettare la fatica di rialzarsi in piedi, dopo essere caduti; alcuni, infatti, preferiscono continuare a lamentarsi senza fine, piangere e pestare i piedi in terra. Un uomo forte, quando ha bisogno di essere consolato, utilizza la consolazione come un bastone per rimettersi in piedi e riprendere il cammino, là dove l’aveva interrotto quando era scivolato giù; anche i deboli possono comportarsi così, se gli rimangono un po’ di coraggio e di rispetto di sé… Insomma, gira e rigira, il problema è sempre lo stesso: lo stesso del pensare, lo stesso del capire, lo stesso del valutare e perfino lo stesso della salute: non è possibile consolare chi non voglia realmente essere consolato, così come non è possibile aiutare colui che non desideri essere aiutato e nemmeno curare colui che non abbia la volontà di affrontare e vincere la malattia (sia essa fisica o psicologica o spirituale). In questo senso, bisogna stare attenti a non farsi confondere dalle apparenze. Non è detto che una persona, per il fatto di piangere e disperarsi, stia realmente chiedendo aiuto; così come non è detto che una persona che si lascia andare, che si abbatte, che sprofonda in un cupo fatalismo, desideri realmente essere aiutata ad uscirne. Lasciamo da parte il caso della depressione vera e propria, della depressione in senso clinico. Parliamo invece di tutte quelle persone, le quali, pur non potendosi definire, a rigor di termini, depresse, presentano tuttavia una deviazione della volontà ed un ripiegamento della coscienza di sé, del proprio diritto-dovere di star bene, cioè di vivere in equilibrio con se stesse e con il mondo esterno; di tutte quelle persone le quali, senza del tutto rendersene conto, e tuttavia con un qualche barlume di ciò, stanno barando con se stesse e soffrono senza una vera volontà di uscire dalla sofferenza, perché, per varie ragioni, hanno finito per adattarvisi. Non si tratta di simulatori, perché il loro comportamento non è intenzionale o, almeno, non lo è del tutto; un po’ come gli ipocondriaci questi afflitti di un genere un po’ particolare non desiderano consolazione, ma compatimento a tempo indeterminato, il che è una cosa completamente diversa. La compassione è il sentimento che una persona sana non può non provare davanti allo spettacolo del dolore, dell’infelicità, dello smarrimento di un’altra anima: è il sentimento che proviamo quando udiamo un gattino abbandonato miagolare nella notte, per la fame e per la paura; quando vediamo un passerotto caduta dal nido e incapace di volare, che si trascina, goffo e terrorizzato, quasi presago della fine imminente che lo aspetta; ma anche, ovviamente, quando c’imbattiamo in un uomo o in una donna soli e abbandonati, sofferenti nel corpo o nell’anima, privi di qualunque speranza e di qualunque umano sollievo. Il compatimento è una cosa diversa: pur venendo dalla stessa radice, «patire insieme a qualcuno», nel compatimento vi è sempre una sfumatura di fastidio, se non di disprezzo, perché ci si trova in presenza di qualcuno che il dolore se lo è andato a cercare, di qualcuno che ha fatto di tutto per rendersi infelice; e dunque colui che cerca il compatimento degli altri è un individuo che ha smarrito il senso della propria dignità e del rispetto dovuto a se stesso. Se, poi, qualcuno è alla perenne ricerca di un perenne compatimento, allora la cosa diventa fin troppo chiara: si tratta di una persona che non ha alcuna intenzione di farsi aiutare, perché ciò implicherebbe un impegno per aiutarsi da sé o, quanto meno, una volontà di cambiare la propria situazione; ma il cui unico piacere consiste nel sentirsi dire quanto sia infelice, quanto sia sfortunata, quanto la vita sia stata ingiusta con lei, eccetera. Consolare gli afflitti, dunque? Certamente, ma a patto che costoro vogliano essere davvero consolati e non semplicemente commiserati, ciò che non li aiuterebbe ad uscire dalle loro difficoltà, né a prendere coscienza della reale natura del loro problema. Ogni difficoltà umana, infatti, presenta un duplice aspetto: esterno ed interno. Quello esterno è in gran parte nelle mani di altre persone o di circostanze che non dipendono da noi, se non in minima parte: una moglie o un marito 4 impossibili, dei figli o difficili o dei genitori latitanti, dei colleghi di lavoro sgradevoli e invidiosi. Non è in nostro potere cambiare gli altri e non sempre è possibile cambiare lavoro o luogo di residenza, al massimo possiamo studiare delle strategie per ridurre l’impatto negativo che essi esercitano su di noi. L’aspetto interno è quello in cui abbiamo la possibilità di agire in maniera radicale, non accontentandoci di compromessi o palliativi: perché si tratta di agire su noi stessi, e questo niente e nessuno possono impedircelo, se noi non lo vogliamo; ma è anche, a ben guardare, il più impegnativo, quello che richiede la più lunga e metodica preparazione. Qui, infatti, non sono possibili scorciatoie, né si danno colpi di fortuna improvvisi: siamo a tu per tu con noi stessi, indipendentemente dal luogo in cui viviamo, dal lavoro che svolgiamo, dalle persone che ci circondano; non esistono scuse, non esistono giustificazioni di sorta, quel che riusciamo a fare di noi dipende solamente da noi stessi, tanto nel bene come nel male. E la nostra nuda verità, non di rado, ci spaventa: vorremmo ritrarci, vorremmo guardare altrove: non abbiamo il coraggio di osservarci a lungo con spirito imparziale, con animo non giudicante, ma neppure troppo propenso alla facile assoluzione. Torniamo sempre all’antichissima, fondamentale regola numero uno, quella da cui sono partiti tutti i veri filosofi: conosci te stesso. Quanto male esiste nel mondo, per causa nostra; quanto male facciamo, a noi stessi e agli altri, per una radicale, colpevole ignoranza di noi medesimi. È quasi incredibile il fatto che molti esseri umani inseguano forme elevate di sapere, riescano a distinguersi e persino ad eccellere nel campo della scienza, della ricerca, del pensiero, senza avere mai trovato il coraggio e l’onestà intellettuale necessari per guardarsi dentro, a lungo e senza trucchi né inganni; per guardarsi così come sono realmente. Eppure, tutto parte da qui e tutto ritorna qui: la salute e la malattia; la verità e la menzogna; il bene e il male; il giusto e l’ingiusto; il dare e l’avere; la salvezza e la perdizione. Una vita ben vissuta è quella di chi abbia saputo gettare uno sguardo chiarificatore dentro se stesso, spingendosi fino alle proprie più riposte profondità, riconoscendole, accettandole, elaborandole, trasportandole verso le regioni superiori del proprio palazzo interiore. Non vi è compito più importante di questo, anche se molte sono le cose che ci paiano urgenti. PER LA PREGHIERA VENI SPIRITO SANTO Vieni, Santo Spirito, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce. Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni, vieni, luce dei cuori. Consolatore perfetto, ospite dolce dell'anima, dolcissimo sollievo. Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, 5 nel pianto conforto. O luce beatissima, invadi nell'intimo il cuore dei tuoi fedeli. Senza la tua forza nulla è nell'uomo, nulla è senza colpa. Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò ch'è sviato. Dona ai tuoi fedeli che solo in te confidano i tuoi santi doni. Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna. AMEN. VENI CREATOR Vieni, o Spirito creatore, visita le nostre menti, riempi della tua grazia i cuori che hai creato. Dolce consolatore, dono del Padre altissimo, acqua viva, fuoco, amore, santo crisma dell'anima. Dito della mano di Dio, promesso dal Salvatore, irradia i tuoi sette doni, suscita in noi la parola. Sii luce all'intelletto, fiamma ardente nel cuore; sana le nostre ferite col balsamo del tuo amore. Difendici dal nemico, reca in dono la pace, la tua guida invincibile ci preservi dal male. 6 Luce d'eterna sapienza, svelaci il grande mistero di Dio Padre e del Figlio uniti in un solo Amore. AMEN. SERAFIM DI SAROV, COLLOQUIO CON MOTOVILOV Serafim: “Entrambi ci troviamo ora, batjuška, nello Spirito divino!… Perché mai non mi guardate?” Discepolo: “Non riesco a guardarvi, batjuška, perché dei lampi sprizzano dai vostri occhi. Il vostro volto è diventato più splendente del sole e gli occhi mi fanno male!…” Serafim: “Non abbiate timore, illustre amico di Dio! Anche voi ora risplendete come me. Anche voi vi trovate ora nella pienezza dello Spirito divino, altrimenti non vi sarebbe possibile vedermi in questo stato… Che cosa provate ora?” Discepolo: “Mi sento straordinariamente bene!” Serafim: “Come sarebbe a dire bene? Che cosa provate esattamente?” Discepolo: “Avverto una tale quiete, una tale pace nell’anima mia che non sono assolutamente in grado di esprimere a parole!” Serafim: “Illustre amico di Dio, si tratta precisamente di quella pace di cui il Signore ha detto ai suoi discepoli: ‘Vi do la mia pace, non come il mondo la dà’… quella pace che ‘supera ogni intelligenza’… E che cosa provate ancora?”. Discepolo: “Una senzazione di straordinaria dolcezza!” … Serafim: “Quando lo Spirito divino discende sull’uomo e lo illumina con la pienezza delle sue effusioni, allora l’anima dell’uomo si colma di una gioia ineffabile. Lo Spirito divino, infatti, contagia con la sua gioia qualunque cosa sfiori… I pegni di questa gioia ci sono dati ora, e se da essi deriva tanta dolcezza, benessere e gioia nelle nostre anime, che dire allora di quella gioia che è stata preparata lassù, nei cieli, per coloro che piangono quaggiù in terra? Ebbene, anche voi, batjuška, avete pianto abbastanza nella vostra vita sulla terra, e guardate un po’ con quale gioia il Signore vi consola già in questa vita” DAI PADRI DEL DESERTO, MATOES, N 13 «Un fratello chiese al padre Matoes: "Che devo fare? La mia lingua mi è causa di afflizione: quando giungo in mezzo agli altri, non riesco a trattenerla, ma in ogni loro azione trovo da giudicarli e accusarli. Che devo dunque fare?" L'anziano gli rispose: "Fuggi nella solitudine. È debolezza infatti. Chi vive con dei fratelli, non deve essere un cubo, ma una sfera, per poter rotolare verso tutti". E disse: "Non per virtù vivo in solitudine, ma per debolezza; sono forti infatti quelli che vanno in mezzo agli uomini".» TONINO BELLO, AFFLIGGERE I CONSOLATI Noi tra le opere di misericordia corporale abbiamo sempre insegnato che bisogna consolare gli afflitti, ma non abbiamo mai invertito l’espressione dicendo che bisogna affliggere i consolati. Tu devi essere una spina nel fianco della gente che vive nelle beatitudini delle sue sicurezze. Affliggere i 7 consolati significa essere voce critica, coscienza critica, additatrice del non ancora raggiunto.… La Chiesa deve farsi presente a ogni dolore umano, a ogni fame di giustizia e di liberazione». TI VORREI SOLLEVARE (ELISA) Decisamente profana, però… Mi hai lasciato senza parole come una primavera e questo è un raggio di luce un pensiero che si riempie di te E l’attimo in cui il sole diventa dorato e il cuore si fa leggero come l’aria prima che il tempo ci porti via ci porti via da qui Ti vorrei sollevare Ti vorrei consolare Mi hai detto ti ho visto cambiare Tu non stai più a sentire per un momento avrei voluto che fosse vero anche soltanto un po’ Perché ti ho sentito entrare ma volevo sparire e invece ti ho visto mirare invece ti ho visto sparare a quell’anima che hai detto che non ho Ti vorrei sollevare Ti vorrei consolare Ti vorrei sollevare Ti vorrei ritrovare vorrei viaggiare su ali di carta con te sapere inventare sentire il vento che soffia e non nasconderci se ci fa spostare quando persi sotto tante stelle ci chiediamo cosa siamo venuti a fare cos’è l’amore stringiamoci più forte ancora teniamoci vicino al cuore Ti vorrei sollevare Ti vorrei consolare e viaggiare su ali di carta con te sapere inventare 8 sentire il vento che soffia e non nasconderci se ci fa spostare quando persi sotto tante stelle ci chiediamo cosa siamo venuti a fare cos’è l’amore stringiamoci più forte ancora teniamoci vicino al cuore vorrei viaggiare su ali di carta con te vorrei sapere inventare sentire il vento che soffia e non nasconderci se ci fa spostare quando persi sotto tante stelle ci chiediamo cosa siamo venuti a fare cos’è l’amore stringiamoci più forte ancora teniamoci vicino al cuore. CONSOLA LA NOSTRA TRISTEZZA (ISACCO DI NINIVE) Il nostro cuore è colmo di afflizioni e noi siamo sempre nella tristezza. Rendici degni, Signore nostro, della tua consolazione che è più tenace dell' afflizione. Noi siamo colmi di pianto ed esso è per noi sempre amaro: rallegra, mio Signore, la nostra tristezza e da' refrigerio al nostro cuore in fiamme. Ansietà e sofferenza ci circondano di notte e di giorno: da' refrigerio, Signore nostro, segretamente, alla fiamma dei nostri cuori. In nessun luogo c'è per noi una speranza capace di consolare il nostro dolore: accosta il tuo dito, refrigerio di ogni cosa, 9 al pianto nascosto che è nel nostro cuore. Il pianto e le lacrime che sono nel segreto si spandono nel nostro pensiero, poiché noi siamo sempre nella paura di essere privati della tua speranza: incoraggiaci, Signore nostro, con la tua voce nascosta che viene dalla quiete, che ci insegna per mezzo dello Spirito il fine nascosto della nostra lotta. La nostra vera speranza, mostraci dunque, mio Signore, di lontano, affinché vedendola siamo fortificati e siamo in grado di sfidare tutte le nostre miserie. 10