consolare gli afflitti - Parrocchia Sant`Ippolito

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consolare gli afflitti - Parrocchia Sant`Ippolito
“Quello che avete fatto al più piccolo fra voi…”
20 Febbraio 2012
“CONSOLARE GLI AFFLITTI”
Parlando di Antonio, il grande monaco e asceta Atanasio ha scritto: "Quale sofferente incontrò
Antonio senza ricevere in cambio della gioia? Chi andò da lui nell'afflizione e non tornò nella
consolazione? Chi andò da lui piangendo i propri morti e non tornò senza avere deposto il proprio
lutto? Chi si recò da lui nell'ira senza ritornare disposto all'amicizia? Quale povero, afflitto, venne da
lui e, alle sue parole e alla sua vista, non disprezzò le ricchezze e non accertò con gioia la sua povertà? Quale monaco, privo di fiducia in sé, giunto da lui, non divenne subito più forte? Chi venne da
lui tormentato dal demonio e non tornò liberato? Chi si avvicinò tormentato dalle preoccupazioni e
non ritrovò subito la serenità dell'anima?".
L'antica biografia di Antonio testimonia di un uomo reso capace di autentica consolazione, di essere
ministro della consolazione di Dio.
La cosa non è certamente scontata, come rileva Paolo De Benedetti riferendosi ai nostri giorni: "Tra
le più praticabili opere di misericordia spirituale ce ne una di cui si ha sempre più bisogno man mano
che la vita e la società si plasmano sul modello della città, e che questa società tuttavia non pratica
affatto: consolare gli afflitti. La civiltà contemporanea teme gli afflitti e li sfugge, perché teme il
contagio dell'afflizione e non sa portare il contagio della consolazione. E in realtà non è facile
consolare, specialmente se si crede che ciò consista in un obbligo da adempiersi mediante un
discorso".
Ma che cosa significa, esattamente, consolare gli afflitti? Chi appartiene a questa categoria? E come
si fa a consolarlo; quando è possibile; quando è opportuno?
«Afflictus», in latino, vale «abbattuto, rovinato, afflitto» (Cicerone, Sallustio) ed è il participio di
«adfligěre, affligěre», che significa «battere, sbattere, gettare giù, abbattere», tanto nel significato
materiale dell’espressione, quando in quello psicologico e morale. Cesare scrive: «Tempestas naves
Rhodias afflixit»: «La tempesta sconquassò le navi dei Rodi»; Cicerone dice che «Pompeius ipse se
afflixit»: «Pompeo s’è rovinato da sé»; e sempre Cicerone afferma che «Perturbationes animos
affligunt»: «Le passioni affievoliscono la forza d’animo».
Nell’italiano moderno è andato perso il significato materiale del verbo ed è rimasto solo quello
spirituale: l’afflizione è uno stato dell’animo e l’essere afflitto è la condizione di chi sia
profondamente triste, deluso, amareggiato, sconfortato, privo di fiducia e di speranza che le cose
possano rimettersi al meglio. Ciò detto, bisogna tuttavia osservare che gli afflitti non appartengono
tutti ad un’unica, indistinta categoria, ma che in essi si possono riconoscere almeno due categorie
fondamentali: quelli che soffrono per delle circostanze obiettive e quelli che soffrono
essenzialmente per mancanza di fiducia in se stessi e perché ingigantiscono i problemi. La
distinzione, lo sappiamo bene, è estremamente ardua: è quasi impossibile separare, con una linea
netta, le circostanze oggettive dalla percezione soggettiva; di fatto, ciascun essere umano vede la
realtà esterna attraverso il filtro della propria coscienza, delle proprie aspettative, dei propri timori e
pregiudizi e, così facendo, carica la percezione di quella di un pesante fardello di idee e sentimenti
personali, che magari nulla hanno a che fare con il dato originario.
Pure con ciò, non possiamo fare a meno di constatate che sono essenzialmente due gli atteggiamenti
fondamentali verso la vita: quello attivo e quello passivo.
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Il primo rielabora incessantemente le proprie esperienze, positive o negative che siano, per
approfondire la propria esperienza del reale e per perfezionare la propria evoluzione spirituale; il
secondo si abbandona stancamente alla vita, entusiasmandosi quando le cose vanno bene ed
abbattendosi, magari anche oltre la misura del giusto e del ragionevole, quando vanno male. Il
primo atteggiamento è quello delle persone forti, che non si scoraggiano facilmente e che, quando
cadono, hanno solo bisogno di raccogliere nuovamente le forze per tornare ad alzarsi in piedi; il
secondo è quello delle persone stanche, le quali, continuamente assumono quella che le circostanze
esterne impongono loro, così nel bene come nel male.
Quasi tutti, quando soffriamo, desideriamo in fondo di sentire una parola buona o ricevere un
gesto, anche soltanto uno sguardo di simpatia e di comprensione, da un amico, da un parente, da un
conoscente, fosse pure da un estraneo. D’altra parte, non tutti riescono ad aprirsi o, peggio, vogliono
realmente essere consolate per ricostituire le proprie forze e rimettersi in piedi; ve ne sono di quelle
che vorrebbero seguitare a lamentare all’infinito per poter essere consolate all’infinito e via così, in
una spirale senza fine.
Appunto, in che cosa consiste la consolazione? La consolazione è una pratica di umanità che l'uomo
in quanto tale conosce, auspica, chiede, mette in atto, di fronte alle situazioni di morte, di sofferenza
fisica e morale, di vecchiaia, di solitudine e abbandono. Meglio, di fronte a persone nel lutto, nella
sofferenza, nella vecchiaia, nell'isolamento, nell'abbandono. L'antichità sviluppò una vera e propria
arte della consolazione che si diversificava in rapporto alle differenti situazioni di afflizione (anche un
lutto è differente se si riferisce a una morte improvvisa, a una morte tragica, alla morte di un
bambino appena nato, alla morte di un figlio già grande, a una morte prematura, a una morte
nell'anzianità) e i filosofi erano i depositari di tale consolazione.
Se vino, musica e sonno potevano essere consigliati come mezzi di consolazione, l'arte di consolare
consisteva in una presenza compassionevole, nella capacità di parole sentite di incoraggiamento e
vicinanza, in visite di condoglianze e in biglietti o lettere di tono consolatorio. Il verbo greco che
indica l’atto di consolare parakalein significa ad un primo livello, "chiamare accanto", "far venire a
sé", quindi significa "esortare", "supplicare", e anche "consolare".
Nella consolazione si tratta di creare una prossimità, di farsi "presenza accanto" a chi è nella
desolazione e nella solitudine. Certamente a volte essa può essere realizzata con parole. Paolo, nella
prima lettera ai cristiani di Tessalonica, annuncia la speranza cristiana di fronte alla morte per
consolare una comunità afflitta per la morte di alcuni membri (1Ts 4,13-17) e conclude: "Consolatevi
dunque a vicenda con queste parole" ( 1Ts 4.18).
Una consolazione reale è spesso costituita da una presenza capace di ascolto. Una presenza che
non svilisce la disgrazia dell'afflitto con parole banalizzanti o falsamente rassicuranti, con parole
illusoriamente spirituali, con discorsi teologici, che inevitabilmente non raggiungono il tragico che la
persona sta vivendo, anzi se ne distanziano. Nel testo giudaico dei Pirqé 'Avot (4,18) si dice: " Non
cercare di consolare il tuo compagno mentre il suo morto è steso davanti a lui".
La consolazione, come il dolore e il lutto, ha i suoi tempi. Affrettare discorsi e parole spesso è segno
di angoscia e di paura di fronte all'afflizione dell'afflitto. Più difficile, ma più efficacemente capace di
raggiungere l'altro nel suo dolore, è ascoltare la sua sofferenza, lasciare che sia il suo silenzio, il suo
animo, a suggerire gesti, tempi, movenze, silenzi, parole, sguardi, abbracci, carezze, distanze, per
poter essergli realmente di consolazione. Il rischio, infatti, è di credersi capaci di consolare e fallire
l'incontro con l'afflitto. Occorre spogliarsi dalle forme di "potere" che ci possono abitare, rinunciare
alle risposte salvifiche, all'illusione di possedere "tecniche" di consolazione. Né mai colui che si fa
prossimo a chi è nel dolore potrà sostituirsi a lui, altrimenti la sua azione sarà di violenza, non di
incontro e di consolazione.
Di fronte a un lutto, poi, è essenziale rispettare il dolore e accettare che la crisi innescata dalla
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perdita faccia il suo corso. Certamente, la solitudine a volte spaventosa aperta da un'esperienza di
lutto, può divenire il passaggio attraverso cui la persona accede a una presa di contatto più profonda
con sé stessa, a una più lucida assunzione della propria unicità, e questo proprio nel momento in cui
essa impara a vivere senza la persona defunta. Vitale, nell'azione di consolazione, è guardarsi dalla
presunzione di saper e poter consolare, dal delirio di onnipotenza di pensare che il benessere
dell'altro dipenda da noi. La consolazione non è un intervento anestetico! Si tratta di entrare in
qualche modo nella situazione di sofferenza dell'altro, o meglio, di essere accanto all'altro nella sua
sofferenza, e di mostrare empatia comunicandogli il nostro sentirlo che avviene mediante un
equilibrato e sapiente rapporto di tensione del corpo, attenzione della mente e finezza delle
emozioni.
Consolare è una fatica che esige un lavoro su di sé. Le parole e gli atteggiamenti di chi porge le
condoglianze sono spesso la fiera della superficialità, il trionfo dell'imbarazzo, un doveroso rituale a
cui non ci si può sottrarre ma di cui non si è all'altezza. Solo chi ha vissuto un lutto e ha saputo
abitarne il dolore, assumerne il vuoto, lasciarsi plasmare dalla mancanza, può nobilitare, con la sua
discrezione e la sua intelligenza di ciò che sta avvenendo nell'animo di chi è nel lutto, quell'incontro.
E le parole o i gesti "adeguati" compiuti nei confronti di chi era nel lutto, restano scolpiti nella
memoria di chi li ha ricevuti come gemma preziosa e rara. Tanta è la forza della consolazione.
Realtà invece sconsolante è che spesso non vi è chi consoli. Nella Bibbia ritorna frequente questo
lamento ("Ho atteso consolatori, ma non ne ho trovati": Sal 69.21: cfr. Lam 1.9-16) o questa amara
constatazione ("Ecco il pianto degli oppressi che non hanno chi li consoli: da parte dei loro
oppressori sta la violenza, mentre per essi non c'è chi li consoli": Ql 4.1 ). Di contro, a volte, colui che
ha subito un lutto, non vuole essere consolato, non vuole facili e rapidi conforti esprimendo così il
tragico della perdita, il suo carattere irrimediabile e definitivo, e suggerendo che la consolazione
dovrà attenersi alla volontà, al quadro relazionale e ai tempi dell'uomo nell'afflizione.
La consolazione è una prossimità che giunge fino all'intimità (2Sam 12.24: Davide che consola
Betsabea): tra le espressione usate in parallelo vi è "parlare sul cuore" (Gen 50.21: Is 40.1-2) che
designa il gesto amoroso e affettuoso di chi appoggia il proprio capo sul petto della persona
amata ( vedi l’apostolo Giovanni e Gesù nell’ultima cena) e a cui rivolge parole che vogliono raggiungerla in profondità, nel cuore. Si tratta di una comunicazione intima, personalissima.
In questo modo la consolazione appare un elemento essenziale della cura che Dio ha per il suo
popolo e le sue creature. Cura tesa alla pienezza di vita del suo popolo. E poiché nella storia della
salvezza la pienezza di vita è escatologica, si comprende che la consolazione sia arrivata a significare e
definire i tempi messianici ("Simeone aspettava la consolazione di Israele": Lc 2,25) e che il Messia
abbia tra i suoi nomi. Menachem. il Consolatore (Gesù stesso è chiamato Paràkletos, Consolatore, in
1Gv 2.1).
È significativo che l'immagine forse più commovente che esprime la salvezza escatologica sia
quella di Dio che asciuga le lacrime dagli occhi delle creature umane sofferenti e afflitte (Ap 7.17;
21.4). Una simile immagine è creata da chi nel mondo ha conosciuto concretamente l'afflizione e il
pianto e d'altra parte, da chi già qui in terra, ha cominciato a consolare, ad alleviare le sofferenze, a
rimuovere le cause delle oppressioni e delle afflizioni. Certo, la consolazione definitiva, nel
cristianesimo, è escatologica, è opera di Dio perché vuole essere consolazione radicale di fronte al
male, alla morte e al peccato. Questa consolazione può venire solo da Dio, "il Padre misericordioso e
Dio di ogni consolazione"' (2Cor 1,3) Gesù, che ha conosciuto l'afflizione del lutto piangendo la morte
dell'amico Lazzaro (Gv 11,35), ha a sua volta consolato chi si trovava nel lutto (Lc 7,13) e insegnato ai
discepoli a "piangere con chi piange" (Rm 12,15), promettendo la beatitudine a chi nell'oggi storico
conosce afflizioni a causa del Regno (Mt 5,4). Gesù, nel racconto dell’Ultima cena, promette ai suoi
discepoli la venuta del Paraclito, il Consolatore, che è poi un altro nome dello Spirito Santo,
(Paracletos) non viene dal latino, ma dal greco - la lingua dei Vangeli - ed è un termine tratto dal
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linguaggio giuridico, che significa «avvocato», ossia qualcuno che parla in difesa di qualcun altro.
Dicevamo che non tutti desiderano davvero essere consolati nelle loro afflizioni: perché non tutti
sono disposte ad accettare la fatica di rialzarsi in piedi, dopo essere caduti; alcuni, infatti,
preferiscono continuare a lamentarsi senza fine, piangere e pestare i piedi in terra.
Un uomo forte, quando ha bisogno di essere consolato, utilizza la consolazione come un bastone per
rimettersi in piedi e riprendere il cammino, là dove l’aveva interrotto quando era scivolato giù;
anche i deboli possono comportarsi così, se gli rimangono un po’ di coraggio e di rispetto di sé…
Insomma, gira e rigira, il problema è sempre lo stesso: lo stesso del pensare, lo stesso del capire, lo
stesso del valutare e perfino lo stesso della salute: non è possibile consolare chi non voglia
realmente essere consolato, così come non è possibile aiutare colui che non desideri essere aiutato
e nemmeno curare colui che non abbia la volontà di affrontare e vincere la malattia (sia essa fisica o
psicologica o spirituale). In questo senso, bisogna stare attenti a non farsi confondere dalle
apparenze. Non è detto che una persona, per il fatto di piangere e disperarsi, stia realmente
chiedendo aiuto; così come non è detto che una persona che si lascia andare, che si abbatte, che
sprofonda in un cupo fatalismo, desideri realmente essere aiutata ad uscirne.
Lasciamo da parte il caso della depressione vera e propria, della depressione in senso clinico.
Parliamo invece di tutte quelle persone, le quali, pur non potendosi definire, a rigor di termini,
depresse, presentano tuttavia una deviazione della volontà ed un ripiegamento della coscienza di
sé, del proprio diritto-dovere di star bene, cioè di vivere in equilibrio con se stesse e con il mondo
esterno; di tutte quelle persone le quali, senza del tutto rendersene conto, e tuttavia con un qualche
barlume di ciò, stanno barando con se stesse e soffrono senza una vera volontà di uscire dalla
sofferenza, perché, per varie ragioni, hanno finito per adattarvisi. Non si tratta di simulatori, perché
il loro comportamento non è intenzionale o, almeno, non lo è del tutto; un po’ come gli ipocondriaci
questi afflitti di un genere un po’ particolare non desiderano consolazione, ma compatimento a
tempo indeterminato, il che è una cosa completamente diversa.
La compassione è il sentimento che una persona sana non può non provare davanti allo spettacolo
del dolore, dell’infelicità, dello smarrimento di un’altra anima: è il sentimento che proviamo quando
udiamo un gattino abbandonato miagolare nella notte, per la fame e per la paura; quando vediamo
un passerotto caduta dal nido e incapace di volare, che si trascina, goffo e terrorizzato, quasi presago
della fine imminente che lo aspetta; ma anche, ovviamente, quando c’imbattiamo in un uomo o in
una donna soli e abbandonati, sofferenti nel corpo o nell’anima, privi di qualunque speranza e di
qualunque umano sollievo.
Il compatimento è una cosa diversa: pur venendo dalla stessa radice, «patire insieme a qualcuno»,
nel compatimento vi è sempre una sfumatura di fastidio, se non di disprezzo, perché ci si trova in
presenza di qualcuno che il dolore se lo è andato a cercare, di qualcuno che ha fatto di tutto per
rendersi infelice; e dunque colui che cerca il compatimento degli altri è un individuo che ha smarrito
il senso della propria dignità e del rispetto dovuto a se stesso. Se, poi, qualcuno è alla perenne
ricerca di un perenne compatimento, allora la cosa diventa fin troppo chiara: si tratta di una
persona che non ha alcuna intenzione di farsi aiutare, perché ciò implicherebbe un impegno per
aiutarsi da sé o, quanto meno, una volontà di cambiare la propria situazione; ma il cui unico piacere
consiste nel sentirsi dire quanto sia infelice, quanto sia sfortunata, quanto la vita sia stata ingiusta
con lei, eccetera.
Consolare gli afflitti, dunque? Certamente, ma a patto che costoro vogliano essere davvero
consolati e non semplicemente commiserati, ciò che non li aiuterebbe ad uscire dalle loro difficoltà,
né a prendere coscienza della reale natura del loro problema. Ogni difficoltà umana, infatti,
presenta un duplice aspetto: esterno ed interno. Quello esterno è in gran parte nelle mani di altre
persone o di circostanze che non dipendono da noi, se non in minima parte: una moglie o un marito
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impossibili, dei figli o difficili o dei genitori latitanti, dei colleghi di lavoro sgradevoli e invidiosi. Non
è in nostro potere cambiare gli altri e non sempre è possibile cambiare lavoro o luogo di residenza, al
massimo possiamo studiare delle strategie per ridurre l’impatto negativo che essi esercitano su di
noi.
L’aspetto interno è quello in cui abbiamo la possibilità di agire in maniera radicale, non
accontentandoci di compromessi o palliativi: perché si tratta di agire su noi stessi, e questo niente e
nessuno possono impedircelo, se noi non lo vogliamo; ma è anche, a ben guardare, il più
impegnativo, quello che richiede la più lunga e metodica preparazione. Qui, infatti, non sono
possibili scorciatoie, né si danno colpi di fortuna improvvisi: siamo a tu per tu con noi stessi,
indipendentemente dal luogo in cui viviamo, dal lavoro che svolgiamo, dalle persone che ci
circondano; non esistono scuse, non esistono giustificazioni di sorta, quel che riusciamo a fare di noi
dipende solamente da noi stessi, tanto nel bene come nel male.
E la nostra nuda verità, non di rado, ci spaventa: vorremmo ritrarci, vorremmo guardare altrove:
non abbiamo il coraggio di osservarci a lungo con spirito imparziale, con animo non giudicante, ma
neppure troppo propenso alla facile assoluzione.
Torniamo sempre all’antichissima, fondamentale regola numero uno, quella da cui sono partiti
tutti i veri filosofi: conosci te stesso.
Quanto male esiste nel mondo, per causa nostra; quanto male facciamo, a noi stessi e agli altri, per
una radicale, colpevole ignoranza di noi medesimi. È quasi incredibile il fatto che molti esseri umani
inseguano forme elevate di sapere, riescano a distinguersi e persino ad eccellere nel campo della
scienza, della ricerca, del pensiero, senza avere mai trovato il coraggio e l’onestà intellettuale
necessari per guardarsi dentro, a lungo e senza trucchi né inganni; per guardarsi così come sono
realmente.
Eppure, tutto parte da qui e tutto ritorna qui: la salute e la malattia; la verità e la menzogna; il bene
e il male; il giusto e l’ingiusto; il dare e l’avere; la salvezza e la perdizione.
Una vita ben vissuta è quella di chi abbia saputo gettare uno sguardo chiarificatore dentro se
stesso, spingendosi fino alle proprie più riposte profondità, riconoscendole, accettandole,
elaborandole, trasportandole verso le regioni superiori del proprio palazzo interiore.
Non vi è compito più importante di questo, anche se molte sono le cose che ci paiano urgenti.
PER LA PREGHIERA
VENI SPIRITO SANTO
Vieni, Santo Spirito,
manda a noi dal cielo
un raggio della tua luce.
Vieni, padre dei poveri,
vieni, datore dei doni,
vieni, luce dei cuori.
Consolatore perfetto,
ospite dolce dell'anima,
dolcissimo sollievo.
Nella fatica, riposo,
nella calura, riparo,
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nel pianto conforto.
O luce beatissima,
invadi nell'intimo
il cuore dei tuoi fedeli.
Senza la tua forza
nulla è nell'uomo,
nulla è senza colpa.
Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.
Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
drizza ciò ch'è sviato.
Dona ai tuoi fedeli
che solo in te confidano
i tuoi santi doni.
Dona virtù e premio,
dona morte santa,
dona gioia eterna.
AMEN.
VENI CREATOR
Vieni, o Spirito creatore,
visita le nostre menti,
riempi della tua grazia
i cuori che hai creato.
Dolce consolatore,
dono del Padre altissimo,
acqua viva, fuoco, amore,
santo crisma dell'anima.
Dito della mano di Dio,
promesso dal Salvatore,
irradia i tuoi sette doni,
suscita in noi la parola.
Sii luce all'intelletto,
fiamma ardente nel cuore;
sana le nostre ferite
col balsamo del tuo amore.
Difendici dal nemico,
reca in dono la pace,
la tua guida invincibile
ci preservi dal male.
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Luce d'eterna sapienza,
svelaci il grande mistero
di Dio Padre e del Figlio
uniti in un solo Amore.
AMEN.
SERAFIM DI SAROV, COLLOQUIO CON MOTOVILOV
Serafim: “Entrambi ci troviamo ora, batjuška, nello Spirito divino!… Perché mai non mi guardate?”
Discepolo: “Non riesco a guardarvi, batjuška, perché dei lampi sprizzano dai vostri occhi. Il vostro
volto è diventato più splendente del sole e gli occhi mi fanno male!…”
Serafim: “Non abbiate timore, illustre amico di Dio! Anche voi ora risplendete come me. Anche voi vi
trovate ora nella pienezza dello Spirito divino, altrimenti non vi sarebbe possibile vedermi in questo
stato… Che cosa provate ora?”
Discepolo: “Mi sento straordinariamente bene!”
Serafim: “Come sarebbe a dire bene? Che cosa provate esattamente?”
Discepolo: “Avverto una tale quiete, una tale pace nell’anima mia che non sono assolutamente in
grado di esprimere a parole!”
Serafim: “Illustre amico di Dio, si tratta precisamente di quella pace di cui il Signore ha detto ai suoi
discepoli: ‘Vi do la mia pace, non come il mondo la dà’… quella pace che ‘supera ogni intelligenza’… E
che cosa provate ancora?”.
Discepolo: “Una senzazione di straordinaria dolcezza!”
…
Serafim: “Quando lo Spirito divino discende sull’uomo e lo illumina con la pienezza delle sue
effusioni, allora l’anima dell’uomo si colma di una gioia ineffabile. Lo Spirito divino, infatti, contagia
con la sua gioia qualunque cosa sfiori… I pegni di questa gioia ci sono dati ora, e se da essi deriva
tanta dolcezza, benessere e gioia nelle nostre anime, che dire allora di quella gioia che è stata
preparata lassù, nei cieli, per coloro che piangono quaggiù in terra? Ebbene, anche voi, batjuška,
avete pianto abbastanza nella vostra vita sulla terra, e guardate un po’ con quale gioia il Signore vi
consola già in questa vita”
DAI PADRI DEL DESERTO, MATOES, N 13
«Un fratello chiese al padre Matoes: "Che devo fare? La mia lingua mi è causa di afflizione: quando
giungo in mezzo agli altri, non riesco a trattenerla, ma in ogni loro azione trovo da giudicarli e
accusarli. Che devo dunque fare?" L'anziano gli rispose: "Fuggi nella solitudine. È debolezza infatti.
Chi vive con dei fratelli, non deve essere un cubo, ma una sfera, per poter rotolare verso tutti". E
disse: "Non per virtù vivo in solitudine, ma per debolezza; sono forti infatti quelli che vanno in mezzo
agli uomini".»
TONINO BELLO, AFFLIGGERE I CONSOLATI
Noi tra le opere di misericordia corporale abbiamo sempre insegnato che bisogna consolare gli
afflitti, ma non abbiamo mai invertito l’espressione dicendo che bisogna affliggere i consolati. Tu
devi essere una spina nel fianco della gente che vive nelle beatitudini delle sue sicurezze. Affliggere i
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consolati significa essere voce critica, coscienza critica, additatrice del non ancora raggiunto.… La
Chiesa deve farsi presente a ogni dolore umano, a ogni fame di giustizia e di liberazione».
TI VORREI SOLLEVARE
(ELISA)
Decisamente profana, però…
Mi hai lasciato senza parole
come una primavera
e questo è un raggio di luce
un pensiero che si riempie
di te
E l’attimo in cui il sole
diventa dorato
e il cuore si fa leggero
come l’aria prima che il tempo
ci porti via
ci porti via
da qui
Ti vorrei sollevare
Ti vorrei consolare
Mi hai detto ti ho visto cambiare
Tu non stai più a sentire
per un momento avrei voluto
che fosse vero anche soltanto
un po’
Perché ti ho sentito entrare
ma volevo sparire
e invece ti ho visto mirare
invece ti ho visto sparare
a quell’anima
che hai detto che non ho
Ti vorrei sollevare
Ti vorrei consolare
Ti vorrei sollevare
Ti vorrei ritrovare
vorrei viaggiare su ali di carta con te
sapere inventare
sentire il vento che soffia
e non nasconderci se ci fa spostare
quando persi sotto tante stelle
ci chiediamo cosa siamo venuti a fare
cos’è l’amore
stringiamoci più forte ancora
teniamoci vicino al cuore
Ti vorrei sollevare
Ti vorrei consolare
e viaggiare su ali di carta con te
sapere inventare
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sentire il vento che soffia
e non nasconderci se ci fa spostare
quando persi sotto tante stelle
ci chiediamo cosa siamo venuti a fare
cos’è l’amore
stringiamoci più forte ancora
teniamoci vicino al cuore
vorrei viaggiare su ali di carta con te
vorrei sapere inventare
sentire il vento che soffia
e non nasconderci se ci fa spostare
quando persi sotto tante stelle
ci chiediamo cosa siamo venuti a fare
cos’è l’amore
stringiamoci più forte ancora
teniamoci vicino al cuore.
CONSOLA LA NOSTRA TRISTEZZA
(ISACCO DI NINIVE)
Il nostro cuore
è colmo di afflizioni
e noi siamo sempre
nella tristezza.
Rendici degni,
Signore nostro,
della tua consolazione
che è più tenace dell' afflizione.
Noi siamo colmi di pianto
ed esso è per noi sempre amaro:
rallegra, mio Signore,
la nostra tristezza
e da' refrigerio
al nostro cuore
in fiamme.
Ansietà e sofferenza
ci circondano
di notte e di giorno:
da' refrigerio,
Signore nostro,
segretamente,
alla fiamma dei nostri cuori.
In nessun luogo
c'è per noi
una speranza
capace di consolare
il nostro dolore:
accosta il tuo dito,
refrigerio di ogni cosa,
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al pianto nascosto
che è nel nostro cuore.
Il pianto e le lacrime
che sono nel segreto
si spandono nel nostro pensiero,
poiché noi siamo sempre nella paura
di essere privati della tua speranza:
incoraggiaci, Signore nostro,
con la tua voce nascosta
che viene dalla quiete,
che ci insegna per mezzo dello Spirito
il fine nascosto della nostra lotta.
La nostra vera speranza,
mostraci dunque,
mio Signore, di lontano,
affinché vedendola siamo fortificati
e siamo in grado di sfidare
tutte le nostre miserie.
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