consolatore bambino

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consolatore bambino
Consolare gli afflitti
Afflitto è, in genere, chi è in lutto: chi è profondamente addolorato per la scomparsa di una
persona cara. Spesso a me le persone in lutto riferiscono quanto si sentano sole: gli amici le evitano,
i conoscenti passano dall’altro lato della strada per non parlare con loro quando le intravedono da
lontano. Alcuni allora chiedono: «Ma il lutto è come la lebbra, che la gente mi evita così?». Poi,
però, spesso scusano i loro amici e conoscenti, sostenendo che quelle persone sono inermi, che non
sanno che cosa dire o come devono comportarsi con loro. Altre persone in lutto si sentono ferite
quando gli amici dicono loro: «Beh, adesso sono già sei mesi che tuo marito, tuo figlio è morto. La
vita continua. Prenditi una vacanza, così ti distrai!». Hanno l’impressione di non venir prese sul
serio nel loro dolore. Si vorrebbe dissimulare e liquidare il lutto con delle frasi fatte. Gli afflitti,
invece, hanno bisogno di conforto. Desiderano ardentemente delle persone che si attengano ancora
al consolare come opera di misericordia.
La Bibbia ci mostra come il conforto sbagliato ferisce più che tirar su le persone. Quando Giobbe
è pieno di dolore per la perdita dei suoi figli e delle sue figlie, arrivano gli amici. Si siedono per
sette giorni in silenzio presso di lui. Sopportano comunque per ben sette giorni il suo cordoglio,
senza cercare di convincerlo ad abbandonare il lutto. Appena però iniziano a parlare, non riescono a
staccarsi da ciò che hanno imparato a scuola su Dio e la sua giustizia. Restano fermi nella loro
interpretazione: se uno è stato colpito da una tale pena, deve aver peccato, in fondo dev’essere colpa
sua. Giobbe si ribella a quest’accusa e rimprovera i suoi ‘consolatori’ che lo incolpano:
Ne ho udite già molte di cose simili! Siete tutti consolatori molesti. Non avranno
termine le parole campate in aria? O che cosa ti spinge a rispondere? Anch’io sarei
capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto: comporrei con eleganza parole
contro di voi e scuoterei il mio capo su di voi (Gb 16,2-4).
Chi vuole consolare deve astenersi da qualsiasi interpretazione. Non spetta a me commentare la
sofferenza altrui, interpretarla o interrogarmi sulle cause. Tantomeno spetta a me comunicare
all’altro che è colpa sua se soffre. Questa non è consolazione, ma accusa. A ragione Giobbe vi si
ribella.
La parola tedesca Trauer, ‘lutto’, deriva da ‘cadere, diventare fiacco e senza forze’:
nell’afflizione del lutto ti senti privo di forza, senza terreno sotto i piedi. Allora desideri
ardentemente qualcuno che ti doni consolazione. Trost, ossia ‘conforto’, sul piano etimologico è
collegato a Treue, ‘fedeltà’, e indica fermezza interiore. Ciò che gli afflitti desiderano acutamente
non sono persone che offrano loro una falsa consolazione con parole pie o che sorvolino sul lutto
rimandando a qualche passo biblico: il conforto non sta innanzitutto nelle parole. Diventa un
consolatore per me chi resiste accanto a me nel mio lutto, nella mia disperazione, nella mia rabbia,
nella mia impotenza; chi sopporta le mie lacrime e davanti a esse non fugge né chiude gli occhi.
Consolare significa semplicemente rimanere saldi presso l’afflitto, mantenere una posizione ferma
nella mancanza di appigli tipica del lutto. Se resisto accanto all’afflitto, senza occultare la sua pena
sotto una coltre di parole oppure, come si dice oggi, senza ‘stressargli la vita’ con tanti discorsi -,
l’afflitto prima o poi racconterà che cosa gli manca, che cosa gli fa tanto male. Lo invito a raccontare come è stato l’addio, come ha visto l’agonizzante, il defunto. Non dispenso consigli, non
propongo soluzioni. Semplicemente mi fermo ad ascoltare. Questo è conforto.
La parola latina per ‘confortare’ è consolari, che significa ‘rimanere con chi è solo’. I romani
evidentemente hanno vissuto il conforto sotto questo aspetto: avere il coraggio di entrare nello
spazio della solitudine altrui e di sopportarla; uno mi rimane vicino, affinché io riesca a sopportare
me stesso. La corrispondente parola greca, parakalèin, ha molti significati: ‘chiamare accanto,
incoraggiare, consolare, avere parole di conforto, assistere’. Nel Vangelo di Giovanni lo Spirito
santo è sempre definito il ‘Paraclito’, il ‘Consolatore’, il ‘Sostegno’. E colui che è chiamato accan-
to, che ci assiste e ci consola. Per noi esseri umani, consolare in questo senso significa: assistere
l’altro nella sua pena, ma anche avere parole che toccano il suo cuore, parole che, mentre l’altro è
nel pieno della mancanza di forze, rinvigoriscono. Per la Bibbia, però, il conforto non avviene mai
soltanto con le parole, ma anche nel rituale. Le Scritture menzionano il gesto del bere dal calice
della consolazione (cfr. Ger 16,7). Gesù ha ripreso quel rito: porge ai discepoli il calice della
consolazione. In ogni celebrazione eucaristica ci dà da bere il calice della consolazione del suo
amore. Il calice di vino è il suo sangue versato per noi, a simboleggiare l’amore con il quale si è
sacrificato per noi e per tutti. In quel calice dona se stesso a noi, nella nostra solitudine. Non ci dà
una risposta all’afflizione, ma ci fa bere il suo amore, affinché ci rinvigorisca. Il modo in cui Gesù
dona conforto per mezzo del calice del suo sangue è determinante anche per la nostra opera di
misericordia. Non dobbiamo dispensare parole pie, bensì porgere all’altro il calice del nostro amore,
affinché possa bere da esso.
Il pastore di una libera chiesa 1 mi ha raccontato del suo profondo lutto per la morte di un amico.
Nella funzione liturgica, però, i suoi confratelli affermarono che come cristiani non ci è concesso di
essere in lutto. Intonarono inni di lode. Quel pastore, però, non si sentiva in vena di lodi: non
riusciva a fare altro che piangere. Non si sentiva preso sul serio nel suo dolore. Paolo ha scritto ai
tessalo- nicesi dei defunti che Cristo condurrà nella gloria, affinché i membri della comunità non si
affliggano «come gli altri che non hanno speranza» (1 Ts 4,13). Alcuni cristiani hanno inteso questa
parola dell’apostolo nel senso che non ci è concesso affliggerci per il fatto che noi crediamo nella
risurrezione. Ma, con la sua visione di ciò che ci attende nella morte, Paolo non voleva abolire la
fase del lutto. Anche se crediamo che il defunto ora è in pace presso Dio, il commiato ci duole. Ci
affliggiamo non perché il defunto è perduto per sempre, ma perché noi lo abbiamo perso, perché a
noi non è più dato di parlare con lui. Su questo dolore del lutto non dobbiamo affatto sorvolare
appellandoci a una qualche idea religiosa. La fede ci aiuta a sopportare il lutto, ma non ci preserva
da esso. Chi non vuole provare sentimenti di lutto abusa della fede per scansare la propria povertà e
l’esperienza del dolore.
Non si è afflitti soltanto per la morte di una persona cara. Ogni perdita suscita in noi afflizione,
sia essa la perdita dell’amore in un matrimonio che va a rotoli, la perdita del lavoro, della salute,
dell’amicizia. Le opportunità mancate suscitano dolore e anche i deficit della nostra vita, di cui
diventiamo dolorosamente consapevoli nel lutto. Gesù definisce beati gli afflitti e promette loro che
«saranno consolati» (Mt 5,4). Gesù non vuole che sorvoliamo sul lutto. Negli ultimi anni ho
compreso in maniera nuova che molti non giungono a vivere perché non elaborano il lutto sui loro
deficit. Non piangono il fatto che il loro matrimonio non è diventato come avevano sperato, che non
hanno trovato il lavoro che li appaga, che la loro azienda, la loro associazione, la loro comunità non
è perfetta come sognavano. E non piangono il fatto che nella loro infanzia non hanno ottenuto ciò a
cui anelavano. Anche nella chiesa vedo molta rassegnazione, la quale spesso deriva dal fatto che
non si piangono le condizioni della chiesa e delle comunità. Le comunità non sono più come negli
anni Cinquanta dello scorso secolo. Soltanto se piango le condizioni vengo a contatto con nuove
forze e nuove possibilità dentro di me. Consolare gli afflitti non significa incollare subito un pio
cerotto sui deficit della propria biografia, bensì incoraggiare le persone a piangere ciò che fa loro
male e ciò che manca a esse. Soltanto così crescono nella loro forza. Elaborando il lutto veniamo a
contatto con il Consolatore che ci conforta e ci assiste. Il Consolatore, lo Spirito santo è il vero
confortatore, che entra con noi nel nostro lutto trasformandolo dall’interno. Passare attraverso il
lutto è la condizione necessaria perché siamo in grado di fare l’esperienza dello Spirito santo. Gesù,
non a caso, si aspetta la tristezza dai propri discepoli:
Perché vi ho detto questo, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ma io vi dico la verità:
[In ambito protestante, alle cosiddette ‘libere chiese’ appartengono, per esempio, i battisti, i mennoniti e i
pentecostali (N.d.R.)].
1
è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi (Gv 16,6s.).
Gesù ritiene i discepoli capaci di affrontare il dolore per il suo allontanamento e la sua assenza.
Devono sopportare e piangere il fatto che non sentono la vicinanza di Gesù e che, nel loro dolore,
egli appaia lontanissimo. Ma Gesù interpreta per loro questa tristezza: è bene che lui se ne vada ed è
bene che loro piangano il suo partire. Soltanto se Gesù ci lascia e noi piangiamo la sua partenza,
infatti, arriva il Consolatore, qualcosa di nuovo, lo Spirito santo, che non ci assiste soltanto
dall’esterno, ma che è in noi. I discepoli, passando attraverso la tristezza, devono riconoscere in sé
lo Spirito santo: nello Spirito santo Gesù stesso è nel cuore dei discepoli. Questa è la vera consolazione, che anche noi cristiani dovremmo comunicare. Non siamo noi a poter donare conforto. Noi
possiamo soltanto rinviare al conforto autentico che sta nel cuore di ogni uomo: lo Spirito santo.
Dentro di noi non ci sono soltanto il lutto, soltanto il dolore, soltanto la disperazione e l’impotenza.
In noi c’è anche lo Spirito di Gesù! E questo Spirito ci farà attraversare ogni afflizione, questo
Spirito santo provocherà in noi una rinascita. Gesù ci paragona a una donna che, prima della nascita
del suo bambino, è piena di afflizione (lypè).
Ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia
che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete pieni di afflizione; ma vi
vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia
(Gv 16,21s.).
La vera consolazione consiste nel rinviare alle nuove possibilità celate nella tristezza. Passando
attraverso la tristezza vuole nascere in noi il bambino, Cristo vuole imprimersi in noi, essere dentro
di noi e con noi. Ciò trasforma la nostra tristezza in una gioia che nessuno può più toglierci. Di
questo dobbiamo rendere testimonianza tramite la nostra vita, la nostra fede e il nostro essere vicini
agli afflitti. Allora dimostriamo loro la misericordia che Gesù mostrò alla vedova di Nain, in lutto
per il figlio. «Vedendola, fu preso da grande compassione per lei» (Le 7,13a): condivise i suoi
sentimenti, le andò incontro e le rivolse la parola; a lei, nel colmo del suo dolore, fece coraggio perché potesse staccarsi dal figlio. L’esortazione di Gesù alla madre in lutto: «Non piangere!» (Lc
7,13b) vuole aprirle gli occhi affinché veda le tante persone che la accompagnano. Non l’hanno
lasciata sola: ha molti amici e amiche che condividono la vita con lei. Gesù è misericordioso verso
la donna in lutto affinché anche noi, ponendoci alla sua sequela, consoliamo gli afflitti e agiamo
così in maniera misericordiosa verso di loro.