Scarica questo libro nel formato PDF
Transcript
Scarica questo libro nel formato PDF
?Strade blu NON FICTION. Raffaele Cantone con Gianluca Di Feo I GATTOPARDI. Uomini d’onore e colletti bianchi: la metamorfosi delle mafie nell’Italia di oggi. MONDADORI Collezione Strade blu ISBN 978-88-04-60327-6 © 2010 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. prima edizione novembre 2010. Di Raffaele Cantone nella collezione Strade blu: Solo per giustizia ( www.librimondadori.it ) risvolto di copertina. «Quello che si sta materializzando nelle regioni meridionali è un buco nero, che poco alla volta rischia di inghiottire le migliori risorse umane e materiali del Sud. Medici, architetti, ingegneri, avvocati, commercialisti, banchieri, funzionari locali e uomini delle istituzioni vengono inglobati nel sistema di potere che ruota intorno ai clan. Una mentalità dominante, che disprezza la legalità e ha perso ogni fiducia nello Stato, li porta a pensare, a parlare, ad agire come mafiosi. Fino a renderli parte di questo tessuto criminale, con una trama di legami economici e professionali che si estende senza confini. Perché la criminalità è così organizzata da risolvere tutti i problemi: non ha più bisogno di minacciare, oggi offre servizi apprezzati e competitivi. Dove la legge non funziona, dove le banche non danno credito, dove gli enti locali non hanno efficienza, i boss garantiscono soluzioni concrete: sentenze inappellabili, prestiti a tassi ridotti, pratiche approvate in tempi rapidi.» Il magistrato Raffaele Cantone e il giornalista Gianluca Di Feo tracciano il profilo di uno scenario inquietante: dall’economia alla politica, dalla magistratura alle forze dell’ordine, alla pubblica amministrazione, fino al giro d’affari che ruota intorno al calcio, non c’è ambito della vita pubblica meridionale che non conosca una zona grigia di collusione con la malavita organizzata. Le mafie hanno infatti imparato a limitare l’uso della violenza, si presentano come garanti della pace sociale, agiscono sotto traccia, comportandosi come una holding del terziario avanzato, con il suo pacchetto di servizi completi per le aziende, dalla protezione alla fornitura di manodopera a basso prezzo. Un’offerta in grado di trasformare gli imprenditori da vittime predestinate delle estorsioni in entusiasti clienti e complici. È questo l’habitat ideale dei Gattopardi, «boss invisibili, accolti ovunque, capaci di stringere qualunque mano e intrecciare ogni business, sostenuti però dall’obbedienza di chi usa le armi e sa uccidere». Le conseguenze di tale infiltrazione sono naturalmente disastrose per l’economia legale e le casse dello Stato, a partire da quell’enorme voragine di sprechi e ruberie che è la sanità pubblica. In queste pagine, coinvolgenti come quelle di un romanzo, Cantone e Di Feo dimostrano, una volta di più, come la sfida della malavita organizzata riguardi non solo il Sud, ma tutto il paese. Una sfida che è possibile vincere, ma che esige innanzitutto il coraggio di riconoscere il nemico anche quando si mimetizza in rassicuranti abiti borghesi: «Oggi nessuno osa più dire “la mafia non esiste”, ma nessuno vuole guardare il suo nuovo volto. Perché fa paura a tutti». Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Questo volume è stato stampato presso Mondadori Pr’mting S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa Mondadori - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in ìtaly. Raffaele Cantone è stato sostituto procuratore a Napoli, dove nel 1999 è approdato alla Direzione distrettuale antimafia e attualmente è magistrato presso il Massimario della Cassazione. Nelle ultime tre legislature è stato consulente della Commissione parlamentare antimafia. Ha scritto numerosi articoli su argomenti giuridici, apparsi su riviste specializzate, e alcune monografie in materia di diritto penale. Collabora con il giornale «Il Mattino». Da Mondadori ha pubblicato Solo per giustizia (2008). Gianluca Di Feo, giornalista, da vent’anni criminalità organizzata e sulla corruzione. si occupa di inchieste sulla Prima al «Corriere della Sera» e ora a «L’espresso», dove è caporedattore, dal 1990 ha seguito tutte le principali vicende di mafia, riciclaggio e collusione politica: da Mani Pulite alle stragi del 1992-93, dall’infiltrazione delle cosche al Nord all’evoluzione imprenditoriale della camorra casalese. € 18,00. I Gattopardi A quei magistrati, a quegli uomini delle forze dell’ordine, a quei giornalisti e a tutti quelli che, nei diversi settori, con l’impegno quotidiano e con i comportamenti coerenti cercano ogni giorno di arginare mafie e illegalità. Premessa. Da Solo per giustizia ai Gattopardi. Nell’ottobre 2007, dopo sedici anni tutti da pm, ho lasciato la Procura di Napoli, dove negli ultimi otto anni mi ero occupato di camorra tanto a tempo pieno da sovrapporre la mia vita con il lavoro. Mi trasferivo in un ufficio che più diverso non poteva essere, il Massimario della Corte di Cassazione. Passavo dal lavoro di squadra, fatto di contatti continui con le polizie, fra riunioni, indagini e udienze che riempivano le mie giornate, a un lavoro ugualmente molto interessante e stimolante, ma tutto studio, fra libri e riviste, a leggere e scrivere dietro una scrivania. In quel primissimo periodo di transizione ho scritto Solo per giustizia, con cui facevo una sorta di punto sulla mia esperienza di pm in una realtà difficile e di frontiera come quella napoletana, ma anche ricca di incredibili stimoli di ogni genere. Quella sorta di diario postumo mi ha accompagnato per lunghi mesi e aiutato in un momento in cui mi sentivo a dir poco spaesato. Il solo vedere il libro finito mi ha ripagato di tutti gli sforzi fatti per scriverlo; poi i risultati sono andati oltre le aspettative: le numerose ristampe, l’edizione Oscar e persino l’e-book. Merito anche dell’incoraggiamento e dell’amicizia di Roberto Saviano e delle tante occasioni di promozione che mi sono state offerte, dalle trasmissioni televisive al festival della Letteratura di Mantova o alla fiera del Libro di Torino, solo per citarne alcune. E poi tantissime presentazioni in librerie, circoli, associazioni e scuole di tutta Italia e qualcuna anche all’estero, fatte tra mille sacrifici per rendere compatibili gli impegni di lavoro con gli oneri di chi aveva scritto un libro (mi guarderei bene dal dire «scrittore»). E proprio da tali incontri è venuta l’idea di mettere in cantiere questo saggio; dovunque sono andato, nella parte più interessante della presentazione, che è il dibattito, le domande ricorrenti sono state quelle sul rapporto delle mafie con la società. Anche chi è più interessato a comprendere continua a dare per scontato che le mafie siano qualcosa di diverso e separato dalla società civile, come se si potesse tirare una linea ideale fra i buoni e i cattivi, fra il bianco e il nero. Invece le mafie, per l’idea che mi sono fatto, sono innervate nella società e hanno una grandissima capacità di anticipare i mutamenti sociali e, quindi, di mimetizzarsi in quella zona grigia di cui in tanti parlano ma che resta agli occhi di molti un che di indistinto e incerto. Di questo mi sarebbe piaciuto parlare, anche raccogliendo i tantissimi spunti che da quei dibattiti erano venuti. Per evitare, però, di scrivere un testo troppo teorico ho chiesto a Gianluca Di Feo, caporedattore dell’«Espresso», di cimentarsi con me sull’argomento, pensando a un libro che avesse la forma dell’intervista, in modo che la lettura potesse essere più agile e il discorso più comprensibile. Ma siccome la mia esperienza è limitata alla conoscenza delle vicende della camorra campana (e in particolare di quella casertana), nell’impostazione data via via al lavoro, ci è parso più opportuno che a ogni capitolo l’intervista fosse preceduta da un’introduzione, curata da Di Feo, che servisse ad ampliare l’arco delle esperienze verso ciò che è accaduto fuori della Campania, in modo da verificarne anche differenze, analogie e specificità. Valuterà chi avrà la voglia e la pazienza di riusciti nell’impresa che ci eravamo prefissi. leggere queste pagine se siamo Una cosa, però, ci tengo a dire: malgrado l’immagine che traspare dai nostri racconti sia quella di una società, soprattutto (ma non solo) meridionale, con una forte e pervasiva presenza delle mafie, il nostro non vuole essere uno scritto permeato di cupo pessimismo che termina con l’idea che questi fenomeni non possono essere sconfitti. Al contrario, già solo poter raccontare questi fatti dimostra in modo incontrovertibile l’eccezionale lavoro condotto negli ultimi anni dagli apparati dello Stato e i risultati ottenuti nella lotta alle mafie, e smentisce categoricamente i sostenitori, più o meno interessati, della tesi che sarebbe persino inutile contrastarle. Apportare anche un briciolo di conoscenza in più di realtà tanto complesse può essere, inoltre, di aiuto a individuare tutti gli antidoti da utilizzare per evitare che il veleno si propaghi e per sperare in una società che delle mafie possa parlare al passato. Raffaele Cantone. Introduzione. Un architetto capomafia: un professionista che per tutta la vita ha firmato progetti e ha fatto politica, guidando in Sicilia il movimento dei lavoratori cattolici. Ma che allo stesso tempo è stato al vertice di una delle famiglie di Palermo, fino a prenderne il comando. Un uomo che gestiva appalti e organizzava convegni, frequentando ministri e dialogando con le massime autorità dell’isola. E poi la sera discuteva con i suoi picciotti le mosse del clan, le minacce e le spedizioni punitive: è stato filmato mentre andava a ritirare le buste con i soldi delle estorsioni. Probabilmente Giuseppe Liga in sessant’anni non ha mai sparato un colpo, forse non sa nemmeno impugnare un revolver, ma il suo peso nella cosca del quartiere San Lorenzo, tra le più antiche del Gotha mafioso, è aumentato nell’ombra. Lui fino all’ultimo ha negato, ha detto di essere una vittima del racket e ha presentato le sue credenziali: «Sono cresciuto insieme con il presidente della Regione, Raffaele Lombardo. Mi chiama, ci parlo». I due si erano incontrati anche pochi giorni prima dell’arresto, nel marzo 2010; pochi giorni prima che Liga finisse al carcere duro, quello destinato ai veri padrini. Nel direttorio della cosca c’era un altro architetto, che mandava avanti una cantina con vini di grande pregio. E c’era pure Marcello Trapani, avvocato ora pentito, che seguiva da vicino le sorti del Palermo Calcio. Professionisti, incensurati e insospettabili, impegnati a imporre il pizzo e investire la cassa, amministrando i traffici e la violenza in una larga fetta della città: boss invisibili, accolti ovunque, capaci di stringere qualunque mano e intrecciare ogni business, sostenuti però dall’obbedienza di chi usa le armi e sa uccidere. È questo il nuovo volto di Cosa Nostra. Bernardo Provenzano è stato lo stratega della metamorfosi che ha tradotto schemi arcaici di collusione in una realtà innovativa e letale. Ha dettato la linea: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». E si è dedicato ad allevare una leva di Gattopardi: giovani, laureati, capaci, flessibili ma educati al rispetto dei codici d’onore. Come Francesco Campanella, l’enfant prodige della politica, schizzato dal consiglio comunale di Villabate alla segreteria nazionale dell’Udeur, mentre smistava soldi sporchi e falsificava documenti per il padrino in persona. Non è la borghesia mafiosa analizzata nel 1876 da Leopoldo Franchetti, che esiste da quando il Sud è stato unito all’Italia: una fascia sociale che utilmente conviveva con le camorre ma con orgoglio corporativo non le faceva entrare nel salotto buono. Oggi siamo davanti a qualcosa che va oltre l’intesa silenziosa nata sulle ceneri dell’aristocrazia terriera. Non è più la zona grigia degli affari e della corruzione, dilagata grazie al denaro della droga negli anni Settanta e stravolta negli anni Novanta dalle stragi corleonesi. Quello che si sta materializzando in Sicilia e in tutte le regioni meridionali è un buco nero, che poco alla volta rischia di inghiottire le migliori risorse umane e materiali del Sud. Medici, architetti, ingegneri, avvocati, commercialisti, banchieri, funzionari locali e uomini delle istituzioni vengono inglobati nel sistema di potere che ruota intorno ai clan. Una mentalità dominante, che disprezza la legalità e ha perso ogni fiducia nello Stato, li porta a pensare, a parlare, ad agire come mafiosi. Fino a renderli parte di questo tessuto criminale, con una trama di legami economici e pròfessionali che si estende senza confini. Perché la criminalità è così organizzata da risolvere tutti i problemi: non ha più bisogno di minacciare, oggi offre servizi apprezzati e competitivi. Dove la legge non funziona, dove le banche non danno credito, dove gli enti locali non hanno efficienza, i boss garantiscono soluzioni concrete: sentenze inappellabili, prestiti a tassi ridotti, pratiche approvate in tempi rapidi. Nel luglio 2010 è stato arrestato il presidente dei piccoli industriali di Napoli, Olga Acanfora, che aveva già guidato la Commissione pari opportunità della Confindustria campana. Un’imprenditrice di successo, spigliata e moderna, sempre sul palco dei convegni per difendere i diritti dei gay, l’emancipazione delle donne, l’inserimento dei diversamente abili nel mondo del lavoro. Due anni prima aveva litigato con un architetto: trovava troppo alta la parcella da 400 mila euro per la ristrutturazione della sua azienda. Ma non si è rivolta al tribunale civile, né all’ordine degli architetti: secondo l’accusa ha chiesto l’intervento della camorra. Ha preferito affidarsi a un compaesano, il consigliere comunale di Castellammare di Stabia Luigi Tommasino; uno che aveva dimestichezza con i baroni della malavita e infatti si era subito premurato di inoltrare l’istanza. Ma la dottoressa Acanfora è stata sfortunata. Il consigliere comunale è stato ucciso pochi mesi dopo, crivellato da dodici proiettili mentre era in auto accanto al figlio quindicenne. L’inchiesta sull’omicidio di Tommasino ha fatto emergere un verminaio, con illeciti d’ogni genere e in ogni ambiente. E ha radiografato un altro spaccato della deriva etica: la vittima era esponente del Pd e anche uno dei suoi giovanissimi assassini aveva la tessera del Pd. Ma tutti orbitavano intorno al feroce clan D’Alessandro, perché a Castellammare tutto sembrava fare capo alla camorra. E, nel finale, un corollario paradossale: dopo il delitto, anche l’architetto che non voleva ridurre la parcella ha capito la lezione e si è presentato spontaneamente dagli emissari del boss per dimezzarla. Così il presidente dei piccoli indùstriali ha pagato 15 mila euro per la mediazione dell’amico degli amici, risparmiandone duecentomila: conveniente no? Solo un anno dopo l’omicidio, quando viene convocata dalla polizia, la donna ha un dubbio, che sfoga al telefono: «L’intermediazione, che poi come vedi è stata riscossa lo stesso dopo che lui è morto… è la causa della sua morte? E vuoi vedere che sono io il giro di tutto questo?». Non è una questione morale, ma criminale. Dalla convivenza si è passati alla connivenza, dall’omertà alla complicità, grazie all’accettazione di un modello mafioso condiviso da settori sempre più larghi della società meridionale. Un modello che anche quando non assume rilevanza penale, anche quando non infrange esplicitamente la legge, alimenta la palude in cui rischia di affondare il Sud. I padrini hanno capito l’occasione epocale che si sta presentando, selezionando una generazione di Gattopardi che legalizza i capitali accumulati dalle cosche e controlla il territorio limitando l’uso della violenza, che resta però sempre il fondamento del potere mafioso. Dai casalesi di Gomorra ai boss pugliesi, dagli sconosciuti cavalieri del lavoro catanesi alla ‘ndrangheta che sa parlare milanese, tutti si sono resi conto che sparare non conviene: come ha spiegato il pm Roberto Scarpinato, «oggi la mafia i soldi li fa con la testa e non con i muscoli». Una testa che assorbe intelligenze spregiudicate, arruolando schiere di «uomini cerniera» che entrano in ogni ufficio pubblico e privato: la declinazione manageriale del vecchio faccendiere. Il terreno di caccia favorito restano gli appalti, dove i dottori dei clan non conoscono barriere: da un capo all’altro dell’Italia hanno detto la loro sui contratti dell’Alta velocità, delle Olimpiadi di Torino e oggi mettono piede nei cantieri dell’Expo di Milano. Hanno sperperato fondi regionali, nazionali ed europei costellando il Sud di opere assurde o incomplete; hanno divorato le risorse per risollevare questa parte del paese dall’arretratezza. E adesso con quei denari si sono fatti imprenditori a loro volta, irrompendo sui mercati con aziende che hanno dinamiche vincenti: liquidità infinita, manodopera qualificata a costi infimi, nessun problema sindacale e sicurezza a prova di bomba. Nell’edilizia, nel commercio, nella ristorazione e soprattutto nella sanità, da Sondrio a Trapani trovano le porte aperte e una schiera di partner senza più scrupoli. Nel 1991 la prima grande operazione contro il riciclaggio fece finire in cella un agente finanziario con studio a pochi metri dal Duomo di Milano, Giuseppe Lottusi, che si occupava di far circolare i pagamenti tra picciotti palermitani e narcos colombiani. Un professionista lombardo che ha scontato tutta la pena in carcere senza mai collaborare, respingendo anche l’appello di Paolo Borsellino che lo volle incontrare poche settimane prima di venire assassinato. Alla vigilia del suo martirio, il giudice guardava lontano: «Se hai bisogno di riciclare cento milioni di lire puoi rivolgerti a tanti; ma se devi sistemare decine di miliardi, sono in pochissimi a poterlo fare». All’epoca Lottusi era uno dei pochi e si era messo al servizio delle famiglie, catturato dalla passione dei cavalli fino a perdersi negli ingranaggi di Cosa Nostra. Vent’anni dopo, le cronache si sono affollate di banchieri, commercialisti, manager che dai loro studi nei condomini bene accettano di lavorare con i clan e per i clan, senza che vizi o debiti li abbiano costretti a vendersi: nessuno li obbliga, nessuno li spaventa. I padrini sanno come conquistarli e inventano ghiotte opportunità: sono maestri nel costruire consenso, lo strumento con il quale da sempre dominano la plebe e adesso con la stessa sapienza seducono i signori. Per questo le mafie sono diverse da qualunque altra organizzazione criminale: usano il consenso per trasformare le vittime in complici, in un meccanismo perverso che non trova più ostacoli e dalle città del Sud dilaga ovunque. Oggi nessuno osa più dire «la mafia non esiste», ma nessuno vuole guardare il suo nuovo volto. Perché fa paura a tutti. 1. Gli affari. Il fattore «c». «Totò Riina i soldi li tiene nella calcestruzzi.» Quando Leonardo Messina parlò del tesoro del capo dei capi non ebbe dubbi. Era giugno del 1992, con l’Italia sotto choc per la strage di Capaci pochi compresero l’importanza delle dichiarazioni di quel collaboratore di giustizia che stava guidando i magistrati nel cuore del potere di Cosa Nostra. E verbalizzarono «calcestruzzi» con la c minuscola. Perché scrivere quel nome con la C maiuscola significava entrare nell’incredibile. Solo Paolo Borsellino, pochi giorni prima di morire, chiese al pentito di esplicitare: «Riina tiene i soldi nella Calcestruzzi spa». Ossia in uno dei pilastri dell’impero di Raul Gardini che assieme a Giovanni Agnelli e Silvio Berlusconi formava la triade degli imprenditori più ricchi e più noti agli italiani, l’uomo che al timone del Moro di Venezia aveva sfiorato l’America’s Cup, che aveva scalato la Montedison e sfidato la politica nel braccio di ferro su Enimont. Immaginare una delle sue aziende in affari impossibile, superava ogni immaginazione. con lo stragista corleonese era E la sua morte un anno dopo, quel proiettile alla testa nell’estate più buia della Repubblica, con tutta la sua catena di misteri, lascia la questione senza una certezza penale. I magistrati hanno approfondito il comportamento dei suoi manager, delineare un accordo con i boss per la gestione degli appalti in cammino di cemento che è proseguito dopo la morte di Gardini e si nel nuovo millennio anche quando alla ravennate Ferruzzi sono bergamaschi del gruppo Pesenti. arrivando a Sicilia. Un è trascinato subentrati i Ad aprire gli occhi sulla sbornia di quei formidabili anni Ottanta in cui i soldi correvano veloci e nessun socio sembrava disdicevole, le sorprese non mancano. Pochi ricordano le condoglianze espresse per la morte di Sabato Galasso da Vittorio Chiusano, presidente della Juventus e legale di fiducia di Gianni Agnelli: i Galasso avevano l’esclusiva per la vendita dei camion Iveco in molte regioni meridionali. Solo dopo l’arresto e il pentimento del boss Pasquale Galasso, figlio di Sabato, si comprese la potenza economica della famiglia che da Poggiomarino con omicidi e tangenti aveva costruito una holding senza frontiere, partendo proprio da quella azienda monopolista dei tir Fiat. Quanto a Berlusconi, poi, accuse e archiviazioni per presunti rapporti con la mafia continuano a susseguirsi da un decennio: indagini che affondano proprio in quella stagione d’oro degli anni Ottanta. Quando tanti imprenditori - per scelta o per necessità - vengono a conoscere il fattore «c». E una fase sperimentale, in cui si intrecciano le radici di accordi sbocciati con il tempo. Padrini e industriali si guardano negli occhi, spesso alla tavola dei politici o dei mediatori d’affari massonici, imparano a mettersi d’accordo nei cantieri delle grandi opere, si studiano fino a definire regole e perfezionare un modo di operare insieme. Per molti cavalieri del lavoro venuti dal Nord è il male minore, che come tutti i mali minori implica però l’accettazione del male: la connivenza per convenienza. Per tanti industriali nati al Sud è l’unica strada per non soccombere, costretti a convivere con clan sempre più ricchi e sempre più spietati. Boss che non si accontentano di taglieggiare le aziende ma vogliono diventarne soci e, quando possibile, proprietari. Parecchi imprenditori emigrano: vendono gli stabilimenti creati con sacrifici di generazioni e riaprono mille chilometri più a nord. Pochi resistono, con orgoglio e ostinazione, pagando con la vita come Libero Grassi, assassinato a Palermo per la sua plateale rivolta contro il racket. I più si piegano, limitandosi a pagare o spingendosi oltre per cavalcare l’onda della mafia imprenditrice. È il fattore «c»: convivenza, connivenza, convenienza, le tre parole chiave che declinano l’evoluzione di questo patto criminale che ha falciato tante vittime. Uccide il mercato, assassina la possibilità di concorrenza e libera impresa. Poi su questa tomba si creano nuove regole, alimentando assunzioni pilotate e legalizzando capitali sporchi di sangue che diventano sfarzo, ma spesso anche nuove imprese. Un circuito viziosissimo, che in vent’anni ha avvelenato l’economia meridionale e contagiato quella settentrionale. Fino a creare una realtà bifronte che è radicalmente cambiata: le armi e i soldi, la violenza e gli affari. Le mafie oggi si presentano sulla scena imprenditoriale soprattutto come un service: offrono servizi, efficienti, rapidi e poco costosi. Mettono a disposizione capitali cash con tassi spesso inferiori a quelli delle banche: pacchi di banconote pronta cassa. Garantiscono manodopera disciplinata e qualificata con costi ridotti e nessuna rivendicazione sindacale. Tengono lontani ladri e ricattatori con una giustizia inesorabile e dirimono qualunque controversia con i fornitori senza bisogno di finire nel labirinto dei tribunali civili più lenti d’Europa. Aprono le porte della burocrazia sbloccando rapidamente pratiche comunali e regionali incagliate da tempi biblici: licenze e autorizzazioni spuntano dai cassetti come per magia, vanificando ogni ostacolo. Chi può offrire di più? Le cosche sono altamente competitive. Il modello antico di Cosa Nostra come industria della protezione, quello che imponeva una tassa tutto sommato accettabile in cambio della sicurezza, quello dei guardiani con la lupara che vigilavano sui latifondi dei baroni siciliani, è stato surclassato dalla nuova mafia cooperante, partner perfetto per ogni impresa che voglia mettere piede al Sud o che sia in cerca di un acceleratore per moltiplicare le sue attività al Nord. Non c’è bisogno di esplicitare la minaccia, non c’è bisogno di mostrare le armi: che quei partner non abbiano studiato alla Bocconi lo sanno tutti e tutti conoscono cosa si rischia nel tradire i patti. Il paradosso è che la violenza diventa un «asset», come lo definiscono i bilanci aziendali, uno degli elementi che rendono interessante il socio: il passepartout decisivo per scavalcare qualsiasi ostacolo. In principio le mani dei padrini e quelle degli industriali si sono strette nei cantieri. Le opere pubbliche realizzate - o lasciate incompiute - negli anni Ottanta e Novanta hanno fatto crescere questa mafia cooperante. Quelle mani sporche di sangue le hanno strette tutti. E le stringono anche oggi, alimentando un’economia parallela che si allarga senza frontiere, macinando guadagni e consenso. Che, insieme alle armi, formano il triangolo del vero potere mafioso. All’inizio i soldi della mafia imprenditrice venivano concentrati nei settori dominati in monopolio. Il cemento, per esempio. Quel calcestruzzo - con la c minuscola e maiuscola - che tanto piaceva a Totò Riina. I pilastri dei lavori infiniti lungo la Salerno-Reggio Calabria. E le betoniere degli stabilimenti delle famiglie casalesi lungo l’asse strategico che unisce Napoli a Roma. Stesso copione per il movimento terra, fondamentale per ogni grande opera: le cave che hanno divorato i fianchi delle montagne e i letti dei fiumi, gonfiando di sabbia i piloni e di sassi le massicciate di autostrade e treni ad alta velocità. Anche in Lombardia da vent’anni tutti i rapporti degli inquirenti indicano i calabresi come signori degli sbancamenti, arbitri del viavai di ruspe e camion ribaltabili. C’è una dinastia che domina i dossier delle polizie, quella creata da Franco Coco Trovato: una storia come tante, di un muratore venuto dalla provincia di Catanzaro fino alla feconda Brianza lecchese, e diventato capace di riempire i suoi tir con ghiaia e miliardi di lire. Sia lui che il figlio sono finiti in cella, ma ancora oggi le fondamenta dell’Expo futura vengono scavati da bulldozer che oltre alla polvere sollevano gli stessi sospetti. Il rapporto annuale della Superprocura redatto nei primi mesi del 2010 non usa mezzi termini: «Le indagini consentono di appurare come le organizzazioni di matrice calabrese in Lombardia siano diventate vera e propria mafia imprenditrice, e mirino ad accaparrarsi appalti pubblici e commesse private. Non vi è chi non veda che trattasi di una realtà estremamente grave che suscita particolare allarme specie se si considera che il territorio in questione sarà interessato dalle grandi opere che si eseguiranno in funzione dell’Expo 2015». Uno scenario cupo, che ha trovato conferme anche nell’ultima inchiesta condotta dal pm Ilda Boccassini. Una torta ricca come quella dell’Esposizione universale, con la prospettiva di rifare il volto della metropoli, impone anche di sporcarsi le mani e giocare duro per tenere lontani dal banchetto i concorrenti, legali o criminali. Perché la leadership di Trovato è rimasta ai suoi alleati storici, gente spietata venuta dall’Aspromonte che ha legato le sue origini ai primi grandi sequestri di persona, usati come strumento per accumulare i capitali di partenza per il narcotraffico e gli investimenti: «Si era già parlato nella relazione dello scorso anno degli esiti della indagine all’ordinanza di custodia contro la articolazione lombarda delle famiglie Barbaro-Papalia di Platì (tra loro legate anche da vincoli parentali) per aver acquisito il controllo della attività di movimento terra nell’ambito territoriale della zona sudovest dell’hinterland milanese, in particolare nel territorio del Comune di Buccinasco, imponendo agli operatori economici la loro necessaria presenza negli interventi immobiliari. Il tutto attraverso intimidazioni consistite in danneggiamenti e incendi sui cantieri, esplosioni di colpi d’arma da fuoco contro beni di altri imprenditori, incendi di vetture in uso a concorrenti o a pubblici amministratori, minacce a mano armata, imposizione di un sovrapprezzo nei lavori di scavo». Un modello d’intervento vecchio stile, sempre più raro nelle cronache. Sia perché gli imprenditori preferiscono tacere e non denunciare gli attentati, sia perché solo eventi eccezionali come l’Expo, che fanno accorrere nuovi concorrenti in territori prima saldamente controllati, impongono di impugnare le armi. Non bisogna però pensare che quello delle cave e del movimento terra sia un business all’antica: è il paradigma invece della capacità di sfruttamento totale dei clan, che sanno creare sempre nuove opportunità. Modernissime. Lo dimostra il monitoraggio di Bankitalia sui flussi di denaro sospetti, realizzato dall’Unità di informazione finanziaria, un gruppo di detective dell’analisi economica che applicano la massima aurea di Giovanni Falcone sulla necessità di seguire i soldi per scoprire il potere dei boss. Proprio il database di Bankitalia illumina le potenzialità di questo mercato: gli «Untouchables» di Mario Draghi hanno evidenziato 139 operazioni nel 2007 e ben 154 nel 2008 relative a imprese operanti nel settore dello smaltimento e riciclaggio di rifiuti, specie di quelli pericolosi. L’operatività segnalata riguarda principalmente cospicui giri di fondi attuati mediante bonifici (anche tramite remote banking) che coinvolgono più società attive, oltre che nel settore della raccolta, del trasporto e dello smaltimento di rifiuti, anche nell’attività di movimento terra e nella gestione di cave. Il legame tra il ciclo dei rifiuti e il ciclo del cemento è, infatti, molto stretto e si fonda sull’utilizzo delle cave abusive, che, una volta esaurite, vengono utilizzate come discariche illegali. La ricostruzione dei flussi ha consentito di osservare che, a giustificazione di tali giri di fondi, vengono emesse fatture per operazioni inesistenti di recupero e smaltimento dei rifiuti, che permettono di «declassificare» i rifiuti da pericolosi a non pericolosi e di avviarli, così, a procedure di recupero semplificate e, quindi, meno costose. Il sistema delle fatturazioni garantisce, altresì, l’incasso per intero dei proventi dello smaltimento illecito, caricandone i costi sulle strutture pubbliche. Perfetto, quasi geniale. Uno sfruttamento totale. La terra per le grandi opere, i rifiuti sepolti nelle cave, la collettività che paga per lo smaltimento e si accolla il danno incalcolabile per l’ambiente e per la salute provocato dall’avvelenamento dei suoli. Anche qui i soci di mafiosi, ‘ndranghetisti e camorristi sono imprenditori che si muovono nella legalità e a cui gli emissari dei clan magnificano un servizio completo e competitivo. Il broker di Gomorra interpretato sullo schermo da Toni Servillo è ancora al lavoro: si presenta tutti i giorni negli uffici delle aziende con il suo catalogo di offerte molto speciali. E trova sempre nuovi clienti, nonostante adesso - dopo il libro di Saviano e il film di Garrone tutti sappiano. D’altronde i veri mafiosi hanno sempre saputo come ottimizzare le risorse. Il potere dei corleonesi nasce così. Comprano camion negli anni Cinquanta per trasportare vitelli e agnelli, spesso rubati, nei mattatoi clandestini. Quando i primi appalti fanno piovere denaro e lavoro nei loro territori, usano quegli stessi camion per trasportare terra, cemento e manodopera nei cantieri. E poi salgono su quei camion per infilarsi nella corsa all’oro del sacco edilizio di Palermo, con i condomini che germogliano negli agrumeti e i mitra che aprono la strada all’ingresso di Totò Riina nel Gotha di Cosa Nostra. Un’evoluzione costante per sfruttare qualunque occasione si presenti. O per crearne di nuove. Quando alla fine degli anni Novanta nasce la stagione dei centri commerciali, e si innalzano dal nulla le cattedrali dello shopping che modificano persino le abitudini di vita delle città meridionali, sostituendo allo struscio nel corso principale il pellegrinaggio tra le vetrine, i picciotti sono i primi a intuirne le possibilità. Le indagini aperte in Sicilia mostrano come i clan hanno condizionato tutta questa rivoluzione dei consumi, pilotando ogni fase dell’operazione. È la scoperta di una formula vincente, quella del franchising: lo strumento ideale per la criminalità organizzata, l’abito buono con cui rivestire i soldi sporchi. Ma in fondo quello del franchising è anche il modello a cui è approdato il loro sistema di fare azienda e stringere patti con l’imprenditoria: offrire una serie completa di servizi in cambio di un sovrapprezzo, in denaro cash, in beni e in assunzioni mirate. Il partner dei boss può fregiarsi di un’insegna, invisibile ma nota a tutti sul territorio, che garantisce una gamma di benefici: un marchio che funziona e che gli permette di entrare in mercati altrimenti difficili se non impossibili. Questo sistema sembra avere risolto un altro dei problemi più forti dei padrini: godere materialmente dei propri beni o comunque averli sotto gli occhi. Perché detestano affidare i loro soldi a estranei. Paolo Borsellino, tre settimane prima della sua morte, spiegava che le famiglie non avevano mai digerito la lezione di Michele Sindona e Roberto Calvi: tesori consegnati in mani che poi non erano state capaci né di farli fruttare, né di restituirli. Il crollo delle due banche si era rivelato una batosta, carica di implicazioni negative: fondi bruciati, inchieste giudiziarie, scandali politici. «Il problema è lo stesso» sintetizzava Borsellino: «Se devi investire qualche centinaio di milioni puoi comprare un ristorante, una villa, un negozio. Beni che restano sotto i tuoi occhi. Ma se devi muovere pacchi di miliardi ci sono pochissime persone a cui puoi rivolgerti e sono sempre le stesse». Tanti soldi messi nella cassaforte di un esterno e investiti in iniziative complesse sono sempre un pericolo: se c’è un guaio, come si fa a recuperarli? Un negozio, un palazzo, un ristorante si possono vendere o intestare a un prestanome. Quote azionarie, prodotti finanziari, conti offshore invece sfuggono al controllo. Nel dicembre 2009 la Procura di Bari ha ricostruito il rapporto tra Savino Parisi, il capo della cosca pugliese più importante, e Michele Labellarte, un manager spregiudicato della new economy. Labellarte, un quarantenne rampante con fama di playboy, nel 2003 aveva fatto crack con la sua New Memotech ed era finito in cella per bancarotta e frode fiscale. Proprio in carcere l’enfant prodige dell’informatica e il padrino si erano conosciuti e avevano usmato le reciproche capacità: un’intesa suggellata dopo il ritorno in libertà con la consegna di tre milioni di euro. Con quel denaro il rampante aveva garantito un profitto di ventimila euro cash al mese, fornito i fondi neri per acquistare partite di cocaina, sovvenzionato entrature politiche di altissimo livello. Aveva intestato un conto persino a Elvira Savino, giovane parlamentare del Pdl amica di Silvio Berlusconi. Ma aveva anche impegnato il denaro in società estere, in immobili con intestazioni fittizie, in operazioni immobiliari come il nuovo campus universitario del capoluogo pugliese. Quando nel maggio 2009 Labellarte viene colpito da un tumore fulminante, il padrino teme di perdere il suo capitale. Corre in ospedale, ignorando che i finanzieri del Gico (Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata) vi avevano piazzato una microtelecamera: «La vita tua è la vita nostra… Noi per te vogliamo la vita lunga… Ma se succede qualcosa a te, noi dove dobbiamo andare? Noi dobbiamo mettere i soldi in sicuro, perché a livello di cognomi questi sono già bruciati». Labellarte gli risponde di mandargli Vito Valenzano, un imprenditore incensurato inserito come filtro pulito nella catena del riciclaggio, che troverà nuovi «soci». E i famosi tre milioni di euro iniziali? Labellarte: «Ho delegato un commercialista per tutta l’operazione… Allora, questi tre, se me li danno in nero, dovrei darveli in un paio di mesi. Ma se me li danno regolari, li devo tirare fuori in modo regolare tramite i miei soci…». Parisi s’illumina: «Ho capito: dobbiamo tenere le carte tutte in regola … Noi possiamo aspettare». Le mafie possono aspettare, perché sanno che nessuno riesce a fare a meno di loro. Il «camorra service». Dottor Cantone, lei nella sua lunga attività di pubblico ministero ha indagato spesso sull’infiltrazione della camorra nell’economia. Le inchieste della Procura antimafia di Napoli hanno dimostrato come la criminalità organizzata abbia creato in Campania nuovi metodi per condizionare la vita delle aziende, fino a prendere il controllo di cantieri, negozi e fabbriche: è nata una zona grigia dove prosperano gli Come è cambiato oggi il rapporto tra cosche e imprese? investimenti dei clan. In un passato, anche recente, il rapporto mafia-impresa veniva letto in una chiave abbastanza semplicistica; gli uomini d’affari erano sempre considerati povere vittime delle consorterie criminali. Ancora all’inizio degli anni Novanta un giudice istruttore siciliano scriveva in una sentenza che il rapporto con l’associazione criminale sarebbe comunque «imposto dall’esigenza di trovare soluzioni di non conflittualità con la mafia, posto che nello scontro frontale risulterebbe perdente sia il più modesto degli esercenti sia il più ricco titolare di grandi complessi aziendali». Era questo il frutto di una visione manichea della realtà, in cui le imprese sono i buoni e i boss i cattivi, che nasceva evidentemente da una conoscenza riduttiva della mafia, percepita solo come «coppola e lupara». Non si voleva assolutamente tenere conto avvenendo all’interno delle mafie medesime. nemmeno di quello che stava Senza dilungarmi troppo, mi basta ricordare che quando Raffaele Cutolo instaura con lo Stato la trattativa per giungere alla liberazione di Ciro Cirillo, l’esponente della Dc campana rapito dalle Br, chiede non solo benefici carcerari e denari ma anche la possibilità di inserirsi nel sistema dei subappalti del dopo terremoto. E siccome Cutolo non era titolare di imprese edili è evidente che poteva contare su una rete di aziende su cui far confluire questi lavori pubblici. La novità è proprio questa: le società traggono vantaggio dal patto con i boss. In estrema semplificazione, le mafie non si limitano a essere un fattore di contrasto all’imprenditoria, spesso si presentano persino come un service, una società di servizi che in cambio di una tariffa - fissa o a percentuale - aiuta le aziende più spregiudicate a operare sul mercato. Sembra di avere davanti il personaggio di Pulp Fiction: «Sono il signor Wolf. Risolvo problemi». Che poi infatti aggiungeva una dichiarazione dal sapore molto mafioso: «Mi rispettano tutti perché ho carattere». Nelle indagini che lei ha condotto sulla camorra non si incontrano soltanto loschi figuri con la pistola che si limitano a imporre il pizzo: ci sono personaggi innovativi, capaci di iniziative moderne e di sedersi alla tavola di operazioni complesse. Ma fino a che punto si sono evolute le capacità imprenditoriali della criminalità organizzata? C’è stata un’indagine che ha svelato un modello completamente nuovo, sorprendente ed efficacissimo. Qualcosa che ricorda da vicino il franchising delle grandi catene commerciali. Si tratta di un’inchiesta che è stata condotta dal Gico della Guardia di Finanza alla fine degli anni Novanta su un imprenditore del ramo petroli, attivo nella distribuzione di carburanti in alcune zone della Campania. Era riuscito a creare una struttura aziendale estremamente aggressiva: moltiplicava i punti vendita sul territorio e faceva offerte competitive, sconti pesanti per l’epoca, anche di 100-120 lire al litro. Nemmeno i grandi marchi offrivano sconti del genere. A Milano negli anni Novanta venne sequestrata una catena di negozi che aveva come slogan «Uba Uba non teme la concorrenza»: vendeva vestiti a prezzi veramente modici ma secondo i magistrati ripuliva denaro di mafia e per questo poteva giocare al ribasso. A chi ricicla denaro sporco spesso non importa guadagnare ma solo investire i capitali criminali in attività lecite: possono correre il rischio di perdere una parte dei soldi pur di legalizzarli. Ma questa strategia a volte si rivela vincente e moltiplica il fatturato. Sono statigli sconti sul pieno di benzina a insospettirvi? No, l’indagine è nata un po’ casualmente e un po’ grazie alla curiosità del solito sottufficiale che, per nostra fortuna, ha spulciato fino in fondo carte a prima vista non interessanti. Un comando territoriale della Guardia di Finanza stava conducendo una verifica fiscale su questa società: non aveva trovato irregolarità specifiche ma aveva individuato strane iniezioni di capitali liquidi, non in linea con l’attività fatturata dall’azienda. Si trattava di movimenti in contanti difficilmente giustificabili. Decisamente troppi soldi e tutti cash. L’altra particolarità era la mappa della diffusione dei distributori: aprivano nuove stazioni di servizio solo in determinati Comuni della provincia di Napoli e della zona a cavallo tra le province di Caserta e di Benevento. Le avevano messe in luoghi non coperti dai concorrenti, spesso lungo strade di grande traffico, ma con un criterio che appariva anomalo. In circa quattro anni avevano costruito poco meno di cento pompe con l’insegna del loro gruppo, espandendosi a macchia di leopardo in maniera singolare. Una mappa della diffusione che non assomiglia ai classici esordi aziendali: in genere le aziende preferiscono concentrarsi, anche per rendere più semplici rifornimenti e gestione. I boss, poi, amano tenere i beni a portata di mano mentre queste attività erano disperse in più territori. E come avete deciso di procedere per decifrare il mistero? Per prima cosa siamo andati a interrogare i pentiti per capire cosa sapessero di questo imprenditore che era cresciuto in modo così rapido e anomalo in territori dove la presenza della camorra era consolidata. È una procedura abituale nelle indagini: chiedere ai collaboratori di giustizia che conoscenza hanno del soggetto. Tutti i pentiti però ne avevano sentito parlare soltanto genericamente: ci hanno fornito un ritratto sfuocato, dai contorni indefiniti. Ma la Guardia di Finanza, scartabellando fra gli atti della verifica, aveva trovato un’altra peculiarità: molti impiegati delle stazioni di servizio erano legati ai clan locali. Erano parenti, mogli, cugini o nipoti degli uomini di spicco delle famiglie che dominavano le zone dove venivano aperti i distributori. Poteva trattarsi solo di una forma di estorsione classica: i clan impongono l’assunzione di familiari in cambio della protezione, il pizzo riscosso attraverso il lavoro. Dicono che anche l’Eni di Enrico Mattei lo avesse fatto. E pochi anni dopo la caduta del Muro di Berlino nelle stazioni di servizio della ex Ddr vennero notati giovani calabresi con cognomi di peso. Insomma, solo una forma di racket. Era una delle ipotesi. Con le dichiarazioni sia pure incerte raccolte dai collaboratori, le grosse iniezioni di soldi liquidi nell’attività e questi rapporti familiari di molti dipendenti abbiamo potuto ottenere i decreti di intercettazione, prima telefonica poi ambientale. E da subito sono emerse tante stranezze. L’imprenditore parlava pochissimo al telefono, utilizzando spesso frasi in codice e fissando appuntamenti in luoghi davvero particolari; il Gico ha verificato, in un’occasione, che un incontro era avvenuto in una stazione di servizio dell’autostrada. Posti scelti chiaramente per rendere difficili i pedinamenti. L’imprenditore aveva finto di comprare dei biscotti e si era avvicinato a un altro acquirente; anche lì a voce bassissima aveva brevemente parlato e poi i due si erano allontanati. Se i finanzieri fossero stati distratti non si sarebbero mai accorti del colloquio con un personaggio vicino alla camorra. Gli incontri documentati di questo tipo sono stati diversi, sempre in luoghi simili. Ma come - ci chiedevamo - questo è un industriale che ha cento distributori, depositi di carburante, fattura milioni di euro: perché si comporta in questa maniera? Sì, è un modo di agire particolare. In genere chi fa affari è abituato a lunghi colloqui, sia per trattare, sia per mantenere relazioni. Ma che tipo era questo re della benzina: ci teneva a mostrare la sua ricchezza? Assolutamente no, e questa è un’altra anomalia. Aveva un tenore di vita modestissimo, una casa anonima. L’unico lusso era un suv, un grande fuoristrada, che abbiamo riempito di microspie senza ascoltare nulla di interessante. Stava quasi sempre da solo, circondato da pochi collaboratori perché non si fidava di nessuno. Quando i finanzieri hanno perquisito il fratello, socio dell’azienda, sono rimasti stupiti: viveva ai limiti della povertà, in un appartamento poco arredato e tutt’altro che lussuoso. Il petroliere aveva scelto di restare nell’ombra, evitando clamori. La strategia della mafia siciliana che predica il basso profilo e disprezza lusso: viene da pensare alla dieta di Provenzano basata su cicoria e ricotta. il Niente dimore hollywoodiane, nessuna mondanità: anche l’imprenditore evitava occasioni pubbliche. L’intercettazione, infatti, è stata lunghissima e soltanto alla fine ci ha permesso di costruire un identikit inquietante, assolutamente innovativo. Non era un riciclatore, non aveva un legame specifico con un singolo clan ma era riuscito a creare un metodo per relazionarsi con numerose famiglie differenti, che funzionava benissimo. Prima di aprire un distributore si informava su chi fossero i capi in quel territorio. Una scelta molto oculata: cercava zone dove c’era un potere criminale consolidato, senza turbolenze. Voleva evitare di finire nel mezzo di uno scontro tra clan rivali. Lo diceva al telefono: «Lì non vado perché c’è una guerra». La sua strategia era semplice ed efficace: operava solo dove regnava una pax mafiosa ed era sicuro di potere trovare referenti camorristici affidabili. Nelle registrazioni spiegava: «Vado lì perché so che ci sono Caio e Sempronio con cui parlare». Si teneva alla larga dai paesi dove non era certo di potere intrecciare rapporti o dove veniva a sapere che esistevano monopoli commerciali di suoi concorrenti. Per esempio, non aveva alcun distributore nella zona di Casal di Principe e spiegava che lì operava una famiglia concorrente che riteneva intoccabile. Aveva imparato la lezione di Così parlò Bellavista, il primo libro di Luciano De Crescenzo: i due poveretti che comprano una ditta al civico 48 bis di una strada e si trovano costretti a pagare il pizzo a due clan concorrenti: quello che dominava la via fino al numero 48 e quello che la controllava dal 48 in poi. Loro che erano finiti al 48 bis dovevano sottostare a entrambi i boss. Invece questo esploratore delle mappe camorristiche che tipo di rapporto aveva stretto con i clan locali? Per lui i camorristi erano proprio un service. Gli garantivano una serie di servizi. Per esempio, in un distributore costruito nel territorio del clan Massaro di San Felice a Cancello ci furono dei problemi con alcuni dipendenti infedeli, che avevano rubato parte degli incassi e si comportavano male. Allora l’imprenditore si è rivolto al referente del intervenire. Ottenendo rapidamente soddisfazione. clan e gli ha chiesto di Nella zona di Portici ci sono state difficoltà nel cambiamento della licenza di un distributore e degli ammanchi nelle casse? Anche lì contatta il boss, che lo incontra o gli mette a disposizione i suoi emissari. Quando una pompa è stata rapinata, invece di chiamare la polizia va dagli «amici» e questi si attivano subito per scongiurare nuovi assalti e recuperare il bottino. Insomma, un servizio completo. Nessuna società lecita offre prestazioni globali simili: una copertura rischi completa. In pratica, vi siete trovati davanti a un nuovo modo di fare imprenditoria in cooperazione con la mafia: non è una vittima ma un partner consenziente. Sì, era una figura atipica, all’avanguardia. malloppo dei riscontri alle indagini, i quell’imprenditore venisse arrestato. Quando il finanzieri Gico mi depositò il si aspettavano che Quel dossier aveva richiesto davvero tanto lavoro e impegno che senza un risultato concreto per le forze dell’ordine diventa nulla. Abbiamo riletto le carte tante volte insieme agli uomini del Gico ma alla domanda «Di che clan fa parte?» la risposta non c’era. O comunque quello che era stato scoperto non era sufficiente a contestare il reato di associazione mafiosa né tantomeno il concorso esterno. Lui non era inserito, non aveva un clan di riferimento: era un imprenditore che in qualche modo usava i clan. Anche quando lavorava in un contesto diverso, fuori dai territori in cui aveva stipulato un patto, faceva intervenire i soggetti legati ai clan per risolvere i problemi con gli altri. Una figura inedita, mai scoperta prima e che non c’entra con i casi puniti dal codice penale: non è un riciclatore esterno al clan e non è nemmeno un affiliato o un favoreggiatore. Siamo ai confini del concetto di associazione per delinquere: che reato avete contestato? Nessun reato che giustificasse una misura cautelare; mi sembrava la classica situazione da misura di prevenzione, ossia un sequestro di beni senza arrestare le persone. C’erano tanti sospetti e poche prove: gli unici fatti certi erano che lui si limitava a pagare tanti clan e a ottenere da ciascuno un vantaggio. La soluzione migliore era quella di trasmettere gli atti al pubblico ministero di Santa Maria Capua Vetere perché valutasse se chiedere il sequestro del patrimonio. Lo ha fatto e il Tribunale di Santa Maria, certamente uno di quelli tecnicamente più preparati sulla materia visto che da sempre si occupa di clan mafiosi, ha firmato il provvedimento di sequestro facendo, credo, giurisprudenza; quei giudici hanno scritto: «Oggi la stessa camorra che punti all’imprenditoria lo fa permettendo a singoli imprenditori di assumere proprio il ruolo di appartenenti polivalenti, cioè di soggetti contemporaneamente in stretto contatto con diverse frange camorristiche, operanti in contesti geografici e in contrasto fra loro». Una realtà ribaltata: l’imprenditore che non è vittima, ma acquirente di servizio criminale. Paga i boss per ottenere una prestazione, mantenendo ruolo autonomo: forse un precursore del futuro prossimo. E che cosa guadagnavano i camorristi? un un ci Chiedevano soldi e posti di lavoro. Una contropartita accettabile dal punto di vista imprenditoriale perché non diventava un freno al business, anzi ne aumentava la competitività. Perché l’imprenditore assumeva persone che potevano sfruttare anche quel background criminale, cosa notoria a tutti sul territorio: non erano semplici dipendenti ma rappresentanti di un’agenzia che gli dava molti vantaggi. Gli permetteva di avere personale obbligato a essere più morbido e non piantare grane per paura di rappresaglie; evitava le rapine, teneva lontani i concorrenti. Una vecchia reclame di carburanti recitava «Metti un tigre nel motore». Qui invece ci mettevano un boss per correre di più negli affari. Si crea una sorta di franchising di camorra, che permette di stringere tanti piccoli accordi criminali senza doversi legare a doppio filo con i clan. L’imprenditore sfruttava questi rapporti a 360 gradi, anche per risolvere problemi amministrativi o commerciali. I clan avevano agganci negli uffici dei Comuni e riuscivano a sbloccare le pratiche con una rapidità sorprendente. Non a caso, lui apre stazioni di servizio solo dove c’è una camorra affidabile, con un potere stabile e consolidato. Allo stesso tempo, però, sceglie posti dove agiscono gruppi criminali di dimensioni ridotte: evita di mettere piede nei territori dove c’è un controllo piramidale, quello di grandi organizzazioni mafiose. Non va a Casal di Principe perché sa che i padrini casalesi non si accontentano delle briciole ma vogliono partecipare direttamente all’attività economica e prenderne possesso. Invece usando il franchising con boss forti ma minori ne sfrutta gli aspetti positivi, riducendo i rischi. I casalesi e la Parmalat. Proprio dalle indagini che ha svolto la Direzione distrettuale antimafia di Napoli emerge come i casalesi impongano le proprie regole anche a grandi gruppi nazionali. Persino Parmalat, all’epoca uno dei colossi mondiali dell’industria alimentare, si è piegata ai diktat della criminalità campana. Ancora oggi trovo che sia una storia incredibile, che meriterebbe di essere studiata nelle facoltà di economia. Non mi sono occupato io dell’indagine ma il collega Curcio, che grazie ai carabinieri di Caserta, partendo da qualche generica dichiarazione di collaboratori, ha messo in luce uno spaccato davvero inquietante. Tutto nasce quando il leader della vendita del latte in Campania era la Cirio. C’è un personaggio sui generis del clan che scopre come ci si può lanciare nell’affare: Mario Tavoletta, parente del boss Pasquale, detto «Zorro», che dominava Villa Literno, ai confini di Casal di Principe. Un personaggio secondario del clan dei casalesi. Mario Tavoletta non era certo un uomo d’azione; i pentiti ne parlano come di una sorta di manager sempre in giacca e cravatta che amava stupire i suoi interlocutori con citazioni latine, che facevano grandissimo effetto alle orecchie di gente incolta. Era capace di comprendere come si potessero sfruttare tutti i meccanismi economici a favore dei clan; aveva, per esempio, capito in che modo si poteva far pagare «la tangente» anche ai piccoli commercianti, ai quali in genere il pizzo non viene chiesto, e cioè monopolizzando la vendita dei gadget pubblicitari. Pubblicità come tangente? Durante Mani Pulite si è parlato di spot e pubblicità elettorali pagati dalle industrie ai partiti come di un modo occulto di finanziare la politica. Anche la criminalità organizzata ha utilizzato lo stesso sistema? No, è un meccanismo differente che si è esteso a macchia d’olio in numerosi settori merceologici e che per molti aspetti ha soppiantato il sistema dell’estorsione tradizionale. Anche perché apparentemente nessuno ci perde. Il caso della pubblicità è esemplare: nel periodo precedente al Natale - quando tutti i commercianti, anche quelli piccoli, acquistano gadget da regalare ai clienti - era Mario Tavoletta che li proponeva nella sua zona, dando un esempio poi seguito da tanti. Il commerciante pensava che fosse meglio acquistare da un Tavoletta o da un altro camorrista, e guadagnare così la benevolenza del clan: quel costo l’avrebbe poi comunque dedotto dalle tasse. Tavoletta, o chi per lui, individuava anche dove e da chi far produrre penne, calendari, agende e a un prezzo appena superiore a quello di mercato. Lucrava dunque sul negoziante e sul produttore, da cui si faceva riconoscere un diritto come «intermediario». Ma in realtà si trattava di una vera tangente e il produttore diventava a tutti gli effetti un imprenditore del clan. Il sistema non è molto diverso per tanti altri prodotti; è emerso, per esempio, in altre indagini come ai bar venisse imposto l’acquisto di una certa marca di caffè o ai negozi di alimentari l’acquisto di pane sfornato da amici degli amici, e potrei continuare a citare parecchie situazioni simili. Chi ci perde davvero in questo meccanismo sono il mercato e ovviamente gli imprenditori onesti, che se non vogliono diventare fornitori del clan, rischiano di scomparire. In piccolo anche questo della pubblicità era un service: comprando dal boss si ottenevano dei servizi aggiuntivi a prezzo modico… Tavoletta aveva capito che l’estorsione tradizionale non funziona più, perché causa più danni che vantaggi: ti mette contro una fascia di popolazione che invece può generare consenso, diventare alleata del potere criminale e renderlo più forte sul territorio. I commercianti hanno un peso importante nelle piccole realtà dell’Italia meridionale. Imponendo i suoi prodotti, seppure a prezzo maggiorato, otteneva sia i soldi che il sostegno, sostegno che aumentava perché le imprese ormai legate a doppio filo al clan poi assumono amici e fiancheggiatori dei sodalizi, trasformandosi in soggetti disponibili per tutte le esigenze dell’organizzazione. Allo stesso tempo si trattava di un’attività apparentemente legale, difficile da smascherare senza pentiti o intercettazioni. Questo schema di pizzo sotto mentite spoglie è stato poi applicato anche ad altri prodotti? Nel latte, appunto, è successa una cosa simile. Tavoletta, approfittando di un rapporto di conoscenza personale con un grossista casertano, riesce a ottenere un incontro con dirigenti regionali della Cirio che all’epoca aveva rilevato un marchio molto diffuso in Campania, il Latte Matese. A costoro, facendosi accompagnare da un uomo il cui spiccato accento casalese non lasciava dubbi, ha intimato: «La provincia di Caserta è nostra. Voi dovete darci la concessione ma con una doppia provvigione e un doppio sconto. Ossia, una percentuale più alta su ogni litro venduto e una riduzione maggiorata del prezzo all’ingrosso». Certo, non avrei voluto essere nei panni dei singoli dirigenti della Cirio, che hanno capito subito l’aria che tirava. Ma non posso fare a meno di stupirmi del fatto che un colosso alimentare, proveniente dall’area delle Partecipazioni statali e facente capo a un imprenditore di grido, Sergio Cragnotti, che in quel momento era uno degli industriali più famosi, abbia accettato senza colpo ferire un’estorsione e addirittura abbia creato una gestione ad hoc per la provincia di Caserta. I manager che, dopo alcune remore, hanno collaborato con i carabinieri, hanno espressamente riferito che quando avevano cercato di parlare di queste vicende con la dirigenza centrale, non avevano trovato ascolto. Anzi, gli era stato detto che si trattava di problemi locali. E allora, retoricamente mi chiedo, perché una grande società nazionale accetta comunque di subire una prepotenza e non reagisce? Come si può chiedere al piccolo imprenditore di avere il coraggio di denunciare se i big invece preferiscono mettersi d’accordo con i clan? La vendita del latte in una provincia non sembra un business così ricco. Quanto valevano questi benefit pretesi dalla camorra? Erano circa 40 milioni di lire al mese extra, un surplus che andava tutto a vantaggio del clan. Si tratta di circa mezzo miliardo di lire «pulite» in più che entravano nelle casse dei casalesi ogni anno. Questo ovviamente oltre al normale guadagno previsto per il concessionario, perché una società legata a Tavoletta si occupava della vendita in regime sostanzialmente di esclusiva per quasi tutta l’area del Casertano. Un affare niente male… E infatti qui avviene un fatto che rende evidente come si muove il vertice casalese; fino a quel momento si è lasciata mano libera a Mario Tavoletta, poi ci si rende conto che l’affare è grosso e soprattutto che può essere organizzato ancora meglio. Tavoletta viene ammazzato in un agguato e subito dopo uccidono il suo collaboratore, l’unico che assieme a lui teneva i rapporti con la dirigenza Cirio. Ufficialmente i due omicidi sono stati inquadrati in una faida locale, ma non è un sospetto infondato quello che lega le due morti alla volontà di «sganciare» l’affare latte da Villa Literno. In quel periodo, dopo una raffica di esecuzioni, la guida della famiglia passa al giovanissimo figlio del capoclan Zorro, tal Cesare Tavoletta, poco più che diciottenne. A quel punto ci vuole poco, con le buone o le cattive, a far passare il controllo del latte direttamente nelle mani dei casalesi. Lo stesso Cesare, divenuto in seguito collaboratore di giustizia, ha spiegato di essersi opposto al tentativo di togliergli quel business. Ma a un certo punto ha capito che era meglio evitare di scontrarsi con il vertice di Casale. E a quel punto che succede? L’affare, secondo quanto è stato scritto nelle sentenze di primo e secondo grado, viene avocato direttamente da Francesco Schiavone detto «Sandokan» che affida la gestione alla famiglia Zagaria, da sempre anima imprenditoriale del gruppo. C’è un nipote di Michele Zagaria, che già si occupa di commercializzare bibite, che acquisisce il rapporto con la Cirio e lo mantiene quando la Cirio viene comprata dalla Parmalat, garantendo gli stessi benefit già ottenuti da Tavoletta, e cioè sconti speciali e versamenti di denaro giustificati come «promozioni». Sono andati avanti così fino al 2004 quando le inchieste li hanno fatti chiudere. E in tanti anni i vertici della Parmalat non hanno mai denunciato la situazione casertana? Una holding mondiale, che sponsorizzava squadre di Champions e aveva rapporti di ogni genere con politici e ministri, temeva i casalesi? Parmalat ha continuato a tollerare queste provvigioni immotivate e a far finta di niente; se era stupefacente che tutto ciò lo facesse la Cirio diventa addirittura incredibile che lo abbia fatto la Parmalat dei Tanzi che in quel periodo, prima che il castello delle carte false crollasse, era un leader mondiale, con interessi in tutti i continenti. Del resto, pur continuando a subire un’estorsione, di fatto diluivano il prezzo pagato ai casalesi nei vantaggi di essere diventati quasi monopolisti in zona. Negli atti del processo non c’è traccia ovviamente di analisi economiche, perché ciò che si doveva accertare erano le estorsioni, ma sarebbe stato interessante capire se e in che modo erano cambiate le quote di penetrazione nel mercato di vendita del latte di quella marca a Caserta Nessuno dei concorrenti commerciali di Parmalat ha mai protestato per quello che avveniva? Come facevano a sapere che quell’area era proibita? Nel processo è descritto un unico episodio che credo fosse la punta dell’iceberg. Nei confronti di un agente di un’altra ditta che aveva superato il limite territoriale ci sono state pesanti intimidazioni che non è peregrino ricondurre al clan casalese; del resto un gruppo come quello degli Zagaria non ha bisogno di propagandare la sua esclusiva: tutti sapevano che il latte Parmalat era roba loro. I concorrenti non osano: il rischio di ritorsioni non giustifica il vantaggio economico. Mentre i negozianti sanno che acquistando Parmalat stringono un piccolo accordo con il boss, a cui rivolgersi in caso di problemi. Soldi e consenso. La violenza, anche implicita, diventa il sistema per alimentare il legame tra boss e imprenditori, che invece di correre rischi ottengono vantaggi dal rapporto con la criminalità. E torniamo quindi alla connivenza attraverso la fornitura di servizi: il «camorra service». E qui bisogna di nuovo ribadire quanto si è accennato sopra in via generale; i casalesi, oltre ai soldi in più che si mettevano in tasca da Parmalat, ottenevano anche altri benefici. Avevano costruito una grande attività commerciale legale: era stato aperto un deposito provinciale dei prodotti del colosso parmense, gestito direttamente da loro. Poi avevano agganciato tramite le forniture tutti i punti vendita, dai supermarket alle botteghe dei paesini. Inoltre creavano e assegnavano posti di lavoro: sceglievano gli agenti, il personale dei camion. In pratica è un’estorsione che ha il vantaggio di massimizzare il consenso perché non si limita a prendere ma offre a tutti qualcosa: ottiene soldi dall’industria che ha però il vantaggio di mantenere o consolidare le posizioni di mercato in quella provincia, crea lavoro e consenso sul territorio, lega a sé la categoria degli esercenti; l’unico che ci perde è il mercato e non è un caso che la Procura sia riuscita a far condannare i responsabili oltre che per estorsione anche per un delitto difficilmente applicabile, meno grave, ma dall’importante valore simbolico, come la concorrenza illecita. Non era mai successo prima il contratto con il service dei clan aveva ucciso il mercato. E sostenuto il potere dei camorristi con il denaro extra e con la possibilità di aumentare il consenso in una fascia qualificata di popolazione. Ma ai boss interessano più i soldi o il consenso? Per i clan più strutturati, come certamente lo sono i casalesi ma anche molti altri gruppi camorristici locali, il consenso ha grande importanza. Come tutti i veri mafiosi cercano sempre di evitare uno scontro con le imprese: il rapporto conflittuale non conviene. L’imprenditore gli dà da mangiare attraverso le varie forme di pizzo ma può soprattutto essere usato per altre attività non meno importanti. Per esempio, ricordo che nel paese di San Felice a Cancello tutti i certificati di lavoro, fondamentali per fare ottenere ai detenuti i permessi o la semilibertà, venivano rilasciati da una fabbrichetta che si occupava di cavi elettrici. Ovviamente erano tutti fittizi: nessuno di quei camorristi andava veramente a lavorare nello stabilimento. Ma si trattava di un servizio vitale per il clan. Così come, in una regione afflitta dalla disoccupazione, per i padrini era vitale imporre agli imprenditori l’assunzione di parenti di affiliati. Ma gli imprenditori non si rendono conto che accettando camorra rischiano di legarsi per sempre ai padrini? il service della Certo. Ma loro si presentano come mediatori, come garanti di sicurezza. Il meccanismo dell’approccio spesso è quello classico. C’è una telefonata di avvertimento, un colpo di pistola e infine un attentato. Azioni che non vengono rivendicate dal clan e sono accompagnate da richieste di denaro esorbitanti. Poi si fa avanti l’emissario della famiglia camorristica, che offre una mediazione: se la richiesta era di un milione di euro, la riduce a diecimila. Ossia a una somma accettabile per l’impresa. In pratica, la camorra usa metodi di mercato: fa capire all’imprenditore che può fargli avere uno sconto. E questa convenienza costituisce un primo servizio. È solo l’inizio di una morsa. Perché soprattutto le aziende stanziali - quelle nate sul territorio - finiscono poco alla volta nelle mani del boss, che vuole sfruttarne tutte le potenzialità. Ci tengono però che questo patrimonio non venga danneggiato e diventano disponibili a risolvere anche i problemi che dovessero capitare altrove. Una volta nell’area industriale di San Felice a Cancello si presentarono gli uomini di un clan locale, non organico ai casalesi. Li chiamavano «i pecorai», ed erano orgogliosi della loro autonomia rispetto ai padrini. Ma quando cominciano a chiedere denaro ad alcuni imprenditori che avevano vinto importanti appalti pubblici, si fanno avanti altre persone che spendono il nome di Zagaria; sono loro che conducono la trattativa con il gruppo locale; fissano la tangente, ovviamente ottenendo un grosso sconto, e si occupano pure dei pagamenti delle singole rate. La camorra sa gestire i rapporti, offre un service globale. Ma all’interno dei gruppi criminali come vengono risolti questi problemi? Quando nasce un conflitto per la gestione del rapporto con un’azienda, si ricorre alle armi? Oppure c’è stata un’evoluzione anche in questo? Regolamento di conti ormai è diventato un sinonimo di omicidio… La violenza è sempre la risorsa estrema. Posso citare un episodio. Durante le perquisizioni a un esponente della famiglia Schiavone gli uomini della Squadra mobile di Caserta trovarono un computer, al cui interno era contenuto un file con un vero e proprio bilancio del clan. Non era il vecchio libro mastro, ma una contabilità avanzata: c’erano le spese previste per l’anno in corso e le entrate che bisognava incassare. Tra i soggetti che ricevevano una somma compariva anche «Paolo Di Grazia e banda», e vicino era annotata la cifra di otto milioni di lire. Era chiaro il significato ma la cosa era inspiegabile perché Di Grazia non era un affiliato dei casalesi, era il capo dell’ultima enclave cutoliana in provincia di Caserta: un irriducibile fedele a Raffaele Cutolo, nemico giurato dei casalesi anche per fatti di sangue che lo avevano visto coinvolto direttamente; i casalesi più volte avevano anche tentato di ammazzarlo e Di Grazia si muoveva con una circospezione davvero enorme. Un pagamento mensile agli avversari? Perché i casalesi dovevano finanziare i loro rivali? Lo ha spiegato Di Grazia quando poi ha iniziato a collaborare. Nel Comune dove continuava a gestire il suo potere criminale stavano costruendo un polo dell’industria calzaturiera, che doveva mettere insieme produttori e commercianti di scarpe. Il boss, anche per dimostrare il controllo del territorio, voleva la sua parte: era andato più volte con i suoi a sparare e mettere bombe contro il cantiere, poi aveva cercato di contattare il dominus dell’iniziativa. Ma nessuno gli aveva dato soddisfazione e gli attentati erano proseguiti. Poi gli venne chiesto un incontro da «Paperino», un rappresentante dei casalesi strettamente imparentato con un boss di primo piano, «Peppe ‘o Padrino». Di Grazia era diffidente, temeva una trappola e prima di arrivare all’incontro ci sono state lunghe trattative: c’è stato persino uno scambio di ostaggi. Quando infine si sono incontrati, «Paperino» ha detto al capo cutoliano che quel lavoro non doveva essere toccato. E si sono accordati per il pagamento mensile in cambio della tranquillità. Non è risultato chiaro se i casalesi avevano già ottenuto una tangente più ampia in cambio della protezione alla nuova struttura oppure se avessero interessi diretti in un progetto così importante. In ogni caso questa vicenda dimostra che alla fine i clan sanno garantire la serenità alle imprese che si affidano al loro service Gli imprenditori che operano sul territorio non hanno scelta e comunque traggono una convenienza, seppure limitata, dal patto con i boss. Ma perché un industriale del Nord decide di mettersi in affari con un camorrista? Gli industriali sanno benissimo chi hanno di fronte. Ma la camorra sa anche essere di lotta e di governo. Prendiamo un killer come Giuseppe Setola, «o Cecato», protagonista nell’estate 2008 di una stagione di fuoco che ha lasciato per terra una decina di morti e mobilitato le istituzioni, anche nazionali. Setola sembrerebbe un pistolero dal grilletto facile uscito dalle gang delle periferie statunitensi, non un boss dai modi mafiosi. Eppure suo fratello era un imprenditore di discreto livello tanto da essere riuscito, pur con (o grazie al) cognome così ingombrante, a ottenere appalti di un certo livello anche da enti pubblici; è un’ipotesi non certo campata in aria che anche «o Cecato» potesse avere interessi nell’azienda familiare. Anche i killer sono diventati uomini d’affari? Finora si era sempre parlato di figure ibride. Come Pasquale Galasso che si presentava come un manager, svernava a Montecarlo e gestiva società di primo piano, ma all’occorrenza faceva ammazzare i rivali. Uno che progettava persino di uccidere Enrico Nicoletti, il costruttore legato alla banda della Magliana, per una lite sulla gestione di un autosalone. Il gruppo di Setola invece era stato descritto come una banda di assassini, registrati dalle microspie mentre subito dopo avere crivellato un uomo con i kalashnikov vanno a prendersi un caffè. Non bisogna illudersi, la mafia non può abbandonare la violenza, altrimenti non è più mafia. Anche se la componente economica è diventata dominante, anche se punta sempre più agli affari, anche se le nuove generazioni hanno un diploma o una laurea, senza le armi rinunciano al loro potere. Se non dimostrano di sapere mettere mano alla lupara, di essere in grado di uccidere, allora perdono la capacità di imporre le loro regole e tutto il sistema crolla. Pistoleri feroci come la squadra di Setola sono funzionali a questo meccanismo economico, che altrimenti non riuscirebbe a funzionare. E quindi pregiudicati con il revolver in tasca sono diventati alfieri di una nuova economia criminale: i broker di questo service che in certi casi costringe a pagare e in altri seduce gli imprenditori. Dalle più recenti indagini è emersa una piccola storia ancora più sorprendente. Sul litorale casertano da anni è in progetto la costruzione di un’enorme struttura sanitaria: un polo ospedaliero privato di avanguardia, con primari di livello internazionale e apparecchiature diagnostiche di ultima generazione. Il tutto collegato a un gruppo milanese, il più famoso nel settore della sanità privata. A un certo punto un uomo notoriamente facente parte del gruppo Bidognetti, uno dei capi storici dei casalesi, che si è sempre occupato di gestire appalti e lavori per conto del clan, va a parlare con l’imprenditore che deve realizzare questo complesso. L’emissario del padrino, che è stato anche per non poco tempo in carcere, va subito al dunque; sa che l’imprenditore deve fare dei lavori nella zona a cavallo del villaggio Coppola, uno dei simboli del degrado del Casertano, e pretende la sua fetta: vuole che le opere vengano affidate alle sue imprese di riferimento. Usa toni minacciosi: «Ho saputo che devi realizzare questa cosa. Ma la nostra parte dove sta? I lavori per noi dove stanno?». L’imprenditore cerca di tenere fuori il clan da un affare così grande, temendo di venire danneggiato se l’accordo fosse scoperto, e mette le mani avanti: «Io faccio un’operazione in grande stile con gruppi del Nord, non possono affidare i lavori a ditte riconducibili alla camorra. Questa è un’iniziativa seria, verrebbe subito fuori. E poi si tratta di opere complesse…». Il camorrista non ha fatto una piega: l’ospedale? Fammi i nomi e ci penso io» «Tu di chi hai bisogno per costruire Un’offerta singolare. Un ex detenuto, abituato anche a maneggiare revolver e mitra, che si offre come consulente per un progetto immobiliare da centinaia di milioni di euro. Che voleva dire? Il camorrista ha citato varie imprese di costruzioni italiane, anche big famosi nel mondo con fatturati di miliardi di euro. Davanti all’imprenditore sbalordito, ha continuato: «Vuoi questa? O vuoi quest’altra? Per noi non c’è problema. Te le portiamo e tu gli dai l’opera. Poi sappiamo noi come metterci d’accordo con loro. Ti portiamo ditte con certificato antimafia e abilitazione per partecipare agli appalti al massimo livello». Veramente sorprendente: un camorrista che fa il procacciatore d’affari per colossi delle costruzioni. Come può un uomo che entra ed esce dal carcere, che parla solo il dialetto stretto e vive alla macchia, avere relazioni così altolocate? Stava millantando o era veramente legato a questi big? Io non credo avesse rapporti diretti con le imprese del Nord ma ritengo che conoscesse qualcuno che poteva fare da tramite. Questo, per esempio, si ricollega al fatto che moltissimi centri commerciali costruiti da importanti aziende settentrionali nascono in zone ad alto controllo camorristico. Anche in questo caso, ti viene il dubbio che si usi la camorra per ottenere un servizio: si ottiene evidentemente la garanzia che le imprese che operano non vengano sommerse dai problemi inevitabili in un tessuto economico disastrato. Immaginiamo in un territorio con folle di disoccupati pronti a tutto, malviventi e piccoli affaristi che cosa si rovescerebbe in quei cantieri. La camorra invece rende l’investimento il meno problematico possibile. Ci sono decine di inchieste che mostrano il ruolo dei padrini nella costruzione dei centri commerciali e la loro infiltrazione nella rete meridionale della grande distribuzione. In Sicilia ci sono supermarket dove gli elenchi del personale riproducono la composizione delle famiglie mafiose: gli stessi cognomi e non si tratta di omonimie. Il meccanismo del franchising ha permesso poi di piazzare insegne di prestigio davanti ai negozi del clan. I responsabili della rete Despar, che in Europa da mezzo secolo - come recita il sito - «si propone come una società attenta alle relazioni con il territorio, alla riscoperta delle tradizioni e soprattutto al rispetto di ogni individualità», in intere province della Sicilia sono sotto inchiesta o addirittura sotto processo per i loro legami con Cosa Nostra. Nel Trapanese i magistrati ritengono che la rete locale Despar fosse controllata da un uomo di Matteo Messina Denaro, il superlatitante delle stragi e ultimo vero capomafia. Eppure il consorzio internazionale non ha fatto nulla per scrollare queste ombre dal suo logo. In Campania i nuovi ipermercati sono sorti molto spesso in zone dove il controllo della camorra è totale. Le imprese dei clan hanno preso parte alla creazione delle infrastrutture e hanno ottenuto in qualche modo la possibilità di partecipare al ricchissimo business. I clan sanno, infatti, che è difficile poter ottenere pagamenti cash dai grandi gruppi italiani o stranieri che realizzano queste opere, ma si rendono conto che comunque possono trarne dei benefici, ottenendo la gestione di singoli esercizi commerciali nei padiglioni luccicanti degli shopping center o imponendo assunzioni. Nel centro commerciale di San Cipriano d’Aversa una delle vetrine era della cognata di Antonio Iovine, uno dei grandi capi casalesi latitante da decenni. Il pentito Dario De Simone ci raccontò che il clan doveva trovare lavoro alla moglie di una persona che loro stessi avevano ammazzato e fatto sparire, per allontanare i sospetti e comunque risarcire la donna. Per questo si presentò dal direttore di un ipermercato della provincia casertana e chiese di assumerla, richiesta immediatamente accolta. Nell’ultima inchiesta del marzo 2010 contro i Maliardo, potente famiglia di Giugliano, ci sono intercettazioni in cui si parla di imporre il racket al supermarket appena inaugurato. Non solo; sempre dalle registrazioni e dalle rivelazioni dei pentiti è emerso che i casalesi di Zagaria erano riusciti a incassare grosse somme sui lavori per la costruzione del Centro Campania di Caserta. È la sconfitta dello Stato. E il trionfo del ruolo della camorra come garante della sicurezza. Gli imprenditori non temono di subire danni d’immagine per queste relazioni pericolose. C’è stata la vicenda della Condotte, una holding delle grandi opere attiva in tutto il mondo, a cui è stato revocato il certificato antimafia per-che gli investigatori hanno evidenziato accordi con la ‘ndrangheta nei cantieri della Salerno-Reggio Calabria e della statale 106. La Condotte ha rischiato di venire esclusa da tutti gli appalti italiani e perdere miliardi di euro. Eppure nemmeno questo sembra un deterrente efficace. Gli imprenditori sanno che lì dove è forte la mafia si può lavorare con maggiore tranquillità. Mi ricordo che dopo una retata nei confronti dei boss di Mondragone partecipai a un convegno su mafia e impresa. In una pausa dei lavori venni avvicinato da un imprenditore che mi disse: «Ma lei crede proprio di avere eliminato la camorra? Lei non sa come funziona. Quando ho lavorato a Mondragone e ho pagato il capoclan, per me quei soldi erano anche una tassa sulla tranquillità. Io evitavo postulanti in cerca di lavoro, evitavo furti e danneggiamenti, avevo a disposizione un canale che mi garantiva entrature negli uffici per risolvere problemi: insomma, io andavo lì tranquillo. Pagavo 20 milioni di lire ma sapevo che li avrei recuperati in cento modi». È un discorso cinico ma che la dice lunga sulla capacità della camorra di non essere solo vessazione. Ovviamente questa situazione non è generalizzata. Ci sono imprenditori che hanno subito le pretese del clan senza speranza di benefici e altri che non hanno accettato. Oggi le corporation che operano in mercati difficili, nell’Europa orientale, in Medio Oriente o in Asia, spesso si rivolgono a società di consulenza per individuare i partner giusti per le loro iniziative. Come fanno le aziende del Nord che si muovono in Campania a capire con chi stringere accordi? Procedono per tentativi o vanno a colpo sicuro? Ci siamo posti il problema con il processo al clan camorristico Fabbrocino all’inizio di questo decennio. L’appalto per la costruzione della strada 268, il cosiddetto «asse mediano» ossia una delle arterie più importanti dell’area vesuviana, viene vinto dalla Pontello di Firenze: stiamo parlando di una delle holding italiane più importanti. A chi viene affidato il subappalto più ghiotto? A una ditta ritenuta emanazione del clan Fabbrocino, che domina il territorio. Durante le intercettazioni della Direzione investigativa antimafia si sentono gli uomini del clan che discutono dei loro conti e dicono: «C’è quel lavoro da un milione di euro che fa Tonino Siscarella». Ne parlano come di una cosa loro. E non si è riusciti a capire come un’impresa toscana, fra le più importanti d’Italia, almeno all’epoca, abbia individuato l’interlocutore a cui affidare una fetta consistente dell’appalto. I vertici della società non hanno fornito nessuna spiegazione razionale. Ricordo l’interrogatorio di uno spaesato manager del Nord che insisteva nel dire che il subappalto era stato concesso facendo un sondaggio informale fra tutte le ditte che si erano presentate sul cantiere… Assurdo! Viene il dubbio, invece, che o sapevano già a chi rivolgersi, o conoscevano degli intermediari a cui fare capo per risolvere i problemi sul territorio. Un altro esempio che mi colpì era quello dei gelati. In provincia di Napoli negli anni Ottanta-Novanta il deposito centrale della fabbrica di cornetti più famosa era affidato al fratello del boss di Fuorigrotta. Può darsi che lui fosse esterno al clan, ma i pentiti ne hanno parlato come di una società cogestita assieme al fratello camorrista. E questa scelta era indicativa del fatto che anche marchi così noti in qualche modo sfruttavano la forza di penetrazione delle famiglie criminali per ottenere risultati. E neanche le cooperative rosse si sono sottratte a queste alleanze, convenienti ma criminali? In Sicilia sono emersi rapporti tra Cosa Nostra e queste società, che dovrebbero avere una natura etica e che un tempo erano collegate al Pci, il partito più impegnato nella lotta alle cosche. All’inizio degli anni Novanta i processi scaturiti dal pentimento di Pasquale Galasso hanno mostrato l’inserimento delle coop rosse in questi meccanismi criminali di gestione degli appalti. Molti dei loro dirigenti sono stati processati per concorso esterno in associazione mafiosa, venendo quasi tutti assolti. Secondo i pentiti non c’era un rapporto vessatorio ma una spartizione concordata, in cui sceglievano di affidare i subappalti alle ditte dei clan. I collaboratori di giustizia hanno descritto un tavolo a tre gambe: impresa, camorra, politica. In questo modo si prendevano le decisioni più importanti, la scelta dei fornitori e le ditte chiamate a svolgere determinate opere. Dalla metà degli anni Novanta questo meccanismo diventa sempre più raffinato. In pratica è aumentata la distanza tra il clan e le sue aziende: sono stati utilizzati sempre più soggetti presentabili, senza precedenti penali o rapporti di parentela con pregiudicati, ma che sono emanazione dei padrini. Chi guadagna dal patto? Questo è quello che accade nei territori sotto il controllo della camorra. Ma chi non ha bisogno di mandare avanti attività nelle regioni di mafia? Voi avete smascherato un gruppo di Parma che era diventato partner dei casalesi: perché? È un meccanismo complesso. Anzitutto i soldi: i casalesi hanno enormi quantità di denaro da spendere. Lì una società sull’orlo del fallimento in concomitanza con il legame con il gruppo mafioso diventava una realtà florida con sviluppo e crescita esponenziale. Nell’intercettazione di una telefonata, effettuata dal Ros dei carabinieri, la compagna dell’imprenditore parmense spiegava a un’amica: «Se non ci fossero stati quei delinquenti non si sarebbe mai ripreso, aveva le pezze al culo…». Non contano, però, solo i capitali. Il clan, attraverso la sua testa di ponte, di fatto prende il controllo di una scatola vuota, con ottime relazioni in Emilia nel mondo degli affari e nella pubblica amministrazione, poi la riempie di soldi e di una costellazione di ditte campane che cominciano a lavorare al Nord, portandosi spesso dietro il background camorristico. Che vuole dire? E che vantaggio ci sarebbe in questo «background camorristico»: permette all’imprenditore di eliminare i concorrenti con la violenza? Non necessariamente. I vantaggi sono anche altri. La possibilità di pagare meno gli operai, costringerli a lavorare in nero, imporgli di accettare in silenzio cantieri senza sicurezza: il clan fa arrivare dalla Campania stuccatori, muratori, piastrellisti, carpentieri. Gente brava, perché si tratta di maestranze con i fiocchi, a un prezzo inferiore e senza sindacati di mezzo. Così la camorra riesce a guadagnare in tre modi. I soldi che immette nelle società parmensi generano utili. In più le ditte campane che porta nei cantieri emiliani o sono controllate dal clan oppure lo pagano per questi contratti. Infine crea consenso perché genera occasioni campane, che sanno bene chi ringraziare. di lavoro per le manovalanze Il gruppo al centro delle indagini aveva ingaggiato ditte e cooperative casertane indicate da Pasquale Zagaria, che offrivano prezzi molto competitivi. E i lavoratori venivano dai paesi roccaforte dei casalesi. E gli imprenditori parmensi partner così particolare? non hanno nessuna remora nei confronti di un Tutt’altro: gli aprono nuove porte. La forza di Zagaria viene compresa e apprezzata. Lo accompagnano a parlare con un professionista introdotto al ministero delle Infrastrutture, dove è consigliere del ministro. Lo presentano indicandolo come un imprenditore che può contare su aziende abilitate a qualunque tipo di opera pubblica. Così un’impresa diventa lo strumento per inserire una costellazione criminale in un territorio sano. Portatori sani di virus. Ma di quanti soldi dispongono questi casalesi? Tanti evidentemente, anche pronta cassa. È interessante raccontare un episodio ricostruito nel corso dell’indagine: a un certo punto l’imprenditore parmense deve realizzare una speculazione a Milano, acquistando un’area dismessa: un terreno che sarebbe diventato edificabile. Per questa operazione chiede a una filiale della più grossa banca italiana un prestito da otto milioni di euro, ma deve dare come pegno di garanzia titoli per un milione e mezzo. Il parmense dispone solo di un milione. Serviva però l’altro mezzo milione, da versare in tempi brevissimi. Ci ha pensato Pasquale Zagaria. Ha chiamato i suoi familiari che hanno raccolto i soldi cash in poche ore. Li hanno portati direttamente al casello autostradale di Parma, dove gli uomini del Ros a distanza di sicurezza hanno fotografato la consegna del denaro. Ovviamente, in banca li hanno accolti senza fiatare: ignorando la legge, nessuno l’ha segnalata come operazione sospetta. I fratelli Zagaria già all’inizio degli anni Duemila erano molto noti. C’era stata la sentenza sul caso Tav, l’infiltrazione negli appalti della ferrovia ad alta velocità, che ne aveva sottolineato il peso al vertice dei casalesi. Sarebbe bastato cercare su Internet per rendersi conto che si trattava di padrini. Eppure venivano accolti in banche di tutta Italia e incontravano collaboratori di ministri. Ma chi sono davvero gli Zagaria? Alla fine dell’indagine svolta dal Ros, il Gip ordinò l’arresto di tutti e quattro i fratelli Zagaria. Solo Antonio venne catturato: Michele era già latitante da un decennio mentre Carmine e Pasquale riuscirono a fuggire. Tre fratelli latitanti: credo questo sia stato un record assoluto. La latitanza di Carmine e Pasquale è finita non perché i loro nascondigli siano stati individuati dalle forze dell’ordine, ma perché prima uno e poi l’altro, tramite i loro avvocati, hanno annunciato che si sarebbero consegnati. Gestire insieme tre latitanze nella stessa famiglia era difficile anche per loro. Io personalmente prima dell’arresto non mi ero mai occupato di loro. Soprattutto non riuscivo a farmi un’idea su Pasquale, che era la mente economica e aveva intrecciato queste relazioni d’affari al Nord. Ho cominciato a visualizzarlo quando i carabinieri hanno perquisito la sua villa, regolarmente presa in affitto da un medico: il giardino era curatissimo, c’erano mobili di lusso e oggetti di design. Ma a impressionare è stato il guardaroba: centinaia di capi firmati e scarpe di marca. Aveva acquistato decine di abiti e di mocassini identici, per indossarne sempre di nuovi. Persino il padre che, con irritazione, aveva accompagnato i carabinieri nella perquisizione rimase stupito dalla quantità di vestiti e scarpe che suo figlio possedeva. Il direttore di banca di Milano che interrogammo ci disse che quando lo incontrava spesso era carico di buste delle boutique: passava ore nei negozi di via Montenapoleone e in albergo prendeva sempre una suite. Non basta il guardaroba per farsi passare come industriali. Anche Totò Riina amava i pullover di cashmere ma di certo non sarebbe riuscito a convincere un funzionario di banca sulla sua professione. E i clan sono quasi spesso costretti ad affidarsi a mediatori quando si tratta di muoversi tra banche e commercialisti. Pasquale Zagaria in banca trovava porte aperte. Parla un italiano perfetto, anche se ha mantenuto la cadenza casalese. Ricordo che quando si costituì era vestito in modo sportivo, con un cardigan, ma comunque griffato dalle scarpe agli occhiali: sembrava uscito da una pubblicità di moda. Al momento dell’arresto, rispose a tutte le domande, negando le accuse ma dimostrando di avere pienamente acquisito la mentalità del mafioso moderno; non ostentava la contrapposizione allo Stato come i boss vecchio stampo che si avvalgono sdegnosamente della facoltà di non rispondere. Ha scelto una difesa strenua, tecnica, cercando di giustificare ogni iniziativa. Certo, quando gli chiesi dei cinquecentomila euro, pur ammettendo di averli portati a Parma azzardò una spiegazione incredibile e cioè che erano i suoi risparmi. E gli imprenditori di Parma che si erano legati a Zagaria come hanno reagito agli arresti? Si sono mostrati smarriti, hanno avuto qualche cenno di pentimento o comunque di rammarico per essersi trasformati in partner della criminalità organizzata? Vennero arrestate due persone, padre e figlio. La loro era un’azienda familiare, come tante di quelle che mandano avanti l’economia del Nord. Il padre l’aveva creata e la guidava, uno dei figli si era laureato e curava gli aspetti tecnici dell’impresa mentre il secondo non aveva completato gli studi e lavorava nei cantieri. Il padre ha tenuto una linea di chiusura totale: si è dichiarato una vittima, descrivendo il suo rapporto come una sorta di usura: «Zagaria ci finanziava e noi restituivamo i soldi». È un po’ duello che dicono tutti gli imprenditori Quando vengono arrestati: negano di avere ottenuto vantaggi dal patto criminale, riducono tutto all’estorsione o all’usura. Il figlio, poco più che trentenne, è stato più sincero. Ha spiegato di essersi trovato in casa questo soggetto, che aveva una relazione con la sorellastra: «A un certo punto ha cominciato a sedersi dietro alla scrivania e a comandare. Non ci siamo ribellati perché in fondo ci faceva comodo». Tra burocrati e cantieri Nell’inchiesta di Firenze sulle opere dei grandi eventi commissionate dalla Protezione civile di Guido Bertolaso, gli investigatori hanno sottolineato il ruolo dì una società già emersa nelle sue indagini. Una compagine veramente particolare: le quote erano in mano a un parlamentare campano, a funzionari ministeriali di alto livello, imprese edili pulite e ditte che invece erano collegate ai clan. Il tutto con sede legale in Lombardia, per non sollevare sospetti, e potenti entrature nei palazzi romani. È l’evoluzione della specie? Consorzi come questo sono il frutto di un’evoluzione cominciata una decina di anni fa. Consentono di usare i capitali mafiosi in unione con le relazioni di politici e burocrati. Poi se vincono le gare pubbliche, come spesso accade, non mettono una pietra e le subappaltano a quella galassia di ditte con il background criminale che garantiscono risultati formidabili. La novità è la partecipazione diretta dei funzionari. È come se i partiti avessero fatto un passo indietro quando si è trasferito il meccanismo di controllo degli appalti dalla politica alla burocrazia: questo ha consentito alla burocrazia di appropriarsi direttamente delle gare. È una burocrazia senza controlli efficaci, legata direttamente al mondo della politica attraverso lo smistamento di favori e voti ma in grado di gestire direttamente il rapporto con l’impresa. La novità sta nel fatto che la burocrazia non è più asservita alla politica ma ha una sua autonomia, anche se a sua volta poi risponde agli uomini di partito e li foraggia. Per i politici è un vantaggio: usano la burocrazia come schermo e tramite, non si devono occupare di lavori sporchi. Era meglio quando i partiti gestivano in prima persona gli appalti? Prima di Mani Pulite c’erano regole di spartizione consolidate, con referenti nelle segreterie nazionali dei partiti: un manuale Cencelli che permetteva sempre agli imprenditori di sapere quanto pagare e chi pagare. Adesso che cosa accade? Al Sud, dove ci sono organizzazioni mafiose strutturate, il meccanismo di smistamento delle tangenti aveva funzionato con lo schema del tavolino a tre gambe: mafia, politica, aziende. Lo dimostrano, per esempio, in Campania le indagini sui grandi appalti per la ricostruzione dopo il terremoto del 1980 o dopo i gravi danni provocati dal bradisismo nell’area di Pozzuoli, sempre nei primi anni Ottanta; indagini realizzate anche grazie a pentimenti eccellenti come quelli dei vertici della camorra napoletana dell’epoca e cioè Carmine Alfieri e Pasquale Galasso. Il fiume di denaro pubblico stanziato per queste catastrofi veniva spartito in modo che i tre protagonisti del tavolino avessero la Gli affari 51 loro parte. Ricordo per esempio come, proprio grazie alle dichiarazioni di questi collaboratori, non solo si riuscisse a portare a giudizio i vertici della Dc campana per concorso in associazione mafiosa, giungendo a far condannare anche alcuni parlamentari, ma si individuassero molti di quegli «uomini cerniera» che operavano sul crinale mafia-politica-impresa. C’era un architetto napoletano, per esempio, a cui fu riconosciuto questo ruolo, condannato per associazione camorristica. E questo sistema d’affari è proseguito fino a oggi? Dopo Tangentopoli questi «uomini cerniera» si sono fatti più cauti e sempre più spesso i camorristi li hanno sostituiti nel compito di smistare le tangenti. Il caso più celebre è l’inchiesta condotta a metà degli anni Novanta dalla Procura antimafia di Napoli e dai carabinieri del Ros. Erano in gioco gli appalti miliardari della Tav: un colonnello dell’Arma si finse manager del consorzio Tav e cercò contatti in Campania per trovare un accordo con la camorra. La linea ferroviaria, infatti, avrebbe dovuto attraversare il territorio «occupato» da vari clan in provincia di Napoli e di Caserta: bisognava evitare problemi ai cantieri e agli appaltatori. Attraverso un ex funzionario delle coop rosse l’ufficiale sotto copertura trovò dei referenti legati ai clan, finché non gli venne presentato Pasquale Zagaria, il fratello di Michele che era già latitante e comunque noto come elemento di primo piano dei casalesi. Nei lunghissimi colloqui registrati dall’ufficiale - e recepiti da un’ottima sentenza del Tribunale di Nola, che rappresenta un documento di eccezionale rilevanza -, Zagaria non si limitava a garantire i rapporti con i clan ma faceva tanti nomi di politici, locali e nazionali, che avrebbero potuto tutelare la società anche su questo versante. L’indagine non riuscì ad accertare se quei nomi erano o meno millantati dallo Zagaria, certo è che il fratello del boss, allora ancora incensurato poi condannato per associazione mafiosa, sembrava sicuro delle cose che diceva. Stiamo parlando del Treno Alta Velocità, la più grande opera pubblica realizzata in Italia negli ultimi vent’anni. Un cantiere infinito che ha inghiottito miliardi di euro per costruire le linee ferroviarie che avrebbero dovuto portare il nostro paese nella modernità. E un padrino casalese poteva dominare anche appalti di questo livello? Lo ripeto, Zagaria si presentava come un general contractor: si poteva trattare con lui per l’intera opera in Campania. Ma la stranezza vera è quanto abbiamo poi accertato a distanza di anni nell’altra indagine sul gruppo Zagaria cominciata nel 2003 e di cui abbiamo già parlato per le infiltrazioni in Emilia. Pasquale Zagaria, sempre lui, non si occupava solo di edilizia al Nord, ma continuava a gestire appalti e subappalti in Campania, nella provincia di Caserta e nel Napoletano. È una storia complessa che vede al centro una donna, cosa assolutamente atipica nel panorama camorristico campano, Immacolata Capone: imprenditrice poi assassinata di cui ha anche parlato Roberto Saviano in Gomorra. Lei era la moglie di un imprenditore legato a un clan molto importante della provincia di Napoli, i Moccia di Afragola: il marito era stato arrestato e poi condannato. Allora la moglie aveva preso in mano le imprese di famiglia e le aveva reinserite nel mondo degli appalti pubblici, muovendosi come solo chi conosce perfettamente la camorra può fare, tenendo rapporti con i boss del Napoletano ma soprattutto divenendo il punto di riferimento per molti lavori smistati da Pasquale Zagaria, tanto da essere ammessa, persino, a un incontro personale con il superlatitante Michele Zagaria. Le intercettazioni ambientali nell’auto della Capone hanno consentito di svelare tantissimi retroscena, ma la sua morte - ancora oggi rimasta senza responsabili - non ha poi permesso di acquisire dalla sua voce la versione dei fatti. In una registrazione la giovane imprenditrice spiega a un suo collaboratore come Zagaria, che all’epoca era già stato condannato per la vicenda Tav, fosse in grado di procurarle subappalti importanti, quali per esempio quelli per la costruzione di un tratto della ferrovia Alifana o di una stazione radio nella base Nato di Lago Patria. La donna aggiunge anche di dover togliere tre quote dal suo guadagno: una per Zagaria, una per i clan locali, a cui spettava una parte, e un’altra che veniva versata a un politico regionale. Il politico, infischiandosene dei conflitti di interessi, era proprietario di un’impresa importante nel settore delle gallerie che aveva vinto un appalto per la ferrovia Alifana, ma era anche componente della Commissione trasporti del consiglio regionale, mentre la Regione era l’appaltatore dei lavori. Perché la Capone desse questi soldi al consigliere regionale non è mai stato chiarito; il politico, imputato di concorso esterno poi assolto con sentenza definitiva, pur avendo ammesso di avere incontrato Pasquale Zagaria negli uffici della Regione - uomo che ovviamente lui aveva «scambiato» per un facoltoso imprenditore restituzione di un prestito. Anche di un killer riesce finire -, ha spiegato questi strani pagamenti come a Corleone l’ultimo delitto ad allarmare gli investigatori è stato quello imprenditore, che si sospetta finanziasse i vecchi padrini detenuti: i sono venuti da fuori, per dare con la sua morte un segnale che non si a decifrare. Alla fine chi si avvicina troppo ai clan rischia sempre di in un gioco pericoloso. Sono tanti gli imprenditori che hanno pagato con la vita il loro rapporto ambiguo con le mafie, anche se non sono mancate figure eroiche che hanno detto no ai camorristi. Il pentito Luigi Diana, esponente di primo piano del gruppo casalese di Bidognetti, ci ha raccontato la drammatica vicenda di un piccolo costruttore aversano. Alcuni emissari gli avevano chiesto soldi per dei cantieri, roba da poco, e lui li ha denunciati e fatti arrestare. Non erano pezzi grossi: orbitavano ai margini del clan. Ma a quel punto, per paura o per altri motivi, l’imprenditore si avvicina ad altri uomini che, dopo essere stati fedelissimi di Bidognetti, si erano direttamente legati a Francesco Schiavone, il padrino casalese. Li frequenta quasi tutti i giorni, si propone negli appalti, diventa amico personale. loro come referente per entrare A un certo punto, forse si illude di poter utilizzare i suoi nuovi amici e cerca di mettere piede in un business immobiliare importante, che però interessa a un’altra impresa che fa capo ai grandi boss. Schiavone non ci pensa un attimo: ordina di toglierlo di mezzo. E quando gli uomini incaricati dell’omicidio timidamente fanno notare come ormai fosse diventato un loro buon amico, il padrino gli ricorda che quello aveva denunciato dei picciotti e quindi avrebbe meritato comunque di morire. La descrizione dell’omicidio è drammatica: lo strangolano e bruciano il corpo ma il pentito ricorda gli occhi imploranti di quel giovanissimo imprenditore. Occhi carichi di stupore, di sorpresa, prima ancora che di terrore. Fino all’ultimo era convinto che quelle amicizie lo avrebbero protetto dalle vendette. In Sicilia la mobilitazione delle imprese contro la mafia è sempre all’ordine del giorno. L’omicidio di Libero Grassi nel 1991 ha segnato una svolta e dato vita a un movimento che resta attivo. Nell’isola, Confindustria ha introdotto misure dure ed espelle le aziende che scendono a patti con le cosche. Anche in una realtà difficile come quella campana ci sono però imprenditori che non si arrendono. Uomini che non accettano di pagare le estorsioni nonostante gli attentati e si rivolgono allo Stato, che denunciano e hanno il coraggio di accusare i padrini più feroci. In Campania ci sono stati imprenditori che hanno avuto grande coraggio, anche se il tentativo di unirsi in associazioni contro il racket è molto recente; la stessa Confindustria campana solo da poco ha cominciato a rendere centrale una politica di contrasto alle estorsioni e di tutela delle vittime. Nella mia esperienza mi è sembrato che molto più spesso a resistere alle pretese dei clan siano stati soprattutto i piccoli imprenditori. Forse le imprese maggiori riescono in qualche modo ad ammortizzare il costo dell’estorsione e, quindi, a sterilizzare le conseguenze del rapporto con la camorra. Il piccolo non è in grado di sostenere questo prezzo e sa che il pagamento può essere dannoso, se non letale, perché lo rende succube del clan. C’è una vicenda che dimostra come le grandi imprese volessero quasi esorcizzare il rapporto con le mafie, formalmente facendo finta che non esistano. Da intercettazioni telefoniche i carabinieri di Caserta scoprirono che nei cantieri per l’acquedotto del litorale domizio - un’opera di grande impatto economico vinta da un’azienda legata a un big nazionale delle Partecipazioni statali - i clan La Torre ed Esposito avevano imposto al titolare del subappalto una tangente molto sostanziosa. I carabinieri convocano il titolare dell’impresa che stava facendo i lavori e, dopo tante titubanze, quest’uomo, un imprenditore del salernitano di una certa età, si decide a raccontare tutto: con grande coraggio individua e riconosce gli emissari dei clan. Ma quando scattano gli arresti, qualche giornale per errore indica come vittima dell’estorsione il big nazionale. E che cosa fa la grande azienda? Invece di sostenere il coraggioso imprenditore che era presente sul territorio, compra uno spazio sui giornali casertani per negare qualunque coinvolgimento nella vicenda. Morale: all’imprenditore vengono contestate dall’appaltatore pure alcune irregolarità minori e rischia, come conseguenza del suo coraggio, di perdere il lavoro. In più le banche si attivano per richiedere il rientro dei fidi, cosa che se fosse avvenuta avrebbe portato quell’impresa al sicuro fallimento. Gli imprenditori che resistono. Sono comportamenti che non spingono a collaborare con la giustizia. Sembra quasi che chi accetta di mettersi dalla parte della legalità finisca con il ritrovarsi solo. Dalle indagini sulle estorsioni sono emerse in qualche caso situazioni ancora più inquietanti. La Squadra mobile di Caserta aveva individuato un edificio semidiroccato in aperta campagna, nella zona di Santa Maria Capua Vetere, dove si riuniva un gruppo di personaggi legati a Schiavone. Lo usavano come poligono per esercitarsi a sparare, ci nascondevano le armi, da lì partivano per individuare i cantieri o gli esercizi commerciali da sottoporre a estorsione. Ed era anche la scenografia scelta per intimidire gli imprenditori: li obbligavano a venire lì per discutere di soldi. La microspia e la microtelecamera erano state piazzate dagli uomini della Scientifica in modo davvero perfetto: ci consentivano di ascoltare e vedere in diretta raffiche di mitra, veri summit di camorra e minacce a imprenditori. In poco più di un mese abbiamo registrato un centinaio di estorsioni. A un certo punto davanti al capo, tal Luigi Bianco che avevo già incontrato perché processato per associazione camorristica ma scarcerato per decorrenza dei termini di custodia, viene portato un piccolo imprenditore edile di San Tammaro. Gli chiedono di pagare una somma per una piccola palazzina che sta costruendo. L’imprenditore si schermisce e comincia a raccontare i suoi problemi. Sostiene che un lavoro per lui importante - la costruzione di alcuni campi di calcetto e una lottizzazione per cooperative edilizie - è stato bloccato per questioni di irregolarità edilizie e aggiunge che il sindaco gli stava creando ogni genere di difficoltà, facendo capire che gli ha chiesto dei soldi. Bianco si offre di risolvere lui la questione; gli propone di avvicinare il sindaco, che dice essere persona sua, e fa il nome di un impiegato comunale che funge da autista del sindaco ed è a loro legato. È uno spunto investigativo interessante che diventa ancora più serio quando si scopre che i rapporti con l’impiegato comunale non sono affatto millantati e che si tratta di una persona legata agli uomini del clan, tanto che proprio lui viene mandato a ritirare la tangente. Quel sindaco fra l’altro era un ufficiale dell’esercito in aspettativa, consigliere provinciale e presidente del consiglio provinciale di Caserta. Lo abbiamo messo sotto controllo: la Squadra mobile di Caserta è riuscita a nascondere una cimice nel suo ufficio, permettendoci di ascoltarlo mentre chiedeva i soldi per mettere a posto la pratica urbanistica dell’imprenditore. Il sindaco è stato così arrestato e condannato per concussione, anche se non è stato possibile accertare se avesse o meno un legame con il boss Bianco, mentre l’impiegato del Comune e gli esponenti dei casalesi sono stati tutti condannati a pene molto elevate per estorsione aggravata dal metodo mafioso. L’imprenditore era vittima, quindi, sia della burocrazia che della camorra. In pratica chi denuncia rischia di trovarsi contro camorra, settori della pubblica amministrazione e anche parte di quelle comunità che ricevono lavoro dai boss. Il consenso creato sul territorio diventa un deterrente contro la collaborazione. Non mi piace avere un approccio moralistico nei confronti degli imprenditori che non collaborano con la giustizia. Non ho mai detto a nessun imprenditore che denunciare i boss sarebbe stata una scelta semplice; ho sempre tentato di far leva sul senso di dignità di uomini che, in realtà territoriali difficilissime, cercano di tenersi fuori. E gli ho ricordato che spesso pagare è l’anticamera di un rapporto che con il tempo diventa pericoloso. So anche che chi decide di collaborare con le istituzioni rischia di tagliare i rapporti con parte della comunità: anche se si ammanettano gli estorsori, nel paese restano i loro parenti, schiere di cugini e amici che, seppur non organici alla camorra, manifestano la loro ostilità. Il denunciante continua a vivere lì, a incontrare il loro odio. Ed è perciò importantissimo non lasciarlo solo. È un compito che spetta alla società civile: Confindustria, le associazioni di commercianti e di artigiani fase, aiutandolo a non sentirsi isolato. devono E l’unico modo per trasmettere un esempio denunciare e rompa la morsa del ricatto. essergli positivo che vicini spinga in quella altri a E poi non dimentichiamo che l’imprenditore deve tornare in aula a identificare i boss che ha fatto arrestare, guardandoli in faccia, spesso passando davanti ai loro familiari che lo insultano e minacciano. I pentiti possono deporre in teleconferenza, restando lontani da tutto questo, le vittime invece sono costrette ad andare fisicamente in tribunale. Ho visto persone che appena si sono sedute davanti alla corte, prima persino che si facessero loro domande sul fatto, sono scoppiate a piangere, facendo fatica addirittura a pronunciare il proprio nome. Nonostante questi ostacoli ci sono tanti che continuano a denunciare. Anche nelle località dominate dalla camorra nascono associazioni antiracket che diventano un punto di riferimento per chi resiste. Mi verrebbero in mente tante storie di coraggio che ho visto in otto anni alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli; forse preferisco ricordare una vicenda in chiaroscuro. Indagando su un caso di corruzione nelle forze dell’ordine, scopriamo dalle intercettazioni che un piccolo industriale sta pagando il clan. Lui aveva una fabbrica di materassi e alcuni negozi di prodotti elettronici, gestiti dai cognati. Gli emissari si rivolgono proprio a questi parenti e gli intimano: «Dovete mettervi a posto con gli amici di Casale». È una frase che potrebbe apparire neutra, persino amichevole se ascoltata in un altro contesto e invece evoca la forza di un clan che si identifica con un paese. I cognati sono impauriti e non sanno che cosa fare; allora l’imprenditore decide di occuparsi lui di questa storia. Per prima cosa fa quello che fanno molti uomini avvicinati dai clan, cerca una scappatoia. Si rivolge a soggetti che sa legati non direttamente ai casalesi ma che gravitano nel giro; li aveva conosciuti nella sua attività e ora si ricorda di loro e gli domanda aiuto. Ma a chiedere i soldi sono proprio gli uomini del padrino Schiavone, che tornano a farsi sotto. Quei canali non sono in grado di risolvere il problema e il contatto giusto si materializza invece in un insospettabile: un collega, un altro imprenditore, noto in provincia di Caserta. La madre aveva creato una catena di saloni di mobili, reclamizzati nelle tv locali con ondate di spot in cui compariva pure Mario Merola, il massimo della popolarità in quel territorio. Lui lo accompagna a Casal di Principe dall’uomo di Sandokan, Augusto Bianco. Dopo una trattativa si accordano per un pagamento classico in tre rate, da versare per le festività a Natale, Pasqua e Ferragosto. Sembra una figura che ha accettato la convivenza con la mafia. Tanto che prima cerca una scorciatoia, poi si accorda con la famiglia. Ma quando lo convochiamo non mostra dubbi. Collabora subito; racconta tutta la vicenda, riconosce in foto gli estorsori e quando arriva il processo si presenta senza timore. È stato un momento difficile: nella gabbia degli imputati c’era il gruppo di fuoco degli Schiavone, figure di peso. Lui non ha esitato. Li riconosce e vengono tutti condannati a pene altissime. Fondamentale è stato il sostegno dell’associazione antiracket di Tano Grasso, protagonista da vent’anni della rivolta civile contro il pizzo, che lo ha contattato e designato come rappresentante nella provincia di Caserta. Così anche nella città campana è stato possibile aprire una sede dell’associazione. Ricordo ancora il giorno dell’inaugurazione, quando non ero più un pm ma avevo già cominciato il mio lavoro alla Cassazione. Era stata organizzata una manifestazione nel teatro di Santa Maria Capua Vetere, stracolmo di cittadini e autorità. Lui, l’imprenditore, sul palco era emozionatissimo: di sicuro non era un oratore, ma le sue parole erano convinte e avevano la capacità di trasmettere fiducia. Ho lasciato il teatro contento per avere visto nascere un piccolo germoglio di speranza nella terra dei casalesi. E i casalesi hanno incassato il colpo senza reagire? Purtroppo no. Le minacce sono cominciate arrivate direttamente dal clan ma dalle parole raccolto il messaggio dei boss detenuti. Gli è è bastato: la sua fabbrica è stata incendiata e subito. La prima volta non sono di un agente penitenziario, che ha stata assegnata una scorta ma non distrutta. La vendetta ha colpito molto tempo dopo il processo e le condanne. Ricordo che ero a Roma quando mi è arrivata la telefonata del capitano dei carabinieri di Santa Maria Capua Vetere. L’ufficiale mi ha informato del rogo e io non sapevo che cosa dire. Sono rimasto muto, con il telefono in mano, replicando solo con poche parole di circostanza. Sentivo dentro di me la sconfitta e avevo solo voglia di piangere. Ma l’imprenditore invece non si è arreso; con i contributi pubblici del fondo per le vittime delle estorsioni ha ricostruito la fabbrica e oggi continua a essere il rappresentante dell’associazione antiracket. 2. Il calcio. Le mani sul pallone. Chi l’ha detto che il calcio non è un buon affare? Certo, possedere una squadra significa perdere un sacco di soldi: nessuno guadagna con il football in Italia. Ma il pallone piace a tutti: una passione che livella i ceti sociali e azzera i doveri istituzionali, unisce ricchi e proletari, fa abbracciare malviventi e uomini di legge. In più è il palco migliore che esista: dal campo delle partite di promozione al megastadio della Champions, nulla offre una visibilità maggiore. I boss lo sanno: dalla Sicilia alla Campania, puntano soprattutto a questo. Ottenere uno status, il riconoscimento più grande che ci possa essere: il biglietto d’ingresso in circoli e palazzi dove altrimenti nessuno li avrebbe mai fatti entrare. «C’è un ritorno di immagine incredibile» scriveva un colletto bianco della ‘ndrangheta di Castrovillari in una lettera sequestrata dalla polizia, «e, fatto a livello aziendale, porta posti di lavoro e guadagni insperati.» Essere nel calcio significa comprarsi una presentabilità e una fama indubbia: nel paesino della cosca, nella regione o in tutta la nazione. E mettersi al centro di una ragnatela di relazioni che non trova mai porte chiuse: sindaci, prefetti, questori, imprenditori, professionisti, per dovere o per tifoseria, incontrano il patron della squadra. Le intercettazioni di Moggi lo hanno dimostrato: per un posto alla finale di Coppa o per una maglia firmata dal goleador tutti si fanno in quattro, dai magistrati ai ministri, dai generali ai magnati. Ogni domenica la tribuna d’onore delle grandi città, più di qualunque circolo esclusivo o loggia massonica, raccoglie volti famosi o ricchi, provenienti da mondi lontani: per novanta minuti condividono linguaggio, fede ed emozioni. Poi, quando le luci si spengono e i calciatori tornano negli spogliatoi, c’è spazio per altri traffici, grandi e piccoli: racket, riciclaggio, scommesse, bagarinaggio, security, ristorazione, persino spaccio di droga. Fino alla speculazione immobiliare e alla politica. Ci sono partite trasversali che vengono giocate sui campi di calcio. Il capolavoro è sintetizzato in una foto ormai introvabile, con il fascino giallastro delle immagini che uscivano dalle vecchie teletrasmittenti, scattata a Napoli durante un processo di trent’anni fa. Non un dibattimento qualsiasi, ma il primo vero maxiprocesso contro la camorra. C’è un fuoriclasse brasiliano piccolo e temibile, Juary, diventato celebre per i gol festeggiati ballando intorno alla bandierina del corner, che consegna una medaglia d’oro a un detenuto chiuso in gabbia. Non un detenuto qualsiasi, ma Raffaele Cutolo: «o Professore», il don Raffaele cantato da Fabrizio De André. Al fianco del carioca spicca la stazza di Antonio Sibilia, costruttore e presidente dell’Avellino: squadra protagonista di una decennale stagione miracolosa in serie A, mentre il patron si arricchiva con i cantieri per ricostruire l’Irpinia terremotata. Juary nulla sapeva delle mafie: «Chiesi a Sibilia dove mi stava portando, lui rispose: “Non sono fatti tuoi”. Mi ritrovai in un tribunale pieno di carabinieri». Il telecronista Rai che criticò quell’omaggio al padrino, Luigi Necco, fu affrontato da un commando di killer che gli spararono alle gambe, seguendo la moda criminale del gambizzare che in quegli anni univa terroristi e camorristi. Pallottole per punire un giornalista sportivo: nel mondo occidentale non era mai successo prima, non è mai accaduto dopo. Non era questione di sport. Per i pubblici ministeri il mandante dell’esecuzione era proprio Sibilia ma l’imprenditore è stato assolto dai giudici. Solo molto tempo dopo si è scoperto che Cutolo, grazie alla mediazione con i servizi segreti per ottenere il rilascio del leader democristiano campano Ciro Cirillo rapito dalle Brigate Rosse, aveva ottenuto il dominio su una fetta consistente delle opere del dopo sisma. Stato, politica, camorra, appalti, terrorismo: il tutto consacrato con quel tributo dell’attaccante brasiliano, che pochi anni più tardi nel Porto vinse la Coppa dei Campioni segnando la rete decisiva al Bayern Monaco. È la visibilità che conta. Pensate alla potenza dirompente di un solo striscione, esposto per pochi minuti nella curva del Palermo durante un match di serie A: «Uniti contro il 41 bis. Berlusconi dimentica la Sicilia». Quell’avvertimento mafioso contro il premier nel 2002 ha fatto irruzione nelle case di tutti gli italiani, segnalando la forza di Cosa Nostra. «Hai visto, ne parlano tutte le televisioni» è stato il commento compiaciuto di Giuseppe Urso, figlio del capoclan e cognato del padrino Cosimo Vernengo intercettato dalla polizia. Per protestare contro il carcere duro imposto ai boss, è stata sfruttata la platea mediática senza confini che solo il calcio può dare. Lo stesso meccanismo scelto dal proprietario dell’Akragas che, nel settembre 2009, ha dedicato una vittoria del campionato di Eccellenza a Nicola Ribisi, appena finito in manette come capo delle cosche di Palma di Montechiaro, il feudo mafioso dove venne deciso l’omicidio del «giudice ragazzino» Rosario Livatino. «Per me resta il mio amico Nicola, quello che tutte le domeniche era qui a sostenerci» ha insistito il patron per nulla intimorito dal clamore del suo gesto. Nel dicembre 2009 la Questura lo punisce, bandendolo dagli stadi per cinque anni. E allora tutta la squadra scende in campo con la foto del presidente stampata sulla maglietta. Akragas è un nome nobile, quello dell’antica Agrigento con i suoi templi dorici, quello evocato spesso da Luigi Pirandello, ma il team calcistico ha avuto una storia molto più turbolenta. Nel 1992 il presidente fu assassinato a colpi di lupara, due anni dopo l’Akragas è stato retrocesso d’ufficio per un tentativo di accordo sottobanco prima di un incontro con il Catanzaro. E però la squadra di un capoluogo di 60 mila abitanti che non ha esitato ad allinearsi con il suo presidente nella solidarietà al presunto capoclan. Perché c’è qualcosa ad Agrigento che conta più dello Stato e lo dimostra scendendo in campo, apertamente, secondo quella logica di potere che la vera mafia persegue da sempre: i boss si mostrano nella nuova piazza, quella del calcio. A San Luca, il paese dell’Aspromonte noto in tutto il mondo come capitale della ‘ndrangheta, hanno fatto la stessa cosa. Nel novembre 2009 hanno giocato con il lutto per la morte di Antonio Pelle. Un nome che compare nei dossier delle polizie di tutto il pianeta, citato anche nei rapporti per la strage di Duisburg che ha fatto scoprire all’Europa unita la ferocia della mafia calabrese. In passato Pelle è stato assolto nove volte grazie alla difesa di un avvocato eccezionale, Giovanni Leone, poi diventato presidente della Repubblica. Le forze dell’ordine lo indicavano come «La Mamma» e lo definivano uno dei grandi capi della Malapianta: dopo una condanna a ventisei anni di carcere è morto in ospedale per infarto. Gli è stato reso onore con quella fascia nera al braccio di tutti i calciatori. La reazione delle autorità sportive? Due giorni di squalifica, tre punti di penalizzazione e seicento euro di multa: tanto è costata una sfida plateale alle istituzioni. Tre dirigenti della squadra sono stati inibiti per alcuni mesi: i loro cognomi sono gli stessi delle tre famiglie criminali che dal borgo dell’Aspromonte dominano i traffici di droga in tre continenti. Poco più a nord, a Isola Capo Rizzuto, in campo era stato osservato un minuto di silenzio in memoria di Carmine Arena, cugino del presidente del team. L’arbitro ventenne ignorava chi fosse quella persona tanto stimata in città e ha concesso la commemorazione. Carmine Arena era stato assassinato la sera prima: la sua auto blindata è stata sventrata con un missile antitank, poi i killer gli hanno dato il colpo di grazia con una raffica di kalashnikov. Per gli investigatori il clan Arena è la forza emergente della ‘ndrangheta che dal Crotonese si espande verso la Padania. Anche in questo caso, la risposta della legalità è stata irrisoria: è stato punito l’arbitro, uno studente di ingegneria vittima della passione genuina per il fischietto. Ben più efficaci le punizioni inflitte dalla giustizia mafiosa. Al presidente del Gela che non voleva cedere il controllo della squadra, mandano un arbitro armato di calibro nove: nel settembre 1998 un killer lo aspetta fuori dai cancelli e gli spara. Il primo colpo centra le gambe, poi la pistola si inceppa impedendo di completare il verdetto. Per decifrare quell’agguato ci sono voluti dodici anni, fino a quando sette uomini del clan Emanuello sono finiti in cella: la Procura di Caltanissetta ritiene che il loro obiettivo fosse la Juveterranova, il club gelese che militava in C (attualmente in Prima Divisione col nome di Gela Calcio), popolarissimo nella città del petrolchimico. I boss vagheggiavano di andare molto più lontano, fino ad agganciare la grande Juve di Torino: uno dei presunti affiliati - un medico ricco e ben introdottosi vantava di poter parlare con Roberto Bettega, storico capitano bianconero. Padroni dei vivai. Tutti cercano di ritagliarsi un momento di gloria specchiandosi nel calcio. La foto di Marek Hamsik, la star slovacca del Napoli tornato grande, in compagnia di un camorrista vagamente somigliante a Mario Merola, è apparsa come un deprimente déjà vu. La copia triste delle immagini sfarzose e cafone di Diego Armando Maradona nella vasca a forma di conchiglia dei Giuliano, diventate un’icona nella biografia del Pibe de Oro. Oggi come allora, quegli scatti consacrano il prestigio di un boss: sono un simbolo riconosciuto universale, indiscutibile. Sono segnali che fanno presa soprattutto sui giovani, quelli che subiscono di più il fascino degli idoli in pantaloncini. Mettere le mani sul pallone per i boss è anche un modo di imporsi sulle generazioni future: una scuola di educazione criminale dove selezionare i più svegli, di gambe e di testa. Nel 2005 la denuncia di don Pino De Masi, il sacerdote calabrese che sull’Aspromonte vive l’apostolato della legalità, è stata lapidaria: «Molti presidenti di squadre sono mafiosi o mettono i loro uomini di fiducia a dirigerle. Prima o poi tanti ragazzi finiranno così al servizio delle cosche». Trovare i nomi non è difficile: la parrocchia di Polistena è circondata di palazzine costruite con i riscatti dei rapimenti. «Ci conosciamo tutti e sappiamo tutto di tutti nei nostri paesi, io dico solo quello che vedo e che possono vedere anche gli altri.» Le parole di don Pino hanno fatto muovere i quotidiani nazionali, ma sono state dimenticate in soli due giorni. Cinque anni dopo, i verbali di un pentito borghese hanno riproposto il tema delle giovanili, con una valenza ancora più insidiosa. L’avvocato Marcello Trapani, difensore dell’ultimo padrino di Palermo, Salvatore Lo Piccolo, è stato arrestato come uomo dei clan e ha cominciato a fare luce su una realtà ancora più inquinata all’ombra della serie A. Perché ai clan interessava soprattutto il vivaio: volevano imporre i loro rampolli, fargli indossare la maglia rosanero nobilitandosi agli occhi della comunità. E lucrare sul passaggio dei ragazzini da dilettanti a professionisti: una promozione che si trasforma in ingaggi con parecchi zeri. Al centro dell’inchiesta c’è uno dei responsabili del settore giovanile della squadra, che secondo l’avvocato frequentava più di un capoclan palermitano. Il collaboratore di giustizia presenta una situazione in cui i club storici della tifoseria rosanero subivano pesantemente l’influenza di Cosa Nostra e ricostruisce incontri tra dirigenti, sostenitori e uomini delle famiglie che contano: la principale merce di scambio sarebbero stati i biglietti omaggio concessi dal club, che alimentavano i giri del bagarinaggio. L’avvocato pentito parla in particolare dei boss di Porta Nuova Salvatore Milano e Nicola Ingarao, assassinato nel 2007: «Milano aveva sponsorizzato il figlio di Ingarao perché giocasse nel settore giovanile». Ma negli atti processuali esiste un caso di baby sponsorizzati molto più celebre e inquietante. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i mafiosi protagonisti della stagione stragista di Cosa Nostra che nel 1993 ha cambiato la storia d’Italia e ancora oggi capaci con i loro silenzi di condizionare il dibattito politico nazionale, vennero arrestati nel gennaio 1994 mentre stavano cenando in un ristorante di Milano con un signore palermitano ignoto ai mattinali delle forze dell’ordine. Inizialmente l’uomo mise a verbale una storia commovente: era lì per coronare il sogno del figlio, un promettente centravanti che voleva entrare nelle giovanili del Milan. Nel 1992 un commerciante del quartiere Brancaccio, che si vantava di conoscere Marcello Dell’Utri, riesce a fargli avere un appuntamento nella sede della società presieduta da Silvio Berlusconi e sostenere un provino. Il «pulcino» dimostra il suo talento ma per indossare la maglia serve la residenza in Lombardia e un lavoro per il padre. E Giuseppe Graviano avrebbe promesso: «Ho molte amicizie a Milano, potrei farlo entrare nel Milan, potrei comprarti un negozio oppure trovarti lavoro in un centro commerciale». Per i magistrati si sarebbe trattato di un market di Euromercato, all’epoca Standa, all’epoca Fininvest. Una piccola vicenda che si infila nel cuore delle trame più oscure, dribblando tra maxiprocessi e buchi neri istituzionali. Perché Dell’Utri inizialmente nega qualunque interessamento per il ragazzo venuto da Palermo in compagnia di sponsor capaci di far saltare in aria monumenti e persone anche in quella via Palestra nel cuore di Milano, a pochi metri dal quartier generale del senatore bibliofilo. Poi, di fronte a nuove rivelazioni e a un appunto scoperto dai carabinieri in una sua agenda, riconosce di essersi interessato per il provino del giovane. Curve, soldi e scommesse. Oltre al vivaio, c’è un altro settore dello stadio dove le cosche vanno in cerca di potere. Da Napoli a Lecce, da Catania a Reggio, il controllo sulla curva permette di ottenere risultati a catena. Permette di esercitare pressioni sulle società, condizionandone scelte e orientamenti. Permette di creare l’arena per nuovi business: da tempo le informative delle polizie segnalano come la ‘ndrangheta abbia messo gli occhi sugli ultra delle metropoli piemontesi e lombarde in cerca di una nuova leva per il traffico di droga e le estorsioni: dal tifo al proselitismo mafioso. Gli investigatori di Palermo ritengono che uomini di Cosa Nostra abbiano fondato club di supporter, dando veste ufficiale così alle pressioni sulla dirigenza rosanero. L’avvocato diventato prima criminale e poi pentito ha descritto un vertice tra due manager della società e due capiclan proprio per placare le proteste dei tifosi. E ha parlato di gelosie e liti interne alle famiglie per la linea da tenere allo stadio. Tanti giocano sporco negli stadi del Sud ma arbitri e spettatori, anche quelli della tribuna d’onore, preferiscono non guardare. Per aprire gli occhi basta sfogliare le conclusioni di un’inchiesta impressionante, che ha evidenziato quali siano gli obiettivi delle mafie in tutto il mondo. L’hanno realizzata gli ispettori dell’Ocse, l’Organizzazione mondiale per la cooperazione e lo sviluppo economico, che normalmente si occupano di tutt’altra materia: sono i vigilantes globali della finanza sporca con un acronimo da commandos: The Financial Action Task Force (Fatf) o, alla francese, Groupe d’action financière (Gaf). Il loro rapporto finale del luglio 2009 è un documento illuminante di cui, come spesso accade, tanti in Italia hanno parlato ma che pochissimi hanno letto. Secondo la task-force la porta in cui si vogliono infilare i clan non è rettangolare ma triangolare, perché triplice è la vulnerabilità del settore. È facile penetrare nei campionati, popolati di società fragili, manager senza professionalità, organismi di controllo deboli, legislazioni confuse e un sovrapporsi di interessi politici, economici e persino istituzionali. Ancora più debole è il sistema finanziario, che ingoia somme sempre più dilatate con oscure transazioni internazionali per la compravendita dei calciatori e costruzioni azionarie spericolate che si appoggiano su cataste di debiti: ricostruire le sorgenti dei fondi è sempre più difficile. In pratica, il campo di calcio è la terra promessa del riciclaggio, che cavalca soprattutto le compravendite senza frontiere di campioni e club a cifre stratosferiche. C’è poi la «cultura» trasversale e ben disposta verso l’illecito serra fertile per le radici delle cosche. che rende il terreno di gioco una Nonostante il monumentale lavoro svolto dai tecnici dell’Ocse in cinque continenti, il loro testo cita un solo caso di squadra importante finita nelle mire dei boss: l’operazione casalese per mettere le mani sulla Lazio, svelata proprio da Raffaele Cantone. Quasi il paradigma della rete dove è difficile distinguere i quattrini delle cosche da quelli dell’evasione fiscale. Nella storia italiana questo mix di trame si è incrociato sul confine di Chiasso negli uffici di una finanziaria attivissima all’inizio degli anni Novanta. Si chiamava Fimo e secondo le indagini apriva i forzieri a quattrini d’ogni provenienza. I narcodollari con cui la famiglia Madonia pagava la cocaina colombiana, le tangenti dei politici della Prima Repubblica, i capitali sottratti all’erario e i pagamenti in nero per la compravendita dei calciatori. Secondo i giudici di lì sono passati anche i versamenti paralleli concordati dal Milan di Adriano Galliani per l’acquisto di Gianluigi Lentini, il campione di origine palermitana che per un paio d’anni, prima dell’incidente automobilistico del 1993 che ne ha condizionato la carriera, è stato protagonista anche in nazionale. Vecchie storie? Oggi i pagamenti telematici hanno reso obsoleti gli spalloni che fisicamente portavano in Svizzera le valigette piene di banconote. E l’informatica ha aperto prospettive inimmaginabili per uno dei grandi business che orbitano intorno al calcio: quello delle scommesse, legalizzate nel nostro paese per la gioia dell’erario e rese globali dal web, che ha ridotto i confini tra lecito e illecito. Un’occasione fin troppo ghiotta per riciclare soldi opachi e trasformare gli intrallazzi in vincita. Nel 2008 le prime due operazioni «Soga» condotte dall’Interpol contro la grande rete delle giocate clandestine in Asia, spesso concentrate sui campionati europei, hanno fatto finire agli arresti 1700 persone e sequestrare puntate per 700 milioni di dollari. Poca cosa rispetto a una torta colossale: secondo il Censis in Italia ogni anno il solo gioco illegale inghiotte tra 4,5 e 6 miliardi di euro. A Palermo lo hanno intuito e da anni le nuove cosche borghesi investono nelle società del gioco senza frontiere; a Napoli in maniera più tradizionale la scorsa estate sono andate a ruba le puntate vecchia maniera sui mondiali sudafricani. Quando trent’anni fa il primo scandalo del calcioscommesse travolse il campionato, sbattendo in B squadre blasonate e star a nove zeri, la presenza dei clan campani nelle combine era marginale. Ma nel nuovo millennio le indagini sulle giocate sporche della camorra accendono la miccia che in pochi mesi di intercettazioni fa esplodere Calciopoli e mette a nudo il sistema Moggi. L’underworld, il mondo criminale, non può restare indifferente al fiume di soldi che scorre intorno alle ricevitorie fisiche o virtuali: si possono intascare cifre folli pilotando l’esito di una partita o persino, grazie ai nuovi meccanismi delle puntate, solo del primo tempo di un incontro. L’istruttoria più recente mostra anche come l’ultima delle mafie italiane, i cosiddetti «basilischi» lucani, voleva ritagliarsi un posto in area di rigore. Le intercettazioni sul giovanissimo patron del Potenza, implicato nelle scommesse, hanno evidenziato accordi verbali per match di serie B e C, allungando il sospetto anche sul risultato di un Atalanta-Livorno. È un gioco fin troppo facile: come ha sottolineato il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, per falsare le cose «non c’è bisogno di corrompere i calciatori. Se una squadra scende in campo con le riserve è una squadra indebolita, che può far saltare tutti i pronostici». Un racconto poco edificante viene dalle telefonate di Giuseppe Sculli, suo malgrado un simbolo della passione calcistica delle cosche. È nipote di un vero padrino: Giuseppe «Tiradritto» Morabito, forse il capo più autorevole delle famiglie calabresi, rimasto latitante per dodici anni. Proprio per cercare di catturare il nonno, nel 2002 i carabinieri del Ros hanno pedinato Sculli nella sua ascesa al Gotha del pallone, che l’ha visto indossare anche la maglia della nazionale under 21: i militari lo hanno marcato a uomo. E i nastri dispensano lezioni di mentalità mafiosa applicata al football: le regole di sempre, ossia la difesa del potere personale a danno di qualunque altro interesse. Il rapporto dell’Arma al pm Nicola Gratteri sulla partita Crotone-Messina del 2002 è un manuale di criminalità calcistica. Il match era insignificante per i calabresi, già retrocessi in C, ma determinante per la permanenza dei siciliani in B. Per questo la società dello Stretto - stando al dossier investigativo - aveva intrecciato una doppia combine, concordando i risultati dello scontro con il Crotone e di un’altra partita determinante per la classifica. Ma il comportamento in campo di Sculli appare sorprendente e discontinuo. Nel primo tempo le cronache lo descrivono come inarrestabile: segna il gol del pareggio, che a quel punto condanna il Messina al calvario della serie C. Nella ripresa, invece, toglie la palla a un compagno incaricato di battere la punizione decisiva e lui, sicuramente non considerato uno specialista di questi tiri, la fa finire fuori. Le ragioni di quel penalty sorprendente le spiega lo stesso calciatore in una conversazione con la fidanzata: «Perché c’era un “ventello”. Se batteva l’altro faceva gol e io perdevo i venti… il ventello. Ti compro un bel telefonino, amore». I carabinieri sono convinti che tra il primo e il secondo tempo sia cambiato tutto. L’analisi delle telefonate tra Sculli e un calciatore del Messina con un altro cognome che conta nella ‘ndrangheta, sembrano tratteggiare accordi tra i presidenti dei due club per salvare i siciliani. Patti che - stando ai militari non sarebbero piaciuti al campioncino, in cerca di un tornaconto personale. Il suo gol, infatti, è una sentenza che non lascia dubbi. E che nell’intervallo provoca la furia di tutti gli altri. Sculli ricostruisce la rissa in una telefonata con il cugino: «Con il loro capitano ho litigato. Mi ha detto “Tu non sei un uomo d’onore”. A me! Gli ho risposto: “Non permetterti di dirlo più, perché ti aspetto fuori e ti do una passata di botte, porcheria”. Un macello è successo, poi ho litigato con un dirigente, gli ho sparato un pugno alla testa». Un maestro di fair play, con effetti concreti. Il cugino gli chiede: «Ma i capicolli li hanno portati?». «Minchia se li hanno portati, ne hanno portati quattro!». La vicenda non ha avuto ripercussioni penali, realmente per «capicolli» resta un mistero. mentre che cosa s’intendesse Quelle frasi registrate dai carabinieri sono però il segno di come la mentalità mafiosa sia entrata negli spogliatoi, contagiando tutto. E trasformando gran parte del calcio meridionale in un corpo ammorbato, dal quale le persone sane si tengono lontane per paura di infettarsi: una quarantena che rischia di soffocare lo sport più popolare nelle regioni da Roma in giù. Certo, ma se ci sono padrini tifosi che dispongono di capitali immensi perché non li investono nel pallone? Una piccola parte dei tesori dei clan calabresi o campani potrebbe finanziare campagne acquisti di grido e trasformare squadre meridionali in macchine da gol. Invece non accade nulla del genere, anzi: al Sud si vince sempre di meno. E questo avviene anche perché i boss sono parassiti: pensano a rubare la palla, non a segnare. Il dossier dell’Ocse usa un termine meraviglioso per sintetizzare il rapporto tra le mafie e il calcio: «Sugar Daddy», letteralmente, «lo zucchero di Papi». È il nomignolo del regalo che un uomo fa all’amante per portarsela a letto, il contentino per una storia che non sarà mai seria perché il maschio non si impegnerà mai in quella relazione, destinata a rimanere senza futuro. E in fondo anche le mafie si comportano così: non hanno intenzioni serie, non investono nel pallone. Lo usano e poi lo buttano via. La vera partita dei clan. Ma se con il calcio si finisce per perdere denaro, perché le mafie hanno tanto interesse per il pallone? È una questione di passione, per la quale sono pronti a dimenticare la logica del profitto? Oppure loro? negli stadi cercano di vincere una partita diversa, giocando a modo Anzitutto alle mafie il calcio interessa perché muove molto denaro. Prendiamo un fenomeno spesso sottovalutato come il bagarinaggio, che per le partite che riguardano i grandi club significa far girare tanti quattrini: la presenza della camorra nella vendita parallela di biglietti c’è sempre stata. A Napoli, soprattutto negli anni Ottanta-Novanta quando la squadra andava alla grande e non c’erano ancora i biglietti nominativi, gli uomini dei clan erano al centro del bagarinaggio. Oggi probabilmente il commercio si è molto ridotto ma, biglietti nominativi o no, basta andare una domenica al San Paolo per verificare che il fenomeno non è ancora del tutto sepolto. Poi c’è il mercato del falso che si infila nel merchandising: magliette, bandiere, sciarpe, gagliardetti con il logo ufficiale ma senza pagare diritti. È un business ricco per squadre come il Napoli che hanno una tifoseria convinta anche tra gli emigrati e gli oriundi. E posso immaginare che dove ci siano altre squadre meridionali di serie A le cosche abbiano agito alla stessa maniera, lucrando sui simboli più amati dai tifosi. Quindi si tratta di un interesse soprattutto economico? Bagarinaggio e sfruttamento clandestino del marchio possono funzionare soltanto dove ci sono società di serie A che conquistano buoni risultati e hanno un pubblico vasto, mentre a sud di Roma le squadre del massimo campionato sono sempre di meno. Non si fanno certo i soldi vendendo biglietti della Cavese o maglie contraffatte della Reggina… No, infatti: la questione principale è sempre il consenso. La criminalità sa che il calcio è lo strumento migliore per costruire un legame con la popolazione. Se il grande imprenditore alla Berlusconi, alla Cragnotti, alla Tanzi si occupa di football senza quasi mai guadagnarci è perché si aspetta un ritorno di tipo diverso. Un industriale punta alla pubblicità per le sue aziende e all’opportunità di allacciare rapporti a 360 gradi. E anche le mafie cercano nel calcio un doppio risultato. Lo usano per creare un fortissimo rapporto con la città e con i suoi abitanti, perché in alcuni centri del Sud il pallone è l’unica realtà di svago, la sola intorno a cui si ritrovi l’intera cittadinanza. E poi perché il calcio permette di aprire le porte delle istituzioni e intrecciare con il pretesto del pallone tutta una serie di contatti con le autorità. Prendiamo il caso della Mondragonese, la squadra di uno dei centri più importanti della provincia di Caserta su cui ho condotto indagini: il tentativo di avvicinamento da parte del capo del clan al politico più noto di quella zona avviene proprio tramite lo stadio e utilizzando il ruolo di gestore e dominus della società calcistica. La società è nelle mani della cosca e il suo reggente utilizza l’occasione offerta dalla squadra per incontrare il parlamentare, destinato poi nel 2005 a diventare ministro nel governo Berlusconi, e cercare di discutere anche di altro. Si tratta di un contatto che non ha alcun seguito, anche perché il boss a distanza di non molto tempo verrà ammazzato, ma resta il dato: la gestione della società calcistica offre l’occasione propizia. Quindi la porta dove vogliono segnare non è quella dell’avversario, ma quella dei palazzi che contano. Vogliono avvicinare politici, imprenditori, funzionari delle istituzioni: uniti dal tifo o dall’interesse comune nello sfruttare la platea degli stadi. Perché il calcio permette di raggiungere tutte le classi sociali: dall’ultimo scugnizzo al professionista di grido. Certamente, è il modo per avvicinarsi a settori e ambienti dove non sei presente e non verresti accettato. Prendiamo un esempio celebre: Diego Armando Maradona che si fa fotografare nella vasca della casa del boss Giuliano. L’abitazione dei Giuliano è la classica casa del camorrista, che anche dopo essersi arricchito continua a vivere in un quartiere degradato. Malgrado fossero diventati una potenza economica, i padroni di Forcella restano nei vicoli decrepiti del centro storico di Napoli, anche se il palazzo, che dall’esterno sembra una catapecchia, all’interno mostra un lusso e uno sfarzo all’altezza del rango del boss. Portare Maradona in quelle zone e farlo vedere significa ospitare il Padreterno nei vicoli dove nessuno vuole andare, è il massimo sfoggio di potere che si possa immaginare in quel momento: quelle fotografie sono state lo zenit del dominio camorristico dei Giuliano, che riuscivano così a portare Maradona non in una villa di Posillipo dall’aria borghese di un qualunque imprenditore o professionista della Napoli bene, ma lì dove mai altrimenti si sarebbe recato. Quello era il modo di mostrare la propria forza al territorio e di conquistarne la venerazione. Già, sono passati vent’anni ma la situazione non sembra cambiata: anche oggi ci sono campioni che si fanno fotografare sottobraccio ai boss. Gli scatti di Marek Hamsik, attaccante slovacco del Napoli, accanto a un camorrista sono recentissimi e deprimenti. Tutto è come prima? Magari fosse così… Invece le foto di Hamsik dimostrano che la situazione è addirittura peggiorata. Oggi il proprietario del Napoli, De Laurentiis, ha fatto di tutto per rendere difficili i contatti tra la squadra e la malavita. Per esempio gli allenamenti non si tengono più nel campo di Soccavo, immerso nella periferia più violenta, ma in un centro sportivo sul litorale domizio, una struttura assolutamente blindata. Io sono andato ad assistere agli allenamenti assieme a mio figlio, che sognava di farsi fotografare accanto ai suoi idoli. Le procedure di controllo sono diventate rigide e rigorose. E stato difficile anche per me che sono un magistrato ottenere il permesso di presenziare a un allenamento e accompagnare mio figlio. Le foto che ha voluto per il suo ragazzo dimostrano come la passione per il pallone contagi ceti sociali molto diversi: dal camorrista al pubblico ministero antimafia, tutti hanno un figlio da accontentare e amici con cui discutere del campionato. Questo ci aiuta a capire quanto fascino esercitino sugli affiliati immagini del genere: una volta ci tenevano a mostrarsi alla folla nella processione trasportando la statua del patrono, adesso vogliono l’icona del goleador. Certo, io volevo solo accontentare mio figlio Hamsik in fondo è uno strumento di potere. mentre per il boss la foto con Quella foto è comunque un modo di mostrarsi superiore e imporre un’immagine di vincente. Anche se non riesci a portarlo nella tua casa, come avevano fatto i Giuliano con Maradona, metti la foto in bella vista e fai vedere a tutti affiliati o persone che entrano occasionalmente in rapporto con teche tu sei potente perché puoi arrivare fino al campione. Maradona era «un poco di buono»: un genio del pallone e un maestro di sregolatezza nella vita diventato leggenda. Hamsik èIln’altra storia, non c’entra nulla con il sottobosco di orge e droga dove campioni e camorristi si incontravano negli anni Ottanta. Perché più di vent’anni dopo l’attaccante va dal boss? Proprio la profonda diversità tra Maradona e Hamsik testimonia come le nuove foto siano addirittura più preoccupanti rispetto al passato. Maradona era il re di Napoli, frequentava la strada; Hamsik è notoriamente un bravo ragazzo, non ha giri di cocaina o festini da condividere con i camorristi, eppure il boss è riuscito lo stesso ad avvicinarlo. Il personaggio, che oserei definire quasi lombrosiano, ritratto accanto a lui ispirerebbe sospetto a chiunque, ma il calciatore invece lo ha in qualche modo incontrato, non si sa tramite chi e in quale occasione, probabilmente pubblica. Questo dimostra che i camorristi riescono comunque ad arrivare ai giocatori più importanti. E questo, lo ripeto, aumenta il prestigio del boss: la foto è il santino da fare vedere agli altri, che ispira ammirazione e rispetto. Il calciatore viene mostrato per ottenere un riconoscimento: farsi vedere insieme a lui è come fregiarsi di una patente universale, è un modo di ostentare la propria supremazia. Quando il brasiliano Juary è stato accompagnato nell’aula della Corte d’assise non aveva nessuna idea di chi fosse Roberto Cutolo e probabilmente Hamsik non sa chi sia quell’uomo che lo abbraccia. Ma è questa ricerca di popolarità che spinge la camorra a prendere anche la gestione di intere società calcistiche? Io ho conosciuto, direttamente per avere svolto indagini o indirettamente per aver consultato atti, le vicende, relative a due società della provincia di Caserta, la Mondragonese e l’Albanova, la squadra di Casal di Principe. Quello della Mondragonese è un caso di controllo diretto della squadra, anche se non è mai arrivata a grandi livelli: si è fermata solo alla serie D. Non bisogna guardare in modo riduttivo alle serie minori: chi vive in provincia sa quanta importanza hanno e quante attenzioni ricevono. D’altronde era un’operazione condotta dai La Torre, un clan ai margini della galassia casalese. L’operazione viene fatta da Renato Pagliuca: uno che non spara, uno che fa parte del clan ma ha sempre un atteggiamento borderline, tiene un piede dentro la camorra e uno fuori. Quando nel 1991 tutti gli uomini dei La Torre vengono arrestati, lui riesce a farsi scarcerare e diventa il gestore dell’organizzazione criminale per conto del padrino detenuto. Pagliuca aveva una vera passione per il calcio anche perché il figlio era un discreto giocatore, alla cui carriera teneva moltissimo. Ma il reggente del clan capisce che la Mondragonese può essere uno strumento importante per realizzare i suoi piani. Quella che emerge poi dalle indagini è una situazione paradossale: Pagliuca, invece di fare le estorsioni, in alcuni casi imponeva agli imprenditori di sponsorizzare la squadra e finanziarla, dirottando così soldi destinati alla cassa comune della cosca nell’attività della Mondragonese. A differenza degli altri esponenti del sodalizio, Pagliuca si rende conto che la squadra è uno strumento per aumentare il suo prestigio personale, costruendo una rete di relazioni che gli altri boss non hanno: lui è la faccia più presentabile del clan e la squadra può essere il trampolino di lancio per creargli entrature non solo locali ma anche contatti esterni con altri ambienti. Il football come strumento per conquistare prestigio all’esterno attraverso questo, scalare il vertice della famiglia camorrista. Una partita doppia, verrebbe da dire. e anche, Ma anche una forma di doppio gioco, che gli è costato la vita. Pagliuca è stato assassinato nel 1995 in un omicidio poco camorrista e molto più in stile mafioso. Gli sparano nella notte dell’Assunta mentre è seduto ai tavolini di un bar con moglie e figli nella serata dei festeggiamenti per la Vergine, una celebrazione molto sentita a Mondragone, con le strade piene di luminarie e i fuochi d’artificio. Pagliuca si sta mostrando sulla pubblica via quando si avvicinano due sicari e sparano a bruciapelo in mezzo alla folla: sono modalità da Cosa Nostra. Secondo la ricostruzione delle indagini, il clan fa poi sapere ai familiari che erano stati i casalesi a uccidere ma in realtà l’esecuzione era stata organizzata proprio da Augusto La Torre, il suo vecchio amico di infanzia. Il padrino in quelle settimane è in carcere e si prepara a tornare in libertà quando comincia a ricevere una serie di messaggi allarmanti, anche da sua moglie: gli dicono che Pagliuca si sta comportando male, che sta pensando solo al pallone, che tramite la squadra sta cercando di darsi un’immagine diversa, un’immagine da vero capo. Altri affiliati informano il boss e dicono che Pagliuca ruba, che spende i soldi del clan per la Mondragonese, che pensa solo a se stesso. Ed è forse vero, lui con il calcio sperava di fare il salto di qualità e impadronirsi della guida della famiglia, trasformarsi da reggente in padrino. I successi della squadra sotto la sua direzione lo avevano reso molto popolare e benvoluto in città: infatti la parabola della Mondragonese dopo di lui comincia a precipitare. Questo però non veniva accettato dal clan, che vedeva il calcio come uno spreco. Ai La Torre non interessava investire nel calcio o temevano che questa strategia fosse esclusivamente finalizzata ai disegni di potere di Pagliuca? I boss sanno che con il calcio si perdono soldi. Pagliuca invece utilizza denari e relazioni del clan per sostenere la squadra. Rispetto a La Torre aveva una mentalità più mafiosa che camorristica: usava la violenza come estrema risorsa, costruiva la sua autorità sul rispetto. Ma non bisogna aspettarsi un colletto bianco: era comunque un camorrista, riconoscibile come tale. Secondo le indagini fatte a distanza di anni, dei tantissimi omicidi commessi dal clan La Torre - sicuramente il gruppo più sanguinario fra i casertani - lui partecipa direttamente solo a due di questi delitti e forse in un’unica occasione spara, anche se non ha nessuna difficoltà a ordinare l’omicidio di uno dei suoi migliori amici, per diventare il gestore unico del sodalizio. Quando nel 1991 tutto il clan finisce in cella, soltanto due esponenti di spicco riescono a farsi scarcerare: Fernando Brodella e, appunto, Pagliuca. Il capo appare subito Brodella, figura molto più operativa, uomo di pistola, che comincia ad accrescere il suo potere anche con la violenza e a creare accanto a sé un gruppo di fedelissimi. Allora dal carcere Augusto La Torre si serve di Pagliuca per eliminare Brodella: toglie di mezzo il soggetto militarmente più capace e affida la reggenza a un personaggio come Pagliuca che non gli fa paura. E Pagliuca ci tiene a mostrare da subito come sia diverso dal suo predecessore. E la squadra di calcio è uno dei mezzi per manifestarlo. Attraverso i suoi modi felpati e il calcio crea le condizioni per diventare riferimento di altri settori della città, contatta politici e imprenditori. Fino a quando il padrino non decide di tirare fuori il cartellino rosso a modo suo. L’Albanova dei successi invece scendeva nel campo di Casal di Principe, che prima di Gomorra non era ancora nota come capitale dei casalesi ma già all’epoca era il cuore nero di un distretto con il terribile primato mondiale di omicidi. Partiamo dal nome: Albanova venne scelto da Benito Mussolini quando rase al suolo le realtà di Casal di Principe e San Cipriano d’Aversa dove c’era il banditismo, parente molto prossimo della camorra che già infestava la zona a ridosso del mare detta dei Mazzoni; il gruppo criminale aveva già una struttura simile alla camorra napoletana ed anche se unico gruppo non organizzativa. era collegato ai capintesta napoletano aveva una della metropoli sua autonomia Il fascismo con i suoi metodi bonifica il territorio dalla palude e dai briganti; è famosa la frase di Mussolini con cui dà incarico di fare «piazza pulita»: «Liberatemi di questa delinquenza col ferro e col fuoco». A spazzarli via fu un maggiore dei carabinieri che, come ho letto di recente, veniva proprio da Giugliano, il mio paese. Albanova era un nome nuovo, per recuperare la tradizione romana, ma era un modo chiarissimo per dimostrare come si fosse voltata pagina rispetto al predominio della malvivenza. Dopo la guerra, la città di Albanova scompare: ritornano Casal di Principe, San Cipriano d’Aversa e poi da quest’ultimo si stacca un pezzo di paese che diviene Casapesenna, il triangolo del potere casalese: il toponimo sopravvive solo nel team di football, che non mette a segno grandi risultati. Poi nel 1994-95 viene ripescato in C2 squadre vengono radiate per problemi in modo un po’ rocambolesco: molte economici e l’Albanova riesce a salire. L’anno dopo arriva in semifinale dei play-off, nel ‘96 entra nella finale play-off e solo nel ‘98 comincia una discesa irreversibile. Sono date importanti: quelli sono stati gli anni di massimo potere dei casalesi e della famiglia Schiavone. Quindi l’Albanova è direttamente posseduta da Francesco «Sandokan» Schiavone, il capo più importante e temuto della camorra casalese? Perché gli Schiavone entrano in campo: lo fanno per passione o anche in questo caso perseguivano un disegno criminale più ampio? I camorristi non hanno il controllo formale né incarichi direttivi nella squadra: non ne hanno bisogno. Indipendentemente dal presidente, tutti sul territorio sanno che l’Albanova è dei casalesi. I vari pentiti del clan hanno parlato a lungo della squadra e hanno spiegato che il vero dominus era Walter Schiavone, a cui il fratello Francesco detto «Sandokan» l’aveva affidata, sia come una sorta di contentino sia evidentemente perché s’intendeva di calcio. Del resto era proprio Walter Schiavone l’animatore del club di tifosi del Napoli, nella cui sede di Casal di Principe si riunivano spesso gli affiliati al clan: fu proprio da quella sede che uscirono gli uomini della famiglia per recarsi nella vicina sezione del Pds e contestare Antonio Bassolino, non ancora in grisaglia come sindaco, ministro e governatore pubblico, ma interessato ai temi dell’antimafia. In quel club di tifosi si tenne una riunione «politica», di cui pure parlano i pentiti, che vide protagonista l’avvocato Alfonso Martucci, l’uomo che portò il Partito liberale a Casal di Principe al 30 per cento dei voti. Al vertice della società di calcio c’era Dante Passarelli, un imprenditore tra i più importanti del Casertano, che all’epoca ha uno dei più grossi zuccherifici dell’Italia meridionale e una società che gestisce gli appalti per gran parte delle mense delle scuole e degli ospedali delle province di Napoli e Caserta, appalti che secondo i collaboratori di giustizia sarebbero stati vinti grazie agli interventi del clan. Più tardi le inchieste hanno svelato i suoi rapporti con la camorra e fatto scattare il sequestro del suo vastissimo patrimonio immobiliare e societario. Passarelli è poi morto in modo strano a distanza di anni: alla vigilia del processo Spartacus precipita dal tetto della sua abitazione e il decesso viene classificato come suicidio; così, in assenza di una condanna, i suoi eredi poi ottengono la restituzione della maggioranza dei beni. Ma tra i dirigenti dell’Albanova c’è stato anche Mario Natale: un politico, tra i fondatori del Pd a Casal di Principe, anche lui negli ultimi anni raggiunto da indagini giudiziarie per i legami con il clan. E un ruolo di vertice ha avuto anche Sebastiano Ferrara, parente della famiglia che all’epoca era protagonista dell’affare dei rifiuti, ossia il settore che dava più ricchezza alla mafia campana. In pratica, è più di un sospetto che l’Albanova sia servita ai casalesi come strumento per coinvolgere uomini che contavano nella politica e nell’imprenditoria casertana. Ma tutti sapevano chi fossero i veri padroni: in un giornale locale - sembra una barzelletta ma è una dolorosa verità - venne pubblicata una lettera di un tifoso dell’Albanova che inneggiava al fatto che al vertice della squadra fosse arrivato un importante imprenditore, Francesco Schiavone, cioè Sandokan. Ma quindi allo stadio si come tifare per il clan? tifava «Forza Sandokan»: sostenere l’Albanova era Quante persone seguivano il calcio in una cittadina come Casal di Principe? In quel periodo lo stadio si riempiva: c’erano 2000-2500 spettatori sugli spalti. Il calcio era anche il riferimento attraverso il quale gli Schiavone puntavano a darsi una nuova immagine. Non solo investivano la forza del clan nella squadra, ma ottenevano anche risultati mai visti prima; erano potenti e vincenti. E il messaggio dallo stadio arrivava in tutto l’Agro aversano: Casal di Principe è al centro di un comprensorio molto vasto, con oltre 150 mila abitanti, e quando si è disputata la finale dei play-off di C2 il pubblico è arrivato a quasi cinquemila persone. I successi sono finiti quando è finita la libertà degli Schiavone: con gli arresti di Sandokan e degli altri capi sono spariti pure i gol. Quanto denaro avevano investito i camorristi nell’Albanova? Creare questo doppio legame con il pubblico e con gli esponenti di punta del sistema economico-politico aveva avuto un costo rilevante? Non sono in grado di indicare cifre e non so se quelle indicate nei bilanci fossero veritiere. Ma non era tanto importante l’esborso diretto quanto il peso dei casalesi nello spingere gli imprenditori a mettere i capitali nell’Albanova. Passarelli era un uomo in grado di movimentare interessi economici forti, un imprenditore con i più importanti appalti pubblici di ristorazione nelle mense scolastiche: il calcio era un viatico anche per i suoi affari. Gli Schiavone lo fanno entrare nella squadra garantendo un ritorno di immagine per lui e per il clan. Operazione Lazio. La scalata camorristica alla Lazio invece è un salto di qualità: l’unico caso nel mondo occidentale di una società di serie A finita nel mirino della criminalità organizzata. Anche il rapporto mondiale dell’Ocse la cita come riferimento: un modello di infiltrazione mafiosa nel grande gioco, quello dei canali satellitari, quello che aspira alla Champions. Come è nata la vostra indagine? L’inchiesta sulla Lazio nasce dai rifiuti, il crocevia degli scandali e del potere in Campania negli ultimi quindici anni. Con la Guardia di Finanza della piccola tenenza di Mondragone, il collega Alessandro Milita e io stavamo indagando sul consorzio Ce4 (Caserta 4) e sulla società mista da esso dipendente Eco4, che faceva capo ai fratelli Michele e Sergio Orsi. Si trattava certamente di uno dei consorzi per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti più importanti della provincia di Caserta e secondo i pentiti in stretto legame con i casalesi. Fra i soggetti indagati rivestiva un ruolo di primo piano Giuseppe Diana, titolare di alcuni depositi per la vendita di gas in provincia di Caserta e sul litorale domizio, a Grazzanise e Mondragone: zone soggette al dominio dei casalesi. In particolare, la sua azienda, la Diana Gas, aveva assorbito la società di un uomo legato al clan La Torre, un uomo che proprio in virtù dell’accordo con il boss aveva impiantato il deposito delle bombole e cominciato a ottenere forniture di gas alla pubblica amministrazione Giuseppe Diana era cognato di uno dei fratelli Orsi e secondo i pentiti era stato scelto dal clan come il postino del pizzo: si occupava di far avere la quota di denaro che gli Orsi pagavano ai La Torre, in quanto fra i Comuni di cui la società si occupava c’era pure Mondragone. Questo background aiuta a capire il livello del personaggio che voleva comprare la Lazio: non stiamo parlando di un colletto bianco, ma di un imprenditore che non disdegna di doversi occupare di vicende certo non tipiche di un miliardario. Del resto, nei depositi di gas di Diana si erano accertate situazioni a dir poco strane. Il custode del deposito è uno dei fratelli Bova, organici al clan La Torre e infatti successivamente arrestati e condannati. Nel 2000, all’interno degli uffici della società i carabinieri di Caserta arrestano due fra i più importanti esponenti del clan La Torre all’epoca latitanti, e cioè Peppe Fragnoli ed Ernesto Cornacchia. Quando i carabinieri intervengono, verificano come negli uffici fossero stati messi letti e brandine per dormire e sequestrano anche varie armi di grosso calibro in possesso dei latitanti. Certo la prova che il proprietario sapesse chi la notte utilizzava il suo deposito non c’era, ma la scelta del custode, uomo di fiducia dei La Torre, non poteva essere un fatto neutro. Insomma, stiamo parlando di un uomo che non ha certo il curriculum che ti aspetti per diventare l’azionista chiave della Lazio. Niente male: una squadra di serie A, che da poco aveva vinto lo scudetto, rischiava di finire nelle mani di un uomo che andava fisicamente a ritirare la quota del racket sui rifiuti destinata ai La Torre e dava rifugio ai latitanti di camorra nel suo ufficio. Se non lo aveste fermato, sarebbe arrivato nella tribuna d’onore dell’Olimpico, accanto alle massime autorità dello Stato e alle personalità più note di Roma. Ma come lo avete scoperto? Come spesso accade, sono state fondamentali le intercettazioni. Mentre ci stiamo occupando di rifiuti, emerge la storia della Lazio. Diana ha rapporti con alcuni faccendieri romani e con essi discute di soldi che devono tornare dall’Ungheria; si parla di un finanziere magiaro collegato al settore siderurgico e di 24 milioni di euro, che non si capisce da dove vengano e a chi appartengano realmente. Fra i modi più sicuri per riportare i fondi in Italia viene subito individuato l’investimento nel calcio. Per prima cosa studiano come comprare il Lanciano, una società abruzzese di CI, e mettono in campo una serie di prestanome per tentare l’acquisto. Ma uno dei faccendieri alza il tiro. Sostiene di potere avvicinare Giorgio Chinaglia, dice di conoscerlo bene, ipotizza di affidare i soldi in rientro dall’Ungheria a Chinaglia: con quei fondi l’ex campione biancoazzurro può comprare la Lazio. Non si capisce bene se dopo i soldi sarebbero stati restituiti o se Chinaglia avrebbe fatto in modo di far entrare il Diana o altri nella gestione della società laziale. Un’operazione che sa di fantascienza. Riciclare milioni di euro irrompendo nella serie A, entrando nel cuore di una delle squadre di Roma che ha una tifoseria qualificata nei salotti della capitale ‘ e nei palazzi del potere. Negli atti dell’inchiesta romana si racconta come il giorno prima della vostra perquisizione i referenti di Diana avessero incontrato Vallora ministro delle Politiche agricole Gianni Alemanno per discutere del futuro della incredibile. Lazio: una trama che ancora adesso continua a sembrare La vicenda è molto complessa. Dopo avere scoperto l’operazione disponemmo delle perquisizioni per trovare, in tutto o in parte, la provvista economica. Fu il nostro intervento che probabilmente fece saltare l’operazione. Dopo le perquisizioni siamo venuti a sapere che c’era un’indagine della Procura di Roma, a cui abbiamo inviato alcuni dei nostri atti. Essi confluirono in un più vasto filone già seguito dai pm romani che chiesero e ottennero un’ordinanza cautelare. Nel provvedimento emesso dal Gip Guglielmo Muntoni di Roma si descrivono gruppi di tifosi vicini all’estrema destra che, con il nuovo presidente Lotito, non riescono più a fare affari con il merchandising; faccendieri della capitale interessati all’indotto che gira intorno al calcio, giornalisti prezzolati per aizzare i tifosi e condizionare la società. E poi Chinaglia, la cui immagine è davvero la più indecifrabile. Io lo ricordo bene Chinaglia da giocatore: «Giorgione» o «Long John», un centravanti di sfondamento di una Lazio sugli scudi. Da bambino ero andato con mio zio a vedere il Napoli a Roma contro la Lazio, che era quella di Chinaglia e di Wilson; ero entusiasta di poter entrare in una sorta di tempio del calcio qual era l’Olimpico, ma mi incuriosiva molto proprio poter vedere più da vicino un mito come Chinaglia. Poi, all’apice della carriera, aveva deciso di andare a giocare negli Usa, nella squadra dei Cosmos, che aveva anche acquistato il leggendario Pelè per tentare di lanciare il calcio negli States. Chi l’avrebbe mai immaginato che mi sarei imbattuto in Chinaglia in un’altra veste: adesso è ancora negli Stati Uniti, formalmente latitante. Ventiquattro milioni cash sono una riserva di denaro molto importante. Secondo le indagini, i referenti di Diana li avevano investiti in Ungheria in attività non meglio identificate. Ma siete riusciti a dimostrare che quel denaro era dei casalesi? La prova certa che il denaro fosse del clan non è emersa, ma tanti sospetti sì: Giuseppe Diana di sicuro non aveva attività imprenditoriali che giustificassero tutte quelle riserve economiche; aveva rapporti documentati con personaggi legati ai casalesi; è parente dei fratelli Orsi che hanno gestito il più importante affare dei rifiuti e secondo i pentiti lo hanno fatto per conto dei casalesi. Michele Orsi, non lo dimentichiamo, è stato assassinato dai killer nel giugno 2008, vittima eccellente della stagione di morte messa a segno da Giuseppe Setola «o Cecato». Diana resta un personaggio difficile da inquadrare; su richiesta della Procura di Napoli è stato arrestato per concorso in estorsione ma non per associazione mafiosa. Ma ciò che mi sembra interessante rimarcare è che dagli atti di indagine effettuati dalla Procura di Roma emergeva un dato che sembrava smentire l’idea che Diana si preoccupasse solo di far rientrare denaro dall’Ungheria. Il presidente Lotito, infatti, ha dichiarato agli inquirenti romani che aveva conosciuto Diana e che costui gli aveva proposto di sponsorizzare la Lazio in alcune partite di Coppa Uefa: avevano anche concordato la cifra (2 milioni di euro) ma la cosa non era andata in porto - secondo Lotito perché Diana voleva pagare vertici della squadra romana. maglie della Lazio «Diana un’azienda priva di interessi in contanti, pagamento che aveva insospettito i Mi sembra abbastanza chiaro che far scrivere sulle Gas» non poteva avere ritorni commerciali per rilevanti nel Lazio. Questa, del resto, è la posizione sposata anche dagli inquirenti romani. Posso legittimamente presumere, invece, che la sponsorizzazione fosse il canale per entrare nella Roma che conta, farsi aprire le porte di alcuni circoli della politica e degli affari. Il quadro che emerge dalle indagini mostra proprio questo tentativo: un personaggio borderline, certamente legato a uomini del clan, punta a fare il salto di qualità, insediandosi nella Capitale. La sponsorizzazione era il biglietto da visita, per poi fare gol con Chinaglia e i 24 milioni. La mafia fa male al calcio. All’inizio del 2010 le inchieste di Finanza e polizia hanno svelato un altro caso di infiltrazione camorristica nel calcio: il controllo del Giugliano da parte dei Maliardo, una potenza emergente della criminalità campana. L’istruttoria ha mostrato una convergenza di interessi intorno allo stadio. E si tratta della sua squadra, la squadra della città dove lei è nato e continua a vivere. Certo, e ne sono anche tifoso: negli anni in cui ero studente universitario andavo spesso a vederla giocare. E tutta la città è sempre stata legata alla squadra, nonostante l’assenza di grandi risultati: negli anni Ottanta arrivò in C2 ma poi non si iscrisse al campionato per motivi economici. Negli ultimi anni, invece, era non solo arrivata in C2 ma aveva una squadra competitiva che è entrata per due-tre anni di seguito ai play-off ed è stata a un passo dalla CI; ho sempre pensato che l’obiettivo CI non si volesse raggiungere perché troppo oneroso. Ma che cosa intende quando parla di città legata alla squadra: quante persone vanno a vedere una partita di C2? Allo stadio vanno anche cinquemila persone su un Comune che ne conta centomila. E per capire l’importanza di Giugliano basta ricordare quando Luciano Gaucci cercò di mettere le mani sulla società. Dopo il fallimento del Napoli, il costruttore e patron del Perugia tentò di rilevare la squadra azzurra ma non ci riuscì. I giornali dell’epoca riferirono che, fallita la scalata al Napoli, aveva offerto un miliardo di lire per il Giugliano; la sua idea era quella di creare una seconda squadra della provincia partenopea, potendo contare su un comprensorio di oltre 300 mila persone tutte affamate di calcio. Giocatori importanti hanno indossato la maglia del Giugliano e oggi giocano con ottimi risultati nelle serie professionistiche; per esempio, Sardo del Chievo, Vives del Lecce, Migliaccio del Palermo. Era una squadra con buoni risultati ma era anche un vivaio che produceva ottimi calciatori. In questo caso allevare nuovi campioni testimoniava la salute della squadra? Offriva veramente una chance ai giovani talenti o c’erano sospetti come quelli denunciati in Aspromonte e a Palermo sull’infiltrazione criminale nel vivaio? Io sinceramente non avevo sospetti particolari: anche per questa capacità di sfornare giovani. il Giugliano si era imposto Aveva un direttore sportivo che prima di dedicarsi al calcio era stato un penalista importante: assieme al suo socio aveva difeso i padrini di Forcella, quei Giuliano delle foto con Maradona. Poi il suo collega viene assassinato in un agguato mai chiarito e lui cambia vita. Lascia la professione forense e si inventa general manager di squadre di calcio. Dovunque vada ottiene successi: ha competenza, sa intuire il talento. Soprattutto nelle serie minori bisogna saperci fare, perché in quei gironi è tutto più difficile. Ma chi andava allo stadio? Gli spalti erano riempiti dai ragazzi proletari della sterminata periferia che si stende intorno a Napoli? O in tribuna si facevano vedere anche professionisti e notabili cittadini? Ci andavano un po’ tutti. Negli anni Ottanta c’erano soprattutto ragazzi, mentre adesso ho notato gente più anziana. Il Comune ha fatto costruire uno stadio da diecimila spettatori, fuori dal centro, in modo da raccogliere tifosi dagli altri paesi che ormai si allargano senza soluzione di continuità rispetto a Giugliano. Qualche volta veniva il Napoli per disputare delle amichevoli: sembrava ci fossero le condizioni per fare il salto di qualità. C’era un grande entusiasmo. Ricordo che nei primi anni in cui ero alla Direzione distrettuale antimafia sono andato a vedere qualche partita; portavo, a mia volta accompagnato dalla scorta, mio figlio, che stava cominciando ad appassionarsi al pallone. Non ho mai intuito che dietro la squadra ci fossero espressioni camorristiche, forse anche perché frequento pochissimo la mia città e sono andato troppo poche volte allo stadio per capire cosa si potesse muovere dietro. L’ordinanza dei suoi colleghi invece mostra uno sfruttamento sistematico del calcio da parte del clan Maliardo: controllavano tutto, dai panini ai cartelloni pubblicitari. Dagli atti delle indagini emerge uno sfruttamento a 360 gradi. In primo luogo la squadra serve a creare consenso intorno al clan vincente. Poi offre l’aggancio per entrare in rapporto con le istituzioni: il pentito Gaetano Vassallo ricorda come la squadra fosse sponsorizzata dal Comune. Quindi impadronirsi del Giugliano era un modo di avere relazioni privilegiate con l’amministrazione di una città da centomila abitanti. Lo stesso Vassallo poi ricostruisce quello che secondo lui il clan aveva messo in piedi intorno allo stadio: era tutto loro, persino la vendita dei panini e delle bibite. Infine, i camorristi usavano la pubblicità allo stadio per imporre il racket: secondo il collaboratore di giustizia, negozi e aziende erano costretti a comprare gli spazi, ma in questo modo gli imprenditori potevano farsi fatturare anche le estorsioni e scaricarle dal fisco. Un modo di rendere il racket deducibile e garantire alle «vittime» anche un ritorno pubblicitario. Infondo la prima inchiesta su Publitalia che ha portato alla condanna di Marcello Dell’Utri ha mostrato un sistema simile diffuso al Nord: le sponsorizzazioni gonfiate permettevano agli imprenditori di costruire riserve in nero e scaricare dalle tasse. Ma come si fa, in un territorio dove la criminalità organizzata sfrutta qualunque risorsa per ottenere profitto o consenso, a ripulire almeno il calcio? C’è un modo per tenere i clan fuori dai campi? Io mi sono imbattuto in alcune vicende di infiltrazione ma ho il sospetto che ce ne siano decine. In Campania come nel resto del Sud, temo che la magistratura abbia scoperto solo la punta dell’iceberg. Ma la domanda per me è opposta. Mi chiedo: perché in certe regioni non nasce un Chievo? Perché non ci sono più piccole realtà del Sud che producono squadre di serie A? L’Albinoleffe è arrivata in serie B, l’Alzano è arrivato in serie B, persino il Portogruaro è in serie B, a Verona c’erano due squadre di serie A, il Sassuolo fa sognare. Perché invece al Sud da anni non ci sono miracoli? Io credo che sia colpa anche della presenza asfissiante della criminalità, che tiene lontana dagli stadi la parte di imprenditoria pulita che non vuole esporsi e non vuole mischiarsi con loschi figuri. In passato ci sono state squadre campane che hanno fatto sognare. La minuscola e povera Avellino sbarcò in Serie A nel 1978 prima del terremoto e ci rimase per dieci anni; Salernitana. Ora invece, tranne il Napoli, c’è prosciugato anche la voglia di calcio? poi è stata la volta della il vuoto. La camorra ha L’ultima squadra non metropolitana in serie B è stato il Savoia di Torre Annunziata: oggi se uno guarda alle condizioni del calcio campano si deprime. Avellino ha ricominciato dalle serie minori, Caserta è in Eccellenza, Benevento non riesce a salire in serie B, la Salernitana langue. Nessuno fa exploit nonostante la fame di calcio e l’entusiasmo dei tifosi. Gli imprenditori non investono anche perché temono di trovarsi subito sul collo la camorra. E la gestione mafiosa porta una mentalità criminale, predatoria, anche nelle società che crollano con la caduta del boss di turno o che non riescono a sfondare perché i clan non sono disposti a investire. Oltre alla C2 i boss non vanno: vogliono raggiungere i loro obiettivi senza perderci soldi. Quindi la mafia soffoca le potenzialità del calcio campano e più in generale meridionale, mentre la sua presenza incombente convince gli imprenditori onesti a tenersi lontani dagli spogliatoi? I boss si fanno belli nelle foto con i campioni ma di fatto stroncano le speranze del Sud sportivo, mentre non esiste un’imprenditoria capace di sostituirli nel business dello sport? Anche le squadre cadute nelle mani dei clan non traggono vantaggio sul lungo periodo, perché la camorra non ci mette i capitali veri, offre una spinta effimera. È una logica predatoria che non ha interesse a investire ma solo a gestire, a trovare un tornaconto immediato. Un’operazione come quella del Chievo la camorra non riuscirebbe mai a realizzarla perché i soldi che accumula preferisce investirli nel solito e solido mattone. E l’onnipresenza dei clan non viene né contrastata né denunciata da intere comunità conniventi: tutti sanno, nessuno parla. Fino a quando intercettazioni e collaboratori di giustizia non permettono di aprire le indagini e scoprire i veri padroni di una parte del calcio meridionale. 3. La sanità. La trinità del nuovo potere. È la vera industria dell’Italia federalista: il settore più ricco, quello più promettente e anche il primo dove si è sviluppato il patto. Cosche e medici si sono conosciuti molto tempo fa, contagiandosi lentamente nel giro di due generazioni fino a confondere le loro identità. I mafiosi hanno capito che negli ospedali si poteva inventare il futuro. Affari e assunzioni, con una cascata infinita di denaro pubblico senza controllo; voti e cariche politiche, in un abbraccio che annullava ogni distinzione tra partiti e mandamenti. I medici hanno cominciato a pensare come mafiosi. Padrini e baroni in camice bianco, al Sud e non solo, hanno mutuato la stessa mentalità: alimentano clan familiari, stringono accordi locali per conquistare il territorio e tenere lontani gli avversari, si rivolgono a cupole nazionali spesso intrise di massoneria per tutelare il loro potere. Le intercettazioni sulla spartizione delle cattedre nei policlinici di tutta Italia radiografano questa contaminazione, con regole ispirate a quelle di Cosa Nostra e persino identico lessico. Si arriva al caso di un primario di Bari che non esita a rivolgersi a un capoclan per minacciare i concorrenti che non rispettano le graduatorie già concordate tra docenti in base a regole che ignorano il merito in nome della parentela, contraccambiando con perizie su misura per regalare scarcerazioni ai sicari. Il professore con l’istinto del picciotto lo apostrofa al telefono: «Fammi vedere cosa sai fare, dimostrami che sei il boss dei boss». È il settore più drammatico, perché stronca le speranze di chi entra nelle facoltà di medicina. E soprattutto perché la mafia-sanità è sempre malasanità: da Vibo Valentia a Reggio Calabria, da Palermo ad Agrigento, nelle corsie dove comandano le leggi di Cosa Nostra i malati non hanno gli stessi diritti degli altri cittadini italiani: gli ospedali non servono a curare, sono solo il pretesto per garantire guadagni e posti. I risultati sono agghiaccianti: uno sperpero di risorse che vale una Finanziaria, con miliardi di euro inghiottiti per mandare avanti strutture che tutto fanno tranne che aiutare i pazienti. Ma anche una lezione morale, impartita sin dalle aule d’università a quei giovani che in passato erano l’eccellenza della classe dirigente meridionale: dimenticatevi della professionalità, cancellate la legalità e il merito, l’unica virtù che conta è l’obbedienza al clan. Che spesso è l’emanazione diretta della cosca e regola i suoi conti con il piombo anche nei policlinici e nelle Asl. I delitti eccellenti avvenuti dal 1993 a oggi sono legati al dominio della mafiasanità: l’omicidio di Francesco Fortugno, vicepresidente della Regione Calabria e medico di spicco della Asl di Locri, nel cuore dell’impero della ‘ndrangheta; l’assassinio di Matteo Bottari, professore dell’ateneo di Messina e genero dell’ex rettore magnifico, crivellato mentre esce dalla clinica del fratello del nuovo rettore. In realtà le morti che andrebbero addebitate sul conto delle cosche sono molte di più: centinaia di malati che sarebbero stati salvati in qualunque altro nosocomio d’Europa e invece sono stati condannati dalla criminale negligenza dei padiglioni dove regnano i picciotti. Vite stroncate come quelle di Federica Monteleone ed Eva Ruscio, entrambe di sedici anni, che si sono spente nell’ospedale di Vibo Valentia perché in sala operatoria è saltata la corrente elettrica o perché nessuno sapeva praticare una banale tracheotomia. A sud di Eboli sempre più spesso dietro le vittime della malasanità c’è l’artiglio della mafia-sanità: infermieri pregiudicati; primari assunti grazie ai cognomi di rispetto; lauree conquistate con metodi dubbi; sale cliniche con macchinari inutilizzabili o inutilizzati; pulizia affidata alle mogli dei camorristi che trasformano i letti di degenza in bombe batteriologiche. Un’infezione morale e materiale che si allarga ogni giorno, creando una piaga che tutti conoscono ma che nessun governo nazionale o regionale ha avuto il coraggio di amputare. Ospedali-killer, come quello di Vibo Valentia che una commissione parlamentare ha chiesto di demolire: «È in condizioni drammatiche, non si può rimetterlo a posto. Sono meglio le tende; meglio abbatterlo e sostituirlo con un ospedale da campo». Questa storia ha radici antiche. Comincia nel 1943 con Michele Navarra, il capomafia di Corleone che ha affiliato Totò Riina e Bernardo Provenzano, arruolando quei giovanissimi contadini dalla pistola facile nei ranghi di Cosa Nostra. Le foto lo mostrano con il volto bonario e rassicurante del medico condotto, quanto di più lontano esista dall’icona del padrino. Navarra è il modello del minotauro in camice bianco: di famiglia piccolo borghese, sgobba sui libri per fregiarsi del titolo di dottore e fare il salto di classe. Poi esercita per dieci anni a Trieste, rientra a Corleone alla vigilia dello sbarco americano e diventa «Il Capo» proprio mentre Cosa Nostra torna alla luce del sole dopo la repressione fascista. Prima sposa la causa separatista, poi passa alla DC, ottiene la presidenza della cassa mutua che amministra pensioni e invalidità altro tesoro del clan -, è il direttore dell’ospedale. Quando Luciano Liggio lo sfida, lui risponde con la lupara; ma Liggio si salva e si vendica in modo plateale, crivellando il corpo e l’auto del rivale con centinaia di colpi di mitra. Navarra muore nel 1958; i suoi giovani rampolli invece faranno strada, segnando la storia d’Italia e forgiando la Cosa Nostra del terzo millennio. Politica, sanità, mafia: la trinità del nuovo potere incarnata in una sola persona. Politica, sanità, mafia: gli stessi ingredienti che si ripresentano mezzo secolo dopo nel processo contro Totò Cuffaro, il governatore postdemocristiano della Sicilia. Dietro le quinte sempre loro, sempre i corleonesi. In mezzo secolo Bernardo Provenzano ha messo a frutto la lezione del suo maestro Navarra. Quando all’inizio degli anni Ottanta il servizio sanitario ha smesso di essere nazionale per finire in pasto ai partiti locali, per primo ha capito come sfruttare quella rivoluzione. A consigliarlo fu un ex geometra dell’Anas con il fiuto del manager, Pino Lipari: modi signorili, auto d’epoca, barche a vela e frequentazioni in tutta la Palermo che conta, già nel 1983 spostava i capitali delle famiglie vincenti dagli appalti stradali e dai cantieri edili, puntando con decisione sulle neonate Unità sanitarie locali. Le cinque Usl della provincia erano state spartite tra i capi delle correnti democristiane, nomi che sono diventati sinonimo del patto mafia-politica: una a Vito Ciancimino, una a Salvo Lima, una a Rosario Nicoletti, una a Giovanni Gioia e una a Franz Gorgone. Mentre si scatena «la mattanza», con Riina e i suoi «contadini» impegnati a sterminare centinaia di avversari; mentre i soldi dell’eroina rendono Cosa Nostra ricca come non mai, schiere di parenti di Provenzano aprono società per commercializzare siringhe, bisturi, medicine, cardiografi, cateteri, lastre, o creano laboratori convenzionati per qualunque genere d’analisi. Meno di vent’anni dopo, Michele Aiello è il signore dell’oncologia palermitana e la sua clinica privata pubblicizza le migliori terapie contro il tumore. In Sicilia la Regione ignora il cancro: diagnosi e cura sono praticamente tutte appaltate ai privati, rinunciando di fatto a combattere la malattia più grave e diffusa. Aiello aveva trasformato un albergo di Bagheria nella Villa Santa Teresa, la struttura più importante dell’isola, ed era diventato il primo contribuente della regione, visto che non si possono evadere i soldi intascati dagli enti pubblici. Come facesse ad accumularne tanti si è capito dopo il suo arresto e il commissariamento del suo impero: tutte le prestazioni erano gonfiate, fruttando fino a venticinque milioni di troppo ogni anno. Nella Santa Teresa la terapia contro il cancro alla prostata veniva fatta pagare alla Asl 136 mila euro, cifra scesa a soli 8000 euro con i nuovi amministratori: un ricarico del 2000 per cento, mentre con il denaro sprecato per curare un solo paziente se ne potevano assistere 17. Ma dalla Regione nessuno ha mai contestato quelle fatture dilatate: Aiello era amico di tutti, soprattutto di Totò Cuffaro con cui discuteva faccia a faccia i tariffari da adottare. Anche lui, come il geometra Lipari, era passato dall’oro nero dell’asfalto per i lavori stradali a quello bianco delle cliniche. Anche lui, sostengono pentiti e atti processuali, era un uomo dell’ultimo capo dei capi: «Aiello ha un discorso diretto con Provenzano». Quando Angelo Siino, temuto signore degli appalti mafiosi, si infuria contro Aiello, viene subito costretto a placarsi: «Mi dissero “Araciu, abbatti uferru”, calmati, metti via la pistola. “Di quello devi parlarne con lo Zio, ossia con Provenzano”». Nel 1993 il capitano Ultimo ammanetta Riina e gli trova in tasca un pizzino particolare: l’ordine di assegnare un appalto proprio ad Aiello. Una scoperta inutile, che non ferma la nascita di Villa Santa Teresa: un centro all’avanguardia nella cura del cancro, immacolato come una clinica svizzera, con macchinari sfavillanti. Ed era sempre Aiello a raccogliere da due marescialli corrotti le informazioni sulle microspie piazzate dal Ros e sulle prossime mosse della Procura, in modo da proteggere la fuga del padrino e della sua cerchia più stretta. Alto, magro, distinto, camicie Brooks Brothers sotto giacche sartoriali, condivideva con Cuffaro anche la passione per le talpe che ha fatto finire il governatore sul banco degli imputati. Il chirurgo che ha scalato l’UDC a forza di baci, tanto da venire soprannominato «Vasa Vasa», è stato condannato dalla Corte d’appello per favoreggiamento delle cosche. Per i giudici del secondo grado, il presidente siciliano che ha poteri e fondi superiori a qualunque ministro del governo di Roma aiutava il capo dei capi, e da medico lo faceva attraverso una rete di dottori. Medici affiliati se ne contano tanti, nel silenzio delle associazioni di categoria. L’unico congresso che in Sicilia è stato dedicato al tema della mafia non ha discusso la dilagante infiltrazione, ma si è occupato solo di un rischio professionale molto particolare: quali sono le tutele legali di chi cura un latitante? Così sotto i camici bianchi è cresciuta la prima filiera borghese di Cosa Nostra, il mimetismo perfetto per entrare nei partiti e nelle amministrazioni. Ci sono storie leggendarie: era al servizio dei boss il dottore che per vent’anni è stato responsabile dell’infermeria dell’Ucciardone e che per due legislature è stato eletto a Montecitorio. Medici senza scrupoli legali hanno vaccinato i tre figli di Totò Riina, «fantasmi» nati e cresciuti in latitanza. Francesco Di Carlo, il boss di Altofonte che amava frequentare i salotti della nobiltà, parla di Giuseppe Di Pace, «primario della terza chirurgia del Civico di Palermo e figlio del vecchio capofamiglia di Ciaculli. L’avevo voluto io in Cosa Nostra, mi occupai personalmente della sua promozione andando a trovare il professor Troia, primario a Villa Sofia, grande elettore dell’onorevole Giovanni Gioia. Troia era nella commissione per i primariati e combinai un incontro tra lui, Bernardo Brusca e Michele Greco». Era un chirurgo anche Gioacchino Pennino, figura enigmatica di uomo d’onore e di partito, che dal potente mandamento di Brancaccio ha arbitrato gli assetti democristiani e postdemocristiani a Palermo per quasi un ventennio. Ortopedico invece era Gaetano Vassallo, indicato da Di Carlo come «uomo d’onore e mio consigliere. Per farlo diventare primario fu creato apposta un reparto che fino ad allora non c’era». Nei paesi il medico condotto era la figura più importante, assieme al sindaco, al parroco, al maresciallo dei carabinieri e - in alcune realtà del Sud - al capoclan. Accadeva spesso che il medico diventasse sindaco, trasferendo in politica il suo prestigio, facendo poi del municipio il trampolino per una carriera parlamentare regionale o nazionale. In alcuni borghi del Palermitano o del Reggino, invece è esistita una variante del «medico di famiglia»: il dottore era anche il padrino e se diventava sindaco fondeva una triplice autorità. In tutto il Meridione la laurea in medicina era anche il simbolo della crescita sociale, l’orgoglio di un padre contadino o piccolo impiegato: Teddy Reno non doveva distrarsi con la Malafemmina, perché gli zii Totò e Peppino avevano investito i loro risparmi nei suoi studi. E quel titolo era un riconoscimento caro anche all’Onorata società, in Sicilia e in Calabria. Lì il fenomeno delle seconde generazioni è censito nei rapporti di polizia e carabinieri, con organigrammi delle Asl che si sovrappongono a quelli delle cosche come copie in carta carbone. Perché le Asl sono l’eldorado delle mafie. Basta guardare i numeri per capire. In Sicilia sanità significa otto miliardi di euro l’anno, praticamente senza controllo centrale: lo Stato sta a guardare mentre questo tsunami di quattrini si disperde per l’isola. Tre miliardi servono per pagare gli stipendi di 60 mila dipendenti; per fare un paragone, tutto il gruppo Eni ne ha 78 mila. E che la qualità del servizio offerto sia scarsa lo dimostra un altro dato, altrettanto pesante: una processione di siciliani è costretta a farsi operare in trasferta nelle regioni del Centronord, con spese coperte da Palermo per un totale di 256 milioni bruciati ogni anno. E di cliniche in Sicilia ce n’è a bizzeffe: 61 case di cura accreditate, inclusi i colossi padani del San Raffaele a Cefalù e dell’Humanitas a Catania. Ancora più sorprendente la conta dei laboratori diagnostici accreditati: sono 1800, in pratica nell’isola ne sono sorti quanto in tutto il resto d’Italia. Un settore dove - come ha dimostrato, per esempio, l’indagine della Squadra mobile di Trapani - Cosa Nostra si è stabilmente inserita. Non è il caso quindi che ha portato alla guida della Regione due medici - il chirurgo Totò Cuffaro prima e lo psichiatra Raffaele Lombardo poi - e che metà degli assessori della giunta Cuffaro avessero interessi nella sanità privata. Certo, esistono poli di efficienza, padiglioni sottratti alla malagestione criminale, ma il panorama complessivo è da incubo. Renato Costa della CgilMedici ha scritto che «la grande maggioranza di noi è vittima di questo stato di cose e oltre a faticare il doppio ogni giorno per assicurare una forma di assistenza ai pazienti, si vede puntualmente penalizzata perché scavalcata nella carriera e nella professione da colleghi meno meritevoli sul piano professionale ma più dinamici in altre meno meritorie forme di attività». Costa sottolinea il ruolo della «zona grigia degli indifferenti, che pur non essendo direttamente coinvolti nel meccanismo ne traggono piccoli vantaggi e rappresentano l’acqua dove nuota il pesce della mafia». Ribellarsi significa rischiare la vita: vent’anni fa Paolo Giaccone, medico legale, venne assassinato per il rifiuto di falsificare una perizia. Oggi nelle corsie la cultura dell’illecito è dilagante: la commissione parlamentare guidata da Ignazio Marino ha evidenziato come in media ogni dottore palermitano che pratica «l’intramoenia» - le visite a pagamento all’interno di strutture pubbliche - dichiari solo 120 euro l’anno, mentre fuori dagli ambulatori c’è la coda di pazienti, che solo mettendo mano al portafogli possono scavalcare le liste d’attesa bibliche. Un dato sospetto, ribadito dalle verifiche a campione delle Fiamme gialle che negli ambulatori del capoluogo hanno trovato solo evasori: il 100 per cento delle ispezioni ha scoperto soldi in nero. «Il cancro si sviluppa nella testa» ha spiegato Piero Grasso quando era alla guida della Procura di Palermo «con manager inquisiti sempre al loro posto, direttori generali di Asl e ospedali nominati dai partiti, in un sottobosco dove si passa dagli appalti truccati ai tariffari disegnati su misura, fino ai tentativi di pilotare i concorsi.» Quando si attraversa lo Stretto la situazione addirittura peggiora. In Calabria per curare due milioni di persone si stanziano 3200 milioni di euro ma ogni anno ne vengono spesi altri settecento, sfondando i tetti dei bilanci. Con questi quattrini si dà lavoro a 23 mila dipendenti, divisi in 15 Asl e 42 ospedali: solo nella Piana di Gioia Tauro ci sono 7 nosocomi per 180 mila residenti. Ma la presenza privata è altrettanto massiccia: 38 cliniche e 339 centri analisi. Insomma, con tutti questi presidi e tutti questi investimenti pubblici i calabresi dovrebbero scoppiare di salute gratis. Invece l’Istat segnala che il 7,3 per cento delle famiglie si è impoverita per pagare di tasca propria terapie e interventi. Un dramma nel dramma, a cui soltanto le statistiche riescono a dare un volto. Lezione calibro nove. Se si scende nel dettaglio, allora si scopre un mondo allucinante. Dopo l’omicidio Fortugno il prefetto Basilone con una squadra di carabinieri e finanzieri ha setacciato l’Unità sanitaria di Locri, quella dove il medico assassinato lavorava prima dell’elezione nel parlamento calabrese. Il rapporto finale sembra la sceneggiatura di un film grottesco: il bilancio di 172 milioni di euro l’anno e l’armata di ben 1630 dipendenti superano qualunque industria della regione. E sono il trionfo della lottizzazione, quelle della strage di Duisburg. I gestita dalle cosche più feroci d’Europa, due capi più famosi della ‘ndrangheta - Giuseppe «Tiradritto» Morabito e Antonio «Due Nasi» Nirta, chiamato in causa per molti misteri incluso il sequestro Moro - hanno figli medici assunti da quella Asl. Ma il direttore amministrativo e altri tredici dottori hanno condanne per reati che vanno dall’associazione mafiosa al traffico di droga fino alla detenzione di armi ed esplosivi; gli stessi carichi penali macchiano la fedina di 28 infermieri e tecnici; le stesse ombre avvolgono i fornitori e i laboratori convenzionati. Sembra che non ci sia scampo, che tutti quei 172 milioni di euro vadano a ingrassare il sistema di potere delle famiglie, con sprechi che non vengono nemmeno nascosti e il disprezzo di qualunque regola. Gli ispettori scrivono che il campione delle convenzioni esterne è un gruppo di laboratori del boss Nirta, sequestrati più volte proprio per questo motivo; ma praticamente dietro ogni clinica, ogni centro radiologico, ogni studio dentistico ci sono personaggi condannati, parenti di mafiosi o dottori fermati in compagnia di criminali. Per giustificare questa macchina impazzita si fatturano cifre da epidemia. Dal 2000 al 2005 per i 135 mila abitanti censiti nel territorio della Asl vengono spesi oltre 11 milioni di interventi in strutture convenzionate contro un massimo annuale autorizzato di circa un milione: ogni residente ha ricevuto da questi centri 84,6 servizi pagati con denaro pubblico, circa 14 prestazioni l’anno. Le biografie dei medici, poi, sembrano uscite da un romanzo criminale. Alcuni hanno più dimestichezza con il revolver che con il bisturi. La più singolare è quella del dottore di medicina d’urgenza specializzato in funerali: quando si onora la bara di un padrino ucciso lui c’è sempre e viene fotografato dai carabinieri, che segnalano invano questa devozione. Di fronte a tanta illegalità si segnala un solo provvedimento disciplinare: nel novembre 2001 viene licenziato lo psicologo Pasquale Morabito. Non metteva piede alla Asl da undici anni: era in carcere, con una condanna nel ‘96 per narcotraffico e un’altra nel ‘99 per mafia. Il prefetto allibito riporta che per i primi cinque anni di detenzione l’azienda sanitaria lo ha soltanto sospeso, riducendogli lo stipendio, ma poi ha ripreso a versargli la paga piena, nonostante lo psicologo fosse ancora rinchiuso nel penitenziario. Il sistema creato nel Reggino si è esteso a tutta la regione. Locri non è un caso isolato. Quando lo Stato ha indagato, è emersa la stessa situazione. A Vibo Valentia l’ospedale degli orrori attende da decenni di essere sostituito da una nuova struttura, per la quale sono stati stanziati fondi a volontà. Poi una serie di intercettazioni svelano l’esistenza di una tangente da oltre 2 milioni di euro e addirittura di pacchetti di tessere dell’UDC regalati a un deputato da uno dei costruttori interessati all’appalto. Ma il cantiere non parte mai. A decidere non sono gli amministratori, lì comandano le cosche. La radiografia degli inquirenti scatenati dall’Alto commissariato anticorruzione ha fatto emergere la stessa lottizzazione criminale, con infermieri e fornitori scelti dal clan: i Fiarè, considerati la ‘ndrina dominante nella zona, hanno ben otto parenti nell’organico; in corsia lavorano figlio e genero del presunto boss Carmelo Lo Bianco; ci sono infermieri che girano con la calibro nove sotto il camice. È un ospedale in condizioni disperate, dove le regole minime di igiene e sicurezza non vengono rispettate, dove nessuno sa quanti siano i posti letto ed è incerto persino il numero dei dipendenti. Ma ogni tentativo di espugnarlo è stato inutile: l’alleanza tra mafia e politica si è dimostrata invincibile. Secondo l’inchiesta, Fortugno è stato ammazzato perché aveva sbarrato la strada di un altro medico: l’uomo su cui le cosche reggine avevano puntato per gestire la loro sanità. La ‘ndrangheta voleva assessore Domenico Crea. Uno che a un certo punto nel 2001 ha tirato fuori i risparmi nascosti sotto il materasso - questa la sua versione - e ha portato in banca 1350 milioni di lire in contanti, con cui ha realizzato una bella struttura per anziani con vista sul mare: lo ha fatto a Melito Porto Salvo, altro paese che conta nelle gerarchie criminali, con affiliati che uniscono affari di famiglia e di partito anche in Piemonte e Lombardia. Fortugno e Crea, esponente del centrodestra entrato da pochi mesi nella Margherita con una dote di 14 mila voti, erano in gara per la stessa poltrona alla Regione. Ma, a sorpresa, il responso delle urne premiò Fortugno. A leggere le sue dichiarazioni, verrebbe da dire l’uomo giusto, al posto giusto e nel momento giusto. Fortugno ha credibilità politica, perché è vicepresidente della Regione e anche perché ha sposato la figlia di un deputato DC rispettato e influente; la sua attività alla Asl gli ha fatto conoscere ogni meandro della sanità; infine, in quel momento tutta Italia si preparava alle elezioni che avrebbero portato il centrosinistra al governo con l’aspettativa di una stagione di riforme. Nell’assessorato chiave viene insediata una donna di indubbia onestà, l’ex magistrato Doris Lo Moro, che vuole portare aria nuova nei covi delle cosche ospedaliere. E può farlo solo se ha il sostegno politico di Fortugno. Quando la Lo Moro viene minacciata, lui interviene con forza: «Formata la giunta regionale, la ‘ndrangheta torna a farsi sentire pesantemente quasi a voler confermare il suo ruolo di contraltare della legalità. Al primo posto all’ordine del giorno della nuova legislatura dovrà essere la lotta costante e a tutto campo alla criminalità organizzata». Una sfida che le cosche hanno giocato a modo loro, dando un segnale a tutti gli uomini di partito: il killer ha abbattuto Fortugno proprio nel seggio del Pd dove si votava nelle primarie che designarono Prodi come leader dell’Unione. Il modo più eclatante per dare un peso politico al piombo. Per la Procura, però, quella pistola è stata armata da Domenico Crea, che da mesi cercava di togliere di mezzo l’unico ostacolo alla sua ascesa, «espressione politica di un ampio contesto criminale». Crea riteneva che Fortugno nel 2004 avesse fatto di tutto per impedire il suo ingresso nel centrosinistra e poi fosse riuscito a sbarrargli la porta per l’assessorato. Nelle conversazioni con Gigi Meduri, il parlamentare che lo aveva traghettato nel centrosinistra poi nominato viceministro ai Trasporti da Prodi, i due esternano disprezzo: «Quelli hanno difetti ma sono persone che capiscono» dice il futuro uomo di governo. «Io mi meraviglio di Ciccio Fortugno che è un idiota, mannaggia, è una brava persona ma non capisce niente della politica.» Secondo i pm, il delitto non è una primo dei non eletti, prende il posto vendetta, ma un «aggiustamento»: Crea, della vittima e si siede su quella poltrona da dove i suoi elettori di cosca si aspettano grandi cose. È lui stesso a spiegare quanto valga il suo obiettivo, in un colloquio registrato dalle microspie: «La sanità è prima, l’agricoltura e la forestazione seconda, le attività produttive terza … In ordine di budget 7000 miliardi [di lire]… La delega è tua, quindi tu sei responsabile di tutto, dalla programmazione alla gestione». E rideva dello stipendio da diecimila euro di consigliere regionale: «Che cazzo sono? Duemila miliardi me li gestivo io per i cazzi miei». Uccidere Fortugno è stata una prova di forza per riconquistare il tesoro più grande della Calabria, per essere sicuri che quei «7000 miliardi di lire» non sfuggissero al controllo dei Gattopardi. Marco Minniti, il leader regionale dei Ds, disse in Parlamento: «È successo qualcosa che cambia la vita della Calabria. In quell’omicidio di una persona perbene c’è un drammatico salto di qualità. Quell’omicidio diceva due cose. La prima: noi facciamo quel che vogliamo. La seconda: nulla deve cambiare». Eppure il sacrificio di Fortugno sembrava avere animato una primavera di speranza. L’assessore Lo Moro lancia la sfida: «Le Asl di Locri e di Palmi sono governate dalle ‘ndrine, è ora di dire basta». Chiama in Calabria una legione straniera di manager della sanità, tutti con curricula immacolati, a cui affida la bonifica delle Aziende locali: subito, con tono derisorio, li battezzano «i magnifici tredici». Ma dopo un anno il pool paracadutato dal resto d’Italia batte in ritirata. E anche la Lo Moro viene cacciata, costretta alle dimissioni dal governatore di centrosinistra Agazio Loiero. Un reticolato di interessi che fonde la peggiore politica, la cupidigia delle cliniche private e la violenza delle cosche stronca qualunque tentativo di restaurare legalità ed efficienza. E lo Stato si volta dall’altra parte. Il superprefetto mandato a Reggio Calabria si fa eleggere in Parlamento dove anche l’ex assessore trova asilo. Mentre i due milioni di cittadini italiani residenti in Calabria vengono abbandonati al loro destino di malasanità intrisa di criminalità. Boss e baroni in camice bianco hanno bisogno del consenso della popolazione e sanno che la malattia crea un legame con chi dispensa la cura più forte di qualunque altro rapporto. Perché nella terra elargito dall’alto: e non dall’ultimo sempre più spesso dei viceré la salute non è un diritto ma un favore che viene saltare la lista di attesa, riuscire a farsi operare dal primario arrivato, avere una speranza di guarigione sono regalie che si ottengono solo baciando la mano. L’oro bianco della Sicilia. In gran parte della Sicilia la situazione è la stessa, solo che la pax mafiosa imposta da Provenzano ha bandito il ricorso alle armi. Il potere è silenzioso. E che la sanità ormai anche a Palermo stia diventando più importante dei cantieri, lo scrive nella sua ordinanza Piergiorgio Morosini, Gip dell’operazione Gotha che ha colpito la rete di colletti bianchi più insidiosa del capoluogo. Il nuovo capo della famiglia di Brancaccio, quella che per conto di Totò Riina ha attaccato lo Stato con le stragi del 1993, è un medico entrato in politica, che vuole traghettare il clan dei dinamitardi nella nuova era dell’oro bianco. «Gli interessi perseguibili attraverso i patti occulti con la politica possono essere di varia natura. Questo dato si coglie nitidamente dalle conversazioni che si tengono nel salotto di casa del boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro. I dialoghi sono intercettati dalla polizia nell’inchiesta palermitana “Ghiaccio”, che porterà sotto processo politici, pubblici funzionari, imprenditori della sanità e liberi professionisti per collegamenti illeciti con Cosa Nostra. Siamo nella primavera del 2001 e si stanno avvicinando le elezioni politiche e regionali. C’è grande fibrillazione nell’abitazione in cui Guttadauro, pur scontando una detenzione domiciliare, riceve uomini d’onore, medici, avvocati e politici, tra i quali l’assessore comunale alla Sanità Domenico Miceli, candidato alle regionali. Guttadauro esprime il suo pensiero su ciò che si aspetta dai politici a cui accorderà il suo sostegno elettorale. Vuole, anzitutto, agganciare il futuro presidente della Sicilia, Salvatore Cuffaro, ed è per questo motivo che stringe i rapporti con Miceli, persona molto vicina al politico dell’UDC. La ricerca di quel contatto esprime motivazioni ben precise. Guttadauro intende partecipare alla “gestione della torta” ossia a operazioni economicamente appetibili condizionate dai provvedimenti della politica.» Quale è la torta che i partiti possono servire sul piatto di Cosa Nostra? Scrive il giudice Morosini: «Guttadauro attiva immediatamente, attraverso Miceli, il canale politico per condizionare i concorsi per l’assunzione o la promozione nel settore della sanità pubblica. Formula precise raccomandazioni in favore di quattro medici per concorsi nei ruoli di primario in diverse strutture ospedaliere. Per Cosa Nostra inserire nei posti di rilievo della sanità pubblica uomini fidati significa offrire una grande dimostrazione di forza all’esterno, penetrare efficacemente in un nuovo business e aumentare il prestigio agli occhi di una collettività ormai rassegnata a una legalità debole. E, d’altronde, alla sanità deve essere attribuito un ruolo importante nella strategia imprenditoriale di diversificazione degli investimenti mafiosi. Poter contare su persone di fiducia nei posti chiave significa dare lavoro a società, controllate dai boss, che hanno come oggetto sociale la rappresentanza e il commercio di apparecchiature scientifiche da laboratorio, di apparecchi sanitari e strumenti chirurgici e ospedalieri, l’assistenza tecnica e la progettazione per ospedali, la fornitura di materiali sanitari, il commercio di prodotti farmaceutici, chimici e parafarmaceutici». Il magistrato palermitano non ha dubbi: mentre analizza il Gotha delle nuove famiglie, scopre subito che sono i boss in camice bianco a guidare la metamorfosi della mafia che si trasforma in organizzazione con una facciata legale e un istinto criminale. Scrive il magistrato, definendo queste figure di medici padrini, eredi moderni dello spietato Navarra da Corleone: «Sono i protagonisti del doppio volto di Cosa Nostra: i protagonisti dell’ala militare discutono con il boss di estorsioni, traffico di stupefacenti e altri crimini. Medici, avvocati e politici invece calibrano strategie di respiro regionale e nazionale. L’obiettivo è quello di occupare le istituzioni pubbliche per piegarle agli interessi degli imprenditori mafiosi, intercettando con metodi incruenti ma efficaci finanziamenti e risorse collettive d’ogni tipo… Ma il progetto di Guttadauro pare più ambizioso. Così come quello di un altro medico del Gotha di Cosa Nostra, quell’Antonino Cinà che a tutti i costi vuole candidare al consiglio comunale di Palermo Marcello Parisi. Cinà e Guttadauro da postazioni diverse, attraverso canali politici, lavorano per la costruzione di una nuova classe dirigente mafiosa, pronta in silenzio e senza spargimenti di sangue a prendere il posto dei vecchi sanguinari e analfabeti capi della mafia». Eccoli, sono i Gattopardi del terzo millennio, che vogliono cambiare tutto perché nulla cambi; che non hanno mai impugnato una pistola ma hanno la stessa testa dei killer corleonesi. I rapporti tra Cuffaro e Guttadauro li tiene Salvatore Aragona, brillante quarantenne con la carriera pubblica stroncata dalla condanna per avere falsificato la cartella clinica di Enzo Brusca, quello dell’attentato di Capaci che poi sciolse nell’acido il piccolo Santino Di Matteo. Una vicenda notissima, che non ostacola la sua confidenza con il governatore siciliano. Le intercettazioni dei colloqui tra Guttadauro e Aragona stupiscono: non usano mai il dialetto, parlano in perfetto italiano con il lessico dei professionisti. Potrebbero essere gli atti di un convegno di un’inchiesta sul capo del mandamento stragista. partito, non i brogliacci di Mimmo Miceli è un dottore ancora più giovane, ha un eloquio spigliato, abbina le cravatte con gusto e viene considerato il delfino di Cuffaro. I carabinieri lo hanno filmato mentre organizza un incontro tra il presidente siciliano e Vincenzo Greco, chirurgo condannato per avere curato il boss che assassinò padre Puglisi. Nella lista nera dei camici bianchi c’è pure Giovanni Mercadante, primario di radiologia, professore associato, politico e uomo di Provenzano. Nel 1995 entra in Forza Italia e viene eletto al Comune, sei anni dopo sogna il Parlamento ma si scopre un pizzino in cui i figli del padrino latitante discutevano di lui, indicandolo con un nome cifrato. L’effetto? Nessun arresto, partito: non si nessun procedimento candida alla Camera disciplinare, e punta sul nessuna espulsione dal consiglio regionale. Le microspie nella sua segreteria hanno registrato i colloqui sulle spartizioni delle nomine e delle farmacie. Assieme a Cinà, il medico che faceva le iniezioni a Provenzano, nel 2006 cerca di pilotare il concorso per primario di neurochirurgia dell’ospedale Civico. Nell’equipe di un chirurgo del Niguarda di Milano c’è il nipote di Cinà e lo zio, dopo avere chiesto il permesso al capofamiglia Nino Rotolo, trasforma la questione in un impegno di Cosa Nostra: bisogna far vincere il milanese. Il chirurgo lombardo parla con Mercadante ma il posto fa gola a tanti, ci sono veti politici incrociati e l’unico che può aprire le porte della sala operatoria al candidato della mafia è Gianfranco Miccichè, all’epoca viceministro dell’Economia e coordinatore regionale di Forza Italia. Il consigliere regionale allarga le mani: bisogna che su Miccichè si muova qualcuno veramente influente e suggerisce una strada, registrata dalle microspie della polizia: «Lui qualunque cosa dicano quelli del San Raffaele la prende per buona … Per cui se voi riuscite a fare in modo che il gruppo di neurochirurgia del San Raffaele lo sponsorizzi…». Palermo-Milano, nell’Italia dei baroni le distanze non esistono: il contagio è già arrivato anche al Nord, con professionisti e istituzioni che non disdegnano le scorciatoie di Cosa Nostra. Lungo la strada tra Palermo e Milano c’è Pavia, con il direttore generale della Asl arrestato per ‘ndrangheta: stiamo parlando dell’amministratore di strutture d’eccellenza, di una città che ospita centri di livello europeo o addirittura mondiale, dove il top manager della sanità si comporta come un padrino da sceneggiato tv, mettendosi al servizio delle cosche più crudeli. Perché la salute è una questione affidata alle Regioni che solo nel 2008 ha divorato 114 miliardi di euro, ma il sistema parallelo che la governa ha una rete nazionale, dove la mafia si muove già da protagonista. Sanità e camorra in Campania. Le cronache campane hanno registrato un primato: il primo scioglimento di una Asl per infiltrazione mafiosa. Un provvedimento che viene applicato spesso nei confronti delle giunte comunali cadute sotto il controllo delle cosche, mentre in nessuna altra parte d’Italia c’erano state misure simili contro la colonizzazione criminale dell’ente che gestisce tutte le strutture sanitarie sul territorio. Solo dopo è arrivato lo scioglimento dell’Asl di Locri. Come va interpretata la cosa: è il segno che la situazione in Campania è peggiore di quella calabrese e di quella siciliana? In Campania sono state svolte numerosissime indagini sul comparto sanità, alcune delle quali hanno avuto sviluppi molto significativi. Mi riferisco, ad esempio, alle investigazioni che portarono all’arresto dell’allora ministro della Sanità Francesco De Lorenzo e del direttore generale del ministero Duilio Poggiolini, noto per avere nascosto lingotti d’oro per diversi miliardi di lire nei divani della sua abitazione. Sono stati nel corso degli anni inquisiti o arrestati i vertici di molte Asl e alcuni direttori generali o amministratori, soprattutto nel periodo di Tangentopoli. Anche di recente la sanità campana, nell’occhio del ciclone sia per le enormi passività di bilancio sia per alcune défaillance assistenziali, è stata monitorata dalla magistratura, così come sono stati aperti procedimenti riguardanti settori analoghi, per esempio quelli sulle pensioni concesse agli invalidi civili. Tuttavia, da queste attività non sono mai emersi episodi di infiltrazione della criminalità organizzata così evidenti come quelli accertati nella Locride, nella sanità privata siciliana o nel Policlinico di Messina, solo per citare alcuni casi. Questo significa forse che la camorra ospedaliera è in ritardo? Tutti gli indicatori mostrano come nelle province calabresi la presenza delle cosche sia massiccia in tutte le strutture mediche, pubbliche o private; in Sicilia ormai le famiglie mafiose investono sempre di più nella sanità privata e invece in Campania il settore è ancora secondario per i clan? Le mie parole non vanno confuse: io non credo che lo scenario sia roseo. La camorra è molto interessata agli affari che girano intorno alla sanità ed è certamente presente sia in quella pubblica che nel settore privato. Rispetto alle vicende siciliane e calabresi, in particolare, vi sono però delle evidenti diversità. Dipendono sia dalla peculiarità della struttura della camorra - non verticistica ma di tipo orizzontale e con tanti piccoli clan - sia dalla sua composizione sociale. Mentre, infatti, da tempo in Cosa Nostra e nella ‘ndrangheta esiste una classe borghese che rappresenta le seconde e terze generazioni dei clan - non è un caso che molti figli o nipoti di boss siano medici e siano stati condannati per associazione mafiosa, e ciò accade da diversi anni - in Campania invece questa classe borghese non c’è ancora o è in fase embrionale. Non sono mai emersi, o comunque non ne conosco, casi in cui i figli dei boss siano divenuti medici o, persino, primari ospedalieri. Un caso come quello del dottor Navarra, che già negli anni Cinquanta era il capo della famiglia di Corleone, in Campania chissà se ci sarà mai. La camorra guarda alla sanità con la sua tipica mentalità predatoria; ci sono tantissimi soldi che girano e vuole accaparrarsene il più possibile. Quindi la camorra, divisa in clan senza le alleanze e le strutture centrali tipiche di mafia e ‘ndrangheta, non riesce a concordare scelte e strategie a livello regionale: una realtà frammentata che rende difficile un’infiltrazione di vasto respiro nella sanità, un affare gestito proprio a livello regionale. Sì, è questa la mia idea; l’assenza di meccanismi di coordinamento territoriale fra i gruppi camorristici riduce la capacità di incidere strategicamente sul piano regionale, dove si decide l’uso delle risorse e le convenzioni con le strutture private. A Napoli, ad esempio, operano una decina di clan non coalizzati e ognuno cerca di ritagliarsi le briciole di una torta vastissima. In provincia di Napoli e nel Casertano, dove ci sono organizzazioni criminali più strutturate e con rapporti più forti con la politica, il tentativo di controllo e di ingerenza nelle Asl avviene soprattutto attraverso «uomini cerniera», personaggi dei partiti e della burocrazia che a loro volta sono strettamente collegati con i clan. Cominciamo dalla sanità pubblica: qual è l’obiettivo principale dei clan? Puntano a inserire loro uomini per sfruttare i capitali pubblici investiti nel settore? Oppure mirano anche a ottenere altri vantaggi? Prevale sicuramente l’interesse di tipo economico, ma i clan sanno benissimo che tutti, forse tranne i più ricchi, possono aver bisogno di ospedali e di servizi sanitari pubblici. I boss si rendono conto che avere propri punti di riferimento nelle corsie è uno strumento per accrescere il consenso sociale e il conseguente controllo del territorio. Se un camorrista è in grado di raccomandare una persona per un posto letto ospedaliero o per aggirare i tempi d’attesa lunghissimi degli esami diagnostici, sa che la persona beneficiata in futuro gli sarà devota e disponibile. Il controllo della sanità pubblica come strumento per consolidare il potere della camorra sul territorio? Proprio così. Anche la politica, del resto, da anni sa quanto sia importante controllare ospedali e Asl; si tratta per i partiti di un incredibile serbatoio di voti. Le organizzazioni criminali più strutturate - come i casalesi o i clan del Nolano o del Giuglianese - sono in grado di risolvere in tempo reale i problemi legati ai ricoveri o agli esami diagnostici per gli affiliati e per i loro amici. Solo apparentemente si tratta di «piaceri» insignificanti; sono invece quei favori capaci di cementare rapporti duraturi, utilissimi per i sodalizi e per gli uomini che ne fanno parte. E poi è fondamentale poter contare sul medico o sull’infermiere compiacente o amico da portare a casa del boss che non può allontanarsi per motivi di sicurezza o perché latitante. Dalle indagini dei carabinieri di Caserta si è compreso, ad esempio, che uno dei più ricercati latitanti casalesi, Antonio Iovine detto «o Ninno», aveva a sua disposizione un infermiere che lavorava in una struttura ospedaliera dell’Agro aversano: quando il boss ha avuto bisogno urgente, l’infermiere ha trovato un medico fidato e lo ha accompagnato nel rifugio segreto, senza quindi che il latitante corresse il rischio di farsi scoprire. Quali sono le persone su cui punta la camorra per inserirsi nella sanità pubblica? In Calabria e in Sicilia si tratta spesso di figli o familiari dei padrini, mentre in Campania le pedine dell’infiltrazione sembrano essere figure differenti, fedeli al clan ma non direttamente affiliate. Esiste una schiera di camici bianchi o dirigenti delle Asl insospettabili che ottengono il loro incarico grazie all’intervento dei boss? È un elemento che molte volte è emerso dalle investigazioni, anche se spesso il legame fra la persona raccomandata e il clan è molto più diluito, direi «annacquato», e rende difficile scoprire i rapporti, anche indiretti, sottostanti. In questo i clan della camorra dimostrano di essere forse persino più furbi dei cugini siciliani e calabresi. Il referente politico-istituzionale si muove per sistemare l’«amico degli amici», senza che mai emerga all’esterno, almeno in modo evidente, il legame con il sodalizio. Ma il medico o il dirigente amministrativo promosso, o a cui è stato conferito un incarico, sa chi deve ringraziare e con chi al momento opportuno si dovrà sdebitare. La sua ricostruzione sembrerebbe confermata da una vicenda che emerge dalle più recenti indagini sui casalesi, di cui in parte anche lei si è occupato. Un consigliere regionale eletto nel Casertano, Nicola Ferraro, responsabile provinciale dell’Udeur, sponsorizza quale direttore sanitario del più importante ospedale della zona il parente di un boss di primo piano. Stando all’inchiesta, spinge per la nomina del cugino del padrino latitante Antonio Iovine, «o Ninno». E il fratello di questo dirigente chiave della sanità pubblica è stato poi arrestato per avere favorito la latitanza di Giuseppe Setola, il capo della squadra di killer spietati che ha seminato il terrore in tutta la Campania. È un episodio di cui forse è opportuno parlare, anche se è indispensabile una premessa: nei confronti di quel direttore sanitario non è stata mossa alcuna accusa né emessa un’informazione di garanzia; è quindi da considerare, dal punto di vista giudiziario, estraneo al clan dei casalesi. L’ospedale cui ci si riferisce è quello di Caserta, il più importante nosocomio della provincia; nella spartizione delle poltrone effettuata a livello regionale, al vertice della struttura viene insediato, così si afferma con chiarezza in alcune intercettazioni telefoniche, un medico in quota all’Udeur. Nicola Ferraro, come lei ha appena ricordato, è il consigliere regionale e responsabile provinciale di quel partito a Caserta: si tratta di un personaggio che è stato di recente arrestato per concorso esterno nella camorra casalese, perché avrebbe goduto dell’appoggio e delle amicizie della famiglia Schiavone nella sua scalata imprenditoriale e politica. Ferraro si occupa parecchio di sanità: cerca di interferire nella gestione di alcuni appalti dell’ospedale, si muove per ottenere l’assunzione e la promozione di medici amici e soprattutto preme sul top manager dell’ospedale di Caserta perché sia nominato direttore sanitario un cugino, che ha lo stesso cognome, del boss latitante Iovine. Ma il manager, malgrado la medesima appartenenza politica, resiste e nomina un’altra persona. Anche per questo sgarbo, oltre che per altre scelte, va in rotta di collisione con i suoi referenti. Ferraro presenta contro di lui un’interrogazione in consiglio regionale. È una vicenda confluita nell’inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere che ha visto indagati anche Sandra Mastella e il marito Clemente: proprio per questo procedimento il leader dell’Udeur si dimise dall’incarico di ministro della Giustizia. A proposito di quel funzionario che volevano far diventare direttore sanitario, è giusto dire che purtroppo i cugini nessuno se li può scegliere ma certamente costui è quantomeno sfortunato nelle parentele. Suo fratello, infatti, che pure è stato socio in alcuni laboratori di analisi di Caserta, è, secondo le indagini, colui che ha coperto la fuga del boss stragista Peppe Setola. Setola viene arrestato nei pressi di una clinica nella zona dell’alto Casertano, a Vairano, dove avrebbe dovuto farsi curare: lo trovano a casa di un altro operatore sanitario, una donna tecnico di laboratorio della stessa clinica, compagna del fratello del direttore sanitario. In pratica, una pattuglia di camici bianchi che proteggevano la fuga del protagonista della feroce stagione di omicidi scatenata nel 2008. Il che fa capire quanto importante sia per i boss avere referenti nel settore. Ma quali sono invece gli interessi economici dei clan nella gestione della sanità pubblica: come fanno ad arricchirsi grazie ai soldi destinati alla salute dei cittadini? Esistono vari settori che potremmo definire sensibili, perché al loro interno la presenza di ditte riferibili ai clan è molto frequente. Sono soprattutto quelli delle pulizie, della vigilanza e della ristorazione; di recente, però, anche nella vendita di prodotti medicali e delle protesi sono apparsi soggetti sospettati di vicinanza ai clan. Quello delle mense, solo per fare un esempio, è un settore che ha visto in passato una forte presenza di ditte legate ai casalesi. Secondo i collaboratori di giustizia, la gestione della ristorazione nelle corsie delle Asl del Casertano e anche del Napoletano veniva controllata, almeno fino alla metà degli anni Novanta, dalla famiglia Passarelli: una sorta di famiglia simbolo dell’imprenditoria campana che nasce con l’Ipam, uno tra i più grandi zuccherifici del Mezzogiorno, e continua a crescere anche grazie al patto con i padrini: i fratelli Schiavone vanno in vacanza sullo yacht dei figli di Dante, il fondatore che poi muore suicida durante il primo processo Spartacus. Da anni però negli enti pubblici sono state introdotte procedure che dovrebbero tenere lontana la criminalità organizzata. In teoria, legare di appalto hanno regole rigorose, come le offerte in busta chiusa, e tutte le ditte ammesse devono ottenere la certificazione antimafia. Come fa la camorra a superare queste barriere e infiltrarsi nelle Asl? Purtroppo i controlli delle certificazioni antimafia non hanno impedito in passato e non impediscono attualmente la vincita di appalti da parte di ditte dei clan. Basta, infatti, modificare la struttura amministrativa delle aziende che partecipano alle gare, trovare prestanome incensurati, per ottenere la certificazione della Prefettura e il conseguente via libera. Quanto alle procedure delle gare, la fantasia sperimentata nell’individuare modalità per aggirare le regole, in astratto molto rigide, non ha davvero confini: si va dalle ipotesi di compiacenza o persino corruzione dei membri delle commissioni aggiudicatrici, alla creazione di veri e propri accordi di cartello fra le ditte dei clan, le quali stabiliscono prima, con concorrenti più o meno reali, i ribassi da presentare. E in alcuni casi si ricorre alle minacce, velate o esplicite, contro quegli imprenditori che pretendono di partecipare ad appalti che interessano alla camorra. E poi spesso le società vicine ai gruppi criminali hanno un altro enorme vantaggio: possono presentare ribassi significativi e capaci di vincere ogni concorrenza perché sono gestite in modo irregolare. Fino a pochi anni fa, ad esempio, molte ditte di pulizie, spesso nella forma di fittizie cooperative, erano in grado di proporre ribassi record sui prezzi dell’appalto, perché non versavano i contributi previdenziali per i lavoratori. Quando l’irregolarità emergeva, liquidavano la ditta e subito dopo ne creavano una nuova, assorbivano i dipendenti e riuscivano spesso anche a subentrare negli appalti. Eravamo partiti dallo scioglimento di una Asl campana, il primo intervento di questo tipo delle autorità statali deciso in Italia: quali sono state le motivazioni del provvedimento? Nel mirino c’erano le infiltrazioni camorristiche negli appalti? Anzitutto bisogna fare una premessa: delle tre regioni dove prospera la criminalità organizzata, la prima Asl sciolta per infiltrazione mafiosa è stata a Napoli, ossia dove, come si è cercato di evidenziare, è meno forte o comunque diverso il condizionamento delle cosche. Un’anomalia, che nasce sia da una certa disattenzione da parte degli organi di controllo rispetto a ciò che avviene nel settore della sanità, sia anche da una carenza normativa: nella legge sullo scioglimento dei Comuni infiltrati dalle mafie, varata nel 1991, e anche nella riforma del 2009 non si parla affatto delle Asl. Il prefetto di Napoli a metà degli anni Duemila inviò la commissione d’accesso in due Asl della provincia e poi richiese lo scioglimento di una di esse, interpretando in modo estensivo le disposizioni normative. Il Consiglio dei ministri dell’epoca dispose lo scioglimento e quel provvedimento fu anche confermato dal Tar, facendo giurisprudenza e diventando l’apripista del successivo scioglimento di Locri, in cui però alla decisione drastica si giunse dopo l’omicidio Fortugno, che aveva destato clamore nazionale. Dopo, tuttavia, a quel che mi risulta, non c’è stato più nessuno scioglimento né invio di commissioni di accesso presso Asl meridionali. Eppure esaminando il provvedimento adottato per la Asl di Napoli, non è esagerato dire che se i controlli ispettivi fossero approfonditi e venissero applicati gli stessi criteri sarebbero molte di più le Asl della Calabria e della Sicilia, ma anche della Campania, a rischio scioglimento. Quindi se quelle valutazioni venissero applicate rigorosamente, bisognerebbe intervenire con decisione azzerando gli enti della sanità pubblica in molte altre città. Ma quali erano gli elementi chiave di quel provvedimento da lei definito «apripista»? La Asl sciolta dal prefetto è la Napoli 4, concentrata nei Comuni di Nola e San Giuseppe Vesuviano, dove da sempre operano i clan Fabbrocino e Russo, capaci di un ferreo controllo del territorio e delle attività economiche e imprenditoriali; si tratta di veri sodalizi mafiosi. Le ragioni dello scioglimento possiamo mutuarle direttamente dalla motivazione di conferma del Tar Campania. Ecco cosa scrivono i giudici amministrativi: personaggi di spicco operanti nel contesto, in veste di collaboratori di giustizia hanno ammesso che ditte controllate dai clan erano favorite negli appalti e persino nelle assunzioni di personale pilotate dagli stessi clan. Due degli ex presidenti della Asl erano stati arrestati e ammettevano interventi condizionanti delle organizzazioni camorristiche sulle determinazioni delle Asl. Un collaboratore di giustizia, già esponente di spicco della camorra, ha ammesso che il controllo degli appalti era dominio del clan imperante, che aveva nel settore un personaggio di fiducia del capoclan con lo specifico incarico di sovrintendere in quel particolare settore gli interessi dell’organizzazione; erano stati tratti, nel corso del 2001, in arresto sei funzionari, tra cui il direttore generale, per reati di particolare gravità, quale associazione per delinquere per tangenti pagate da un centro di cura collegato ad un potente clan della zona; il dottor MB, un ex magistrato dal profilo morale ineccepibile e di indubbia affidabilità, nominato direttore amministrativo della Asl dopo che due manager si erano dimessi, ha riconosciuto con una denuncia alla procura della Repubblica l’esistenza di collusioni tra la struttura sanitaria e le organizzazioni criminali, segnalando altresì di avere subito intimidazioni affinché si astenesse da ogni iniziativa di eliminazione di interferenze mafiose dalla struttura; [è stata acclarata come] sistematica la disapplicazione del protocollo di legalità e la violazione della normativa antimafia nell’attività contrattuale con l’affidamento diretto senza gara dell’incarico di pulizia degli immobili della Asl. La lettura dell’atto giudiziario conferma quindi che la camorra tratta la sanità come un qualunque centro di spesa pubblica sul territorio: che si tratti di una scuola, di una caserma o di un ospedale, ai clan importa mettere le mani sugli appalti per servizi e opere. Oggi però in tutta Italia sta prendendo piede un modello che vede l’inserimento sempre più vasto di strutture private nel sistema sanitario. Soprattutto in Sicilia la mafia ha investito in modo massiccio nella sanità privata convenzionata, fino alla creazione di veri imperi economici. Qual è la situazione in Campania? I clan locali si sono accorti dell’importanza economica della sanità privata solo negli ultimi anni, coincidenti con una maggiore esternalizzazione delle attività sanitarie anche in Campania. La camorra tradizionale al massimo poteva tentare di chiedere il pizzo ai gestori dei centri sanitari privati o cercare di ottenere la gestione di quelle attività di contorno, come accade per le Asl, e cioè le pulizie, i parcheggi, la vigilanza. L’esigenza di trovare una collocazione economicamente vantaggiosa per le enormi risorse provenienti dallo spaccio di droga o da altre attività illecite sta aprendo scenari di interesse proprio per le attività connesse alla sanità privata: un settore che si presenta come un ottimo investimento in termini di redditività. E inoltre non va sottovalutato un altro aspetto che involontariamente finisce per favorire la penetrazione di imprese colluse. Il sistema dei pagamenti delle prestazioni da parte delle Asl campane, a volte liquidate anche a distanza di anni dal momento in cui sono state erogate, rischia di favorire quelle ditte capaci di vivere di liquidità propria, senza dover far fronte alle scadenze con le sole rimesse delle Asl. E quali imprese più di quelle camorriste possono godere di una tal liquidità? Quindi anche le case di cura che svolgono visite, esami e piccoli interventi, e hanno un contenuto medico e scientifico inferiore ai grandi ospedali, possono far gola ai clan? Sicuramente le cliniche o le case di cura interessano parecchio perché spesso, in alcune zone, sono l’unico presidio sanitario. contare su persone fidate all’interno significa avere medici disposizione, e la possibilità di gestire i posti letto per gli amici. ai clan, anche Controllarle o e infermieri a affiliati e gli Nelle indagini sul gruppo camorristico di Mondragone, ad esempio, è emerso che una delle cliniche più importanti del litorale domizio, la Salus, che serviva un’amplissima fetta di popolazione in assenza di ospedali pubblici, era di proprietà dello zio e del cugino del capoclan: si trattava di due medici che erano andati a vivere a Roma, forse proprio per evitare contatti con i parenti camorristi. I collaboratori di giustizia hanno raccontato come il sodalizio considerasse quella struttura «cosa loro», non però nel senso che i boss la gestissero direttamente ma nel senso che avevano sempre la disponibilità di luoghi considerati sicuri per incontrarsi, andare a dormire o ricoverare boss e affiliati di altri clan. Si trattava di un elemento che accresceva il prestigio anche all’esterno; uno dei capi, ad esempio, del clan Birra di Ercolano, paese alle falde del Vesuvio, tra i gruppi più attivi nello spaccio di droga in Campania, quando ebbe bisogno di un ricovero si rivolse ai mondragonesi. Il boss non poteva andare nelle strutture della sua zona perché aveva paura di attentati; alla Salus, invece, è stato assistito in modo perfetto mentre la sua incolumità è stata garantita da uomini del clan che giravano armati nei pressi della clinica e anche al suo interno. È un credito che il sodalizio casertano ha guadagnato nei confronti di un alleato che gli potrà sempre tornare utile. Ma nelle indagini sono anche emersi tentativi dei clan di acquisire la gestione delle cliniche private? Io personalmente conosco due episodi, che evidenziano dinamiche diverse. In un caso sono i proprietari della clinica che cercano di creare sinergie con il clan per motivi di interesse personali; nell’altro il clan cerca di ottenere una fetta della proprietà di una struttura che viene considerata un’ottima occasione per investire soldi di provenienza illecita, perché ritengono che possa ottenere convenzioni con la sanità pubblica. Che intende per sinergie tra proprietari e clan: la proprietà cerca di utilizzare la forza dei clan a proprio vantaggio? Si tratta quindi dello stesso schema di cui si è parlato quando si è trattato dei legami mafia-impresa? È proprio questo che intendo; nel caso a cui mi riferisco i gestori di una struttura privata avrebbero tentato di utilizzare la camorra locale per risolvere problemi di concorrenza interna. La vicenda riguarda una clinica che si trova alle porte di Caserta; è una struttura convenzionata, con un discreto giro di affari, che opera in settori molto redditizi. Il gruppo di controllo fa capo a una famiglia di professionisti noti del Casertano, che non hanno mai denunciato di aver ricevuto estorsioni o vessazioni. Uno di loro è stato ed è sindaco di Recale, il Comune dove si trova la clinica, ed è stato eletto parlamentare nelle due ultime legislature nell’Italia dei Valori: si tratta di Amerigo Porfidia. Le indagini sulla clinica nascono abbastanza casualmente investigando sul clan che opera nel paese alle porte di Caserta. Viene attenzionata la società che si occupa delle pulizie della clinica e si scopre che fra i suoi dipendenti ci sono mogli, sorelle, nipoti di esponenti del gruppo criminale locale. Questa, come abbiamo visto, non è una novità. Accade, però, che gli azionisti di minoranza riescano ad accordarsi con altri azionisti e a tentare di modificare gli equilibri nel consiglio di amministrazione, grazie anche all’attività di mediazione svolta da uno di loro, che oltre a detenere un pacchetto di quote è il direttore sanitario della struttura. In seguito l’abitazione e la villetta sul mare di quest’ultimo sono oggetto di vari attentati. Poi un giorno - secondo la ricostruzione dell’accusa - si presenta in clinica un consigliere comunale di uno dei paesi confinanti con Caserta, un tal Gaetano Tartaglione, esponente dei Ds, all’epoca consigliere di maggioranza a Marcianise, un Comune importante perché ospita tutte le principali attività industriali di Caserta. Tartaglione invita il direttore sanitario a parlare con un «amico» e lo accompagna con la propria auto in una villa dove lo attende un esponente del clan Belforte. Il boss, Gaetano Piccolo detto «o Ceneraiuolo», consiglia «amichevolmente» al direttore sanitario di non fare il ribaltone societario, perché «loro» gradivano che le cose rimanessero come erano. In pratica, il clan non voleva che Porfidia perdesse il controllo della struttura. Ma alla fine il nuovo gruppo di azionisti si disinteressa delle minacce e assume la gestione della clinica. Allo stato, il sindaco-parlamentare e il consigliere comunale hanno ricevuto un avviso di conclusione delle indagini per concorso nel delitto di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso, assieme a esponenti del clan. Entrambi hanno sempre negato ogni coinvolgimento e sarà l’eventuale processo a chiarire se sono penalmente responsabili o meno. La violenza come strumento per condizionare gli equilibri tra azionisti: l’uso aziendale dell’elemento da cui nasce la forza della criminalità. E al centro delle indagini un parlamentare eletto nelle liste del partito che fa della legalità il cardine del suo programma, anche se poi transitato nel Gruppo misto, in posizione di sostegno al centrodestra: siamo davanti a un altro spaccato di quanto profonda sia l’influenza della camorra in alcuni territori. L’altro episodio di cui si è occupato nelle sue indagini descrive invece l’investimento di capitali sporchi nella sanità privata: anche in questo caso la violenza ha un peso? La vicenda risale alla fine degli anni Ottanta, quando a Mondragone un gruppo di imprenditori vicini a un esponente della Democrazia cristiana, il vicesindaco Antonio Nugnes, pensa di aprire una nuova clinica privata: in quella zona vi è fame di sanità, l’unico presidio era quello della Salus, di cui abbiamo parlato, e non esistevano ospedali. Questi imprenditori sono sicuri, forse grazie anche ai rapporti del politico, di poter ottenere le convenzioni con le Asl: stipulano l’atto costitutivo e individuano anche il sito presso cui la struttura dovrà nascere, e assumono persino un guardiano. Durante questa fase al vicesindaco Nugnes si presenta Giacomo Diana, detto «Paperone»; è il titolare della discarica della zona, che lo ha reso ricchissimo, ma tutti nel paese sanno che è il «consiglieri» di Augusto La Torre. Diana vuole entrare nell’affare e non fa evidentemente mistero di rappresentare anche il capo del sodalizio. Nugnes prende tempo; lui che pure mantiene rapporti formalmente buoni con gli uomini del clan, che lo chiamano confidenzialmente «zi’ Antonio», comprende che se Diana diventa socio, saranno i criminali a gestire l’intera iniziativa. Ma Nugnes non è quel politico che Augusto La Torre fa uccidere, senza che il corpo sia mai stato ritrovato? E viene ucciso proprio per essersi opposto all’ingresso del clan nella clinica? Sì, è proprio lui. Quel suo temporeggiare, chiaramente costa la vita. Il clan, del resto, di lui non si era accompagna a caccia nelle sue tenute funzionari considerato amico degli «sbirri». Lo uccidono, facendo con una modalità tipicamente mafiosa: la lupara bianca riduce i rischi per il clan. inteso come rifiuto, gli mai fidato; il politico di polizia e quindi è scomparire il suo corpo lancia un avvertimento e Chi vuole sarà in grado di capire il messaggio intimidatorio, ma senza un cadavere eccellente rimane solo il mistero: non si mobilita l’attenzione delle forze dell’ordine e dei mass media. Del suo corpo è stato ritrovato qualche povero resto solamente quindici anni più tardi, quando Augusto La Torre ha cominciato a collaborare con la giustizia e ha indicato il luogo di sepoltura. Anche le modalità dell’omicidio, nella loro crudeltà, sono forse da raccontare. Il boss manda un suo uomo da Nugnes e gli fa dire che ha bisogno di parlargli; l’appuntamento viene fissato in una masseria isolata, in aperta campagna. Nugnes non si insospettisce, forse perché ritiene che i suoi rapporti formalmente buoni con La Torre non gli facciano correre alcun rischio. Quando arriva nella masseria, viene pronunciata la parola d’ordine «buonasera zi’ Antonio»: in un attimo i killer escono e lo ammazzano con più colpi di pistola; caricano il cadavere in auto e lo buttano in un pozzo che si trova in un podere molto distante. Per evitare che potesse riaffiorare gettano anche delle bombe che fanno parzialmente crollare le pareti. È agghiacciante ricordare quello che hanno poi rivelato i pentiti; più tardi in quello stesso pozzo gettano un cadavere di un’altra vittima e mentre il corpo cade qualcuno urla ridendo: «Zi’ Antò, vi abbiamo portato l’amico per fare la briscola!». Da questo racconto emerge un altro dato agghiacciante; Paperone, l’uomo che si è arricchito con la discarica dove è probabile siano stati occultati anche rifiuti tossici che hanno avvelenato la popolazione campana, poi cerca di fare soldi curando quelle stesse persone che forse ha contribuito a fare ammalare. Uno sfruttamento completo e un bel contrappasso. Ma chi era questo Paperone che investiva in rifiuti e cliniche: ha avuto la possibilità di conoscerlo? Giacomo Diana aveva due soprannomi: «Paperone», perché ricchissimo e avaro, e «Cappellone» perché girava in paese con un grande copricapo. Aveva gestito un’enorme discarica, sita tra Mondragone e Castelvolturno, in cui erano stati riversati i rifiuti di gran parte della provincia di Caserta e, secondo alcuni pentiti, erano stati sepolti abusivamente rifiuti pericolosi importati dalle ditte del Nord. Era molto amico di Augusto La Torre, di cui era considerato il consigliere più fidato. A metà degli anni Novanta si era trasferito in Toscana; a Montecatini aveva acquistato un complesso residenziale e un albergo; lì però spesso lo raggiungevano uomini del clan con cui continuava a mantenere rapporti anche perché la sua parola riusciva, in assenza del capo detenuto, a mettere pace fra gli inquieti gregari. La Dia di Firenze, forse proprio per le presenze campane, lo aveva attenzionato e poi arrestato sequestrandogli, oltre agli immobili, molto denaro contante. A distanza di tempo da questi fatti, decisi di interrogarlo nell’ambito di un’altra indagine a me assegnata. Era detenuto a L’Aquila nel regime duro del 41 bis, e mi incuriosiva conoscere questo personaggio che tante volte era emerso dagli atti processuali; mi trovai davanti un uomo di una certa età, tranquillo, che non avresti mai immaginato come camorrista e senza nulla che lo facesse apparire come il titolare di tutte quelle ricchezze che gli erano state sequestrate. L’interrogatorio fu inutile: negava ogni rapporto con la camorra, si dichiarava vittima di estorsione ma non voleva nemmeno indicare chi gli chiedeva il pizzo. Alcuni anni dopo, quando è stato scarcerato e hanno cominciato a pentirsi tutti gli esponenti del clan, anche lui ha ammesso qualcosa; non credo che avrebbe accettato di collaborare, per la sua mentalità. Eppure fornì alle indagini un contributo rilevante per capire come era nato l’appalto della società Eco4 nel settore dei rifiuti. L’ho sentito varie volte e mi è rimasto impresso un tratto di umanità: andava fiero delle figlie, che proprio perché donne avevano studiato e si erano laureate. E una di esse aveva vinto un importante concorso pubblico. Mi ha sempre meravigliato la contraddizione fra la sua bonarietà e il ruolo di grande «intombatore» di rifiuti pericolosi che i pentiti gli avevano ricamato addosso. La sanità ha anche un’altra funzione fondamentale nella vita delle mafie: offre una strada per uscire dalla prigione. Abbiamo parlato del killer Giuseppe Setola, che è stato scarcerato grazie a una perizia forse compiacente, e una volta libero ha ordinato una raffica di omicidi. È una storia antica, purtroppo. Quante volte ha verificato situazioni simili nelle sue indagini o in quelle napoletane di cui ha avuto conoscenza? La vicenda di Giuseppe Setola non ha ancora avuto sviluppi giudiziari e non sono in grado di dire in che modo sia riuscito a farsi credere tanto cieco da ottenere gli arresti domiciliari, pur essendo condannato all’ergastolo per omicidio. Proprio per questo nel clan lo avevano soprannominato «o Cecato», ma una cosa è certa: cieco non era perché sparava personalmente e anche bene; quindi delle due l’una, o ha preso in giro medici inesperti o qualche perito non ha fatto il suo dovere. Non sarebbe la prima volta e credo, purtroppo, nemmeno l’ultima, perché di professionisti disposti a «vendersi» a camorristi anche pericolosi è piena la storia giudiziaria. A Napoli, credo sia avvenuto uno degli episodi più gravi e inquietanti: il professor Aldo Semerari, uno dei più noti criminologi italiani, psichiatra di fama internazionale e ideologo dell’estrema destra, fu ammazzato con modi decisamente barbari; la sua testa fu fatta trovare in una busta della spazzatura. Di quell’omicidio si è autoaccusato il boss Umberto Ammattirò, un grosso trafficante di cocaina: Semerari era il perito che doveva accertare la salute psichica di Raffaele Cutolo e venne assassinato perché aveva dichiarato il boss di Ottaviano infermo di mente, venendo meno a una promessa fatta ai nemici di Cutolo. Partendo da quel caso, l’elenco delle connivenze di dottori che hanno visitato detenuti e hanno certificato false malattie è purtroppo abbastanza lungo, anche se la mia esperienza ha evidenziato come la maggior parte dei medici legali faccia il suo dovere fino in fondo, anche a rischio della propria incolumità. Proprio grazie all’opera di questi veri professionisti, è stato spesso possibile smascherare malattie simulate da detenuti pericolosissimi per tentare di ottenere gli arresti domiciliari. Nel suo libro Solo per giustizia ha già raccontato un episodio incredibile: gli odontoiatri che forniscono al boss Antimo Perreca un falso alibi per evitare una condanna per omicidio. Quel depistaggio è stato poi smascherato e al boss in primo grado è stato inflitto l’ergastolo. L’episodio è certamente uno di quelli che più mi ha colpito durante la mia attività di pm antimafia: i titolari di uno dei più importanti studi dentistici di Caserta dichiararono che Perreca era sul lettino operatorio mentre veniva commesso un omicidio di cui il boss era stato organizzatore e partecipe. Quell’alibi falso fu scoperto grazie a un lavoro perfetto dei poliziotti della Questura di Caserta e Perreca in primo grado, pur negando strenuamente gli addebiti, è stato condannato all’ergastolo. Ho letto non molto tempo fa, con non poco stupore, che Perreca in appello ha cambiato posizione e confessato il delitto, ottenendo che la pena dell’ergastolo venisse ridotta a 24 anni di carcere. Abbiamo visto come proprio nella sanità la camorra preferisca affidarsi a figure insospettabili, senza legami diretti con gli uomini del clan. Questa tattica rende più difficile individuare le manovre dei boss per manipolare le perizie mediche? Spesso i pentiti hanno raccontato nei loro verbali di avvicinamenti tentati o riusciti di periti medico-legali; non sempre, però, sono emersi i riscontri alle loro affermazioni e in questi casi è stato impossibile formulare delle contestazioni. Non sapremo mai, quindi, se i loro racconti sono effettivamente corrispondenti alla realtà. Ci sono comunque vicende inquietanti. Uno dei capi di un clan di Sessa Aurunca, paese del Casertano, era stato arrestato dopo una lunga latitanza e si fingeva pazzo. Fu sottoposto a perizia psichiatrica e l’incarico venne affidato a due specialisti noti, fra l’altro dipendenti di strutture pubbliche. C’era però più di un sospetto che la follia del boss fosse una finzione e si decise di intercettare i colloqui che il detenuto aveva con i familiari e poi anche quelli con gli stessi psichiatri. Incredibilmente emerse che gli stessi medici suggerivano al detenuto i comportamenti da tenere perché fosse credibile la sua follia. Quei medici furono sottoposti a processo per falso ma il boss riuscì, comunque, a farsi scarcerare ed è rimasto latitante per vari anni. Quando la polizia lo ha arrestato in Spagna era in perfetta salute; altro che pazzo. C’è anche un’altra strada sfruttata dai camorristi, evidenziata da una recente operazione della Procura antimafia di Napoli che ha scoperto come alcuni centri di cura per la tossicodipendenza convenzionati con le Asl avessero fornito false certificazioni ai detenuti: in questo modo riuscivano a ottenere i benefici penitenziari previsti per i tossicomani in cura e alleggerire la loro posizione. L’infiltrazione in alcuni territori arriva spesso a condizionare tutto il sistema dei controlli sanitari, inclusi quelli veterinari. Ci sono pentiti che hanno descritto in modo agghiacciante come i casalesi riuscissero a pilotare gli esami sugli allevamenti casertani di bufale, con una minaccia alla salute collettiva e la distruzione della credibilità di uno dei prodotti campani più famosi nel mondo, la mozzarella. Non è una novità assoluta. In passato erano stati scoperti illeciti di alcuni veterinari nelle competizioni ippiche, attività sportiva tradizionalmente di interesse dei gruppi camorristici: alcuni cavalli erano stati dopati in modo da consentire di pilotare le scommesse e far guadagnare cifre consistenti a uomini di riferimento dei clan. Quella degli allevamenti di bufale è una vicenda emersa nell’ultimo periodo, anche se più volte vi erano stati sospetti non suffragati da prove. Si tratta di connivenze in settori particolarmente pericolosi per la salute pubblica, se è possibile molto più gravi di quelle che abbiamo descritto finora; se in quei casi grazie alla complicità di medici c’è un boss che riacquista la libertà, in questo campo invece i falsi controlli veterinari consentono la commercializzazione di prodotti alimentari pericolosi. Secondo quelle che finora sono semplici accuse mosse nell’ambito di un’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, e non confermate ancora da sentenze, i veterinari, soprattutto in alcuni allevamenti gestiti da uomini ritenuti vicini ai casalesi, hanno dichiarato in buono stato di salute bufale infette. O, peggio ancora, hanno fatto risultare l’abbattimento di bufale malate che invece continuavano a produrre latte per le mozzarelle. Oltre a considerare chiaramente criminale il comportamento di questi pseudoprofessionisti, la vicenda è un’ulteriore riprova di come la camorra, per pensare al guadagno immediato, si preoccupi poco o niente di provocare danni enormi al tessuto economico, mettendo in discussione, in questo caso, uno dei settori di più grande interesse per l’economia campana e cioè la produzione della famosissima mozzarella di bufala. Quando è esploso lo scandalo dei pascoli inquinati con i rifiuti tossici e quello delle bufale infette c’è stato un crollo del mercato soprattutto nel resto d’Italia. Con stupore, ho visto in televisione qualcuno dei titolari dei caseifici che, lamentandosi della crisi, se la prendeva con le indagini. Questa mentalità causa danni al nostro territorio, a volte persino maggiori degli stessi clan; si fa finta, infatti, di non capire che non sono le inchieste ad avere messo in crisi i produttori ma i criminali senza scrupoli della camorra e i professionisti compiacenti che non fanno il loro dovere. 4. La colonizzazione dei municipi. La prima poltrona del padrino. I Comuni sono il primo anello della catena di potere, quello che fa la differenza tra malavita e criminalità organizzata. Permette ai clan di legalizzare la propria esistenza, di raggiunta con la violenza e la ricchezza; una sorta santificare la forza di epifania in cui manifestano alla cittadinanza che esiste una sola autorità: la loro. Entrare nel municipio apre molte altre porte alla criminalità organizzata, moltiplica le opportunità di business e le occasioni per condizionare il territorio. Sono un punto di arrivo, ma anche un trampolino per il salto di qualità nelle istituzioni. E soprattutto nell’ultimo ventennio i consigli comunali sono diventati la scuola di politica delle mafie, la palestra dove selezionare i giovani dal volto pulito su cui investire per costruire la nuova dimensione: i boss li chiamano «cavallucci», usando il gergo delle scommesse. Chi riesce a scoprire il fuoriclasse, sa che la sua scommessa darà vincite meravigliose: ne seguirà la corsa verso la Provincia, la Regione, il Parlamento e magari il Governo. Investendo un capitale minuscolo potranno raccogliere tesori, come quando nelle gare degli ippodromi di periferia si fiuta il puledro che saprà trionfare nei Grand Prix. Perché chi entra nelle loro scuderie non potrà mai rinnegare il passato: dovrà sempre tributare fedeltà alle potenze che lo hanno aiutato a imporsi. Tutte le indagini più importanti degli ultimi anni sul rapporto tra le cosche e la politica aprono uno squarcio su una generazione senza precedenti: non uomini di partito che cercano un patto con chi controlla il territorio, ma creature nate nei feudi criminali per cavalcare al meglio le fortune dei loro padrini sponsor. Carriere parallele tra onorevoli e clan, spesso riconoscibili solo dal paese di nascita, con il boss che diventa sempre più potente mentre anche il politico suo compaesano si fa strada nei palazzi di Roma, saltando da una lista all’altra per sfruttare al meglio le metamorfosi del sistema elettorale, le prospettive di affari o il quadro generale della nazione con una maestria sorprendente e un mimetismo senza pari: fedine penali immacolate o addirittura travestite di militanza antimafia con la benedizione dei loro pupari, che hanno compreso come sia necessario cambiare tutto perché nulla cambi. I Comuni sono la fucina dei Gattopardi, ultimo prodotto di una fabbrica di malaffare che ha provocato danni gravissimi a tutto il Sud. Per capirlo basta sovrapporre la mappa dei municipi sciolti per infiltrazione mafiosa a quella della devastazione ambientale e morale: l’abusivismo edilizio, la morte dell’ecosistema, lo spreco di risorse pubbliche, il proliferare di appalti inutili o incompiuti. Un enorme saccheggio che ha impoverito e imbarbarito il Sud ma ha anche offerto i capisaldi per l’assalto al Nord, dalla Brianza alla Val di Susa: meccanismi simili ovunque, dinamiche di illegalità che non si è saputo o voluto arginare. Per scoprire le tracce di questa colonizzazione basta guardare oltre le notizie di cronaca. Nell’ultimo giorno di luglio 2010 gli italiani che stavano per affrontare l’esodo estivo si sono fermati per assistere al salvataggio in diretta tv di Imma, la bambina rimasta sotto le macerie della sua casa per dodici ore. È bastata una notte di temporali per sgretolare una palazzina di tre piani, uccidendo la nonna di Imma e una coppia di sposi di nemmeno trent’anni. L’edificio aveva subito diversi ampliamenti tutti abusivi, come era accaduto nel quartiere che lo circondava, in pieno centro storico, trasformatosi in una deriva di degrado e ristrutturazioni selvagge. Inutile cercare permessi e documenti negli uffici tecnici: siamo ad Afragola, municipio alle porte di Napoli con quasi 65 mila residenti, sciolto dal ministero dell’Interno per due volte negli ultimi undici anni a causa delle infiltrazioni mafiose. Sì, per due volte il governo ha ordinato di mandare a casa gli amministratori di Afragola, accusati di servire gli interessi della camorra più di quelli della cittadinanza: il provvedimento del 1999 venne poi annullato dal Tar; quello firmato sei anni dopo invece è diventato esecutivo testimoniando quanto fosse radicata la presenza dei boss. E ai clan, in questo caso i Moccia, protagonisti della scena criminale campana sin dalla fine degli anni Sessanta, quello che interessa di più è avere mano libera nell’edilizia. Non interessa solo a loro. Celebrando i funerali delle vittime del crollo, monsignor Antonio Di Donna dal pulpito ha usato parole durissime: «Si convertano, anzitutto, coloro che hanno responsabilità della cosa pubblica nelle nostre città e nel Paese. Chi ha il compito di amministrare faccia rispettare le leggi e non accarezzi i difetti, che pure ci sono, dei cittadini; faccia rispettare la sicurezza vogliono». nella costruzione degli edifici, anche se i cittadini non lo E poi, guardando verso le autorità schierate in prima fila ha detto: «E convertiamoci anche noi, perché non rispettare le leggi in materia edilizia può portare a lutti come questi». Quando la palazzina si sbriciola il sindaco di Afragola è Vincenzo Nespoli, parlamentare da undici anni, eletto al Senato nel Pdl: tre mesi prima i magistrati di Napoli avevano emesso un ordine di cattura contro di lui, ma le Camere hanno detto no agli arresti. L’inchiesta è scaturita proprio da una speculazione immobiliare, roba da venti milioni di euro, realizzata secondo l’accusa utilizzando i fondi sottratti alla bancarotta di una società e portata avanti violando ogni regola: nel provvedimento si sostiene che il sindacosenatore aveva persino fatto pressioni sul comandante dei vigili urbani che voleva sequestrare i cantieri per una serie di illeciti. Non sorprende, poi, notare come la stessa Afragola sia stata inserita nella lista nera del sottosegretario Guido Bertolaso: è uno dei Comuni che hanno ignorato le misure ambientali per uscire dall’emergenza rifiuti. Anche in questo caso è stato chiesto di commissariare il municipio. Abusivismo e cementificazione del territorio, trasformando le campagne in quartieri dormitorio, spazzando via il paesaggio e l’equilibrio sociale di borghi antichi. Violenza ambientale che ha sacrificato tutto in nome dei cantieri, contaminando per sempre realtà di arcaica bellezza rurale. Questo è l’effetto visibile della mafia dei Comuni, che più di ogni altro elemento ha contribuito alla devastazione delle regioni meridionali. Le tre vittime della palazzina di Afragola sono state uccise anche da questo sistema perverso che permette di aprire cantieri dovunque, come tante altre persone sepolte dai crolli e dalle frane che flagellano Campania, Calabria e Sicilia. Una deregulation di fatto, legittimata dai condoni e amata da un popolo affamato di case: i mattoni che costruiscono il consenso tra popolazione, cosche e politica. Un intreccio perverso senza bisogno di spargere sangue, ammazzando con il cemento più che con il piombo. Eppure, quando nel 1991 il Parlamento varò la legge per lo scioglimento dei Comuni infiltrati, lo fece sotto lo choc di un omicidio: l’assassinio di un solo uomo, che però aveva scatenato una ritorsione così feroce da sconvolgere tutta Italia. A Taurianova, centro reggino nell’estremo lembo d’Europa, il 2 maggio eliminano Rocco Zagari, capoclan ed ex consigliere comunale democristiano: lo crivellano di pallottole mentre siede dal barbiere. La vendetta è spietata: in meno di ventiquattro ore vengono uccise quattro persone. A Giuseppe Grimaldi tagliano la testa e poi, imitando la scena di un western alla Tarantino, gli scaricano contro le pistole facendola rimbalzare sulla pubblica piazza. Troppo, anche per una provincia terrorizzata da una guerra di ‘ndrangheta che aveva fatto seicento vittime con battaglie che erano quasi una prova generale del conflitto balcanico: sono stati usati bazooka, trappole esplosive, jeep corazzate e, come a Sarajevo, tra i condomini di Reggio Calabria un misterioso cecchino abbatteva i bersagli designati dalla cosca anche a seicento metri di distanza. Ma la brutalità di Taurianova era andata oltre ogni limite e aveva spinto a cambiare le cose, partendo da una legge che avrebbe dovuto spezzare il legame tra clan e istituzioni: con uno scatto di dignità e senso dello Stato, gli ultimi rappresentanti della Prima Repubblica avevano colpito la radice del male. Da allora i ministri dell’Interno hanno cacciato 185 consigli comunali, con un’onda decrescente che ha perso sempre più efficacia. All’euforia della liberazione si è sostituito il tran tran burocratico, senza che i commissari scelti da Roma per rimpiazzare i sindaci collusi riuscissero a trasformare la loro missione in una rinascita, per assenza di fondi, di volontà o di preparazione. Rari i casi in cui l’intervento dello Stato abbia restaurato la legalità o quanto meno ripulito l’amministrazione. Più spesso i commissariamenti sono stati parentesi tra una giunta sospetta e l’altra; a volte si sono rivelati solo periodi di paralisi dell’attività municipale che hanno spinto anche la parte migliore della cittadinanza a rimpiangere i vecchi assessori collusi. Mentre i boss e i loro rappresentanti in pochi anni sono riusciti a riconquistare le loro posizioni, decretando una sfiducia nelle istituzioni testimoniata dai 27 casi di consigli comunali sciolti due volte. La legge del 1991 ha però contribuito a una selezione naturale, determinando un’evoluzione della razza politica criminale: come sostiene Piercamillo Davigo parlando di Mani Pulite, i magistrati hanno eliminato le gazzelle meno veloci, favorendo così l’affermazione di una specie più forte. E soprattutto più abile nel mimetizzarsi. Le nuove pedine non lasciano più quelle impronte che permettono di scoprirle da lontano: nessuna parentela con i padrini, nessun precedente penale, nessuna frequentazione ostentata con i clan. Colletti bianchissimi, con diploma e laurea; figli di imprenditori o di professionisti, scelti per questo: i «cavallucci» migliori su cui puntare per un investimento a lungo termine. È la terza fase. Fino agli anni Settanta Cosa Nostra condizionava i Comuni siciliani senza inserirvi direttamente i propri uomini. Il simbolo di questa presenza era la sedia vuota nella sala consiliare di Caccamo, il paese siciliano che Giovanni Falcone chiamava «la Svizzera della mafia» per indicare la ricchezza raggiunta dalle famiglie locali. Quando si riunivano i consiglieri, una poltrona restava vuota a testimoniare il rispetto verso il grande assente: il capoclan locale, don Peppino Panzeca. Poi la grande stagione dei palazzinari, quella che ha trasformato i giardini di Palermo in una distesa di cemento, ha imposto di dominare gli assessorati con uomini di fiducia, affiliati o parenti stretti. L’era di Vito Ciancimino, corleonese diventato sindaco del capoluogo: don Vito, il primo notabile democristiano riconosciuto come mafioso. L’opulenza del narcotraffico investita nell’edilizia ha diffuso questo presidio nelle giunte di tutti i territori dove i clan conquistavano il potere, dalla Locride alla periferia di Napoli: i piani regolatori venivano decisi dagli emissari dei padrini, che loro avevano insediato negli uffici che contano. O, con maggiore semplicità, bastava che i loro uomini con la fascia tricolore chiudessero gli occhi sulla foresta di condomini abusivi tirati su dalle imprese del clan; con intere borgate satellite sorte fuori da ogni regola o casette che hanno moltiplicato i piani. I vigili urbani in diversi paesi erano diventati pretoriani delle cosche, guardaspalle in uniforme e tutori di un ordine diverso da quello repubblicano. E dall’Irpinia al Trapanese, assessori e sindaci avevano spesso lo stesso cognome dei boss: erano i loro fratelli, cugini o compari di nozze. La legge del 1991 si è rivelata potentissima, permettendo nei primi tre anni della grande mobilitazione antimafia di buttare fuori dai Comuni questa falange di marionette delle cosche: per mandarle via non servivano condanne e nemmeno indagini penali, bastava la parentela e la frequentazione con i picciotti; persino i palazzi abusivi diventavano una prova a carico per ordinare lo scioglimento della giunta. Quella stagione è servita anche da incubatrice nuova leva che - stando alle inchieste - per la metamorfosi, con una non è mai stata organica al clan pur mettendosi al suo servizio: un rapporto differente, forte ma invisibile, come di osmosi, tra politica e mafia, che lentamente dai consigli comunali è arrivato al Parlamento. I puledri su cui le cosche hanno scommesso sono figli o nipoti di gente che conviveva con i clan senza esservi inserita: imprenditori, soprattutto dell’edilizia, avvocati, notai. Quando si sono affacciati sulla scena, i vecchi partiti stavano morendo e si aprivano praterie per la loro cavalcata, con formazioni appena nate avide di quadri. E la riforma del sistema elettorale che nei piccoli centri, paradossalmente, ha reso determinanti anche pacchetti minori di voti gli ha offerto la chiave per inserirsi nei consigli comunali o provinciali. I Gattopardi hanno occupato gli spazi vuoti imponendo la volontà dei boss. Le ultime cronache giudiziarie raccontano procedimenti, tutti in fase preliminare, tutti con responsabilità non ancora accertate, che riesaminano carriere politiche scaturite da territori dove il dominio criminale è totale. Ne parla l’ordine di cattura contro Nicola Cosentino, che in diciotto anni dalle aule di Casal di Principe è passato a quelle di Caserta, per approdare a Montecitorio e al ministero dell’Economia sfiorando la candidatura a governatore della Campania. La Procura antimafia di Napoli, sulla base delle dichiarazioni di più pentiti, ritiene che la sua ascesa sia stata sostenuta dai casalesi; un’accusa sempre respinta dal deputato. Ma i collaboratori di giustizia descrivono anche una storia che ha dell’incredibile, quella di Luigi Cesaro, deputato e neopresidente della Provincia di Napoli che dovrà gestire il ricchissimo affare dei rifiuti. Processato nel 1985 come uomo di Raffaele Cutolo, condannato a cinque anni in primo grado, fu assolto in appello. La sentenza accolse la sua versione: si era rivolto alla sorella del padrino perché non sopportava più le estorsioni della gang di Pasquale Scotti, uno dei più feroci killer agli ordini di don Raffaele, che taglieggiava le imprese edili del padre. «Il Cesaro» scrivono i giudici nelle motivazioni «ha spiegato che al fine di sottrarsi alle pesanti richieste estorsive del gruppo di Pasquale Scotti (ammesse dal Marra) chiese i buoni uffici di Rosetta Cutolo la quale inviò una lettera di “raccomandazione” allo Scotti.» Una vittima? Recita sempre la sentenza: «Il quadro probatorio relativo alla posizione del Cesaro non può definirsi tranquillizzante». E ancora: «Il dubbio che l’imputato abbia, in qualche modo, reso favori ai suddetti personaggi per ingraziarseli sussiste e non è superabile dalle contrastanti risultanze processuali». L’assoluzione è stata poi sancita dalla Cassazione con un verdetto firmato da Corrado Carnevale «per non aver commesso il fatto». Nulla di penalmente rilevante. Anche se il killer Pasquale Scotti nei suoi verbali ha descritto i rapporti con il futuro onorevole in modo differente. Anche se nel 2008 altri pentiti hanno parlato di lui, Cesaro, che ha cominciato la sua attività politica come consigliere di Sant’Antimo - proprio quando il Comune viene sciolto per camorra -, dal 1996 ottiene i voti per essere eletto tre volte a Montecitorio e una a Strasburgo, diventa amico di Silvio Berlusconi consolidando il loro rapporto con spedizioni di mozzarelle e serate di canzoni napoletane, per poi trionfare nelle provinciali di Napoli con lo slogan «Riprendiamoci la dignità». L’enfant prodige di Villabate. La nuova generazione ha un solo campione conclamato, che ha ammesso le sue responsabilità ma che potrebbe,avere un ruolo ancora tutto da decifrare nelle istruttorie sulle stragi del 1993 che hanno cambiato la storia d’Italia. Perché Francesco Campanella è stato un enfant prodige, che dal municipio di Villabate - paesone alle porte di Palermo - ha assistito alle decisioni chiave dell’ultimo decennio. Nel 1996, a 24 anni, è diventato presidente del consiglio comunale, sciolto tre anni dopo per infiltrazione mafiosa. In quel periodo è spesso a Roma, dove divide la casa con Salvatore Cuffaro e frequenta la grande politica. Poi nel 2000 decide di seguire l’altro suo sponsor e testimone di nozze, Clemente Mastella, nella neonata compagine dell’Udeur, diventandone segretario nazionale per i giovani. È considerato brillante, ha una bella moglie che lavora nello staff di un ministro, un ottimo posto in banca, ma nel 2001 riceve una richiesta a cui non può dire no. Gli consegnano una foto e gli dicono di confezionare una carta d’identità: lui riconosce quel vecchio signore, capisce quanto sia importante e pericolosa la missione. Perché quello è il volto di Bernardo Provenzano, l’uomo più ricercato d’Italia ma anche il padrino che sin dall’inizio ha sempre vegliato sulla carriera del golden boy di Villabate. Campanella ha il curriculum della vecchia scuola: a 14 anni è nell’Azione cattolica e si affaccia alla politica concreta subito dopo il diploma, nell’euforia di quel 1992 in cui tutto sembrava cambiare. Ma dopo poco si rende conto che gli schieramenti nel consiglio comunale sono solo specchio dei clan locali e che lui è finito con i perdenti. Viene chiamato da Nino Mandalà, esponente di Forza Italia considerato anche il capocosca locale, e convinto a passare dall’altra parte. I suoi primi sponsor giurano vendetta, ma vengono uccisi prima di potersi muovere e lui capisce che ci sono arbitri spietati a decidere le sorti del municipio. Entra nell’ingranaggio e comincia una doppia vita. Lo zio, influente professionista, lo presenta a Cuffaro, leader siciliano dell’Udc, con cui nasce un rapporto umano profondo che si articolerà tra Palermo e Roma, dove si lega a Mastella. Il ragazzo è simpatico, intelligente, sa mediare e risolvere problemi, passa dal dialetto a un italiano forbito: è un perfetto erede della migliore tradizione democristiana. Nel 2000, quando Mastella fonda l’Udeur e abbandona il centrodestra, Campanella tenta di fare da paciere tra i suoi due amici. Un episodio messo a verbale: «Portai Cuffaro da Mastella che lo ricevette sulle scale, non lo fece neanche entrare a casa. Gli disse: “Cosa vuoi?” e Cuffaro rispose: “Sono stato dal Cavaliere, questo ci prende a tutti, vieni con me perché io faccio il presidente della Regione e tu fai il presidente della Camera”. Mastella sgranò gli occhi, mi guardò e mi disse: “Glielo dici tu che è cretino o glielo dico io?”». Campanella sceglie l’Udeur, senza mai litigare con Cuffaro, ottenendo una carica di rilievo che gli avrebbe potuto spalancare le porte del futuro governo Prodi. Mentre è il protagonista di questo dinamismo politico, diventa anche il cassiere dei Mandalà confondendo i loro soldi con quelli che amministra per i clienti della banca; diversifica le attività nel clan investendo in settori nuovi come le agenzie di scommesse legali. Quando gli investigatori cominciano a interessarsi ai traffici di Villabate è lui a suggerire la messinscena antimafia, una manifestazione, coinvolgendo personaggi credibili, invitando addirittura il capitano Ultimo che catturò Totò Riina; un battage pubblicitario per rifare il look alla giunta. E il suo capo lo autorizza dopo avere chiesto il permesso all’ultimo padrino, a Provenzano in persona: l’uomo che ha traghettato Cosa Nostra in una dimensione di potere ancora non decifrata, il grande regista di un cambiamento che ha messo in secondo piano le armi per far prevalere affari e ricatti. Provenzano si fida a tal punto di quel ragazzo da affidargli il documento che servirà per farsi operare in Francia: gli mette in mano il suo volto e la sua identità di copertura. A Villabate il consiglio comunale è stato già sciolto, eppure a decidere è sempre il clan. Che consegna a Campanella la supervisione di un gioco da 150 miliardi di lire, dove bisogna imbastire complesse trattative tra partiti, notabili e cosche. Un centro commerciale che doveva rendere tutti felici, tra tangenti, speculazioni sui terreni, posti di lavoro e incassi. Questione delicata, per la quale la giunta nomina come consulente legale l’avvocato Renato Schifani poi diventato presidente del Senato e seconda carica dello Stato, perché tutte le procedure urbanistiche siano ineccepibili, come anche il ruolo di Schifani in questa vicenda. Secondo i pentiti doveva essere l’apoteosi dei Mandalà, che dopo il successo del viaggio in Francia ormai erano diventati la guardia personale di Provenzano; invece il mega centro commerciale segna la loro caduta. La retata dei magistrati di Palermo cancella tutto. E nel 2005 Campanella decide di collaborare con la Procura, aprendo il primo e unico squarcio sulla nuova Cosa Nostra. Le parole del ragazzo di Villabate che aveva bruciato tutte le tappe mostrano alcuni capisaldi della rinnovata importanza dei Comuni per la criminalità organizzata del nuovo millennio. Come il ruolo nella fioritura dei centri commerciali, che sono proliferati nella provincia campana e in quella siciliana, segnalando le nuove rotte della ricchezza e della geopolitica criminale: tra le aree di maggiore espansione quella a cavallo tra Caserta e Napoli, dove prima di Gomorra i casalesi e i loro alleati erano considerati camorristi di serie B, oppure il Catanese, scomparso dalle mappe dell’antimafia da almeno quindici anni. Poco si sa anche di quello che sta accadendo al Nord. Nel 1990 l’omicidio in un incrocio di Vimercate fece scoprire come i nipoti di Natale Iamonte, uno dei padrini carismatici della ‘ndrangheta, avessero messo piede nei municipi della Brianza tra posti in giunta e cantieri. Nei libri si continua ad analizzare la vicenda di Bardonecchia, nel Piemonte più profondo, dove un quarto di secolo fa alcuni calabresi di rango al confino avevano preso il controllo dell’amministrazione comunale, arbitrando lo sviluppo edilizio: a chi chiedeva una licenza pubblica, gli impiegati suggerivano di rivolgersi al capoclan. Nell’estate 2010 in Liguria ha tenuto banco la vicenda di Bordighera, con minacce e condizionamenti nella giunta per dominare il gioco legalizzato nella perla della Riviera dei fiori: un’infiltrazione vecchio stile. Ma in realtà tante cose stanno cambiando. La parola magica è outsourcing, termine manageriale che indica come gli enti pubblici stiano sempre più affidando alle aziende i servizi che un tempo gestivano in proprio. Un modo di fare quadrare i bilanci in tempi di crisi, privatizzando le forniture di gas, elettricità, la manutenzione di edifici e giardini, la nettezza urbana. Una rivoluzione che fa riscoprire ai boss appetiti antichi. Negli Stati Uniti, per esempio, la raccolta della spazzatura è sempre stata un affare privato, mai gestito direttamente dalle autorità cittadine: è il primo business in cui storicamente Cosa Nostra si è infilata, diventando il modello di infiltrazione mafiosa e la sfida di tutte le polizie. Lo è ancora oggi: la saga televisiva dei Soprano mostra una famiglia che opera dietro l’attività lecita nei camion dei rifiuti. Quando nel 1997 l’Fbi e gli sceriffi di Rudolph Giuliani illustravano il problema, magistrati e investigatori italiani sorridevano: «Almeno questo da noi non può accadere, fanno tutto i Comuni». Oggi invece le municipalizzate si stanno estinguendo e a svuotare i cassonetti provvedono ditte sempre più ricche. E pensare che persino nella serie tv, quando Tony Soprano va a Napoli per discutere un traffico internazionale resta sconvolto nello scoprire che a guidare il clan campano è una donna: cosa inconcepibile nelle famiglie americane tradizionaliste, che l’ultimo padrino dello schermo interpreta come la prova della modernità delle nostre mafie. Gli sceneggiatori di Hollywood lo hanno capito, le istituzioni italiane no. Il mercato dei voti. I pentiti storici hanno descritto il controllo dei voti in epoche ormai antiche, quando la realtà politica nazionale e locale era molto diversa: c’erano la Democrazia cristiana e un Partito comunista che non poteva conquistare il governo a causa della Guerra fredda. Ora i partiti si sono trasformati in entità magmatiche, mentre la riforma del sistema elettorale spinge verso grandi coalizioni per incassare il premio di maggioranza. In questa rivoluzione, la capacità delle cosche di influire nelle elezioni comunali è cambiata? La riforma del sistema di elezione dei sindaci fu voluta, all’inizio degli anni Novanta, per creare un rapporto più stretto fra amministrazioni comunali e cittadini; erano questi ultimi a poter scegliere chi doveva rappresentarli e non le segreterie locali e provinciali dei partiti. Inoltre, l’investitura diretta rendeva il sindaco più forte e faceva scomparire quelle trattative estenuanti con i partiti cui doveva sottoporsi il primo cittadino, che indebolivano oggettivamente l’azione di governo. La riduzione delle preferenze limitava il controllo degli apparati partitici; non si potevano più fare le «catene di sant’Antonio» in cui un politico che aveva un pacchetto di voti poteva imporre gli uomini della sua corrente. Nella normativa, poi, c’è anche un significativo ampliamento dei poteri delle giunte per garantire una migliore efficienza dell’azione di governo dei Comuni, enti di prossimità per eccellenza. Credo che quella riforma abbia sostanzialmente raggiunto tutti gli obiettivi che si era prefissa e sia considerata, in via generale, un po’ da tutti in termini estremamente positivi. Eppure nei paesi in cui contano le mafie, e per quanto mi consta nei centri della provincia napoletana e casertana, le nuove regole sono state utilizzate, almeno in alcuni casi, a vantaggio delle cosche. In particolare, il premio di maggioranza, che concede la supremazia in consiglio comunale anche a chi ha un minimo scarto, ha fatto sì che le schede controllate dai clan, numericamente non sempre significative, potessero assumere un valore strategico. Soprattutto nei piccoli centri piuttosto che nelle città, la criminalità, manovrando numeri limitati di voti, quella che io chiamo utilità marginale, può condizionare le maggioranze: i pacchi di voti marginali possono diventare decisivi. Eppure la preferenza unica e l’elezione diretta dei sindaci avrebbero dovuto spazzare via il potere di condizionamento dei clan: si era sempre detto che il vecchio sistema favoriva la compravendita e il controllo dei voti da parte della criminalità organizzata. Non è così? È assolutamente vero - e le dichiarazioni di tanti pentiti lo dimostrano - che il sistema della preferenza multipla era stato usato dalle mafie sia per controllare il voto sia per inserire nelle assemblee elettive locali propri rappresentanti, ma purtroppo bisogna riconoscere che le organizzazioni criminali hanno una grandissima capacità di adattarsi ai mutamenti normativi. Ma lontano dalle città capoluogo il pacchetto di voti del clan è sufficiente per portare uno o più consiglieri in municipio; in un Comune di ventimila abitanti bastano numeri infimi di preferenze per farsi eleggere. E con due o tre consiglieri si riesce a condizionare la maggioranza, in una situazione dove i partiti sono spesso obbligati a unirsi in raggruppamenti dalle geometrie molto variabili: il sindaco è costretto a una mediazione con gli uomini sostenuti dai boss e in qualche caso a nominare assessori di loro riferimento che potranno incidere soprattutto sulle materie sensibili di interesse dei clan. Così, contando su una manciata di consiglieri i clan sono in grado di ottenere visibilità e pesare sulle scelte del Comune: non hanno neanche bisogno di controllare direttamente il primo cittadino, perché spesso arbitrano gli equilibri della maggioranza. In pratica la riforma elettorale ha creato tanti piccoli Ghino di Tacco che impongono un dazio ai sindaci e spostano la loro provvista di voti a seconda del loro interesse o di quello dei clan che li sostengono? Il dato che emerge è che spesso i voti non seguono il partito ma il candidato. Nel paese in cui abito, che conta più di centomila abitanti, un medico stimato e certamente avulso dai contesti criminali si è candidato in più competizioni locali, con fregi di partito diversi e passando da uno schieramento all’altro, e ha più o meno mantenuto sempre la sua dote di circa 1000 voti, evidentemente clienti affezionati, che gli hanno consentito l’elezione. Nelle ultime elezioni regionali ci sono stati vari candidati che pur cambiando schieramento si sono imposti con lo stesso numero di preferenze. La fine del voto ideologizzato fa sì che pacchetti di voti si spostino più in fretta, soprattutto nel magma dei partiti di centro. A proposito poi di consiglieri buoni per tutte le stagioni, a Napoli si è scoperto un episodio che ha dell’incredibile; un consigliere comunale della città (Achille De Simone) che appoggiava la risicata maggioranza del sindaco, l’onorevole Iervolino, è risultato essere stato contemporaneamente assessore in un grosso Comune della provincia (Cercóla) per il centrodestra. Il doppio incarico è stato scoperto solo quando l’assessore è finito agli arresti per vicende legate al clan operante a Cercóla. Ma come si controlla oggi un pacchetto di voti? Non c’è più Achille Lauro con le leggendarie offerte della scarpa sinistra prima delle elezioni e la destra consegnata solo a vittoria ottenuta. E non sembra credibile che nel Duemila ci siano camorristi fisicamente presenti a minacciare nei seggi… In Campania l’elemento fondamentale è il lavoro. E la camorra attraverso la gestione o il condizionamento delle attività imprenditoriali influisce anche sul voto. Sono molte le attività di indagine che l’hanno dimostrato; per esempio quando ci si è occupati del clan La Torre di Mondragone, è risultato che c’erano cene elettorali nelle aziende vicine al clan - cene volute direttamente dai vertici del sodalizio criminale - a cui tutti i dipendenti dovevano partecipare portando anche i loro parenti. La sopravvivenza delle ditte (nella fattispecie era quella che si occupava della raccolta dei rifiuti) dipende dalla politica che assegna gli appalti e quindi il cerchio si chiude, sempre il solito: politica, camorra, imprenditori. Alimentato dai voti e dai quattrini pubblici. Il meccanismo è quindi: voti agli uomini della camorra in cambio di lavoro? Ma anche in cambio di prebende, subappalti, forniture; tutto questo si trasforma in voti. La precarizzazione ha aumentato questo strumento di pressione: puoi mandare via con facilità chi non si reca al seggio oppure licenziarlo se il candidato designato non ottiene il risultato previsto. Perché se non c’è più la copertura politica che garantisce i contratti, non salta solo l’azienda ma anche tutto l’indotto che le gira intorno: chi fornisce benzina, materiali, mezzi, servizi esterni ecc.: se cade l’appalto, sono tutti fuori. La camorra lo fa capire in modo più o meno intimidatorio: tutta la zona grigia del fiancheggiamento viene mobilitata e ci sono ancora casi in cui cugini, nipoti e parenti vari vengono materialmente accompagnati a votare. Oltre a questi elettori che vengono in qualche modo «orientati» in sostegno di alcuni candidati, esiste ancora il fenomeno della vendita del voto gestita dalla camorra? Certo, soprattutto in tante zone popolari e nelle quali è forte il disagio economico; il voto, poi, rispetto al passato ha perso valore: viene comprato con una facilità incredibile, a prezzi bassissimi di 30-40 euro. I galoppini del clan raccolgono i certificati elettorali e poi li offrono in cambio di soldi o di altre promesse, ma soprattutto li usano per legare il candidato in un rapporto di complicità con loro. Vanno da lui con una cartella che contiene i certificati divisi per seggio e assicurano che si trasformeranno in voti. Sono provati molti casi del genere. In un’indagine di cui mi sono occupato a metà degli anni Duemila, durante un’elezione provinciale è stato intercettato il galoppino del clan Venosa, una potente famiglia casalese, mentre andava a casa di un candidato, mostrando la sua mercanzia: apriva la borsa e metteva sul tavolo mazzi di certificati elettorali, già divisi in tante cartelline, una per ogni seggio. Eppure quel soggetto, poi condannato per associazione mafiosa, era notoriamente uomo di un clan. E come fanno ad avere la certezza che il certificato elettorale si trasformerà nel voto acquistato? Ai tempi delle preferenze multiple erano stati escogitati dei metodi consolidati, dai normografi distribuiti dal clan per rendere le scritte identiche ai nomi civetta da indicare come «firma» del voto comandato, ma con un solo nome da barrare chi garantisce che nell’urna il contratto venga rispettato? Il sistema della preferenza plurima si controllava con una certa facilità: nella lista si inserivano persone che non dovevano essere elette, ma che venivano indicate nella scheda per provare di avere obbedito. Bisognava far vincere Tizio, Caio e si aggiungeva il nome di Sempronio che provava l’adempimento dell’obbligo. Con la preferenza unica questo gioco non funziona ma i clan e i loro galoppini elettorali hanno escogitato una soluzione: la scheda prevotata. Non è possibile: non si possono fare uscire le schede dai seggi. Vengono contate una per una. È avvenuto più volte ed è provato; si tratta di un metodo utilizzato dai camorristi ma non solo. A Napoli vi sono uomini borderline con i clan che in campagna elettorale per mestiere vendono voti. Come funziona il meccanismo è abbastanza semplice: basta una sola scheda, una, per creare una catena di voti sicuri. Quando ci sono le attività di preparazione del seggio, in genere il pomeriggio prima del voto, con le buone o con le cattive, riescono a farsi dare da uno scrutatore infedele una scheda timbrata e firmata di quelle pronte per essere consegnate all’elettore e inserite nell’urna. Non ci sono grandi rischi, tanto alla fine i numeri delle schede consegnate ai seggi che risultano sul pacco non coincidono quasi mai con la realtà. Su questa scheda bianca viene scritto il nome del loro candidato. La scheda pronta poi viene data all’elettore, che la mette nell’urna e porta fuori quella bianca, subito riutilizzabile per un nuovo elettore. E così avanti un altro. Possono utilizzare questo trucco solo con le persone di cui non si fidano, per i voti acquistati con un pugno di euro. La maggioranza delle preferenze controllate dal clan è legata ai posti di lavoro, con annessi parenti e familiari: il condizionamento è indiretto ma molto più forte e ritenuto tendenzialmente sicuro. Ma chi li compra questi voti? Tanti candidati, pure quelli che sanno di non poter essere eletti ma devono fare «bella figura» verso i capi di partito. Nella vicenda del galoppino casalese di cui si è parlato, l’acquirente era un candidato del centrosinistra nel collegio di Casal di Principe, che sapeva che non sarebbe mai stato eletto. Sono stati captati colloqui che erano illuminanti sui meccanismi del clan. Quando il camorrista venditore di voti racconta al suo referente come si stesse muovendo e gli spiega che il pacchetto sarebbe andato a un esponente del centrosinistra, il boss si mostra perplesso. Esclama: «E perché a lui? Noi stiamo con Forza Italia». E l’altro risponde: «Noi stiamo con Forza Italia alle politiche, ma qui alle locali che ci importa? Basta che lui stia con noi». È una registrazione sintomatica della situazione nella provincia campana. Ma i camorristi come scelgono i candidati da cui farsi rappresentare nei consigli comunali? Chi sono: mezze tacche della politica locale, giovani rampanti, professionisti pronti a tutto? Nel caso esponenti ricordato, cavalli su dell’indagine che riguardava la famiglia Zagaria dei casalesi, gli del clan utilizzano per i candidati un appellativo, che abbiamo già dal significato inequivocabile; erano «i cavallucci», come se fossero cui puntare nelle scommesse degli ippodromi. Un termine che la dice lunga sulla considerazione verso la politica, ma che allo stesso tempo contiene un riconoscimento verso le capacità dei concorrenti: se sono cavalli di razza lo dimostreranno garantendo laute ricompense per i boss. In quell’indagine, fondata su intercettazioni, i vari esponenti del sodalizio quasi si sfidano, fra di loro, per vedere chi sarebbe riuscito a fare eleggere il suo cavalluccio con più voti. Per completezza, si accertò che tutti quelli che erano stati citati, risultarono eletti. Questi riscontri vennero trasmessi alla Prefettura che, però, non ritenne vi fossero elementi per sciogliere il consiglio comunale. I candidati, in generale, vengono scelti soprattutto in base all’affidabilità: alla loro obbedienza ma anche alla capacità di risolvere le situazioni. Non è necessario che ci sia un rapporto di amicizia o che si tratti di un familiare, anche perché paradossalmente parentela significa elemento di sospetto. I profili sono i più vari: in qualche caso i candidati destinati a funzioni di mero supporto hanno piccoli precedenti penali e vengono dal sottobosco del clan, ma quelli su cui far affidamento per la gestione del municipio sono figli della piccola e media borghesia, e ci sono anche alcuni professionisti. Il cavalluccio ideale è affidabile e soprattutto presentabile. Ed è lui in genere che cerca il camorrista o fa un patto con i clan dopo avere cominciato una carriera politica autonoma? Nel passato c’era una classe politica strutturata, cresciuta nelle formazioni giovanili dei grandi partiti, che faceva sì che la criminalità nei Comuni cercasse di fare campagna acquisti tra i quadri di partito più vicini o spregiudicati. Oggi spesso le liste sono realtà nelle quali il camorrista piazza i suoi uomini; ma non sono mancati casi di liste completamente create dalla camorra. E una volta piazzati i loro uomini nei municipi, che cosa vogliono i clan? Anzitutto puntano al consenso, elemento principe per dominare il territorio. Il controllo del Comune e dei relativi uffici e servizi dà visibilità concreta alla loro forza. Condizionando le giunte e quindi la burocrazia degli uffici hanno uno strumento di potere sul territorio: possono farti avere una concessione, una licenza, persino un certificato di nascita. E questo vuole dire esibire un’immagine di forza a tutta la popolazione; senza consenso un clan non può nemmeno considerarsi tale. È un potere occulto, noto a tutti ma senza esibizioni pubbliche, oppure cercano anche di ostentarlo? Avere a disposizione pezzi di un’amministrazione permette anche di manifestare il proprio potere alla cittadinanza. Ci sono tre episodi, fra i tanti, che mi pare interessante ricordare. Dal 2004 il Comune di Volla, paese proprio a ridosso della città di Napoli, organizza e sponsorizza una manifestazione podistica dedicata al fratello del capoclan cittadino: il Memorial Cristofaro Veneruso. Nel 2005, secondo quanto riportato dalla stampa, vi ha partecipato persino l’assessore all’ambiente della giunta Iervolino. Certo, Cristofaro era uno sportivo incensurato ma il clan guidato dal fratello Gennaro, nel 2000, realizzò, fra le tante malefatte, un agguato in cui fu uccisa per errore una bambina di due anni: secondo le inchieste, due dei killer che sbagliarono furono poi puniti con la morte. Eppure il Comune non ha esitato a organizzare un trofeo di corsa con il nome della famiglia dominante. Oppure la festa dei Gigli di Crispano, municipio a cavallo delle province di Napoli e Caserta, una celebrazione della Madonna molto sentita nei paesi campani: nel 2004 venne affisso sulla piazza un megaposter del boss cittadino detenuto, una foto scattata durante una precedente edizione della sagra con la dedica «Tutto questo è per Te. Grazie». La festa religiosa è organizzata anche dal Comune e vi partecipano diecimila persone: il tributo al padrino è stato sotto gli occhi di tutti. quasi Infine Marcianise, dove gli uffici comunali hanno messo a disposizione uno spazio per fare atterrare l’elicottero del figlio del boss. Per le nozze, invece della carrozza o dell’auto d’epoca, l’erede dei Belforte, famiglia storica i cui vertici sono tutti detenuti e condannati, è sceso dal cielo come un vero vip con un Agusta noleggiato; qualcuno del municipio gli ha creato l’eliporto in centro permettendo così alla cittadinanza di ammirare lo sfarzo e l’autorità della famiglia camorrista. Dopo il consenso però vengono gli affari… La seconda ragione per interessarsi ai Comuni è la possibilità di intervenire in tutte le occasioni di lavoro che sono collegate agli appalti locali; piccoli e grandi contratti o forniture di competenza comunale, indispensabili per la vita del clan. Ma non va sottovalutato un altro aspetto: la possibilità di conoscere persone, cose e affari; spesso è proprio grazie alle notizie carpite dagli uffici comunali che i clan sanno delle attività economiche che vengono impiantate e che vanno «visitate» per chiedere loro di «mettersi a posto», e cioè versare il pizzo. Anche se conoscendo l’importanza dell’edilizia nello sviluppo di una camorra imprenditrice viene subito da pensare ai permessi per i cantieri e alle lottizzazioni. Fino a che punto riescono a influenzare i piani regolatori? Per capire quanto pesino i clan nell’urbanistica basta citare un episodio dei primi anni Novanta che riguarda i Galasso di Poggiomarino, all’epoca una delle dinastie criminali più ricche della Campania. Quando viene perquisita la villa di Pasquale Galasso gli investigatori trovano la bozza originale del piano regolatore che il Comune stava discutendo in quel momento. È chiaro che si tratta di un documento fondamentale per la camorra, perché permette, conoscendo in anticipo le scelte, di speculare sulle aree da costruire. Quando un clan diventa forte cerca subito di imporre il suo dominio sull’edilizia ma nei Comuni dove c’è una camorra radicata, questa gestisce direttamente o indirettamente anche l’abusivismo: le imprese nelle mani del boss o che si mettono d’accordo con lui riescono quasi sempre a completare gli edifici grazie alla connivenza delle amministrazioni. Sono in grado di offrire a questi cittadini poco rispettosi della legge il pacchetto completo, con la consegna della casa ultimata e con il minimo dei rischi per i reati commessi. Nelle indagini condotte in Campania sono state rilevate, purtroppo, molteplici situazioni di complicità tra camorristi e vigili urbani, che avrebbero il compito di contrastare gli illeciti edilizi sul territorio. Non bisogna mai dimenticare che attraverso i Comuni si controllano le licenze commerciali, gli appalti, l’edilizia e quindi le nuove case, elemento fondamentale per le famiglie quanto il lavoro: in pratica gran parte della vita dei cittadini. Fra i Comuni del Casertano sciolti per infiltrazione camorristica ve ne è uno che merita menzione; Orta di Atella, un paese minuscolo che ha conosciuto una crescita mostruosa nell’ultimo decennio: in otto anni i residenti sono passati da 13 mila a oltre 23 mila. Orta di Atella è un paese che conosco abbastanza bene. Era un Comune minuscolo a cavallo dell’Agro aversano, mi capitava spesso di passare da lì andando a Caserta e ammiravo con piacere la suggestione di un vecchio rione con palazzi medievali e cortili assai belli, Casapuzzano. Una terra di giardini e coltivazioni tradizionali: si dice che la selva dove Virgilio ha composto alcune bucoliche fosse proprio lì. Fino agli anni Ottanta era una realtà completamente agricola, con meno di 4000 abitanti nel centro storico dominato dal palazzo baronale. Negli scorsi anni ripassando da lì ogni volta faticavo a riconoscerlo: c’erano sempre nuove schiere di palazzi, edifici impressionanti che hanno sommerso il territorio. Le indagini, cominciate purtroppo in ritardo, hanno accertato come siano stati usati gli strumenti urbanistici più disparati pur di far costruire: senza un piano regolatore aggiornato, con qualunque giustificazione, inclusi gli insediamenti produttivi, e ogni forma di concessione. E allo stesso tempo questo ha provocato un’immigrazione massiccia da Napoli e dalle realtà circostanti: in quel territorio hanno costruito numerosissimi imprenditori napoletani e casertani, anche con pedigree di vicinanza alla camorra. Ma questo boom edilizio ha creato un consenso solido come il cemento: il sindaco Ds di quel paese, Angelo Brancaccio, ha ottenuto in una elezione oltre il 90 per cento dei voti; un consenso a dir poco bulgaro a cui si è aggiunta in breve tempo anche l’elezione nel consiglio regionale. Quando la Procura di Santa Maria Capua Vetere comincia a indagare, il sindaco finisce agli arresti domiciliari per corruzione in vicende non direttamente connesse alla criminalità. Di lì a poco comunque il consiglio comunale sarà sciolto per infiltrazioni mafiose. Nella sezione Ds di quel paese risultano iscritti i fratelli Orsi e i loro familiari, soggetti ritenuti fra i principali referenti dei casalesi nella gestione dei rifiuti. Dopo l’arresto i Ds sospendono il loro esponente e lui si iscrive all’Udeur, rimanendo così consigliere regionale per l’intera legislatura nella stessa maggioranza di centrosinistra che sosteneva Antonio Bassolino. Sui giornali ho anche letto che Brancaccio nel 2010 è stato rieletto sindaco e consigliere provinciale a Caserta, ma stavolta con lo schieramento di centrodestra. In un decennio la zona di Comuni tra Orta di Atella, Mondragone e Castelvolturno è stata stravolta: in un libro che analizza la situazione si parla di «Terre in disordine»; quello era un territorio agricolo, con coltivazioni tipiche, attività artigianali e qualche piccola industria. Invece è stato colonizzato dall’edilizia intensiva con nuovi quartieri dormitorio e ben sette centri commerciali, mentre discariche lecite e clandestine si alternano ai campi di frutta e pomodori. Mondragone è diventato un altro Comune simbolo di plurime infiltrazioni. Si tratta di un territorio che avrebbe potuto rappresentare una risorsa incredibile: con un litorale molto lungo e bello; con tanti resti della civiltà romana e delle ville dei patrizi che amavano quella zona dove si produce un vino (il Falerno) amato anche dai poeti latini. In zona ci sono persino le acque termali che avrebbero consentito di sfruttare ogni genere di turismo. In quel Comune uno dei business più importanti ha, invece, ruotato intorno ai rifiuti. Lì, fra Mondragone e Castelvolturno (altro Comune simbolo delle occasioni sprecate) vi era la discarica Bortolotto, gestita da quel Giacomo Diana denominato «Paperone», uomo strettamente collegato al clan La Torre di cui si è già parlato. Mondragone è uno dei primi municipi sciolti per camorra dopo la legge del 1991. Lì era avvenuto di tutto: avevano ucciso il vicesindaco Nugnes e fatto sparire il corpo; è passato quasi sotto silenzio l’agguato per strada a un parlamentare nazionale della DC, che si chiamava Camillo Federico e che veniva considerato un ostacolo dal clan. Dopo il suo pentimento La Torre ha dichiarato, e non era megalomania, che riusciva a controllare quasi completamente il consiglio comunale: a metà anni Novanta quando è già latitante incontra, secondo quanto messo a verbale da lui e da altri pentiti, il sindaco di Mondragone, un uomo che viene dall’impegno cattolico ed è esponente di primo piano dell’allora Margherita e oggi del Pd. L’oggetto del colloquio, sempre secondo il suo racconto, sarebbe stata la gestione degli appalti pubblici. È triste notare come effettivamente lo scenario non sia molto cambiato nel periodo più recente. Il sindaco Ugo Conte, un medico ritenuto fino a quel momento una persona integerrima, era stato eletto con una lista civica. Durante il suo primo mandato esplode il problema della Covim, la ditta che si occupava dei rifiuti e dava lavoro a moltissime persone legate al clan. Vengono arrestati per associazione camorristica gli amministratori della società, ritenuta diretta emanazione del sodalizio e all’interno della quale lavoravano molti familiari dei boss. È quello il periodo in cui si pongono le basi del consorzio Caserta 4 e della nascita della società mista Eco4. È un momento difficile per la città ma anche per il clan, che dalla ditta riceveva oltre 30 milioni di lire al mese. Ci sono contatti frenetici e, secondo quanto riferito dai pentiti e quanto riportato nell’ordinanza successiva con cui Conte è stato tratto in arresto, viene persino fatto un incontro presso un ristorante del basso Lazio a cui partecipano i fratelli Orsi per conto della società mista, il sindaco e il referente del clan Peppe Fragnoli. I boss vogliono essere informati e dare il loro placet sull’appalto in corso. Ma non finiscono lì le vicende dei rapporti con il clan; Conte, che decide di schierarsi con Forza Italia, conta su una maggioranza risicata e diventa importante un voto, quello di una consigliera comunale indipendente, tale Maria D’Agostino, a cui vengono promesse l’assunzione di 3-4 persone, inclusa lei stessa, nel consorzio Caserta 4 o nell’Impregeco a esso collegato; si è accertato poi dopo che la D’Agostino non ha mai lavorato nemmeno un giorno. Quindi si usano le assunzioni finanziate dall’emergenza rifiuti come strumento di scambio per condizionare gli equilibri politici del Comune? Sì, ma il problema è molto più complesso; la D’Agostino non è una politica come la si potrebbe immaginare: a metà degli anni Ottanta era stata arrestata perché trovata in un covo con alcuni dei capi latitanti del clan di Sessa Aurunca. Inoltre è cugina e si frequenta spesso con Assunta D’Agostino, la compagna ufficiale di Mimì Bidognetti, uno dei capi dei casalesi. E quando emergono, grazie ad articoli di giornali, le vicende che riguardano la D’Agostino, il prefetto di Caserta non ritiene di sciogliere il Comune cercando invece di trovare una soluzione di compromesso che porta alle dimissioni della consigliera. Mondragone, del resto, non è un Comune qualsiasi; è il luogo dove è nato, risiede e ha avuto il proprio collegio elettorale Mario Landolfi, ex consigliere comunale dell’Msi, giornalista del «Secolo d’Italia» e parlamentare per varie legislature, insignito sia della carica di ministro delle Comunicazioni sia, in altra legislatura, di quella di presidente della Commissione parlamentare di controllo della Rai. È attualmente uno dei coordinatori campani del Pdl insieme all’onorevole Cosentino. Landolfi segue le vicende dell’amministrazione locale e per tale ragione risulta poi lui stesso indagato - ma finora nemmeno rinviato a giudizio - per un episodio di corruzione relativa sempre a un posto di lavoro che sarebbe stato dato nella solita Eco4 alla moglie del consigliere che subentrava alla D’Agostino. Un guazzabuglio incredibile che ha portato allo scioglimento del consiglio solo dopo che il sindaco Conte è stato arrestato insieme agli Orsi e al presidente del consorzio Giuseppe Valente. Ma questa D’Agostino, capace di condizionare interessi tipo era? Una donna manager? Una signora della politica? così importanti, che Tutt’altro. Era effigiata sempre negli album segnaletici delle forze dell’ordine e mi pare di averla pure interrogata, non ricordo se prima o dopo il suo arresto; era una donna che conservava una sua bellezza ormai sfiorita ma dura e che affrontava i problemi con l’approccio delle matriarche che danno per scontato di avere tutto il mondo dalla loro parte. In gioventù Maria doveva essere stata particolarmente procace e affascinante. I pentiti hanno parlato spesso di lei e della cugina, descrivendole come due donne che avevano avuto rapporti con altri boss e gregari. La loro bellezza le rende importanti e fa arrivare Maria in consiglio comunale, dove diventa ago della bilancia della politica locale. Manovre così articolate sembrano dimostrare una maneggiare i meccanismi della politica locale… grande abilità dei boss nel Gli uomini dei clan non vanno affatto sottovalutati; dimostrano di conoscere bene le logiche della politica e anche quelle interne dei partiti, cercando di inserirsi in esse per raggiungere i loro obiettivi. Un esempio: nelle provinciali di Caserta all’inizio degli anni Novanta gli Schiavone, i boss di Casal di Principe, volevano candidare un loro parente: un incensurato apparentemente non colluso ma comunque un familiare. La Democrazia cristiana, loro partito tendenziale di riferimento, aveva altre idee e nega il posto. Allora il clan si organizza e contatta altri gruppi malavitosi del Casertano: utilizzando esponenti politici che erano in rotta con la stessa DC, riesce a creare una lista civica che si presenta in tutta la provincia e che conquista due seggi, uno dei quali - guarda caso - proprio a Casal di Principe. Il voto venne poi annullato per motivi burocratici, ma i boss avevano dimostrato la capacità di imporre i loro uomini senza bisogno di partiti. C’è un’altra storia che pure riguarda l’Agro aversano; secondo il pentito Carmine Schiavone il suo gruppo aveva organizzato una manovra molto sofisticata, alla fine degli anni Ottanta, a Villa Literno. Schiavone puntava a imporre un sindaco DC a lui legato e voleva far fuori quello socialista che da anni governava quel Comune e che, secondo il pentito, era emanazione della famiglia operante su Villa Literno e cioè i Tavoletta, legati al Psi. Schiavone sa che la DC non ha la maggioranza e pensa a una giunta anomala, con i due consiglieri Pci che sostengano il sindaco democristiano. Racconta di avere convocato i due giovani consiglieri e di averli «convinti» ad accettare questa soluzione. La giunta si fece e a distanza di anni l’allora sindaco fu incriminato per associazione camorristica nel processo Spartacus II. Al dibattimento furono sentiti i due consiglieri dell’allora Pci, i quali avrebbero potuto fare chiarezza su una pagina oscura del Comune; invece no, essi dichiararono che la loro era una scelta politica e che mai gli Schiavone avevano interferito. Il sindaco fu assolto e poi a distanza di anni uno dei due giovani consiglieri comunali del Pci è divenuto lui sindaco di centrosinistra di Villa Literno, in un’amministrazione molto controversa e discussa, oggetto, fra l’altro, di uno scioglimento per infiltrazioni camorristiche, poi, a onor del vero annullato dal Tar. Comunque quel sindaco, Enrico Fabozzi, è stato eletto nel 2010 consigliere regionale del Pd. Manovre quindi che restano però senza conseguenze politiche o giudiziarie… Purtroppo è davvero difficile tradurre i fatti anche conclamati in condanne, per le difficoltà di trovare riscontri alle dichiarazioni dei pentiti o comunque di dimostrare che certi comportamenti possano essere qualificati come associazione camorristica o concorso esterno. Nel processo Spartacus II, istruito prima del mio arrivo alla Direzione distrettuale antimafia, erano stati arrestati e inquisiti molti amministratori comunali dell’Agro aversano e alcuni parlamentari anche molto noti in provincia di Caserta; ebbene a seguito del dibattimento credo siano stati assolti quasi tutti e onestamente le motivazioni delle assoluzioni mi sembrarono ineccepibili, tanto che non venne proposto nemmeno appello. Eppure in molte vicende emergeva la prova di rapporti collusivi che avrebbe quantomeno dovuto pesare sul piano deontologico, etico e forse anche politico. Ma in provincia di Caserta negli anni Ottanta parecchie cose sono avvenute alla luce del sole senza provocare eccessivo scandalo. In un certo periodo, più o meno coincidente, nei paesi dell’area casalese i sindaci avevano lo stesso cognome dei padrini ed erano a loro direttamente imparentati. A San Cipriano d’Aversa, in particolare, dal 1982 è stato sindaco per conto del Psi Ernesto Bardellino, fratello incensurato di Antonio, che è stato il capo indiscusso del cartello, non solo casertano ma regionale, che si contrapponeva a Cutolo e cioè la Nuova Famiglia. Ernesto Bardellino è stato più volte in predicato di essere candidato per il Senato. Un altro caso eclatante è quello del blitz di Santa Lucia del 13 dicembre 1990. Dopo la morte del grande capo Bardellino il vertice casalese è in una fase turbolenta. Schiavone e Bidognetti, i due padrini emergenti, organizzano un summit del clan che secondo i pentiti era una trappola per eliminare Vincenzo De Falco, un altro dei capi del clan. De Falco viene forse messo in guardia e fa arrivare una soffiata ai carabinieri, che irrompono e catturano Schiavone, Bidognetti e molti dei loro affiliati armati fino ai denti. La riunione era nella casa del vicesindaco di Casal di Principe, Gaetano Corvino, che successivamente è finito anche lui in manette ed è stato uno dei condannati in primo grado nel processo Spartacus II. Il paradosso è che oggi il figlio di Corvino è consigliere comunale sempre a Casal di Principe: un incensurato, mai lambito da indagini sui rapporti con il clan, per il quale vale, ovviamente, il principio che le colpe dei padri non ricadono sui figli, ma forse in certe occasioni scelte di prudenza e opportunità imporrebbero di imboccare altre vie nella selezione delle candidature. Quindi a Casal di Principe il Comune era in mano ai casalesi? Secondo il pentito Carmine Schiavone, il clan sceglieva il sindaco e l’assessore alle finanze, ossia le due figure chiave per controllare fondi e appalti. C’è una sola eccezione, quando nel 1994 sulla scia delle retate di Tangentopoli vince un esponente del Pds, Renato Natale. La giunta dura pochi mesi, ma quella vittoria rappresenta un momento di difficoltà per i boss che, per questo, quando si torna a votare si mobilitano. I pentiti parlano di una campagna massiccia, con i normografi per scrivere sulla scheda i candidati scelti dal clan e camorristi schierati fuori da ogni seggio che accompagnano fisicamente gli elettori fino all’ingresso o che con la loro presenza mandano segnali inequivocabili. E il nuovo sindaco si chiamò Schiavone, imparentato con i boss, poi processato e assolto per camorra. Possibile che nessuno si sia mai opposto a questo potere così esibito? No, per fortuna non è così; ci sono stati pochi ma significativi momenti di contrapposizione al clan, fatti a rischio anche della propria vita. Senza far torto a quelli non citati, il sindaco Natale di cui ho parlato è stato per anni indicato come un bersaglio del clan e sottoposto a scorta; il parlamentare Lorenzo Diana del Pci-Ds è ancora oggi sotto scorta proprio perché odiato dai casalesi come affermato da molti pentiti. Ma ci sono tante piccole storie di rivolta civile. Me ne vengono in mente due. Nel 1990 a Sessa Aurunca, Comune a nord del Casertano dove opera un clan molto forte, nelle elezioni comunali il gruppo criminale organizzò una lista civica a cui era manifesto il suo appoggio. Gli uomini del sodalizio fecero una campagna elettorale durissima; tutti gli altri partiti, DC in testa, si coalizzarono e almeno in quell’occasione impedirono che il gruppo della camorra vincesse. E poi mi piace ricordare una persona poco nota fuori dall’ambiente casertano, Antonio Cangiano, esponente del Pci che nel 1988 era stato appena nominato vicesindaco di Casapesenna, oggi considerata una delle capitali del clan casalese ma allora quasi ignorata dagli investigatori. Gli uomini del clan gli sparano, costringendolo a vivere sulla sedia rotelle fino alla sua morte, avvenuta nel 2009. Colpa di un sicario inesperto, che aveva avuto solo l’incarico di gambizzarlo. Da quello che è emerso nelle indagini si sarebbe trattato di un’azione preventiva: il clan era convinto che lui avrebbe impedito l’autorizzazione allo sfruttamento di un pozzo comunale; si organizza un agguato per un fatto banale dal punto di vista economico ma fondamentale per evitare che risultasse offuscata l’immagine di potenza del clan. Ho conosciuto personalmente Cangiano e mi sono occupato della sua vicenda; il suo interrogatorio è uno degli episodi che mai dimenticherò: un uomo distrutto fisicamente ma lucidissimo e determinato, tanto da aver provato verso la fine degli anni Novanta a rientrare in politica nel suo paese. Mi ero fatto un punto d’onore nel cercare di individuare e far condannare i suoi sicari; sono riuscito a portarne due a giudizio ma al dibattimento il teste principale, un pentito, non ha confermato le accuse e i due inquisiti, ormai divenuti killer di primo piano del clan, sono stati giustamente assolti. Quanto pesa Comuni? oggi in Campania la violenza nel condizionare l’attività dei Pesa eccome, nei confronti soprattutto di quelli che non sono stati eletti dal clan. Quando la camorra non arriva a comprare il consigliere o il sindaco con una partecipazione negli appalti o nelle assunzioni, quando non ci riesce nemmeno con i soldi, allora conta la violenza. Violenza c’è stata soprattutto nel passato; è difficile trovare amministrazioni in cui non ci siano state intimidazioni: attentati, gambizzazioni, l’omicidio di un vicesindaco. Adesso è diventata marginale, anche se la memoria di questi fatti gravi mantiene pesante il clima nel territorio. Ora si continuano a usare avvertimenti: teste di maiale o carichi di letame lasciati davanti alla casa del politico da intimidire, auto incendiate, buste con proiettili. I pentiti ci hanno parlato di consiglieri comunali obbligati con la forza a non partecipare a votazioni decisive. Si cerca però di evitare il clamore, di tenere un profilo basso. E in Campania l’opposizione come si comporta nell’impegno antimafia? Una volta il Pci era considerato incompatibile con le mafie E il giovane Antonio Bassolino sembrava presenziare spesso alle manifestazioni contro i clan. Ma, a differenza di quanto accaduto in Sicilia e in alcune realtà calabresi, in Campania Pci prima e Ds dopo non sembrano mai avere fatto della mobilitazione anticamorra un pilastro della loro attività politica e amministrativa. Credo pochi sappiano che Antonio Bassolino è stato sentito come teste nel primo processo Spartacus per ricostruire un episodio degli anni Ottanta: quando non era ancora sindaco di Napoli e da parlamentare comunista era andato a fare un comizio elettorale a Casal di Principe. In quell’occasione era stato pesantemente intimidito dai familiari del boss Schiavone che lo consideravano un nemico del clan. I rapporti della camorra con il principale partito di opposizione sono però molto più complessi. Negli anni Settanta la camorra era un’organizzazione criminale alquanto arretrata, senza una grande forza economica o militare: stiamo parlando della stagione che precede il boom del narcotraffico e il fiume di miliardi di lire per le zone terremotate. Questa debolezza aveva portato a sottovalutare la camorra, tanto che essa non viene colpita nemmeno da una stigmatizzazione sociale: ci sono familiari di malavitosi anche nelle strutture dei partiti di sinistra. I fenomeni di infiltrazione dei clan nel sistema politico vengono accelerati dal sisma del 1980: con Cutolo gli assetti cambiano e c’è la massiccia occupazione degli enti locali, e i referenti politici sono soprattutto i partiti di governo. In Sicilia forse la situazione era diversa; l’opposizione del Pci è stata più netta perché c’era una differente origine sociale: la mafia dei campieri nasce dalla borghesia agraria, mentre in Campania la camorra ha, almeno in alcune zone, un’origine plebea che la rende forte in aree dove si votava Pci: i quartieri a più alta presenza criminale come Secondigliano, Pianura, Bagnoli erano zone rosse. La diversa radice sociale forse ha contribuito alla sottovalutazione del fenomeno. In Sicilia era impensabile che un mafioso votasse a sinistra, in Campania spesso il camorrista si sentiva proletario e votava Pci. I fondi per il terremoto stravolgono anche questa situazione. Il primo intervento per cacciare un sindaco accusato di camorra riguarda un paesino che ha meno di tremila abitanti: Quindici, un centro dell’Irpinia che da mezzo secolo si è imposto nelle cronache giudiziarie per la ferocia e la capacità di resistenza del clan Graziano. Quella dei Graziano di Quindici è una storia impressionante. Dal 1970 in poi la maggior parte dei sindaci si chiamano Graziano: il primo capoclan a diventare sindaco è Fiore Graziano, che trasforma il paesino nella centrale di una rete criminale internazionale. Quando il terremoto devasta l’Irpinia, loro si alleano con Raffaele Cutolo e hanno il dominio su una fascia di Comuni rasa al suolo e quindi tutta da ricostruire. Questo scatena una guerra senza quartiere tra i Graziano e i Cava, federati con lo schieramento di Alfieri. Fiore Graziano viene ucciso durante una partita di calcio e lo sostituisce, alla guida della famiglia e del Comune, Raffaele Graziano. Nel novembre 1982 trenta killer assaltano il municipio per stanare il sindaco-padrino: sparano oltre trecento proiettili e lanciano due granate, ma lui si salva nascondendosi in una soffitta. Una situazione incredibile, che spinge il presidente Sandro Pertini a intervenire e destituire il sindaco utilizzando una vecchia normativa degli anni Venti: credo non fosse mai successo prima. Raffaele Graziano si dà alla latitanza, inseguito dagli ordini di cattura, ma un anno dopo la lista di famiglia vince di nuovo e viene eletto Eugenio Graziano. Lo arrestano per concorso in omicidio dopo un mese. La dinastia però prosegue e all’inizio degli anni Novanta si torna a sciogliere il Comune utilizzando la nuova legge. Neanche questo commissariamento riesce però a risanare la situazione. Nel 2000 c’è un sindaco che non si chiama Graziano ma viene considerato, nel decreto del ministero degli Interni, collegato al clan e soprattutto alle donne dei boss, che lo stavano gestendo durante la detenzione di mariti e figli: Antonio Siniscalchi, che pure pubblicamente aveva manifestato l’adesione ai principi dell’anticamorra, viene intercettato mentre pronuncia una frase intesa dagli inquirenti come una dichiarazione programmatica: «Questi devono capire che ora per fare i camorristi bisogna usare la testa». Il Viminale ancora una volta ha mandato via gli amministratori di Quindici: siamo nell’assurdo, un Comune sciolto tre volte senza che si ristabilisse la legalità. La situazione di Quindici e altre vicende segnalate dalla stampa provocano diversi interventi del presidente Sandro Pertini ma soprattutto mostrano l’esigenza di uno strumento per stroncare le infiltrazioni che arriva soltanto nel 1991: il decreto «Taurianova», una misura per combattere i colletti bianchi, che nasce invece dalla barbarie dei killer. Taurianova, come abbiamo visto, fu uno choc: un uomo ucciso, che viene decapitato e la testa fatta rimbalzare sparandole contro, il tutto in una via centrale del paese calabrese. In quegli anni è stata prodotta la migliore legislazione antimafia; grazie anche alla presenza di Giovanni Falcone nel ministero della Giustizia nascono misure importanti. Quella relativa ai Comuni è stata un’ottima normativa, perché i presupposti per lo scioglimento erano indicati in termini alquanto elastici e ciò imponeva alle amministrazioni di guardarsi rispetto a quei controlli amministrativi con cui i prefetti potevano andare a fare le pulci ai rapporti di parentela, di comparanza, di frequentazione di sindaci, assessori e consiglieri. La norma consentiva di monitorare le infiltrazioni anche quando non c’erano indagini penali in corso e anzi avrebbe dovuto prevenire le indagini penali. Con l’amministrazione provvisoria non elettiva, ossia con il commissariamento, si sarebbe potuto garantire un periodo «di bonifica», sottraendo il Comune al controllo criminale. La legge in un primo momento viene applicata moltissimo; c’è una marea di scioglimenti, poi con l’andare del tempo si riducono: 21 nel 1991 e nel 1992, 34 nel 1993, ma poi l’anno successivo si scende a 4. Un po’ perché cambia la mentalità: superato il trauma delle stragi, c’è minore sensibilità sociale sul tema e viene meno il momento emergenziale di entusiasmo. Ma anche perché i clan prendono immediatamente le contromisure. In Campania sono state sciolte 80 amministrazioni comunali, 50 in Sicilia e 41 in Calabria: che cosa significa questo dato? La camorra riuscita a infiltrare la politica locale più di Cosa Nostra e ‘ndrangheta? è Non credo assolutamente sia questa la ragione. Nella mia esperienza di magistrato del pubblico ministero ho letto molti decreti di scioglimento e ho verificato che l’attività di monitoraggio su un Comune non è frutto di controlli generalizzati, difficili se non impossibili visti gli organici delle Prefetture, ma nasce da situazioni spesso eclatanti di violenza, da arresti della magistratura o da martellanti campagne politiche sostenute soprattutto da parlamentari che fanno parte dello schieramento politico opposto. In Campania, la camorra, meno borghese e con un’elevata conflittualità, ha spesso richiamato più attenzione di quanto non abbiano fatto le mafie siciliane o calabresi. Del resto, la frammentazione tra clan e all’interno degli stessi clan fa sì che persino lo scioglimento possa essere stato utilizzato in alcuni casi per farsi guerra, cercando di spostare i propri uomini da maggioranza a opposizione. I numeri, quindi, non rendono affatto giustizia alla Campania: Sicilia e Calabria non hanno minori infiltrazioni criminali nei municipi, solo che lì le cosche sono più attente e meno visibili; i clan più strutturati e meno litigiosi sono in grado di operare nella più ampia pax mafiosa e ciò rende meno conoscibili le collusioni. Quale è stata la reazione della camorra alla prima ondata di scioglimenti? Quando le vecchie giunte in cui siedono parenti e amici di boss cominciano a cadere in fretta, allora i clan candidano figure presentabili, senza legami familiari o frequentazioni note alle forze dell’ordine. Se in genere tutti gli amministratori che fanno parte di consigli sciolti si difendono gridando al complotto politico, è anche vero che in qualche caso un vago sapore politico nelle scelte sembra intravedersi. C’è anche da dire che la legge del 1991 è invecchiata rispetto alle riforme: si occupa soprattutto delle infiltrazioni che riguardano i consigli comunali lì dove ormai il ruolo dell’attività sono le giunte. Non tiene conto del fatto che con Bassanini gran parte dei poteri sono attribuiti agli uffici comunali e esponenti eletti: a che serve togliere i consiglieri se lasci chi concretamente quello che interessa ai clan? centrale la legge non agli gestisce Tra mimetismo e addirittura fìnta mobilitazione antimafia delle giunte in mano alle cosche, l’impressione è che lo strumento oggi non riesca più a prevenire e contrastare l’assalto dei boss alle amministrazioni locali. Anche perché i periodi di commissariamento poi raramente riescono a far rinascere una buona gestione e una competizione politica senza ombre di mafia… È certamente la parte più problematica e fallimentare della legge; quello che dovrebbe essere il periodo - da 18 a 24 mesi che consente alla macchina burocratica e amministrativa di depurarsi dalle scorie mafiose molto spesso altro non è che un momento di totale immobilismo. I commissari designati dalle Prefetture per gestire i Comuni «sciolti», quasi sempre senza alcuna competenza specifica in materia, tirano a campare e dopo un po’ a molti cittadini fanno rimpiangere persino gli amministratori collusi, visto che si limitano a tenere al minimo i motori della macchina comunale. E non sono mancati nemmeno casi in cui durante la gestione commissariale sono state approvate operazioni «sospette» che nessun amministratore avrebbe avuto il coraggio di fare. E poi i funzionari degli uffici comunali continuano a mantenere e anzi accrescere la loro forza, conoscendo a menadito la macchina burocratica: gli estranei faticano a orientarsi nelle pratiche disordinate dei municipi meridionali, mentre il tecnico dell’ufficio urbanistica sa bene come muoversi… Infine, altro elemento molto discutibile, troppo spesso alle elezioni successive si ripresentano alcuni amministratori che facevano parte delle compagini sciolte. Se questa è la situazione, forse conviene rinunciare agli scioglimenti: così sembrano dimostrare l’impotenza dello Stato centrale nei confronti dei piccoli camorristi, una sconfitta delle istituzioni. Assolutamente no. Gli aspetti positivi dell’istituto restano senza dubbio maggiori rispetto ai problemi; lo scioglimento rappresenta comunque uno strumento di controllo della legalità che andrebbe migliorato e potenziato. Tante volte è grazie a esso che si è riusciti a sanare e a intervenire in situazioni di clamorosa violazione delle regole. Come non pensare al caso di Casalnuovo, grosso Comune dell’hinterland napoletano in cui a un certo punto si scopre, nell’inerzia tenuta fino a quel momento da tutti gli organi deputati al controllo, un vero e proprio quartiere completamente abusivo con decine di palazzi in gran parte persino già venduti. Lo scioglimento è stato un segnale assolutamente provvidenziale anche per tentare di effettuare quegli abbattimenti che un’amministrazione ordinaria non avrebbe mai fatto. Non si può migliorare la legge in modo da rendere lo strumento efficace e stroncare i nuovi meccanismi dell’infiltrazione? La questione dovrebbe essere di rilevanza nazionale: è nei Comuni che nasce la prima cellula del sistema di potere mafioso. Per la verità in uno dei pacchetti sicurezza approvati nel corso del 2009, la norma sullo scioglimento è stata modificata e si è intervenuti su alcuni dei punti critici che erano stati evidenziati, permettendo per esempio l’allontanamento dei funzionari collusi dagli uffici o prevedendo l’incandidabilità di quegli amministratori ritenuti la causa dell’infiltrazione. La fretta, però, di approvare comunque una riforma non è stata buona consigliera, e la nuova disposizione sta dimostrando di non essere in grado di risolvere molti dei problemi che in passato erano stati segnalati. Nessuna modifica è stata apportata alle modalità di scelta dei commissari e non si è creato un albo ad hoc da cui individuarli, come si chiedeva da più parti. L’incandidabilità, poi, degli amministratori delle giunte sciolte passa per un processo lungo e complicato che difficilmente sarà attuato nella pratica. E poi quella norma prevede una stravaganza clamorosa: l’amministratore colluso non potrà candidarsi per cinque anni al consiglio comunale, provinciale e regionale, ma può diventare deputato e senatore. In una delle prime applicazioni, infine, della nuova norma a un caso su cui vi era stata vasta eco non solo locale, l’interpretazione fornita dal governo è sembrata andare verso un’opzione molto restrittiva. Mi riferisco al Comune di Fondi, ricco municipio del basso Lazio nel cui territorio si sono stabiliti gruppi della ‘ndrangheta calabrese, in collegamento con i casalesi, che avevano rapporti ambigui di interesse con alcuni uomini dell’amministrazione per speculazioni edilizie e per il controllo del mercato ortofrutticolo. Ebbene, secondo quanto si è appreso, il consiglio non è stato sciolto perché la giunta si è dimessa. Se dovesse passare l’idea che bastano le dimissioni della giunta per impedire uno scioglimento e, quindi, il commissariamento, l’istituto sarebbe di fatto defunto. A Fondi, del resto, si è rivotato a distanza di qualche mese, essendo ciò possibile proprio perché lo scioglimento era avvenuto secondo le regole ordinarie e senza commissariamento e il risultato è che alcuni degli amministratori eletti già facevano parte della pregressa giunta ritenuta collusa. 5. La politica. La Sicilia da Lima a Cuffaro. Dal bacio di Giulio Andreotti ai troppi baci di Totò Cuffaro, dalla volontà di condizionare l’uomo di Stato più importante del dopoguerra al governatore siciliano che avrebbe manovrato talpe negli uffici dell’antimafia. A leggere nei verbali dei pentiti e nei provvedimenti delle procure, la parabola del rapporto tra le cosche e la «grande politica» passa dal legame diretto con Salvo Lima, il plenipotenziario del «sette volte presidente del Consiglio», a quello degli uomini che parlavano con il presidente dell’isola autonoma: un percorso che in vent’anni avrebbe spostato il baricentro dell’interesse mafioso da Roma a Palermo, Napoli o Catanzaro. La logica conseguenza di un processo di riforma istituzionale che dalla sanità agli appalti ha trasferito sempre più potere nelle Regioni. Ma quella penetrazione evidenziata dai processi contro Cosa Nostra, con protetti delle famiglie che sedevano nell’aula di Palazzo dei Normanni, o contro i casalesi, che riuscivano a entrare negli uffici della maggioranza di Antonio Bassolino, sembra essere solo uno dei pilastri della nuova architettura criminale. Perché, come evidenziava l’analisi di Salvatore Lupo in un saggio del 1996 che avrebbe dovuto fare scuola - Andreotti, la mafia, la storia d’Italia -, il metodo che affida ai pentiti e ai pubblici ministeri la ricostruzione delle dinamiche politiche è riduttivo o addirittura distorto. E, dopo le relazioni della commissione parlamentare d’inchiesta del 1993, quella presieduta da Luciano Violante, nessuno ha nemmeno tentato di elaborare una visione diversa della questione. Lasciando un grande buco nero su quello che è accaduto negli ultimi vent’anni. I documenti di quella commissione e le sentenze dei dibattimenti più clamorosi si fermano a un passato ormai remoto, arcaico come le conoscenze dei collaboratori di giustizia che lo hanno disegnato. Il processo Andreotti si è chiuso con un’assoluzione piena per quello che riguarda l’ultimo decennio della Prima Repubblica e con una prescrizione, letta come un riconoscimento di responsabilità, per il periodo anteriore al 1980: un’altra Italia, un altro mondo condizionato dalla Guerra fredda, una Cosa Nostra completamente diversa da oggi. Quell’analisi è frutto delle dichiarazioni di un unico personaggio di rilievo, Tommaso Buscetta, che però era stato esiliato proprio dal sanguinoso trionfo corleonese dei primi anni Ottanta: era fuori dal sistema creato da Totò Riina e crollato nel 1993. Gli altri pentiti sono figure spesso di secondo piano, che raramente forniscono testimonianze dirette e quasi mai permettono riscontri oggettivi. Certo, nessuno mette in dubbio il ruolo svolto dall’onorevole Salvo Lima, proconsole del Divo. Una questione sintetizzata, senza se e senza ma, nel 2006 dalla relazione della Commissione parlamentare antimafia guidata dal senatore Pdl Roberto Centaro: «Sotto il profilo della storia politica siciliana è significativa la genesi della corrente andreottiana della DC che si incardina nella figura di Salvatore Lima come personaggio di “cerniera” tra Cosa Nostra e il mondo politico». Ma sono proprio i killer corleonesi a far saltare questa cerniera uccidendo l’onorevole nel marzo 1992: l’inizio della sfida aperta alla politica, quando per la prima volta la mafia siciliana tenta di imporre con le armi le sue decisioni. In due anni il sistema durato mezzo secolo all’ombra del Muro di Berlino si dissolve. La crisi economica, le inchieste di Tangentopoli, le pressioni dell’Europa che si sta unendo vengono amplificate dalle bombe che esplodono a Palermo, Roma, Firenze, Milano. Alla fine anche in Sicilia cambia tutto, perché nulla cambi. La mafia passa dal dominio di Riina alla regia di Provenzano, con una strategia tornata silenziosa e nuovi interlocutori nei palazzi del potere. Su cosa sia avvenuto in quei due anni chiave ci sono tanti misteri e poche certezze. È sicuro che l’ala dura delle cosche abbia tentato la strada secessionista, fondando il movimento «Sicilia Libera» che entra in contatto con le tante leghe autonomiste sorte nel Sud imitando il neonato partito padano di Umberto Bossi su ispirazione dell’ideologo del Senatur, Gianfranco Miglio: una nebulosa meridionale in cui cercano nuove fortune anche antichi maestri di trame massoniche. Ma il progetto tramonta dopo poco, sostituito da qualcosa di diverso. Cosa? Anche qui non ci sono elementi giudiziari certi. Gli indizi sono plurimi e concordanti, mancano le prove. Mentre per vent’anni la classe politica e la cosiddetta società civile hanno evitato di guardare nel buco nero, la questione è stata delegata ai magistrati e relegata nei tribunali, ossia a una macchina della giustizia sempre più lenta e anche per questo meno credibile, incapace di arrivare a una qualunque sentenza in meno di dieci-quindici anni. E la presunzione di innocenza ha garantito la carriera a Montecitorio di imputati che tributavano stima verso mafiosi, come nel caso di Marcello Dell’Utri che continua a definire Vittorio Mangano «un eroe». Dell’Utri è il più importante parlamentare sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa: un palermitano che colleziona libri unici e ha avuto un peso unico nel cambiamento sociale, economico e politico del nostro paese. Ha fondato Publitalia, ossia il motore economico del gruppo Fininvest, la fabbrica degli spot e l’anima di quella tv commerciale entrata in tutte le case. Poi ha trasformato la rete di agenti pubblicitari nella struttura di Forza Italia, traducendo la pratica dei consigli per gli acquisti in una formula elettorale vincente. Vive a Milano, senza mai dimenticare Palermo: è lui che negli anni Settanta assume Vittorio Mangano come stalliere nella villa di Arcore. In primo grado Dell’Utri è stato condannato a nove anni di carcere, essendo state riconosciute le sue responsabilità sia come imprenditore prima del 1994, sia come artefice del partito di maggioranza. Nelle motivazioni i giudici scrivono: «Vi è la prova che aveva promesso alla mafia precisi vantaggi in campo politico e, di contro, vi è la prova che la mafia, in esecuzione di quella promessa, si era viepiù orientata a votare per Forza Italia nella prima competizione elettorale». L’appello ha cancellato questo capitolo, accogliendo le prove sulle relazioni economiche ma bocciando i sospetti sui voti. La corte ha assolto il politico Dell’Utri e condannato a sette anni l’imprenditore per i rapporti con il vecchio capomafia Stefano Bontate e i contatti con i padrini corleonesi. Tutto però fino al 1992, quando le bombe di Palermo aprono la voragine che ha inghiottito il vecchio sistema di potere. In quella fase drammatica e misteriosa è la forza militare di Cosa Nostra a tenere banco. Giovanni Falcone, coniando un’espressione poi abusata fino a storpiarla, aveva definito delitti di Terzo Livello quelli che mirano a salvaguardare la sopravvivenza di Cosa Nostra: azioni strategiche, non semplici punizioni o vendette. Le stragi sono state ancora di più, hanno innescato meccanismi oscuri. Di sicuro nel 1992 ci furono contatti tra Stato e antistato, tra uomini delle istituzioni con referenti nel governo e uomini d’onore con referenti nella Cupola: un’operazione complessa, di cui si conosce solo il punto di partenza, ossia i colloqui tra il colonnello dei carabinieri Mario Mori, poi diventato capo del Sisde, e l’ex sindaco mafioso di Palermo, il corleonese Vito Ciancimino da sempre legato a Provenzano. Mori nega qualunque patto o scambio, nega che vi sia stata una trattativa con l’obiettivo di porre fine agli attentati. È lo stesso ufficiale che nel gennaio 1993 guidò la cattura di Totò Riina, il più grande successo delle forze dell’ordine ma anche un’operazione piena di lati bui. Senza dimenticare che quell’arresto nasce dall’attività condotta tra le nebbie di Novara dal generale dell’Arma Francesco Delfino, un uomo d’azione figlio della Locride, per dieci anni al Sismi e con ottime relazioni statunitensi, chiamato in causa nelle istruttorie sul massacro di Piazza della Loggia: Balduccio Di Maggio, l’autista di Riina che poi racconterà il bacio con Andreotti, parla con lui e gli consegna la mappa per la trappola finale. Che affida il vertice di Cosa Nostra a Bernardo Provenzano, il più scaltro dei corleonesi, il contadino che preferisce la mediazione allo scontro. Dopo Riina anche i suoi fedelissimi finiscono in cella, isolati nel regime duro del 41 bis e deportati in carceri lontane. Sul territorio la risposta dello Stato alla morte di Falcone e Borsellino è massiccia: leggi speciali e reparti speciali che si trasformano in una libertà d’indagine senza precedenti, in pentimenti a raffica e ondate di arresti. I patrimoni dei clan vengono sequestrati, l’esercito pattuglia le città, c’è una mobilitazione popolare mai vista e persino i commercianti cominciano a ribellarsi al racket. E un momento di crisi, a cui la mafia risponde con il terrorismo, spostando lo scontro a Firenze, Roma, Milano: colpisce i monumenti per travolgere la credibilità della nazione. Oltre il Terzo Livello. Gli Uffizi a fine maggio 1993; poi la triplice bomba del luglio 1993, proprio alla vigilia della retata del pool Mani Pulite per il tangentone Enimont, il colpo di grazia ai partiti storici della maggioranza. Sono gli stessi mesi in cui Dell’Utri e Berlusconi cominciano a studiare la nascita di Forza Italia, con ricerche di mercato, traducendo in politica i metodi di Fininvest: ad Arcore si discute se e quando entrare in campo. A Palermo invece Provenzano deve trovare un modo di tradurre in politica gli effetti delle stragi, prima che la reazione delle istituzioni e i tradimenti spazzino via Cosa Nostra: offrire la pax mafiosa in nome degli affari, che devono necessariamente avere garanzie da chi governa. Il problema è con chi trattare: mentre le stragi di mafia delegittimavano la DC andreottiana, bloccando l’ascesa del Divo al Quirinale, le inchieste della Procura di Milano avevano cancellato il resto del pentapartito. Il procuratore nazionale Piero Grasso sulla base delle ultime indagini sostiene che «nel ‘93 Cosa Nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione che trovò nelle bombe di Roma, Milano e Firenze soltanto il suo momento più drammatico». Un subappalto per conto di chi? Grasso delinea una sorta di joint-venture, una società mista in cui i corleonesi dovevano spianare la strada a «una nuova entità politica»: «Certamente Cosa Nostra, attraverso queste azioni criminali ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste. D’altro canto occorre dimostrare l’esistenza di un’intesa criminale con un soggetto anche politico in via di formazione, intenzionato a promuovere e sfruttare una situazione di grave perturbamento dell’ordine pubblico per la sua affermazione». E dal maggio 1994 che la Superprocura cerca le prove. All’epoca venne creato un database informatico contribuire a individuare i mandanti delle stragi. con tutti gli elementi per Sin dall’inizio nel cervellone fu inserito ogni documento disponibile su Fininvest, soprattutto i materiali acquisiti prima dell’ingresso in politica di Berlusconi. Ci sono i dossier dell’istruttoria di Gherardo Colombo su come la rete di Publitalia nel Nord servisse anche per creare fondi neri. Ci sono le carte sequestrate dalla Procura di Milano in un’inchiesta minore, che partendo da una truffa sui contributi europei all’agricoltura aveva svelato la corruzione di funzionari del fisco e portato nel 1993 le Fiamme gialle a perquisire il tesoriere del gruppo Fininvest Salvatore Sciascia, oggi deputato Pdl. C’è la relazione della squadra di finanzieri che per questa indagine visitò la residenza dell’allora imprenditore Berlusconi, proprio nei giorni in cui ad Arcore si valutavano gli spazi elettorali per nuovi soggetti politici. Atti da cui si cerca di ricostruire la data d’inizio dell’avventura politica del Cavaliere. C’è un altro episodio che viene riletto dagli inquirenti, quei manifesti giganteschi spuntati nelle città con un bambino esultante e la scritta «Fozza Itaia» nel marzo 1993. La campagna fu ideata da Armando Testa, il creativo per eccellenza, e organizzata dalla Fispe, la branca di Confcommercio che si occupa di pubblicità stradali: all’epoca dissero che era una protesta contro la revisione del codice della strada che diminuiva gli spazi per i cartelloni. Gaspare Spatuzza, il pentito più importante dell’ultima fase di indagini, sostiene invece che servissero per preparare la nuova creatura politica di Dell’Utri, e ha mostrato agli investigatori le basi di cemento del manifesto colossale affisso nella borgata palermitana di Brancaccio: il mandamento dei fratelli Graviano, quelli che hanno realizzato gli attentati del 1993. Spatuzza è stato il braccio destro dei Graviano che con le sue rivelazioni ha ribaltato le certezze sull’uccisione di Paolo Borsellino, autoaccusandosi e facendo emergere depistaggi inquietanti nella polizia. Ha dato elementi concreti per rileggere la morte del giudice che stava cercando di capire quale «entità» si nascondesse dietro il massacro di Capaci. Spatuzza ha ripercorso anche l’altra serie di attacchi, da Firenze al tentativo fallito di falciare i carabinieri allo stadio Olimpico di Roma come ritorsione per la cattura di Riina. E ha riferito le confidenze di Giuseppe Graviano sui nuovi referenti politici, conversazioni tra mafiosi durante una chiacchierata ai tavolini del Doney: «Nel ‘94 incontrai Graviano in un bar in via Veneto … disse che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo grazie alla serietà delle persone che avevano portato avanti quella storia … Mi vennero fatti due nomi tra cui quello di Berlusconi. Io chiesi se era quello di Canale 5 e mi disse: sì. C’era pure un altro nostro paesano. Graviano disse che grazie alla serietà di queste persone ci avevano messo il paese nelle mani». I Graviano hanno taciuto, senza confermare la sua versione: «Il mio stato di salute non mi consente di rispondere all’interrogatorio» ha detto Giuseppe nell’aula del processo Dell’Utri. E ha aggiunto: «Quando potrò, informerò la corte», consegnando un documento di protesta contro il carcere duro, Le prove non ci sono e forse non ci saranno mai. Ma le istruttorie vanno avanti e per la prima volta dopo sedici anni alimentano un dibattito anche in Parlamento, uno scambio di accuse e allusioni che si intreccia con la crisi dell’asse tra Berlusconi e Gianfranco Fini, quello che nel 1994 fece trionfare il centrodestra. Forza Italia nel 1994 vinse perché offrì agli italiani novità e sicurezza, rivoluzionando il modo di fare politica: slogan e volti nuovi che hanno convinto l’elettorato. Conquistò la fiducia crollata nello sgretolamento di DC, Psi, Pri, Psdi e Pli, con programmi chiari e con una schiera di quarantenni, arruolati tra i ranghi di Publitalia o tra le migliori promesse delle giunte locali. In Sicilia il risultato fu sorprendente, superiore alle aspettative. Il partito venne costruito da Gianfranco Miccichè, già manager con Dell’Utri, e da Enrico La Loggia, erede di una dinastia democristiana. I due trasformano i loro amici nella classe dirigente dell’isola, avviandoli verso poltrone cruciali: la Regione, il governo, persino la presidenza del Senato. È La Loggia che sponsorizza la carriera di Renato Schifani, oggi seconda carica dello Stato, eletto nel collegio di Corleone. Si frequentano da anni, sono stati praticanti legali nello stesso studio. In gioventù entrambi hanno posseduto quote di una società di broker molto discussa: due degli altri soci sono stati arrestati per mafia. Uno era Nino Mandalà, poi arrestato con l’accusa di essere il boss di Villabate, considerato il capo dei pretoriani che vegliavano sulla latitanza di Provenzano: siede nel direttivo provinciale di Forza Italia e le microspie registrano i suoi commenti, spesso velenosi, alla spartizione delle cariche e delle candidature, con le richieste di orientare i voti nel suo paese. Francesco Campanella, un pentito che ha alle spalle un’importante carriera politica giovanile e di cui abbiamo già avuto modo di parlare, sostiene che la nomina di Schifani a consulente di quel Comune, per la vicenda urbanistica del centro commerciale che doveva arricchire clan e partiti, sia stata indicata da La Loggia. E approvata dal presunto padrino Mandalà: «I rapporti tra Mandalà e La Loggia si deteriorarono a seguito dell’arresto del figlio di Mandalà e di questo insomma allontanamento di Mandalà dai vertici di Forza Italia. Tanto è vero che il Mandalà si lamentava di questo atteggiamento: dall’essere stati amici e addirittura soci, e in un primo momento sponsor delle attività politiche, all’assoluto allontanamento». Ma anche Gaspare Spatuzza ha parlato di Schifani, sostenendo di averlo visto in un ufficio dei Graviano, prima della loro latitanza. Dichiarazioni smentite dal presidente del Senato. Nell’isola, Forza Italia ha continuato a crescere fino al leggendario 61 a zero del 2001: tutti i collegi si sono tinti di azzurro, un trionfo mai visto. Nel corso degli anni, però, alcuni parlamentari sono stati inquisiti per i rapporti con Cosa Nostra, senza mai condanne: Francesco Musotto, penalista che da presidente della Provincia di Palermo continuava a difendere uno degli attentatori di Capaci, arrestato per mafia nel 1995, è stato scagionato dalla Cassazione; Gaspare Giudice, numero due del partito nell’isola, che nel 1998 i magistrati chiedono di arrestare come riciclatore del clan di Caccamo. Nel provvedimento i giudici sostengono che i mafiosi gli telefonassero anche a Montecitorio per dare ordini: «Gaspari-no, guarda che siamo stati noi a metterti lì…». Il Parlamento nega l’arresto e vieta anche l’uso dei tabulati Telecom. Al processo di primo grado il parlamentare è stato assolto, da parte delle accuse con formula piena e per prescrizione dalle altre. La sentenza è arrivata nove anni dopo, un tempo indegno di un paese civile: Giudice è morto prima dell’appello. L’ultimo caso è quello di Antonio D’Alì, di nobile casato trapanese che aveva come campiere il padre di Matteo Messina Denaro. D’Alì, ex sottosegretario agli Interni, è stato sottoposto a un’indagine per concorso esterno: la Procura voleva archiviarla, il Gip invece ha disposto altri accertamenti. La rivoluzione azzurra conquista anche Palazzo dei Normanni. Nel 1996 Forza Italia porta alla presidenza Giuseppe Provenzano. Nessuna parentela con il padrino. La sua è una famiglia ricca, con terreni nel Corleonese dove trascorre le vacanze estive: è un figlio dell’alta borghesia, al liceo fa amicizia con La Loggia, Miccichè, Musotto. Poi si laurea alla Bocconi, fa il ricercatore a Milano e a Palermo unisce allo studio di commercialista la docenza di tecnica bancaria: un professionista giovane, brillante, capace, ma anche un siciliano orgoglioso della sua terra. Come presidente della Regione pretende per la prima volta di esercitare un’antica prerogativa dell’autonomia concessa all’isola nel 1946 e assiste «con il rango di ministro» alle riunioni del governo: un «ministro» di centrodestra che presenzia ai summit dell’esecutivo di Romano Prodi. Nessuno si era ancora ricordato di una certa storia. Nel 1984 il futuro presidente della Sicilia era stato arrestato da Giovanni Falcone perché amministrava il patrimonio di Saveria Palazzolo, la moglie del latitante Bernardo Provenzano. Falcone lo scarcera dopo pochi giorni, interpretando rigorosamente la legge: i fatti sono veri, ma non si può dimostrare che il commercialista fosse a conoscenza dell’origine criminale dei soldi, di quei miliardi di lire gestiti per conto di una camiciaia nullatenente. La sentenza d’assoluzione riporta: «Giuseppe Provenzano è da ritenersi una sorta di consigliere della famiglia dei corleonesi… ma, non essendoci prove sufficienti della conoscenza da parte del Provenzano della provenienza illecita delle somme, si reputa conforme a giustizia prosciogliere l’imputato». La questione dei vecchi rapporti tra i due Provenzano, il capo della Regione e il capo della mafia, viene sollevata dall’opposizione e contribuisce alle dimissioni del presidente nel 1998. Dopo due instabili giunte di centrosinistra, nel 2001 l’accordo tra centrodestra e UDC fa diventare governatore Salvatore Cuffaro, un medico che a 43 anni vanta due decenni di militanza democristiana e un seguito sempre più largo, uno stakanovista del consenso, instancabile nell’abbracciare e baciare potenziali elettori tanto da venire soprannominato, come abbiamo ricordato, «Vasa Vasa». Sulla scena nazionale si è affacciato solo una volta, straordinaria trasmissione tv che unisce «Samarcanda» nel 1991, durante una di Michele Santoro e il «Maurizio Costanzo Show» per l’omicidio di Libero Grassi, l’industriale assassinato per avere detto no al pizzo: una delle trasmissioni che trasformarono Costanzo nel bersaglio di un’autobomba, fatta esplodere ai Parioli due anni dopo. Quel giorno Cuffaro prende la parola in diretta da Palermo: attacca gli interventi del programma definiti «giornalismo mafioso» e contesta certa magistratura «che mette a repentaglio e delegittima la classe dirigente siciliana». In studio c’è Giovanni Falcone che lo guarda perplesso e sussurra al presentatore: «Non lo conosco». Pochi anni dopo è il dominus delle preferenze - 89 mila alle europee - e salta dalle schegge democristiane di centrosinistra a quelle di centrodestra. Poi il trionfo alle regionali, ripetuto nel 2006: nessuno è mai rimasto tanto a lungo sulla poltrona più importante di Palazzo dei Normanni. A farlo cadere è un’inchiesta che ancora oggi sembra incredibile. Lui, il governatore, l’uomo più potente della Sicilia, avrebbe gestito in prima persona una talpa nella Procura antimafia, informando delle indagini in corso Giuseppe Guttadauro, un medico, suo vecchio collega, ma anche, come abbiamo visto, il nuovo capo del mandamento di Brancaccio, quello delle stragi. Cuffaro va a processo e in primo grado viene condannato a cinque anni solo per favoreggiamento, senza l’aggravante di mafia invocata dal pm: cosa che lui festeggia offrendo cannoli ai giornalisti. È quel gesto, più che la sentenza, a creare un caso nazionale che lo convince a dimettersi nel gennaio 2008. La Corte d’appello due anni dopo riconosce l’aggravante mafiosa e aumenta la pena a otto anni. Nel frattempo le istruttorie si moltiplicano, con pentiti che descrivono il sostegno delle cosche alla sua macchina macinavoti. C’è un altro rinvio a giudizio, questa volta per concorso esterno: la pubblica accusa nel giugno 2010 ha chiesto una condanna a dieci anni. Il tramonto di «Vasa Vasa» coincide cronologicamente con una fase di grande incertezza nel vertice di Cosa Nostra: nel 2006 anche Provenzano è stato catturato dalla polizia e gli inquirenti stimano che non ci sia più un’unica regia. Anche gli assetti politici isolani si frammentano in un coacervo di alleanze instabili. A Palazzo dei Normanni arriva una figura che sfugge agli schemi, pur operando da anni nelle file postdemocristiane. Il nuovo che viene dal passato è Raffaele Lombardo, un maestro nello sfruttamento del «voto marginale»: ha un suo partitino, il Movimento per le Autonomie, nato da una scissione dell’UDC declinando in siciliano le istanze della Lega di Bossi. Lo psichiatra di Catania ha costruito le sue fortune nella diaspora democristiana dell’altra capitale siciliana, quella Catania dove dopo la cattura di Nitto Santapaola di mafia non si parla più: eppure negli anni Ottanta la città era stata descritta come la fucina delle cosche imprenditrici, con l’epopea dei Cavalieri del lavoro, e un peso rilevante nella cupola corleonese. Poi un silenzio lungo vent’anni. Dal 2000 Lombardo si impone come un protagonista della vita siciliana, partendo come vicesindaco di Catania, per approdare nel 2003 alla presidenza della Provincia, dimostra di essere un blockbuster, un campione di preferenze. Poi fonda l’MPA convincendo vecchi notabili democristiani come l’ex ministro Vincenzo Scotti e giovani medici: l’alleanza con il Pdl nel 2008 gli permette di conquistare dieci parlamentari con solo l‘1,1 per cento dei voti su scala nazionale. Lo stesso anno le regionali sono un plebiscito: travolge Anna Finocchiaro con il 65 per cento. È una figura politica particolare, che introduce novità nella gestione e affida a un magistrato con la fama di duro lo strategico assessorato alla Sanità. Riesce a spaccare il Pdl nell’isola, convincendo gli esponenti legati a Gianfranco Fini a schierarsi con lui: l’opposizione del Pd è pronta a dargli credito. La sua parola chiave è autonomia, con un’operazione in continua evoluzione che sembra la risposta alla Lega Nord e ha fatto ricordare il tentativo di Silvio Milazzo, che nel 1958 ripudiò la DC per gestire l’isola con maggioranze locali, sostenute da PCI e MSI. Ma l’attuale governatore guarda lontano: ha suoi uomini nei consigli regionali del Lazio, della Campania, del Molise, della Basilicata e della Sardegna. Ed è attivissimo nelle manovre romane per assemblare un terzo polo centrista alternativo a Berlusconi. Anche Lombardo nel 2010 è stato iscritto nel registro degli indagati per concorso esterno, in un procedimento aperto dalla Procura di Catania: pentiti e intercettazioni offrono elementi per indicare il sostegno dei clan alla sua campagna elettorale; accuse che ha respinto con decisione, continuando a portare avanti il suo progetto politico. Il moltiplicarsi di procedimenti per concorso esterno in associazione mafiosa, quasi sempre chiusi da assoluzioni o conclusi quando tutto era ormai prescritto, ha riaperto il dibattito sui limiti di questo strumento giuridico, nato negli anni dell’emergenza per punire chi aiuta una cosca pur non essendone parte. Di sicuro, non si è dimostrato efficace nel provare e punire i rapporti tra cosche e politica. Che nell’ultimo ventennio sono cambiati. La riforma elettorale ha impoverito il mercato dei voti, che adesso vengono ceduti per cifre irrisorie. I venditori esistono ancora. La Direzione distrettuale di Napoli ha registrato l’offerta prospettata dall’avvocato di uno dei boss di Secondigliano, quelli delle Vele di Scampia descritte da Gomorra al centro della faida più sanguinosa e famosa degli ultimi anni, a Nicola Ferraro, uno degli uomini chiave dell’Udeur: «All’Udeur vi faccio prendere a Scampia 2000 voti… 3000 voti, tre volte tanto… quattro volte tanto e poi stabilite voi che mi date, hai capito o no?…». Ma queste preferenze «tanto al chilo» sono solo una fetta minore della torta. Mentre resta irrisolta la questione centrale: quanto pesano le cosche nella campagna elettorale? Tommaso Buscetta descrive la situazione degli anni Settanta, quando tutto era Cosa Nostra: «Io ricordo che quando si proponeva l’aiuto al candidato, o il candidato richiedeva l’aiuto di un determinato rione, ci si recava in quel determinato rione in compagnia del candidato, e sempre si trovava il rappresentante di Cosa Nostra della borgata per prendere un caffè, nient’altro, perché la gente potesse vedere che il rappresentante di quel rione aveva ricevuto la visita del Sindaco o del prossimo candidato, e quindi i voti andavano a quel candidato che noi volevamo… Io dovrei far capire a questa corte che cosa significa per l’umile palermitano il rappresentante della borgata. Significa il Presidente del Tribunale, significa il Presidente dello Stato, significa la legge, significa l’uomo che può amministrare nel bene e nel male la vita di quel rione, perlomeno in quei tempi. Quindi quando si andava a cercare l’aiuto per il politico da candidare, era al rappresentante della borgata che ci rivolgevamo». Secondo Buscetta il controllo totale del territorio si trasformava automaticamente in voti. Stefano Bontate, nel presunto incontro con Andreotti descritto dai pentiti, avrebbe minacciato il leader scudocrociato: «In Sicilia comandiamo noi e se non volete cancellare completamente la DC dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia meridionale. Potete contare solo su quelli del Nord dove tutti votano comunista». Nel 1988 Giuseppe Ayala, magistrato del pool palermitano, afferma che Cosa Nostra abbia in mano 180 mila voti, mentre secondo altre stime nel 1994 la forza nell’urna si sarebbe ridotta a 50-60 mila schede. Troppo poco per condizionare scelte nazionali. Lo dimostrerebbe quanto accadde nel 1987, quando Totò Riina sostituì nelle sue indicazioni la DC di Andreotti con il garantismo dei socialisti di Bettino Craxi e Claudio Martelli: a Palermo si è spostato poco più del 6 per cento e stiamo parlando del periodo di massimo potere della cupola. Le analisi sono però discordanti. Alla fine degli anni Ottanta un’altra stima riteneva che in tutto il Sud il consenso mafioso influisse nell’orientare quattro milioni di voti. Franco Padrut, ex segretario della Camera del Lavoro di Palermo ed esperto di flussi, è convinto che quell’influenza adesso sia diminuita: «L’incidenza oggi è meno vistosa, ma profonda. Il condizionamento la criminalità organizzata tende a esercitarlo su altri livelli: il controllo della spesa pubblica, gli apparati amministrativi. E con l’entrata in vigore del Porcellum il condizionamento delle mafie si è spostato sulla compilazione delle liste più ancora che sul voto». Come la mafia seleziona i candidati. Con il sistema elettorale creato dal leghista Calderoli e ribattezzato «Porcellum» c’è solo un modo per rendere oro lo scrigno di voti amministrato dalle cosche: concentrarlo su quei movimenti destinati a diventare gli arbitri degli schieramenti, partitini che regnano nella riforma nata invece per incrementare la governabilità e il bipolarismo. Le analisi politiche mostrano il caso di Lombardo, che amministrando percentuali minuscole potrebbe trasformare l’MPA in un attore chiave della legislatura. E ancora prima quello di Clemente Mastella, che fu determinante nel 2006 per la vittoria del centrosinistra di Prodi che alla Camera ottenne il 49,81 per cento contro il 49,74 per cento di Berlusconi. In totale l’Udeur ebbe 11,4 delle preferenze, concentrate soprattutto in Campania, ma condizionò la vita dell’esecutivo determinandone poi la fine. Oggi non sembrano esistere organizzazioni criminali così potenti da creare un loro partito, per quanto piccolo, e portarlo al governo. Ma Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra continuano a fare politica, studiando la situazione e scegliendo i candidati, che dalle Camere agevolino le loro richieste. Individuare i nomi su chi puntare non è facile. Ci sono «cavallucci» che si rivelano deboli; altri che una volta diventati qualcuno cercano di cancellare il passato; altri ancora che si rivelano un pericolo. Dentro Cosa Nostra, Riina era stato criticato per avere detto nel 1987 di sostenere il Psi e Claudio Martelli, il guardasigilli che poi chiamò al ministero Giovanni Falcone elaborando i provvedimenti antimafia più efficaci. Il timore di fregature è ben chiaro a Provenzano che quando gli sottopongono un candidato da sostenere, nel 1997 risponde con un pizzino sibillino e arguto: «Ora tu mi informi che hai un contatto politico di buon livello che permetterebbe di gestire molti e grandi lavori, e prima di continuare volessi sapere come la pensi io. Ma non conoscento non posso dirti niente, ci vorrebbe conoscere i nomi? E sapere come loro sono combinati? Perché oggi come oggi non c’è da fidarsi di nessuno, possono essere Truffaldini? Possono essere sbirri? Possono essere sprovveduti? E possono essere dei grandi calcolatori, ma se uno non sa la via che deve fare, non può camminare, come io non posso dirti niente». È una sintesi dei pericoli, distillata in mezzo secolo di sapienza criminale: il rischio di affidarsi a millantatori, a persone in rapporti con le forze dell’ordine, a incapaci ma anche «grandi calcolatori», che ingannino Cosa Nostra sul lungo periodo magari dopo essere diventati famosi e illustri. Meglio sempre sospettare. Anche per questo, Piero Grasso ritiene che «la mafia cerchi una partecipazione diretta alla gestione della politica» selezionando, nei consigli regionali o nel Parlamento, giovani puliti e soprattutto fedeli, che non cedano a tentazioni o tradimenti: quella nuova leva di Gattopardi che viene scelta nei vivai dei Comuni e aiutata a crescere, studiandola passo passo per evitare i quattro peccati capitali descritti da Provenzano. Oggi conquistare un deputato è molto più facile di quello che sembra, anche fuori dalla Sicilia. Le inchieste dell’ultimissimo periodo mostrano due storie incredibili. In Puglia Savino Parisi, il padrino più importante di Bari Vecchia, si muoveva sicuro tra le questioni di partiti. Aveva affidato patrimoni e relazioni a un signore più esperto: Michele Labellarte, un rampante della new economy che aveva fatto crack, conosciuto in cella. Le indagini condotte dalle Fiamme gialle e dal procuratore Antonio Laudati hanno colpito la sua cosca che contava beni per 220 milioni di euro e una schiera di referenti insospettabili. Il boss si consultava su tutto con i suoi legali, due avvocati che dettano la linea al Pd pugliese, Gianni Di Cagno e Onofrio Sisto, vicinissimi a D’Alema. Il suo cassiere aveva intestato un conto alla parlamentare del Pdl Elvira Savino, eletta a 32 anni e personale amica di Berlusconi: è stato usato per ripulire 120 mila euro del clan. A lei - secondo l’accusa - sarebbero andati 3500 euro cash e aiuti per la campagna elettorale. Poi, quando i Parisi devono lanciare il progetto per un mega-campus universitario, la deputata convince il ministro Mariastella Gelmini a benedire l’iniziativa. Nelle intercettazioni Labellarte parla anche del senatore Pd Nicola Latorre, evocando uno scambio tra «voti» e «accordini». Voci e relazioni che non hanno trovato rilevanza penale - solo la Savino è indagata - ma che dimostrano come anche fuori da Cosa Nostra ci siano mafie capaci di entrare nei palazzi romani. Ancora più sorprendente l’elezione di Nicola Di Girolamo, il commercialista diventato senatore nelle file del Pdl grazie ai surreali collegi elettorali degli italiani all’estero senza avere mai vissuto fuori dall’Italia: la Procura di Roma ha registrato in tempo reale le manovre della cosca calabrese Arena che nel 2008 lo hanno portato a Palazzo Madama con 25 mila voti. Il suo nome era stato inserito persino su pacchi di schede bianche, mentre le attività commerciali controllate dagli Arena in Germania - nelle intercettazioni parlano di 146 tra ristoranti, negozi e alberghi - hanno fatto incetta di voti per il beniamino della cosca. Fino alla festa - ritratta nelle foto pubblicate da «L’espresso» - in cui abbraccia il cognato del capoclan di Isola Capo Rizzuto che ha spinto la sua elezione. La parabola dell’insospettabile Di Girolamo era nata entrando in affari con Gennaro Mokbel, il romano che si muoveva tra destra estrema e criminalità organizzata e aveva messo su una holding del riciclaggio da due miliardi di euro. Mokbel diceva al senatore: «Sei schiavo mio». Lo «schiavo» era la creatura di clan e trafficanti emergenti che erano riusciti ad avere un parlamentare tutto per loro; un caso limite, sicuramente, che dimostra però la debolezza del sistema. In realtà, il federalismo ha reso molto più remunerativo investire sui consigli regionali che non su Roma. Le Regioni custodiscono il cuore dell’interesse mafioso: sanità, appalti stradali, sovvenzioni, assunzioni. Il governo ha ancora in mano le grandi opere - dove però i boss sono costretti a giocare in secondo piano - e l’amministrazione della giustizia, difficile da penetrare. C’è poi l’Unione Europea, che scarica valanghe di fondi sul Sud e dove i capimafia più moderni intercettati a Palermo nell’operazione Gotha vogliono trovare sponde per pilotare meglio questa manna, un’occasione di sviluppo divorata dall’ingordigia di boss e politici per potenziare il loro consenso sul territorio. Sia chiaro, nella scelta del voto oltre ai piccoli tornaconti i padrini tengono d’occhio anche i grandi temi, ovviamente partendo dai programmi in materia di giustizia: «il primato della proposta politica», come lo definisce Salvatore Lupo. Quando la Cupola ordinò di appoggiare i radicali e i socialisti lo fece in sostegno delle loro campagne politiche garantiste, di sicuro non ispirate dai clan, nella speranza che si traducessero in leggi che avrebbero rallentato i processi e migliorato la condizione dei detenuti. Per questo gli eredi democratici del PCI vengono ancora visti con diffidenza, nonostante negli ultimi anni la tensione antimafia nelle Regioni e nelle Camere si sia rarefatta. Così come il contrasto frontale tra Forza Italia e la magistratura, nato da una tradizione liberale e da vicende personali del premier lontanissime dalla Sicilia, non può non piacere ai padrini. Scriveva Lupo nel 1996: «Molti dei temi che secondo l’accusa sono stati oggetto di illecita, sotterranea e inefficace trattativa tra Cosa Nostra e Andreotti nel corso degli anni Ottanta, sono adesso parte palese, legale e ufficiale del programma di Forza Italia, rivolto al popolo italiano e quindi anche alle lobby mafiose». Solo il fronte delle carceri, i protagonisti dell’ala dura corleonese ormai in cella da oltre quindici anni, continua a lanciare messaggi chiedendo di abolire il 41 bis, quel regime duro mantenuto in vigore dal centrodestra. Allo stesso tempo ci sono disegni di legge attesi con entusiasmo dalle cosche, primo fra tutti quello sulle intercettazioni. Un provvedimento che, dopo la sostanziale fine della stagione del pentitismo, amputerebbe il principale strumento di indagine rimasto nelle mani degli investigatori. Nel luglio 2010 il procuratore Grasso in un’audizione davanti alla Commissione parlamentare giustizia ha mostrato quanto sia grave la portata della riforma: «Con queste norme si è abrogato il punto della cosiddetta legge Falcone del ‘91 che aveva creato il concetto di criminalità organizzata. Abbiamo esportato questo concetto a livello internazionale, ora non possiamo abolirlo nel nostro ordinamento». Il magistrato ha spiegato perché le regole si potrebbero trasformare in una Caporetto, che renderà difficile non solo combattere le cosche ma anche contrastare i «reati spia» che ne alimentano il potere «quali usura, estorsione, riciclaggio e spaccio di stupefacenti». L’uomo che coordina la lotta ai clan descrive questo disegno di legge come una disfatta della giustizia, ma una maggioranza parlamentare, espressione della volontà degli italiani manifestata con il voto, continua a sostenere le nuove norme sulle intercettazioni. Dovremo, come disse nel 2001 un ministro ancora oggi esponente di maggioranza ed eletto in Emilia, abituarci a «convivere con la mafia»? quella L’emergenza rifiuti e le infiltrazioni camorrìstiche nella politica. Le inchieste che hanno tenuto banco sui media nazionali sul rapporto tra partiti e cosche descrivono soprattutto la situazione siciliana. E in Campania che cosa è accaduto: c’è una vicenda chiave di cui si è occupato personalmente che è in grado di illustrare come si è articolato il rapporto politica-camorra? La vicenda da cui poter partire per illustrare il rapporto fra la politica campana e la criminalità organizzata è quella connessa all’emergenza rifiuti; si è trattato, di sicuro, dell’affare più grande degli ultimi anni gestito direttamente o indirettamente dalla politica, che ha visto un ruolo centrale dei clan. Come accade in tutte le emergenze italiane è stato riversato un vero fiume di denaro pubblico; sono state create strutture speciali a cui è stato concesso di assumere personale in deroga alle norme che prevedono concorsi e selezioni, pescando in quelle «strane» liste dei disoccupati napoletani e dei lavoratori socialmente utili. Quella stessa emergenza ha consentito pure di inventare consorzi e strutture miste pubblico-privato con conseguenti consigli di amministrazione e organismi di controllo che si sono spesso trasformati in un modo per distribuire incarichi e prebende a uomini legati a doppio filo ai politici. Non credo di esagerare se affermo che il sistema dell’emergenza rifiuti in Campania per almeno un decennio è stato uno dei principali elementi su cui si sono costruite fortune imprenditoriali e politiche a livello regionale e nazionale; in questo vedo un’analogia con un’altra emergenza che ha inciso profondamente sulla realtà economico-politico-sociale (e, perché no, criminale) della Campania degli anni Ottanta, e cioè il terremoto. E in tutto questo gioco di discariche, affari e partiti all’ombra dell’emergenza rifiuti la camorra che cosa c’entra? La camorra, purtroppo, c’entra eccome! Per rendersene conto, basterebbe partire dal numero di ditte che si occupano di rifiuti, che sono diretta emanazione dei clan camorristici o pesantemente infiltrate dagli stessi; numero che si potrebbe agevolmente ricavare o sommando i casi in cui le Prefetture, soprattutto di Napoli e Caserta, hanno negato le certificazioni antimafia, o consultando i tanti decreti di scioglimento degli enti locali in cui sono descritti appalti concessi a ditte in odore di mafia. È la riprova inconfutabile che si è in presenza di un settore considerato così lucroso da far gola a tanti clan camorristici. Ma la presenza criminale emerge anche da tante indagini della Direzione distrettuale antimafia di Napoli; quelle di cui sono a diretta conoscenza vedono come attori chiave della partita camorristi, imprenditori riferimento, politici e uomini delle istituzioni. che a loro fanno direttamente Mi viene subito in mente un caso: i fratelli Orsi, Michele e Sergio, di cui abbiamo già avuto occasione di parlare, imprenditori nativi di Casal di Principe, originariamente operanti nel settore edilizio, che alla fine degli anni Novanta cominciano a occuparsi di rifiuti e che in quel settore fanno grandi affari, finché vengono arrestati per associazione camorristica e poi uno di essi viene persino ammazzato dai casalesi, quando inizia una timida collaborazione con la giustizia. Entrambi, per loro ammissione, erano legati a politici non solo locali dell’allora Forza Italia, eppure si iscrivono alla sezione Ds di un paese del Casertano (Orta di Atella) nel quale non risiedono nemmeno, perché in quel periodo si stava creando un consorzio pubblico-privato che avrebbe dovuto gestire tutti i servizi comunali ed evidentemente speravano di divenire i referenti di questo nuovo business. La vicenda dei fratelli Orsi è diventata quasi un paradigma del nuovo rapporto tra imprenditoria, politica e camorra. Ma chi erano e che ruolo hanno avuto nel sistema dei rifiuti? Devo ammettere che prima di occuparmi del processo sui rifiuti non sapevo quasi nulla dei fratelli Orsi, malgrado mi fossi interessato di tante indagini sui casalesi; essi non erano mai emersi come collegati al clan. Venivano considerati imprenditori onesti, tanto che a uno di loro (Michele) la Prefettura di Caserta aveva rilasciato anche il porto d’armi per la pistola, nonostante i dubbi espressi dai carabinieri. Lo stesso rilascio del porto d’armi è una vicenda significativa; a causa di essa è finito agli arresti domiciliari per corruzione (avrebbe ricevuto un regalo per agevolare la pratica!) un viceprefetto già in servizio alla Prefettura di Caserta e poi guarda caso transitato nel Commissariato per la gestione dell’emergenza rifiuti. L’ordinanza venne emessa dall’autorità giudiziaria di Roma perché era coinvolto anche un magistrato in servizio presso la Procura di Santa Maria Capua Vetere, che si sarebbe interessato perché Michele Orsi ottenesse il permesso di girare armato: la posizione del magistrato è stata definita con l’archiviazione per insussistenza dei reati, ma è significativa per far capire la capacità di questi fratelli nell’intessere rapporti in tutti gli ambienti. Eppure Luigi Diana, uno dei pentiti di peso dei casalesi, dice che Michele Orsi era coinvolto negli affari del clan, che c’erano cointeressenze degli Schiavone nelle sue attività e che era disposto persino a ospitare riunioni dei boss presso le sue abitazioni. I fratelli Orsi erano i titolari della società che riesce a vincere l’appalto per diventare partner privato del consorzio Ce4, ritenuto di riferimento del centrodestra: il presidente di questo consorzio (Giuseppe Valente), nelle scarne dichiarazioni che ha rilasciato dopo il suo arresto sempre per concorso in associazione mafiosa, ha riconosciuto senza mezzi termini di essere stato messo lì da Forza Italia ed è lui che ha preparato il bando che ha consentito agli Orsi di vincere l’appalto. Attorno a quell’appalto si accenderà poi una controversia, «mediata» dai casalesi, che vede protagonisti personaggi capaci di incidere sugli equilibri politici non solo locali. Uno scontro in una società dei rifiuti della provincia casertana, infiltrata dalla camorra e gestita da figure imprenditoriali di secondo piano, sarebbe stato in grado di condizionare la politica nazionale? Riporto i fatti, senza trarre conclusioni, cominciando dall’inizio e cioè dalla nascita della società mista Eco4 che avrebbe dovuto gestire i servizi per il consorzio Ce4. Per la scelta del partner imprenditoriale privato del consorzio si sfidano in pratica due società: alla ditta degli Orsi, di cui abbiamo detto, si oppone l’azienda di Nicola Ferraro, un altro soggetto di Casal di Principe che da sempre si occupa di rifiuti e di discariche, imparentato alla larga anche con il padrino detenuto Francesco «Sandokan» Schiavone. Dal punto di vista politico la famiglia Ferraro è sempre stata legata a Forza Italia: uno zio di Nicola è stato vicepresidente della Regione eletto nelle liste berlusconiane e vicino all’onorevole Cosentino. L’azienda guidata da Nicola Ferraro e dal fratello Luigi partecipa alla gara per diventare partner della società operativa del consorzio Caserta 4 ma si trova davanti un appalto costruito per far vincere gli Orsi. Infatti il bando prevede il massimo punteggio all’imprenditoria femminile e giovanile; guarda caso, la società degli Orsi è intestata alla figlia di uno di essi che ha poco più di 18 anni e gli Orsi superano la mancanza di background nel settore formando un’associazione di imprese (Ati Flora Ambiente), soltanto formale, con alcune aziende del Nord. Quello che lei descrive farlo annullare dal Tar. è un bando chiaramente viziato: sarebbe stato facile A naso credo che qualunque Tar avrebbe annullato il bando di gara, che sembrava un abito confezionato per essere indossato da una specifica persona. Nicola Ferraro, che conosce bene il settore, si rivolge anche a un avvocato per predisporre il ricorso ma a quel punto - stando al suo stesso seppur parziale racconto, agli esiti delle intercettazioni e delle dichiarazioni dei pentiti subisce pesanti intimidazioni per spingerlo a rinunciare all’appello. Le intimidazioni vengono direttamente da una parte dei casalesi, e in particolare da quella fazione più violenta che fa capo alla famiglia Bidognetti, i quali hanno evidente interesse a favorire gli Orsi. Sia pure solo parzialmente ammettendo ciò che è avvenuto, Ferraro dichiara di aver avuto paura e di aver capito che era meglio abbandonare i propositi di impugnare il bando. Nelle sue dichiarazioni Ferraro lascia intendere anche di essersi sentito abbandonato dai suoi amici politici che avevano preferito a lui gli Orsi; una casuale comunione di intenti fra camorristi e pezzi della politica. Ma perché tante pressioni criminali e addirittura istituzionali per un appalto limitato e provinciale? C’erano altri interessi in gioco? È una domanda a cui è difficile dare una risposta sicura; si potrebbe pensare che la società mista Eco4 che opera per il consorzio Ce4 rappresentasse una sorta di modello per tutti i consorzi che si dovevano creare nel Casertano e nel resto della Campania: una prova generale del futuro. In quella fase, alcuni esponenti della Regione e del Commissariato di governo per l’emergenza rifiuti ritengono che i consorzi possano assumere in regime di monopolio la gestione della raccolta dei rifiuti, utilizzando le loro società miste e senza effettuare alcun appalto. Una posizione giuridicamente non corretta e molto pericolosa, visto che avrebbe creato di fatto dei monopoli sul territorio. Di sicuro Ferraro attribuisce grande importanza a questo appalto e poco dopo la sua esclusione non so per certo se proprio a causa di essa - sceglie di impegnarsi direttamente in politica. Quindi un imprenditore dei rifiuti, con legami a Casal di Principe, dopo essere stato escluso dall’appalto e in qualche modo intimidito dalla camorra, decide di fare politica in prima persona. E con quali effetti sulla situazione campana? Anche in questo mi limito a mettere in fila quello che è accaduto. Già nelle elezioni per la Provincia di Caserta del 2005 Nicola Ferraro, e tutto il blocco di consenso che rappresenta, sostiene l’Udeur e quindi il centrosinistra. Non è semplice capire quanto numericamente pesa il loro apporto; certo Ferraro nelle telefonate intercettate rivendica a sé un ruolo determinante per un risultato assolutamente inatteso. La Provincia di Caserta era, infatti, indicata dai giornali come un feudo del centrodestra e persino la più azzurra d’Italia. Il precedente presidente, un magistrato amministrativo, Riccardo Ventre, era stato eletto per due volte con il centrodestra senza alcun problema e lo stesso Ventre diventerà parlamentare europeo facendo il pieno delle preferenze. In quella tornata, fra l’altro, in campo scende un pezzo da novanta di Forza Italia, l’onorevole Nicola Cosentino, proveniente da Casal di Principe e uomo di punta del partito, di cui poi parleremo. Il suo rivale è un esponente di rilievo della politica casertana, l’onorevole Sandro De Franciscis, un medico, già parlamentare della Margherita, stimato in città, vicino al mondo cattolico e che in quel periodo si era allontanato dal suo partito per confluire proprio nell’Udeur di Clemente Mastella. I pronostici sembravano tutti a favore di Cosentino e invece il vincitore fu De Franciscis con un 7 per cento circa di voti in più. Significativo è il risultato dell’Udeur in cui entra in gioco Ferraro; ottiene il 7,7 per cento. I voti dell’Udeur sono quindi determinanti e il peso di Nicola Ferraro (una sorta di valore aggiunto) certamente si avverte quantomeno nei Comuni della zona di Casal di Principe. Quindi la camorra ha pesato su quelle elezioni? Non si può certo affermare che l’elezione di De Franciscis sia collegata alla discesa in campo di Ferraro né tantomeno che i voti portati da quest’ultimo siano soltanto quelli della camorra, perché è chiaro che costui aveva un proprio seguito politico che nasceva dalla sua attività imprenditoriale; ma oggi, a leggere gli esiti delle indagini e delle intercettazioni che hanno riguardato il Ferraro, risulta evidente come, accanto al consenso che veniva dalle sue aziende, ci sia stato un aiuto della camorra casalese. Se all’inizio Nicola Ferraro si limita a «portare acqua» per far vincere ad altri un’elezione difficile, scende poi direttamente in campo per le regionali in appoggio alla maggioranza di centrosinistra che fa capo ad Antonio Bassolino. Viene eletto con tantissime preferenze nel collegio di Caserta ed entra nel consiglio presieduto da Sandra Lonardo Mastella; non ha incarichi diretti di governo ma viene nominato presidente della Prima commissione consiliare, che è una sorta di Commissione affari istituzionali della Regione. Eppure non molto tempo prima delle regionali alle ditte del Ferraro era stata negata la certificazione antimafia in quanto erano emersi rapporti di parentela (e non solo) del fratello e socio con la famiglia Schiavone. C’è sempre bisogno di attendere le indagini della magistratura per rendersi conto di chi possono essere i soggetti controindicati? Quindi la decisione di Ferraro di schierarsi con l’Udeur, con il suo consenso personale di imprenditore e con l’aiuto della camorra casalese, ha avuto un ruolo significativo nelle elezioni provinciali e regionali. Ma che cosa c’entra la politica nazionale? Perché non passa che un anno e Nicola Ferraro riscende di nuovo in campo; siamo nel 2006 e Ferraro viene candidato al Senato in Campania, regione che secondo lo strano sistema elettorale avrebbe certamente garantito dei seggi all’Udeur. È fuori dubbio che una persona che aveva dimostrato di avere quel consenso poteva essere determinante per far ottenere al partito un ottimo risultato elettorale, malgrado quella legge non preveda preferenze e quindi penalizzi candidati con un seguito proprio come il Ferraro. Leggere oggi quello che è accaduto in quel periodo, alla luce delle intercettazioni telefoniche e ambientali contenute nell’ordinanza cautelare che ha colpito Ferraro nel giugno 2010, è davvero istruttivo. Ferraro viene candidato in posizione alta della lista, insufficiente a farlo eleggere, perché il successo del partito è minore delle attese, ma sufficiente comunque a fargli sfiorare il seggio di Palazzo Madama. È il primo dei non eletti e se la legislatura fosse proseguita probabilmente sarebbe riuscito a diventare parlamentare. Non ho un quadro completo dei risultati elettorali, ma la risicata maggioranza dell’Ulivo al Senato poteva contare sulla vittoria e il conseguente premio di maggioranza incassato dalla coalizione in Campania; in questa regione è indubitabile che il contributo dell’Udeur sia stato determinante e in questo abbia avuto un peso anche l’ottimo risultato ottenuto da quel partito in provincia di Caserta. Stiamo parlando di un sorte del governo fu Romano Prodi andò il il 49,74. Ogni singola E momento fondamentale nella storia del paese. Nel 2006 la decisa da una manciata di schede: al centrosinistra di 49,81 per cento dei voti, allo schieramento berlusconiano scheda ha pesato per condizionare le sorti della nazione. nel provvedimento con cui Ferraro è stato arrestato per concorso esterno in associazione camorristica, e indicato come uomo a disposizione dei casalesi, si fa riferimento a intercettazioni in cui si parla di un vero mercato dei voti mafiosi. Addirittura c’è l’avvocato di uno dei boss di Scampia che gli offre migliaia di preferenze, chiedendo una contropartita economica: e la faida di Scampia era già diventata celebre in tutto il mondo. Possibile che nessuno si sia reso conto delle relazioni pericolose di Ferraro? Come ho già detto, forse gli elementi per porsi qualche interrogativo c’erano già da prima. Secondo gli atti dell’ultima indagine, poi, Mastella viene messo in guardia sui rapporti tra Ferraro e i casalesi prima che le liste per il Senato fossero completate: nelle intercettazioni viene citato un intervento del presidente della Provincia di Caserta De Franciscis che avvisa il futuro ministro della Giustizia sui legami e le frequentazioni del consigliere regionale. Dalle intercettazioni si legge pure che vi sarebbe stato un incontro tra il leader dell’Udeur e qualche magistrato in rapporti con lui per discutere della vicenda. Certo, ci si potrebbe chiedere perché queste notizie di ambiente non furono valutate quando l’imprenditore dei rifiuti si candidò alla Regione. Dalle intercettazioni non si comprende quali informazioni precise abbia avuto l’onorevole Mastella - che, però, ha sempre negato di averne ricevute - ma certo è che Ferraro viene candidato, e anzi diventa l’esponente di punta del partito del ministro della Giustizia in provincia di Caserta e uomo chiave nel consiglio regionale per intervenire in vicende di sanità e appalti, come è emerso più tardi nelle inchieste della Procura di Santa Maria Capua Vetere e di Napoli. Il governo Prodi nato da quell’elezione è stato l’unica parentesi in un decennio berlusconiano: un governo che nasce in Campania con i voti dell’Udeur di Clemente Mastella e muore in Campania con l’inchiesta che fa finire agli arresti domiciliari sua moglie Sandra Lonardo Mastella, presidente del consiglio regionale, e Nicola Ferraro. Nei giorni delle sue dimissioni Mastella disse: «All’inizio, quando si è visto che l’Unione aveva vinto grazie ai miei voti in Campania, ero euforico, poi ho iniziato a preoccuparmi perché ho capito che il mio potere di condizionamento poteva diventare un ostacolo e motivo per farmi fuori». E in quel marzo 2008 sua moglie aveva pronunciato una frase sibillina in un’intervista al «Mattino» diretto da Mario Orfeo: «Adesso Mastella non lo vuole più nessuno, il suo lavoro sporco lo ha fatto e ora fa solo perdere voti». Che cosa le ha fatto venire in mente quel riferimento al «lavoro sporco» citato dalla signora Mastella, presidente del consiglio regionale? Ricordo anche io l’intervista cui lei fa cenno; onestamente non sono in grado di dire se con quella frase un po’ sibillina si volesse far riferimento proprio alle vicende del Casertano. Certo, qualcuno avrebbe potuto chiedere alla signora Mastella, che, ricordiamolo, era il presidente del consiglio regionale della Campania, quale fosse il significato vero delle sue affermazioni. Non mi pare, però, che nessuno lo abbia fatto, anche perché la situazione politica si ingarbugliò; il governo Prodi perse la maggioranza e le Camere furono sciolte. Certo, guardando adesso i fatti di quel concitato momento, si può notare una stranezza: la provincia di Caserta, in genere non particolarmente importante nelle dinamiche nazionali, aveva assunto in quella fase un ruolo centrale; come è stato rilevato in un’inchiesta giornalistica di Enrico Deaglio, era stata l’ultima provincia d’Italia che aveva fornito i risultati elettorali che portarono alla vittoria del centrosinistra. Il voto al Senato della Campania, con il conseguente premio di maggioranza, in quel momento era determinante per stabilire il vincitore della competizione elettorale: l’intero risultato nazionale si giocò sulla differenza di pochissimi voti. Tutta questa trasformazione che ha condizionato una stagione della storia italiana nasce da una bega su un appalto per i rifiuti conteso tra imprenditori, politici locali e camorristi? Onestamente tenderei a escludere che vi sia stata una strategia dei clan per cambiare maggioranza. Ci sono state operazioni fatte semplicemente per ragioni di interesse da singoli soggetti che rappresentavano una cerniera tra la camorra, l’impresa e, quindi, la politica. Quando essi si spostano portano con sé la loro dote; il loro unico obiettivo è fare affari e denaro. Anche i fratelli Orsi vanno a sinistra e prendono la tessera Ds perché puntano a mettere le mani su un consorzio multiservizi che doveva gestire numerose attività in una zona amministrata da giunte di centrosinistra. Può affermarsi, quindi, che soltanto indirettamente il meccanismo dei rifiuti sia stato la ragione per cui personaggi e pacchetti di voti siano passati da uno schieramento all’altro. Ferraro nelle rare interviste televisive locali non appare né d’impresa, né un politico. Lei ha avuto occasione di conoscerlo? un capitano Sì, e posso confermare questa impressione. È un imprenditore molto ruspante anche nel modo di presentarsi. Ricordo che quando è stato interrogato aveva un uso abbastanza frequente del dialetto casalese, che è un accento forte, difficile, lontano dall’armonia del napoletano. Fu un interrogatorio che durò ore e che mi è rimasto impresso: in certi momenti usava toni scherzosi, poi passava a modi duri. Diceva e non diceva, raccontava e non raccontava. Di sicuro, non sembrava un manager e non aveva le fattezze (e non mi riferisco certo a quelle fisiche) che ti immagineresti per un senatore della Repubblica o per un deputato regionale. Nel 2006 la lista per il Senato del neonato Udeur dove era candidato Ferraro raccoglie il 5,6 per cento dei voti in provincia di Caserta. Ma nei feudi dove è nata la camorra casalese il risultato è sorprendente. A Casal di Principe con il 15,9 per cento è il secondo partito dopo Forza Italia; a San Cipriano d’Aversa è il terzo con il 12 per cento; anche a Casapesenna con il 9,6 viene superato solo da Ds e Forza Italia. Ma quanto pesa la camorra in tutto questo? È impossibile individuare quale sia il valore aggiunto della camorra nel successo elettorale in alcuni feudi del clan dei casalesi. Mi limito a guardare i fatti; Nicola Ferraro e il fratello, suo socio nelle imprese, sono stati arrestati con l’accusa di concorso esterno nell’associazione camorristica denominata clan dei casalesi; nel provvedimento si evidenziano numerosi interventi di uomini del clan per aiutare elettoralmente il Ferraro. C’è un episodio che merita di essere raccontato: quando viene scarcerato Mario Schiavone, detto «Marittone», cugino e uomo di fiducia di Sandokan tanto da finire agli arresti proprio per essere stato trovato nel covo sotterraneo assieme al padrino, lo va a prendere un altro Schiavone, tal Nicola. Costui è un omonimo del figlio di Sandokan ed è l’uomo che si occupa di pilotare gli appalti per conto del clan: in auto Mario chiede al giovane le novità accadute durante la detenzione e fra le prime cose che vengono segnalate allo scarcerato vi è, guarda caso, proprio l’impegno elettorale di Nicola Ferraro. Questo Nicola Schiavone, che pure è stato arrestato per camorra, è un vero e proprio motore delle campagne elettorali di Ferraro e successivamente più volte viene ricevuto anche in Regione dall’ormai consigliere regionale. Del resto presso gli uffici della Regione i casalesi hanno discreti accessi, visto che anche Pasquale Zagaria, fratello del più noto capoclan latitante, riesce a farsi ricevere da un altro deputato regionale non casertano e casualmente pure eletto nell’Udeur. Analizzando questi fatti sorge una curiosità: gli Orsi sono ritenuti imprenditori vicini ai casalesi e per tale ragione arrestati; Nicola Ferraro pure. Eppure quest’ultimo viene minacciato proprio dai casalesi perché rinunci al ricorso contro la sua esclusione dalla società mista. I casalesi sono un clan organizzato, il più simile in Campania a Cosa Nostra: come si spiega questa situazione contrastante? All’interno del clan dei casalesi, pur nella pace apparente, esistono due fazioni che possono anche contrapporsi quando si fanno affari, l’ala Schiavone e quella Bidognetti; questi ultimi hanno sempre rivendicato il controllo del litorale domizio e siccome il consorzio Ce4 opera in quell’area, ritengono di dover essere loro a scegliere il vincitore dell’appalto: i Bidognetti parteggiano per gli Orsi dai quali pensano di avere spuntato condizioni migliori. E poi Nicola Ferraro è considerato vicino soprattutto agli Schiavone. Ma le alleanze e i rapporti nei clan sono mutevoli; sono, infatti, gli stessi uomini di Bidognetti che ammazzano Michele Orsi e anzi dall’ordinanza cautelare del 2010 emessa nei confronti di Ferraro emerge un particolare agghiacciante. Uno dei pentiti racconta che prima dell’omicidio di Michele Orsi, avrebbero fatto sapere a Ferraro - senza ovviamente permettergli di capire a cosa si riferissero - che nei giorni successivi gli avrebbero fatto un favore, con questa indicazione volendo alludere all’eliminazione dell’Orsi medesimo. Nelle sue parole la Regione crocevia di scambi malavitosi. Campania sembra descritta come una sorta di Non è così ovviamente; la Regione è un ente ormai diventato fondamentale soprattutto per la capacità di spesa e perché lì si giocano le partite più importanti che riguardano le politiche economiche della Campania. Sarebbe ingiusto negare quanto di buono, per esempio, la Regione ha prodotto nel settore dei trasporti; la rete delle metropolitane già ora avvicina Napoli e la sua provincia alle capitali europee. È, però, evidente, che gli imprenditori, in generale, abbiano interessi ad accreditarsi presso gli uffici della Regione per cercare di ottenere appalti e lavori, e allo stesso modo si muovono alcuni esponenti della camorra che, direttamente o indirettamente, gestiscono attività imprenditoriali. I due episodi citati dei due consiglieri che hanno avuto colloqui in Regione con esponenti dei casalesi non sono gli unici casi evidenziati dalle indagini. Un altro consigliere regionale, Roberto Conte, primo eletto della lista della Margherita con 31 mila voti, è stato condannato, sia pure soltanto in primo grado, per concorso esterno in associazione mafiosa per avere ottenuto appoggi elettorali da parte di un clan storico del centro di Napoli, e cioè i Misso. Che fine hanno fatto questi uomini politici di cui ritirati in attesa di definire le loro vicende penali? abbiamo parlato: si sono Le ultime elezioni per il consiglio regionale hanno evidenziato molti cambi di casacca. Sono più di uno i soggetti già eletti con il centrosinistra che adesso sono passati armi e bagagli al centrodestra, dato da tutti per vincente. Non escludo che dietro queste scelte vi siano valide motivazioni politiche, ma all’apparenza resta il sentore e il sospetto dell’eterno gattopardismo. E anche gli uomini in qualche caso toccati dalle indagini per le connessioni alla camorra hanno seguito il flusso della corrente. Nicola Ferraro non si è ricandidato perché, pur non essendo ancora stato raggiunto al momento delle elezioni da ordinanza cautelare per i fatti di camorra, era inquisito per la vicenda della sanità a Caserta; è ritornato in pista lo zio, che si è ripresentato in provincia di Caserta per l’Udeur (passato a sostenere il centrodestra) ma malgrado un buon risultato non è stato eletto. Invece Vittorio Insigne, il politico che aveva incontrato Zagaria negli uffici della Regione e che, si badi bene, è stato assolto con sentenza passata in giudicato dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, non si è ricandidato, ma nella lista del Pdl era presente una giovane dal medesimo cognome che credo fosse la figlia o la nipote. Roberto Conte, invece, si è all’onorevole Caldoro, attuale malgrado fosse ineleggibile per in attesa del processo di appello schierato in una lista civica di appoggio presidente della Regione, ed è stato eletto la sua condanna penale. Attualmente è sospeso che lo riguarda. Facciamo un passo indietro. L’ascesa di Ferraro nasce da quelle elezioni provinciali a Caserta in cui contribuisce al trionfo di un presidente di centrosinistra. E in quelle consultazioni il grande sconfitto è Nicola Cosentino: anche lui di Casal di Principe, anche lui colpito da un ordine di cattura per concorso esterno in camorra. Ma Cosentino ha un profilo borghese completamente diverso dall’uomo delle discariche e solo lo scandalo della cosiddetta loggia P3 lo ha costretto a lasciare la poltrona di sottosegretario all’Economia, senza però rinunciare alla carica di coordinatore campano del Pdl. Cosentino è il più importante politico campano sotto inchiesta per rapporti con i casalesi; è una figura che ha soltanto alcuni tratti in comune con Ferraro, in primis la provenienza da Casal di Principe. Per quello che so, nella sua famiglia non ci sono storie di camorra: il padre non risulta averne, anche se i Cosentino sono una classica famiglia di Casal di Principe, molto legata al territorio. I rapporti parentali con il clan si sono creati con il tempo, perché i fratelli di Cosentino, eredi imprenditoriali di quel padre che veniva chiamato «o Mericano», pare perché avrebbe avuto rapporti commerciali con gli Alleati, hanno sposato persone strettamente legate al clan dei casalesi. In particolare un fratello ha sposato la sorella di «Peppe o padrino», esponente storico di primo piano del clan con un soprannome che non richiede spiegazioni, e un altro fratello la figlia di un uomo arrestato e condannato per camorra. La loro famiglia è particolarmente forte nell’attività imprenditoriale, soprattutto nel settore degli idrocarburi, ma Nicola Cosentino non sembra mai essersene occupato in prima persona. Avendo studiato ed essendosi laureato in legge (non so se ha mai svolto la professione di avvocato) è stato destinato alla politica ed è una sorta di enfant prodige: a soli 19 anni è prima consigliere comunale a Casal di Principe e poi consigliere provinciale dell’allora Partito socialdemocratico. Secondo il pentito Carmine Schiavone, già nell’elezione alla Provincia una parte dei casalesi era scesa in campo per aiutarlo. La sua carriera politica è poi continuata passando per la Regione, per diventare fin dal 1996 parlamentare; ha scalato molti gradini per diventare coordinatore regionale, e infine, sottosegretario all’Economia dell’attuale governo. Quindi si tratta di un soggetto che appartiene a una realtà borghese seppure in un contesto speciale. Ed entra in politica, in quella Casal di Principe che allora era devastata da una guerra di camorra spietata e dove si stava consolidando un patto tra clan e imprenditoria per dominare gli appalti. Dopo l’esordio, stando all’ordine di cattura confermato anche dalla Cassazione, Cosentino si sarebbe trovato a trattare con questi grandi elettori di camorra. A prescindere da quelli che saranno gli esiti del processo che riguarda il parlamentare casertano, l’ordinanza cautelare emessa dal Gip di Napoli è un documento che considero straordinario non soltanto sotto il profilo squisitamente giuridico ma perché ricostruisce molte delle vicende di cui abbiamo già parlato con chiarezza e precisione. Vi sono numerose dichiarazioni di collaboratori di giustizia, già legati ai casalesi, che partendo da Carmine Schiavone e fino all’ultimo pentito, un uomo che si occupava di gestione dei rifiuti tossici per conto del clan, tal Gaetano Vassallo, indicano rapporti del sottosegretario con la camorra sempre legati alla logica dell’appoggio elettorale. Interessante, per esempio, è quanto afferma Dario De Simone, considerato uno dei collaboratori di giustizia più affidabili: dice di avere incontrato Cosentino, all’epoca ancora soltanto consigliere regionale, persino durante un periodo in cui era latitante. Ma senza dubbio la parte più interessante del provvedimento riguarda il ruolo che Cosentino ha avuto nell’affaire rifiuti; il suo intervento nelle attività del consorzio Ce4, tanto che, secondo il pentito Vassallo, Cosentino avrebbe persino detto «Il consorzio Caserta 4 sono io». In base a quanto emerge dagli accertamenti contenuti nell’ordinanza, Cosentino avrebbe anche avuto un ruolo nell’individuare il luogo dove far sorgere il termovalorizzatore in provincia di Caserta. In quel provvedimento viene poi ricostruita un’altra vicenda molto importante; la creazione di un super consorzio, denominato Impregeco, che avrebbe messo insieme i consorzi di destra e di sinistra, per una gestione bipartisan dell’emergenza, che aveva evidentemente benedizioni ampie. La spazzatura - si apprende dall’ordinanza - è politicamente colorata gestirla al meglio si crea una struttura «arcobaleno» che accontenti tutti. e per Abbiamo passato in rassegna una serie di vicende che gettano una luce inquietante su alcune relazioni tra uomini di partito e uomini di camorra in Campania. Ma più in generale che cosa si aspettano i camorristi dai politici? E i rapporti sono tra singolo boss e singolo esponente di partito, oppure ci sono accordi più vasti tra clan e movimenti? In Campania il rapporto è sempre personale e viene gestito indipendentemente da clan e partito. Per restare alle vicende di cui abbiamo già parlato, i voti seguono Ferraro, che prima li indirizzava sullo zio e su Forza Italia e poi li investe su se stesso e l’Udeur. In tutte le realtà locali conta il rapporto diretto, che prescinde dal partito. E nel caso di Ferraro c’era un legame di fiducia personale, di parentela. Non si può nemmeno escludere che un politico riesca a ottenere appoggi elettorali da vari clan, fra loro nemmeno in rapporti; quando fu eletto nel 1992 l’avvocato Alfonso Martucci, importante penalista di Caserta che, come abbiamo avuto modo di ricordare, triplicò in provincia di Caserta i voti del minuscolo Partito liberale, ottenne preferenze anche nelle roccaforti di altri clan, quali per esempio i D’Alessandro di Castellammare, in provincia di Napoli. Martucci credo sia l’unica persona in Italia condannata, sia pure con una sentenza di patteggiamento, per concussione elettorale aggravata dal metodo mafioso. I clan camorristici, invece, si aspettano soprattutto che il politico garantisca assunzioni e appalti: la coppia d’assi che permette il quieto vivere ai padrini e ai loro rappresentanti politici. E poi ci sono in ballo i soldi; il fiume di denaro che è stato riversato per risolvere l’emergenza fa chiaramente gola ai criminali; nel libro mastro dei clan l’entrata più importante è quella pagata dalla società che gestisce il servizio rifiuti. I camorristi non disdegnano, inoltre, quei politici che dicano di poter risolvere le questioni giudiziarie che riguardano i boss medesimi o il loro patrimonio. Soprattutto nelle indagini meno recenti vi è sempre questa costante: il politico «agganciato» perché sostiene di essere in grado di spendere il suo peso su magistrati e forze dell’ordine. Quindi controllare la macchina dell’emergenza rifiuti permetteva di pilotare fondi e assunzioni. Allo stesso tempo, però, offriva anche un ruolo politico, perché l’amministratore locale dimostrava alle autorità di Roma e Napoli di potere risolvere il problema principale che in quel momento stava vivendo la regione: contribuire a ripulire le strade accresceva il potere dell’esponente locale nei confronti delle istituzioni e dei partiti. Non credo di quegli anni emerso nelle Commissione esagerare se affermo che la centralità della provincia di Caserta in chiave dell’emergenza rifiuti sia legata a questo. C’è un dato indagini che lo conferma e che è stato ripreso nella relazione della bicamerale sul ciclo dei rifiuti presieduta dall’onorevole Roberto Barbieri: quando nei periodi di massima crisi si cercano siti per accatastare milioni di ecoballe - che non potevano essere bruciate non solo perché non esisteva ancora un termovalorizzatore, ma perché erano state assemblate senza il rispetto delle regole tecniche questi spazi vengono trovati in gran parte in un’area a cavallo tra Casertano e Napoletano ma sempre in provincia di Caserta. È un momento in cui la realtà sociale ribolle di proteste dei cittadini che non vogliono saperne di ospitare siti per i rifiuti e invece in quella zona i depositi vengono allestiti senza problemi. L’indagine che venne condotta tentò di capire come avesse fatto la struttura del Commissariato di governo a individuare questi siti: nessuna gara, né sondaggio informale; vi era un politico locale che segnalava alla struttura commissariale quali erano i terreni da affittare e quasi sempre poi venivano presi. Nella relazione della Commissione bicamerale si aggiunge anche un particolare incredibile: poco prima che venissero locati al Commissariato con prezzi significativi, quei terreni, in alcuni casi, erano stati comprati da persone in rapporti di parentela e cointeressenza con criminalità casalese per prezzi di gran lunga più bassi rispetto a quanto pagato dallo Stato. Non sono emersi, almeno all’epoca, reati specifici ma è sorprendente notare come si siano trasformate quelle zone, in cui sono stati accumulati milioni di ecoballe: prima erano campi coltivati, adesso a guardarle dall’alto si vede questa mole sterminata di buste azzurre che somiglia a un fiume, un lungo fiume di spazzatura triturata avvolta nella plastica blu. Questa era la centralità della provincia di Caserta: nel momento in cui ci si ritrova in un meccanismo senza fine come quello dei rifiuti, chi è in grado di darti soluzioni - anche mediando con tutta una serie di personaggi a dir poco discutibili - assume un potere rilevante dal punto di vista sociale, politico ed economico. Quindi l’emergenza rifiuti che per quindici anni ha dominato la Campania e che si è rivelata determinante per le sorti di due governi - indirettamente per quello Prodi grazie al sostegno Udeur e direttamente per la campagna elettorale del successivo Berlusconi ha creato una classe politica che ha sfruttato proprio la capacità di mediare con ambienti camorristici? La questione sarebbe incredibile se fosse accaduta altrove. Ma nella storia della Campania abbiamo avuto anche il caso di un ministro dell’Interno processato per essere in rapporto con i clan: un caso unico, che non si è verificato nemmeno in Sicilia. In verità la camorra, molto più della mafia e della stessa ‘ndrangheta, si è segnalata fin dalle sue prime apparizioni per la sua capacità di intrecciare rapporti con il potere costituito. Senza volere e potere fare la storia di questi rapporti, basterebbe ricordare come già con l’unificazione dell’Italia l’allora prefetto Liborio Romano utilizzò paradossalmente i camorristi dell’epoca per gestire una complessa situazione dell’ordine pubblico; fin dalle prime elezioni, poi, con ampio suffragio nel Regno si segnalarono interferenze dei camorristi. Chi leggesse oggi la relazione di indagine amministrativa fatta su Napoli nel 1900, e affidata al senatore Saredo, resterebbe esterrefatto nel verificare quante analogie ancora vi siano con l’attualità e soprattutto quanti uomini politici locali e nazionali utilizzassero i camorristi per le campagne elettorali e per ottenere voti e consenso. Le indagini e le evidenze giudiziarie successive sui rapporti politica-camorra risalgono soltanto alla fine degli anni Ottanta, quando si analizzò cosa era accaduto con un’altra grave emergenza che aveva colpito la Campania, il terremoto che, da disastro per alcune popolazioni, si trasformò in vera e propria «abbuffata» per imprenditori, politici e camorristi. Sarebbe, però, sbagliato pensare che nel periodo precedente il terremoto la camorra fosse scomparsa e comunque non si occupasse di politica; chi abita nel Napoletano o nel Casertano sa bene che anche i leader nazionali, quando venivano a raccogliere voti nei paesi della provincia, spesso si accompagnavano in pubblico al capetto locale o agli uomini che a esso facevano riferimento. Sarebbe interessante poter consultare gli atti di archivio soprattutto dei carabinieri per ricostruire come veniva conquistato il consenso anche alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta. Con il terremoto del 1980 poi, ma già con il tentativo di Cutolo di creare un’organizzazione camorristica unitaria in Campania, si struttura forte il rapporto fra i clan e il mondo politico, mediato dall’impresa collusa. Quella è la stagione del potere del napoletano Antonio Gava, che non era un qualsiasi politico: ha avuto un peso nel vertice della Democrazia cristiana ed è stato sette volte ministro. Per due volte ha guidato il ministero degli Interni: l’uomo che si sarebbe dovuto occupare di contrasto alla camorra avrebbe avuto legami con i clan? Attenzione, Antonio Gava non è solo stato ministro degli Interni; sembrano passati secoli da quel periodo ma stiamo parlando di un’epoca recente, che coincide con l’ultima fase della cosiddetta Prima Repubblica. Antonio Gava era figlio di un esponente di primo piano della Democrazia cristiana, Silvio, parlamentare per più legislature, che ricoprì anche importanti incarichi di governo, come quello di ministro di Grazia e Giustizia, e del Tesoro. Il figlio aveva seguito tutto il cursus honorum fin da giovane nella DC e aveva avuto tante cariche prima di fare il ministro dell’Interno. Aveva creato un meccanismo di potere e di consenso incredibile e macinava preferenze alle elezioni per sé e per i suoi fidati. Gava, inoltre, era leader di una delle correnti più importanti della DC, il Grande Centro, ribattezzata anche «Corrente del golfo» per la provenienza napoletana di molti suoi esponenti. Questo suo ruolo lo rendeva, al di là delle cariche, molto influente nelle scelte che riguardavano tutta l’Italia. Ma Gava è stato assolto nel processo che lo ha visto imputato. Gava è stato incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa per essere stato il referente del clan Cutolo prima e Alfieri-Galasso poi: ossia delle più grandi organizzazioni camorristiche mai esistite. Un processo che ha avuto scarsissima attenzione mediática benché vedesse alla sbarra altre figure di primo piano della corrente di Gava nonché esponenti del Partito socialista che avevano avuto incarichi di rilevanza nazionale (ricordo per esempio l’onorevole Mastrantuono, che era stato vicepresidente della Commissione giustizia, condannato in primo grado per concorso esterno e poi assolto in appello). Gava è stato effettivamente assolto dalle accuse di collusione con la camorra in tutti e tre i gradi di giudizio ma alcuni suoi uomini di fiducia sono stati condannati anche con sentenze definitive (per esempio il senatore Patriarca è stato riconosciuto colpevole di concorso esterno mentre l’onorevole Meo, dopo essere stato condannato in appello per il medesimo reato, ha ottenuto l’annullamento in Cassazione). Per questo, almeno sul piano politico, si tratta di rapporti accertati senza dubbio. Ma ai tempi di Antonio Gava in Campania comandava la camorra o la politica? Si tratta di una domanda a cui rispondere non è affatto semplice. Io credo che si debba partire da un dato: la camorra a differenza della mafia, non avendo struttura unitaria, difficilmente è in grado di imporsi su tutto il territorio della regione e questo rende più faticoso il controllo delle strutture che non siano puramente comunali, perché già nella provincia di Napoli, per esempio, operano clan in contrasto l’uno con l’altro. Negli anni Ottanta ci sono stati due tentativi per creare grandi alleanze che riunissero i vari clan, quello di Cutolo e quello di Alfieri, quest’ultima alleanza nata in posizione soprattutto difensiva rispetto ai cutoliani. Forse in questo periodo i clan hanno tentato di gestire la politica. Ma tranne che per queste due parentesi criminali io ritengo che la camorra sia sempre stata subalterna alla politica. Priva di strutture di vertice come la Cupola di Cosa Nostra o le assemblee della ‘ndrangheta reggina, non ha mai potuto pianificare strategie che andassero oltre il territorio del singolo clan: i casalesi, che sono divenuti i più noti camorristi grazie a Gomorra di Roberto Saviano, possono incidere su gran parte della provincia di Caserta ma stentano a esercitare un’influenza in quella di Napoli. Per questo alla fine i clan campani, soprattutto quelli meno organizzati, sono prevalentemente uno strumento usato dalla politica regionale e nazionale: a loro interessa partecipare ad affari e ricavarne utili. In tutto il Sud le mafie hanno cercato di rompere la subalternità alla politica usando la forza militare con omicidi mirati per imporre la propria volontà delitti preventivi nel caso della stagione di rinnovamento avviata dal presidente regionale DC Piersanti Mattarella o punitivi come contro il leader andreottiano Salvo Lima o azioni terroristiche quali le stragi del 1992. Nel caso di Raffaele Cutolo, poi, il carattere quasi eversivo della sua creatura criminale si manifestava anche nella capacità di condizionare le scelte della politica, come dimostra il ruolo chiave nella trattativa per la liberazione del presidente DC campano Cirillo. Lo ribadisco, quello di Raffaele Cutolo rappresenta il vero tentativo di invertire il rapporto. Non più la criminalità vista come manovalanza, seppure manovalanza ricca, a cui concedere soldi, appalti e prebende varie ma non il vero potere. Cutolo, infatti, nella sua megalomania vuole la preminenza sui politici. Cerca di ottenerla, sfruttando il momento particolare: la devastante crisi sociale del dopo terremoto e gli anni di piombo. Questo tentativo muore dopo la mediazione nel sequestro Cirillo, che rappresenta lo zenit del suo potere, ma anche l’inizio della fine. Il boss di Ottaviano dimostra di potere trattare con lo Stato, i partiti e le Brigate Rosse: non era mai accaduto prima e forse non è mai accaduto neanche dopo o altrove. Fino a quel momento c’era stata una camorra usata dai partiti come massa di manovra, utile a portare voti ma con la convinzione che non avrebbe mai dato fastidio. Il suo rivale Carmine Alfieri, uomo molto furbo e concreto che a vederlo e a parlargli non considereresti mai un capo, si guarda bene dal seguire la strada di Cutolo; non ha nessun interesse a gestire direttamente la politica: a lui interessano gli affari, l’unico motivo per cui tratta con gli uomini di partito. Le mafie hanno usato la violenza per tentare di condizionare la politica. In qualche caso, come accadde con le primissime rivelazioni di Giovanni Brusca, hanno cercato di mettere in campo manovre di delegittimazione più sofisticate ma con scarsi risultati. Invece lei ha mai avuto l’impressione che i rifiuti in Campania siano stati utilizzati come arma per chiudere in un angolo la politica? Al posto delle bombe, la camorra e igruppi di potere che sono sua diretta espressione hanno scatenato l’alluvione di spazzatura nelle strade? Penso di poter escludere questa ipotesi; certo, dagli atti delle inchieste della Direzione distrettuale antimafia di Napoli vengono segnali ancora non del tutto decifrati. Penso alle vicende che riguardano i moti di piazza contro la discarica di Pianura, che apparentemente erano manifestazioni degli abitanti del quartiere ma in realtà vedono una presenza massiccia della criminalità organizzata che in questa occasione si unisce alle frange di tifoseria violenta, anch’esse spesso molto vicine alla camorra. Penso anche alle proteste e agli attentati che nel settembre 2010 hanno riportato la regione sull’orlo del caos. Non c’è però una strategia di più ampio respiro; sono gli interessi particolari dei clan locali che li spingono altri fini. a intervenire e che forse qualcuno cerca di strumentalizzare per Nelle indagini per camorra ci sono spesso intercettazioni o dichiarazioni di pentiti su pacchetti di voti controllati dai clan. Ma oggi i gruppi criminali chi votano? Puntano sull’esponente a loro disposizione, pronto a barattare schede con riconoscenza? Oppure, anche a causa del sistema elettorale che non dà spazio alla preferenza, adesso si concentrano sul partito che nel programma ha la proposta politica che più gli interessa? La camorra ha una caratteristica che la contraddistingue; è per sua natura tendenzialmente deideologizzata e molto duttile; i camorristi votano chi gli fa comodo e chi gli promette i vantaggi che si attendono. Il mercato del voto esiste ancora e questo in parte prescinde persino dalla camorra e fa leva sulle ampie fasce di povertà e di disadattamento che ancora esistono a Napoli e nella sua provincia. Onestamente non sono in grado di dire in che modo il voto di scambio è stato influenzato dall’assenza della preferenza; questo meccanismo è ancora troppo recente per capire. Nicola Ferraro certamente ha portato più gente a votare per l’Udeur al Senato in provincia di Caserta ma, d’altro canto, in quella stessa provincia i voti del partito sono stati di gran lunga inferiori a quelli delle regionali, in cui si votava con le preferenze. Non escludo, poi, che i clan possano sentirsi attratti da proposte politiche di loro interesse nei programmi dei partiti; grande è l’attenzione alle proposte sul sistema giudiziario, ma ci sono altre questioni che hanno un peso crescente, quasi superiore alle riforme della giustizia. Si tratta della deregulation economica e burocratica. Perché la deregulation, soprattutto in alcune zone, rappresenta anche un modo per aggirare i meccanismi di controllo: più basso è il livello di controllo più facilmente i clan possono prosperare. Altro aspetto per loro fondamentale è la creazione di centri di spesa locale, che sono in assoluto la cosa che più gradisce la camorra: tanto più i soldi sono spesi a livello locale, tanto più forte è la loro capacità di dominio. Sono questi i due elementi, oltre all’incidenza del voto personale, che possono rappresentare un impulso a votare una certa lista. Quindi anche in Campania la criminalità organizzata sta dimostrando un forte interesse verso istanze federaliste, che le permetterebbero di potere influire a livello locale sulla gestione di fondi, assunzioni e appalti? Il tema del rapporto mafie-federalismo è certamente un argomento che è sbagliato sottovalutare; provocatoriamente potrei dire che le mafie sono federaliste ante litteram: da sempre hanno interesse a che il potere locale - più semplice da infiltrare - cresca soprattutto grazie alla capacità di pianificare impegni e spese. E di questa situazione anche i padri nobili delle riforme federaliste sembravano tenere conto: mi ricordo quando Gianfranco Miglio, ormai avanti negli anni, sosteneva che mafia e ‘ndrangheta andassero mantenute e che ci fossero «alcune manifestazioni del Sud che debbono essere costituzionalizzate». Le vicende di cui abbiamo parlato fino a questo momento dimostrano, per esempio, quanto alto sia l’interesse dei clan rispetto alle elezioni regionali; nel momento in cui si trasferisce ulteriormente il centro di spesa a livello regionale e vi è una classe politica non del tutto impermeabile alle pressioni dei clan, il rischio diventa enorme. E allora è antipatico fare da Cassandre, ma forse è utile prendere in esame ciò che è avvenuto nelle regioni meridionali prima di fare scelte da cui è impossibile tornare dietro. Il federalismo al Sud può essere un’occasione vera a due condizioni; che funzionino i controlli sulle uscite di denaro pubblico e che si faccia una selezione rigorosa della classe dirigente politica e burocratica. 6. La ragnatela delle istituzioni. Dalle logge alle cricche. Piccoli marescialli o grandi centrali del ricatto, ma alla fine la strada della corruzione passa sempre di più dalla politica. Nell’Italia del terzo millennio il pubblico ufficiale non si vende solo per denaro, case, favori o automobili; il prezzo massimo, quello più agognato, è il «riconoscimento politico»: una carta di credito che garantisce tutto in istituzioni che ormai a ogni livello sono permeate dai partiti. Pochi sono i palazzi romani dove promozioni e contratti non subiscono l’influenza del ministro e del sottosegretario: anche l’autonomia delle forze dell’ordine e della magistratura nei fatti mostra sempre più il condizionamento di un sistema dove merito e professionalità sono l’eccezione. La carriera passa sempre di più dal gradimento del referente politico, creando un nuovo tariffario della corruzione che scardina le vecchie abitudini. Perché è la poltrona a garantire potere, alimentando la ricerca di altri «riconoscimenti» da chi sta in alto e le occasioni di spremere denaro e benefici da chi sta in basso. Una colossale sfida tra camarille, che ha visto dissolversi sempre più i confini rigidi della Prima Repubblica scanditi dal manuale Cencelli: oggi questi gruppi si trasformano in continuazione, un magma eternamente in movimento pronto ad aggregarsi intorno a un principe per allontanarsene altrettanto velocemente. I magistrati di Firenze che hanno svelato la cricca dei grandi appalti l’hanno chiamata «corruzione gelatinosa»: un’immagine che fa pensare a qualcosa di appiccicoso e ghiotto, che ha invischiato ministri e boiardi, questori e generali, forze dell’ordine e servizi segreti, cardinali e finanzieri, in una scacchiera dove i colori delle caselle cambiano in fretta. E dove anche i mafiosi sanno come muovere le loro pedine. Più si scende verso sud, più questa ragnatela sembra avere avvolto gli organismi dello Stato, con effetti materiali e morali devastanti: trasmette l’esempio negativo del vertice e irradia il senso di sfiducia che crea la premessa alla collusione. Ai clan interessa ottenere notizie, licenze, appalti, omissioni ma soprattutto eliminare gli ostacoli giudiziari: far revocare arresti e cadere accuse, sancendo la massima legittimazione della loro autorità. I vecchi boss da tempo non si occupano più di queste pratiche in prima persona: troppo rischioso e troppo complicato. La missione è nelle mani dei loro ambasciatori borghesi, imprenditori e politici. Che in Sicilia e Calabria sempre più spesso sono organici alla cosca, ma in modo invisibile e insospettabile. Più rischioso è il tradimento che viene chiesto, più esosa è la contropartita pretesa: che può essere concessa solo dalla politica o si trasforma nella volontà di essere parte stessa della politica. Il caso più clamoroso di tradimento dell’ultimo decennio riguarda tre marescialli che riuscivano a far arrivare a Cosa Nostra le informazioni fondamentali sulle indagini antimafia di Palermo. Stando alle sentenze ancora non definitive, Antonio Borzacchelli, in servizio nell’anticrimine dell’Arma, univa l’amicizia con il deputato e governatore Totò Cuffaro alle frequentazioni con Michele Aiello, re delle cliniche ritenuto riciclatore di Provenzano. Gli avrebbe consegnato le rivelazioni più importanti: quelle sulle novità dei pentiti e quelle sulle posizioni delle microspie. Da Aiello, con le buone e con le minacce, si sarebbe fatto dare quattrini a palate - un miliardo e 300 milioni di vecchie lire -, una villetta e un fuoristrada. Da Cuffaro avrebbe ottenuto qualcosa di più prezioso: la candidatura e l’elezione al consiglio regionale, grazie a una lista satellite dell’UDC benedetta dal governatore. Francesco Campanella, il pentito della politica, ricorda come Cuffaro giustificò questa decisione sorprendente: «Il maresciallo ci serve perché ci protegge dalle indagini». Borzacchelli avrebbe vanificato una delle operazioni più brillanti condotta dai suoi colleghi. Mentre Giuseppe Guttadauro, medico e padrino, era in cella, erano casa vuota e l’avevano riempita di cimici a futura memoria. entrati nella sua Quando il boss viene scarcerato, infatti, si preoccupa di evitare qualunque intrusione sospetta, ma le spie elettroniche sono già sul posto e registrano le conversazioni più importanti sulla nuova mafia dei Gattopardi. Finché grazie alla dritta di Totò le microspie non vengono scovate e distrutte: una soffiata che ha portato alla condanna in appello di Borzacchelli e Cuffaro. Il maresciallo agiva in compagnia di altri due colleghi, inseriti in strutture fondamentali: una pattuglia del disonore in grado di vanificare gli sforzi dei migliori uomini delle forze dell’ordine, un «sistema di controinformazione». Nella squadra dell’antistato c’era Pippo Ciuro, sottufficiale della Finanza e braccio destro del pm Antonio Ingroia: un mago delle indagini patrimoniali, incaricato nel processo Dell’Utri di setacciare i presunti intrecci finanziari tra Fininvest e Cosa Nostra negli anni Settanta. Anche lui è arrestato e condannato per il mercato di notizie sottratte dai cassetti della procura antimafia e vendute ai boss. Il terzo era Giorgio Riolo, del Ros, il falco dello spionaggio elettronico, maestro nel piazzare microtelecamere e registratori. Che poi mostrava all’uomo condannato come socio di Provenzano. Riolo è l’unico ad avere manifestato una forma di ravvedimento: «Mi sono lasciato attrarre da giochi di potere, denaro e malaffare», elencati quasi in ordine decrescente di importanza a sancire come per chi procurava notizie così delicate, capaci di prolungare la latitanza dei capi, più dei soldi contasse essere dentro «i giochi di potere». La legalità resiste. I ranghi di carabinieri, polizia, Finanza sono pieni di persone che credono nello Stato e garantiscono la sopravvivenza delle istituzioni. Lo fanno lottando contro problemi d’ogni genere, dalla carenza di risorse alla povertà di mezzi, dalla complessità burocratica al disagio morale per le condizioni del paese che li circonda. Lo fanno mettendo a rischio la propria vita e la propria carriera, con orgoglio e determinazione; «con abnegazione, sprezzo del pericolo e senso del dovere», come recita la motivazione delle medaglie al valore, spesso concesse alla memoria di chi si è sacrificato per la collettività. I vertici di queste istituzioni continuano a dare priorità assoluta alla battaglia antimafia, schierando le forze migliori e cercando di valorizzare il loro impegno. Questa volontà di resistenza ed efficienza deve fare i conti con l’espansione della zona grigia, che trova infinite strade per arrivare ai propri obiettivi. Dall’alto o dal basso. A occuparsene sono antichi faccendieri o giovani Gattopardi che saltano tra politica e imprenditoria sotto gli occhi compiaciuti dei loro sponsor mafiosi. La parola chiave è «avvicinare», con ciò indicando un incontro che si trasforma in abbraccio fino a soffocare. Le persone che contano si «avvicinano» in qualunque occasione - convegni, cerimonie religiose, feste pubbliche e private, eventi sportivi - ma poi gli accordi si concludono a tavola. Come teorizzava il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia, animatore di una camarilla potentissima fino al ‘96: «Prima si mangia, poi si intrallazza». Un grande banchetto dove tra una portata e l’altra si divorava la credibilità delle istituzioni. Un tempo il teatro degli intrallazzi erano le logge massoniche, il luogo dello scambio tra istanze criminali e poteri statali, dove si stabilivano contropartite e accordi. Logge locali, nazionali, più o meno deviate, in cui sotto il cappuccio si nascondevano baroni diventati complici dei loro guardiani con la coppola, medici al servizio del clan, o dove addirittura i più presentabili tra gli uomini d’onore si godevano la loro doppia affiliazione, al Grande Oriente e a Cosa Nostra. La mediazione della politica, avida di voti e di soldi, spesso avveniva all’interno delle fratellanze massoniche o si muoveva lungo canali paralleli. Ma oggi la cronaca ha imposto alla ribalta una declinazione diversa di quel modello, che mantiene personaggi storici di quel mondo inseriti in dinamiche più flessibili e insidiose. L’hanno battezzata P3, ma più che una nuova struttura sembra quasi una micidiale evoluzione del vecchio «software» brevettato da Licio Gelli: adesso non c’è bisogno di liste, grembiulini e rituali; tutto è più fluido, mimetico, inarrestabile. Corruzione liquida, che si diffonde come un virus penetrando negli ambienti più sacri del potere laico. L’atto di accusa della Procura di Roma, basato su una lunghissima indagine dei carabinieri, è una sorta di biopsia che mostra la diffusione del male: magistratura, Parlamento, Regioni, forze dell’ordine, sanità, banche, industria immersi nella stessa cappa che pilota nomine, voti, affari e favori. I provvedimenti giudiziari chiamano in causa Flavio Carboni, il maestro evocato nelle trame degli ultimi trent’anni, dalla banda della Magliana alla fine di Roberto Calvi; Marcello Dell’Utri, il fondatore di Forza Italia che mischia attività economiche a ruoli politici; Denis Verdini, il banchiere toscanaccio che siede contemporaneamente al vertice nazionale del Pdl e di un istituto di credito poi commissariato da Bankitalia ; Nicola Cosentino, il sottosegretario all’Economia (dimessosi nel luglio 2010) e coordinatore campano del partito di maggioranza. Il loro braccio operativo nei palazzi di giustizia è un ometto incredibile, Pasquale Lombardi, in epoche remote sindaco di un paesino dell’Irpinia, che riesce a entrare in qualunque ufficio per perorare cause apparentemente impossibili. È sorprendente leggere le intercettazioni in cui Roberto Formigoni ne invoca l’intervento per impedire che i giudici di Milano escludano la sua lista dalle elezioni regionali: «Ma l’amico… l’amico Lombardi è in grado di agire? Ti prego…». Il granduca del Pirellone ignora chi sia l’uomo di cui sta quasi pietendo il sostegno: un geometra che fatica a parlare in italiano e fa replicare alla supplica con un «dicitangill pure a chili amie tui su a Milan (diteglielo anche a quell’amico tuo su a Milano)». Eppure Pasquale Lombardi, «l’intrallazzatore» celebre nel suo giro per l’incapacità di sedere a tavola senza imbrattarsi di sugo («Il nostro comune amico che quanno magna se sporca sempre…»), con il suo eloquio da Pappagone riusciva a mettere piede in tutti i palazzi del potere. Il suo motto era semplice: «Arriviamo, arriveremo dove dobbiamo arrivare». In Cassazione, nel ministero dell’Economia e in quello della Giustizia, nel Consiglio superiore della magistratura, nella presidenza della Sardegna, della Lombardia, della Campania, in ogni Procura d’Italia: ovunque il geometra avellinese veniva fatto accomodare per ascoltare le sue ambasciate e chiedere favori di ritorno. Snocciolava una raffica di diminutivi affettuosi - Fofò, Nicolino, Pinuccio, Giacomino - con cui si rivolgeva al sottosegretario alla Giustizia, al presidente della Suprema corte, fino a incontrare «Chillu cess’e Nicola», al secolo Nicola Mancino, vicepresidente del Csm e suo compaesano, secondo solo al capo dello Stato nell’arbitrare la vita della magistratura italiana. Grottesco? Di sicuro. Ma Pasqualino e i suoi amici hanno condizionato o tentato di influenzare la nomina dei più importanti giudici italiani, dal presidente della Corte d’appello di Milano - ossia l’autorità che sovrintende tutta la cittadella dove è nata Mani Pulite - ai capi di almeno quattro Procure della Repubblica. E ha cercato invano di far pesare la volontà dei suoi referenti persino sui verdetti della Cassazione. In compenso il geometra Lombardi chiacchiera con i magistrati di tutt’Italia, porta in gita a centinaia per congressi in località turistiche, riesce sempre ottenere l’appuntamento per un colloquio a quattr’occhi, lontano da cimici pedinamenti. Negli elementi di indagine resi noti finora non c’è traccia «avvicinamenti» per favorire le mafie. li a e di Ma non bisogna trascurare il curriculum dei protagonisti dell’inchiesta: Dell’Utri, condannato in appello per concorso esterno in associazione mafiosa; Cosentino, su cui pende un mandato di cattura per i rapporti con la camorra casalese; Carboni, che ha frequentato boss e riciclatori, pur senza mai subire condanne. La rilevanza penale delle iniziative di questi soggetti verrà stabilita dai tribunali. Non ci sono quasi mai ipotesi di corruzione diretta; il do ut des non va più di moda, ripiazzato da un abbraccio che corrode le istituzioni spesso senza infrangere il codice. Ma il metodo che emerge dalle registrazioni è impressionante. E mostra come la crisi della macchina giudiziaria, piena di ingranaggi malandati e meccanismi ingolfati, sia il grande alleato della collusione. Spesso l’obiettivo non è annullare un provvedimento dei giudici ma soltanto ritardarlo, contando così sulla lentezza della fabbrica dei processi che trasforma quasi sempre le imputazioni in prescrizioni, gettando le indagini in una discarica che non garantisce giustizia a nessuno. L’abbraccio dei clan. Quello che non si può ottenere bussando al vertice, però, spesso si riesce a conquistare dal basso. Comprando con pochi euro o con un telefonino ultimo tipo il cancelliere, per infilare un fascicolo in una delle tante strade senza uscita delle corti. O ricorrendo alle zone d’ombra dell’etica di categorie che dovrebbero essere al di sopra di ogni sospetto, come i magistrati. C’è un’inchiesta dimenticata, condotta dai carabinieri nel 2005 partendo dalle dichiarazioni di Luigino Giuliano, che ha radiografato le strade usate dai camorristi per infilarsi nel Tribunale di Napoli. Giuliano, il leggendario boss di Forcella delle feste con Maradona, il playboy con il fascino malandrino che si faceva chiamare «Lovegino», ha parlato di valigette piene di banconote, Rolex d’oro e persino un quadro del Botticelli affidati ai suoi avvocati per addolcire questo o quel giudice. Non poteva verificare di persona la reale consegna della mazzetta, ma di fatto quasi sempre riusciva a ottenere il risultato: la scarcerazione cavillosa o il ricorso presentato con quel ritardo sufficiente a permettergli di restare in libertà. Corruzione vecchio stile, che oggi grazie a microspie e intercettazioni è diventata troppo rischiosa per chiunque occupi una posizione di livello. In quell’istruttoria però è stato sottolineato un aggancio molto più tradizionale e perverso, sempre in voga: l’inserimento di figli di magistrati per fare pratica negli studi legali, chiesto dai padri agli avvocati che erano loro controparti nei giudizi. Un penalista di primo piano, intercettato nel 2004, si sfoga perché non riesce più a soddisfare tutte le domande dei «giudici che tengono famiglia»: «Io l’altro mese feci una riunione allo studio perché ormai non so quanti cazzo ne siamo. E sto dicendo di no a un sacco di gente perché qua va di moda far venire i figli allo studio mio… Mi so’ fatto nemici due giudici… me ne mandò un altro quel pm e dovetti dirgli di no». E quando il genitore di uno dei rampolli rifiutati nega con modi inusualmente irritati un patteggiamento concordato da tempo, lui si preoccupa: «Non sarà perché non gli ho detto di sì a far venire il figlio allo studio?». La soluzione è semplice: telefona all’illustre padre e apre le porte dello studio al neolaureato, ottenendo un ringraziamento e una preghiera: «Avvocato, vi volevo chiedere questo: ma voi ce la fate a seguirlo direttamente…». Non sono situazioni isolate. Anche a Catanzaro un giudice è stato criticato per non essersi astenuto dal pronunciarsi su un clan che vantava tra i suoi penalisti il figlio dello stesso magistrato. «Tengo famiglia» è anche il leitmotiv di un’altra inchiesta clamorosa, quella sulla cricca degli appalti, che ha provocato le dimissioni di Achille Toro, procuratore aggiunto di Roma, ex consigliere del Csm e capo di gabinetto di un ministro del governo Prodi. Ancora una volta, sono state le intercettazioni a far ipotizzare lo scambio indiretto tra gli incarichi legali al figliolo e la disponibilità del potente babbo. Che secondo l’accusa aveva fatto preavvertire gli eccellentissimi indagati della retata imminente: «Piove, piove pesantemente». Individuare i familiari diretti che siedono negli studi legali non è difficile: spesso basta guardare il cognome. A Napoli quanti sono i camorristi difesi da avvocati che lavorano nella stessa stanza con figli, nuore e nipoti del magistrato che li dovrà giudicare? E nel resto d’Italia? I mafiosi sanno come funzionano queste cose. E non solo loro. Anche senza tirare direttamente in ballo la criminalità organizzata, le situazioni in cui si disgrega l’etica dei tutori della legge assumono sempre più spesso dimensioni allucinanti. A Bologna un pentito di ‘ndrangheta si era rifatto una vita, grazie all’identità di copertura, e costruito un piccolo impero trasformando i carabinieri incaricati di sorvegliarlo nella sua banda. Prima di collaborare e cambiare nome, era stato un killer con almeno tre omicidi alle spalle e un narcotrafficante che aveva smistato quintali di droga, poi si è inventato una holding che è entrata negli appalti degli aeroporti del Veneto e dell’Emilia Romagna: proprio dove dopo l‘11 settembre 2001 i controlli sono diventati ossessivi le società dell’ex boss calabrese avevano in mano la gestione di tutti i bagagli. Fatturava dieci milioni di euro l’anno. Regalando automobili, telefonini e soldi poteva contare su otto marescialli e tre agenti; un colonnello, obbligato a lasciare l’Arma per le sue frequentazioni troppo strette con il pentito, era diventato il suo manager. Ma c’è di più: secondo la Procura aveva corrotto l’ex numero uno dell’Aviazione civile, rimasto consigliere del premier Berlusconi e poi di Prodi con ufficio a Palazzo Chigi, trasformandolo nel suo ambasciatore. Il tutto in un valzer di misteri, prestiti, società nell’Est, commerci di mobili antichi e legami con un omicidio che ha sconvolto la Bologna bene, tra feste hollywoodiane e un garage pieno di Ferrari per gli amici degli amici: nemmeno lo sceneggiatore di una fiction avrebbe potuto immaginare tanto. Ma è accaduto: nella ricca e rossa Emilia, un ex killer con la sua corte di divise corrotte ha prosperato fino al 2007, quando carabinieri e finanzieri onesti sono riusciti a smascherarlo. A Napoli c’è un’indagine altrettanto inquietante, gestita con determinazione e riservatezza, che riguarda la Direzione investigativa antimafia, il corpo specializzato creato proprio per potenziare la lotta alle cosche. Nella centrale partenopea che doveva guidare la guerra alla camorra dilagava invece il doppio lavoro: parecchi detective si offrivano a privati per fare spionaggio a pagamento. Sì, gli uomini dello Stato diventavano 007 a ore, talvolta usando mezzi e strumenti destinati a combattere i clan. Come minimo una concorrenza sleale agli investigatori privati, perché i cottimisti della Dia chiedevano meno 50 euro all’ora per un pedinamento - e sapevano molto di più. In diversi casi è stato contestato l’ingresso nelle banche dati per sbirciare informazioni sensibili sui sorvegliati: informazioni sui redditi e le proprietà, ma anche sul traffico telefonico ossia le chiamate fatte o ricevute. La Procura di Napoli ha contestato l’esistenza di una struttura «permanente» che avrebbe agito «stabilmente» per raccogliere notizie sulla vita privata di cittadini. Rivendendole a buon prezzo. I clienti erano mariti che cercavano la verità su mogli infedeli o imprenditori che volevano garanzie sull’affidabilità di soci e compratori. Ma c’è dell’altro. Almeno un vicecommissario è andato oltre e ha copiato interi file su indagini scottanti: quella su Finmeccanica, il colosso degli armamenti e dei sistemi di sicurezza, e quella sugli appalti della Global Service di Alfredo Romeo, il monopolista degli appalti comunali amico di tanti politici. Con una pista che porta nel cuore degli ultimi misteri di Napoli: i rapporti con l’impiegato che rivelò all’assessore Giorgio Nugnes l’esistenza di un’inchiesta su di lui. Poco dopo Nugnes si suicidò, aprendo una crisi che ha segnato il momento più basso della politica partenopea. Quello della centrale Dia è un buco nero, i cui confini non sono stati ancora definiti, nel cuore dell’apparato costruito per fare la guerra alle cosche, in quella che doveva essere una fortezza impenetrabile, tra gli uomini che hanno scelto di dedicarsi esclusivamente alla battaglia contro la criminalità organizzata. La nascita della Direzione investigativa è figlia delle grandi riforme per migliorare il contrasto alla mafia avviate nel tramonto della Prima Repubblica, tra il 1990 e il 1992, quando ministri e legislatori costruirono strutture razionali e potenzialmente efficacissime su ispirazione di Giovanni Falcone. Era previsto infatti che la Dia assorbisse personale e funzioni di tutti gli altri organismi anticosche di carabinieri, polizia e Fiamme gialle, per evitare doppioni, interferenze e rendere veramente possente questo strumento di indagine: sarebbe stato l’unico corpo antimafia, simile all’Fbi statunitense. La stagione drammatica delle stragi è scoppiata mentre il nuovo organismo era ancora in embrione, spingendo il governo a incentivare l’attività dei reparti speciali già esistenti - Ros dei carabinieri, Sco (Servizio centrale operativo) della polizia e Gico delle Fiamme gialle - riorganizzandoli intorno a uno dei pilastri ideati da Falcone per la Dia: il rapporto diretto tra pm e nucleo di specialisti, senza la mediazione degli alti comandi. Nelle indagini antimafia Ros, Sco e Gico agivano come corpi separati, senza informare i superiori, con un’ulteriore garanzia di segretezza e autonomia. In pochi anni vengono realizzate retate senza precedenti, utilizzando pentiti e infiltrati, con fondi e sistemi tecnologici mai visti prima e risultati devastanti nei confronti di mafia, ‘ndrangheta e camorra. Poi, svanita la grande paura delle bombe, quest’indipendenza operativa è stata ridimensionata, proprio dopo alcune indagini che avevano portato i corpi speciali a sfiorare il cuore dei legami tra cosche e politica. Dopo un lungo dibattito, nel 1997 il governo Prodi cambia le regole riportando questi reparti alla tradizionale dipendenza dai comandi territoriali e dai vertici romani. Una scelta di maggiore serenità istituzionale ma sicuramente di minore incisività nelle azioni contro la zona grigia dove politica e mafia si incontrano. E il coordinamento tra i quattro raggruppamenti che si occupano di criminalità organizzata diventa spesso difficile, regalando di fatto spazi di manovra ai clan. Senza dimenticare il ruolo svolto dall’intelligence. Le ultimissime indagini mostrano una presenza inquietante di uomini dei servizi nei luoghi dove sono stati preparati gli attentati del 1992 e fanno emergere la prassi, proseguita almeno fino agli anni Novanta, di stipendiare gli ufficiali di polizia giudiziaria come informatori degli 007. Si cominciano ad aprire spiragli su depistaggi, omicidi e tripli giochi intessuti tra Palermo e Roma, dall’ordigno davanti alla villetta di Falcone dell’Addaura fino alla strage di via D’Amelio. Oggi alla guida degli apparati di sicurezza ci sono figure che in quegli anni erano protagoniste della lotta alle cosche, come Gianni De Gennaro che gestì il pentimento di Tommaso Buscetta e costruì la Dia, e che stanno fornendo un’inedita collaborazione alla magistratura. I sospetti su cosa sia accaduto in quegli anni oscuri e quanto a lungo siano rimaste in vita queste attività parallele degli 007 restano però forti. Così come rimane il dubbio sui referenti delle operazioni più spregiudicate: erano condotte per conto delle istituzioni, di singoli interessi politici o per poteri occulti? Quando nel 1991 il Sisde paga i rapitori calabresi di una ragazza bresciana, Roberta Ghidini, lo fa per salvare la vita dell’ostaggio o per evitare che il sequestro sia sfruttato in chiave elettorale dalla Lega Nord in collegi lombardi dominati dalla Democrazia cristiana? I colloqui del Ros con Vito Ciancimino, storico interlocutore di Bernardo Provenzano, erano finalizzati alla cattura di Totò Riina e alla fine delle stragi o sono stati strumentalizzati per operazioni diverse? Necessariamente ogni attività confidenziale implica una delega di fiducia nei confronti dell’ufficiale che la gestisce. Resta la domanda fondamentale di ogni operazione coperta: il fine giustifica i mezzi? Nei primi anni Novanta nel nostro paese sono state condotte guerre ai margini della legalità contro l’anonima sequestri calabrese, la gang veneta di Felice Maniero e le feroci bande di contrabbandieri pugliesi. Situazioni in cui è indubbio che il risultato finale andasse a vantaggio della collettività e non di interessi di parte. Accettare il male minore implica però sempre un’eclissi delle regole democratiche. Perché la questione del quieto vivere, della sicurezza concessa in cambio del proseguimento delle attività criminali è sempre stata il grande terreno di scambio delle mafie, che non hanno bisogno di sparare per aumentare il loro potere. È il modello antico, resuscitato da Provenzano. Uno schema avallato in passato anche da illustri magistrati come Giuseppe Guido Lo Schiavo, procuratore generale della Cassazione fino agli anni Settanta. Lo Schiavo è il primo a raccontare agli italiani la vecchia realtà di Cosa Nostra: il suo romanzo Piccola pretura venne trasformato da Federico Fellini e Mario Monicelli nella sceneggiatura di In nome della legge, girato nel 1948 da Pietro Germi. Un successo di pubblico anche internazionale, sommerso di premi, che illustrava con chiarezza le dinamiche dell’onorata società fronteggiate dal giovanissimo pretore interpretato da Massimo Girotti. Ma nel film alla fine è il padrino che si allea con il magistrato e consegna l’assassino, che aveva infranto sia le regole dello Stato che quelle della famiglia: quando i carabinieri irrompono sulla scena, giustizia è già stata fatta. Nel 1965 l’alto magistrato Lo Schiavo scrive nell’introduzione a Gli inesorabili: «Fatto certo è che la mafia e i mafiosi quando non delinquono non possono essere considerati malfattori comuni, banditi, fuorilegge». Il giudice romanziere conclude: «Rimarrà forse connaturato all’indole dei siciliani il “sentimento di mafia”, per cui in fondo al cuore ciascun siciliano, che si sappia “uomo d’onore”, non disdegna di sentirsi un po’ mafioso. L’attributo mafioso indica selezione, differenziazione dal comune; indica caratteristiche di superamento, di perfezione. Non si può essere mafioso se non si sia generoso, cavalleresco, devoto, pronto al sacrificio, riservato, segreto (omertoso), saggio, equilibrato, amante della giustizia … E poiché in fondo queste sono doti che veramente possono adornare una creatura umana, i lettori traggano la conseguenza». Siamo sicuri che questa mentalità appartenga al passato e che ancora oggi tra chi siede sulle poltrone che decidono il destino del paese non ci sia la propensione a tollerare le cosche che hanno sepolto i kalashnikov? In un testo rarissimo, un italiano di rara lungimiranza presentava la sua analisi: «La mafia non scomparirà finché ci saranno sindaci, deputati e magari ministri che debbano la loro elezione alla mafia: che contino sulla mafia per la loro rielezione; fino a che non ci saranno partiti di popolo che osino dichiarare, denunciando nomi e cognomi, lotta aperta alla mafia. È possibile che gli uomini politicamente responsabili non sentano il dovere di tagliare al tronco, a qualunque livello, le complicità e le connivenze?». Lo scriveva il 20 settembre 1956 Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione, una settimana prima di morire. E la sua domanda resta ancora senza risposta. I tentacoli della camorra: dalla magistratura alle forze dell’ordine. Quando Giuseppe Garibaldi arriva a Napoli, entra in una città dove l’ordine pubblico è affidato alla camorra. Gli ultimi ministri borbonici non avevano trovato altra soluzione che arruolare i criminali, una scelta poi in parte legittimata dalle autorità sabaude. Un ruolo attivo che viene coperto con le omissioni: nel primo rapporto al governo di Torino sulle condizioni della sicurezza in Campania si evita di parlare dei camorristi. Centocinquant’anni dopo, a che livello arriva l’infiltrazione dei clan campani nelle istituzioni? Su questo fronte l’approccio della camorra mi sembra analogo alla situazione esaminata parlando di politica e imprenditoria. È un’organizzazione che bada soprattutto al profitto, all’interesse immediato, a volte al piccolo cabotaggio: per le sue caratteristiche non sempre guarda alle grandi strategie perché le importa infiltrarsi dove c’è un’utilità diretta. Mira ai vigili urbani perché servono per controllare nei Comuni i mercati e l’urbanistica; si concentra sulle forze dell’ordine perché servono a ottenere notizie sulle indagini, a evitare gli arresti e rimanere al sicuro nella latitanza; ha bisogno dei funzionari degli enti locali, soprattutto di quelli che operano sul territorio, preziosi per la gestione quotidiana dei loro affari. Per quanto mi risulta, non si sono mai trovate prove eclatanti di infiltrazioni a livelli elevati e di tentativi di agganciare uomini in posizioni di rilievo nelle amministrazioni pubbliche; ovviamente la situazione cambia quando si muovono personaggi appartenenti ad ambienti diversi e soprattutto a quei mondi che fanno affari o hanno rapporti di scambio politicoistituzionale con le mafie, mantenendo l’apparenza formale di impeccabilità. Queste figure sono in grado di mettere in campo strategie di più ampio respiro, capaci di ottenere risultati ora corrompendo, ora minacciando, ora facendo operazioni di lobbying, ora raggiungendo anche i vertici delle amministrazioni pubbliche per tentare di liberarsi di un funzionario scomodo o di «ammorbidirne» uno irreprensibile, ma tutto questo lo fanno soprattutto nel loro interesse, per mantenere inalterate le loro posizioni economiche e imprenditoriali, più che nell’interesse dei loro referenti criminali. Non esiste quindi una strategia di inserimento nel vertice delle istituzioni statali, ma solo tante scelte tattiche del momento: quando c’è un problema da risolvere i boss avvicinano i funzionari che possono garantire una soluzione? I clan più strutturati hanno una serie di figure che sono disponibili anche quando non c’è un’urgenza o un’esigenza specifica. Soprattutto nei periodi d’oro, gruppi potenti come quello di Secondigliano o i casalesi hanno potuto contare su persone stabilmente stipendiate: avere un uomo delle forze dell’ordine a libro paga non serve solo quando ci sono le indagini, è utile sempre. A lui si può ricorrere nel momento in cui ti sequestrano una macchina o in tante altre piccole pratiche; si tratta di appoggi preziosi, indipendentemente dai gradi che rivestono nei loro uffici. Gli uomini del clan gestiscono direttamente tutti i rapporti con uomini delle istituzioni o esistono due livelli? I camorristi sono certamente in grado di corrompere pedine di basso livello, ma riescono ad avvicinare in prima persona anche dirigenti delle forze dell’ordine, alti funzionari o magistrati? C’è qualche episodio, raccontato da esponenti di peso dei clan, poi diventati collaboratori, sulle manovre per costruire riferimenti più importanti e quindi entrare in contatto con funzionari di maggior prestigio. Per bussare alle porte che contano la prassi è quella di rivolgersi ai faccendieri, le figure che fanno da mediatori tra ambienti diversi. Prendiamo i rapporti con il mondo giudiziario: fino a una decina di anni fa, quando si facevano indagini sulla politica si chiedeva sempre ai pentiti: «Ma perché voi avvicinate quel soggetto?». La prima risposta era quasi sempre la stessa: «Perché serviva a risolvere le questioni giudiziarie». È utile ricordare che le sezioni unite della Cassazione hanno emesso la prima sentenza sul concorso esterno in associazione mafiosa proprio nei confronti di un ex parlamentare socialista napoletano, Giuseppe Demitry - poi nel successivo processo assolto dall’imputazione - che era stato chiamato in causa dai pentiti Pasquale Galasso e Carmine Alfieri: all’ex deputato veniva contestato non tanto di essere parte integrante della camorra quanto di essere intervenuto su un giudice napoletano per cercare di far assolvere i boss. Nel caso di specie, il parlamentare aveva contattato il giudice e quest’ultimo sembra avesse accettato la segnalazione; almeno così emerge dalla sentenza del Tribunale di Salerno, organo all’epoca competente per i processi riguardanti i magistrati napoletani, che aveva condannato il magistrato in primo grado per corruzione in atti giudiziari, anche se poi l’appello ha ribaltato la decisione, mandandolo assolto. Nel caso in esame quel giudice non era comunque riuscito a convincere gli altri componenti del tribunale che avevano ugualmente condannato gli esponenti malavitosi; per dimostrare che aveva mantenuto la promessa, aveva persino fatto una cosa rarissima e cioè aveva rimarcato il suo voto contrario alla decisione collegiale. Il rapporto con il politico, quindi, era spesso funzionale per sistemare - o provare a farlo - i processi: è, infatti, difficile pensare che un boss potesse arrivare direttamente al magistrato. I camorristi usano «uomini cerniera», capaci con le loro frequentazioni, con i loro rapporti, di mettere in contatto ambienti così lontani. Si è spesso parlato in passato di un ruolo della massoneria nel mediare tra le istanze delle mafie e le alte sfere della politica e della magistratura. Esiste ancora oggi qualcosa del genere? In Campania, in verità, non sono emersi rapporti evidenti fra massoneria deviata e camorra; a differenza della Calabria e della Sicilia, dove le indagini giudiziarie e le dichiarazioni dei pentiti hanno riferito di logge coperte che erano vere e proprie stanze di compensazione fra i due mondi, qui da noi non sono mai stati rilevati contatti netti di questo tipo. È risultato, invece, in più occasioni che imprenditori e uomini politici collegati ai clan creassero associazioni, gruppi, lobby in cui coinvolgere uomini dello Stato, appartenenti ai vari livelli dell’amministrazione, che al momento opportuno potevano risultare utili; il rapporto era spesso di do ut des meno evidente: io ti aiuto nella carriera e/o in altre mille piccole cose che possono servirti e al momento giusto tu mi ricambi il favore. Si è scoperto che gruppi di potere erano in grado di raccogliere informazioni sulla vita privata di uomini delle istituzioni, utili per ricattare o per tentare di screditare il soggetto che si opponeva ai loro disegni. È quello che è emerso con le indagini sulla cosiddetta PS, che nel 2010 ha realizzato un dossier contro il candidato di centrodestra alla presidenza della Regione Campania: un documento costruito da personaggi chiave del suo stesso partito, consegnato al presidente del Consiglio e fatto circolare sul web. Quello che è stato scoperto nelle indagini sulla P3 potrebbe essere la punta dell’iceberg di un sistema rodato, fatto di disinformazione e di dossier più o meno calunniosi. Alcuni anni fa in un’indagine della Procura di Napoli denominata Spectre venne alla luce un’organizzazione che faceva capo a un importante imprenditore partenopeo e che aveva assunto al proprio servizio uomini delle forze dell’ordine e pseudogiornalisti. Raccoglieva notizie di ogni genere, anche da atti giudiziari coperti dal segreto, e confezionava dossier per ricattare, diffondendoli poi su siti Internet o su pubblicazioni scandalistiche. Era un gruppo pronto a tutto: se non bastava la deligittimazione a mezzo stampa, commissionava spedizioni punitive di picchiatori. Una banda senza scrupoli, che usa metodi antichi di ricatto e media moderni. Il segno di quanto sia cambiato il sistema di pressione dei colletti bianchi, spesso alleati dei clan, capaci di inventare nuove modalità di «avvicinamento» pur di arrivare al risultato. Dalla fine degli anni Ottanta il meccanismo dell’«avvicinamento» sembrerebbe essersi modificato. Non è quasi mai diretto, con uno scambio di soldi o favori, ma si utilizzano strade differenti e trasversali per creare un rapporto: si cerca di sfruttare gli interessi del soggetto da agganciare, persino i suoi hobby o le sue passioni. In un caso giudiziario di alcuni anni fa, i pentiti raccontarono come per avvicinare un magistrato fosse stata usata la sua passione per la pallanuoto; costui era presidente di una squadra minore che aveva avuto anche una ribalta nazionale: gli imprenditori legati al clan avevano versato cifre significative per sponsorizzare il team ed erano entrati in rapporti di amicizia con quel magistrato, rapporti che al momento opportuno si sarebbe potuto far valere. Quel giudice è stato condannato in primo grado per corruzione ma il processo di appello non si è mai celebrato perché il magistrato è deceduto per cause naturali. È un episodio che, al di là dei risvolti penali, deve far riflettere su quanto delicato sia il nostro lavoro e quello di tanti funzionari statali, e soprattutto su quanta attenzione si debba porre nelle frequentazioni non solo pubbliche ma anche private. Bisogna attenersi scrupolosamente a regole di rigore anche nella sfera privata per evitare di essere esposti, oltre che ai rischi di incontri pericolosi, anche a quelli della millanteria altrui, che per quanto infondata può danneggiare l’immagine della giustizia e dello Stato, e trasmettere l’impressione che esista sempre una scorciatoia per poter risolvere ogni genere di problemi. Nelle sue indagini si condizionare magistrati? è mai imbattuto in operazioni della camorra per Personalmente non ho mai condotto indagini su magistrati: ho raccolto qualche dichiarazione di collaboratori che riferivano di avvocati, o faccendieri, che si erano vantati di avere corrotto giudici per vincere una causa. Quanta millanteria vi fosse per farsi pagare un onorario molto corposo o quanta verità non è stato mio compito accertarlo perché quei verbali sono stati trasmessi alla procura competente. In qualche occasione ho avuto l’impressione - nient’altro che questa - che potessero essere stati tentati meccanismi di interferenza in alcuni processi non necessariamente molto rilevanti: non corruzione, ma la classica raccomandazione. Non soldi, né vantaggi diretti ma solo una «buona parola» fatta arrivare all’orecchio personaggio influente. del giudice da un amico, da un collega o da un In qualche caso mi sono imbattuto in interessamenti di magistrati per cercare di aiutare amici e mi sono meravigliato quando quegli «amici» non erano certo persone specchiatissime. Nessuno mi ha mai chiesto nulla di chiaramente illegale; qualche volta, soprattutto in passato e prima che mi occupassi di camorra, qualche collega mi ha domandato informazioni su una certa pratica, aggiungendo una classica frase di circostanza e che cioè il suo unico obiettivo era far trionfare la giustizia; le mie risposte cortesi ma nette hanno scoraggiato ulteriori avance. L’unica volta in cui mi sono sentito davvero in imbarazzo è stata quando un sacerdote mi ha chiesto di avere un occhio di riguardo per un imputato di associazione camorristica; è una vicenda che ho già raccontato nel mio libro Solo per giustizia. Mi risulta, invece, che spesso gli imputati tentino di contattare persone vicine, convinte che possano arrivare fino a te. Una volta i familiari di un boss di Mondragone si recarono nello studio dell’avvocato con cui avevo fatto pratica legale prima di entrare in magistratura e gli chiesero di assumere la difesa del loro congiunto; l’avvocato, con cui ho mantenuto rapporti di amicizia, li ascoltò e poi, una volta saputo chi era il pm delle indagini, molto cortesemente disse loro che non accettava incarichi in processi che seguivo io. Me lo raccontò a distanza di giorni scherzandoci su; io apprezzai moltissimo il suo gesto di correttezza e pensai evidentemente che quei soggetti erano stati in grado di assumere informazioni «di ambiente» per sapere del mio praticantato in quello studio legale che risaliva a oltre quindici anni prima. Ma la ricerca di avvicinamenti mediati è una tecnica che non riguarda solo i magistrati. Nelle recenti indagini relative all’imprenditore dei rifiuti Nicola Ferraro di Casal di Principe è emerso un episodio particolare: quando alle imprese di quel soggetto vennero negate le certificazioni antimafia, venne simulata la vendita delle quote e furono individuati nuovi amministratori; in questo contesto viene contattato e accetta di diventare amministratore di una delle società della galassia Ferraro un ex funzionario della polizia, un ex vicequestore che aveva diretto un commissariato della provincia di Caserta e che aveva fatto inchieste anche importanti sulla camorra casalese. Non mi è chiaro se avesse capito fino in fondo con chi avesse a che fare, ma certamente fu quantomeno leggero. Si trattava forse, oltre che di utilizzare una faccia pulita, di un tentativo per costruire un’influenza sugli organi dell’amministrazione pubblica, un canale per interloquire tra la zona grigia della camorra imprenditrice e le istituzioni. Anche le infiltrazioni istituzioni? dal basso riescono ad avere effetti pesanti per le Certo. Esiste, ad esempio, un significativo livello di infiltrazione nelle polizie locali nel Sud, fermo restando che anche in quei contesti vi sono tante persone perbene che cercano, a volte con mille difficoltà, di fare onore alla divisa che indossano. A Mondragone Mattia Sorrentino, maresciallo dei vigili urbani e padre di un consigliere comunale della maggioranza che all’epoca sosteneva il sindaco Conte, andava a riscuotere le estorsioni per conto della camorra: si presentava una volta l’anno dai venditori del mercatino settimanale per intascare il pizzo destinato alla criminalità organizzata. Una cifra pari a circa 250 euro per ogni bancarella che complessivamente garantiva al clan un discreto introito. Ma quel vigile, secondo i pentiti, avrebbe fatto anche altro per il clan; avrebbe persino sottratto delle pistole dal comando dei vigili, poi vendute o comunque consegnate alla camorra. Quando fu arrestato, si scoprì che pochi mesi prima era stato promosso, malgrado sul certificato penale risultasse già una condanna per ricettazione. A San Cipriano d’Aversa indossava la divisa della polizia municipale il fratello del boss Antonio Iovine, uno dei grandi padrini casalesi ancora latitante: le indagini su quel vigile fecero emergere uno spaccato incredibile; le telecamere della polizia filmarono vigili che in compagnia del fratello di Iovine sniffavano cocaina in ufficio, così come si accertò che in qualche occasione l’auto di servizio era stata utilizzata per accompagnare in giro la moglie del capoclan. Che cosa avranno pensato i cittadini di San Cipriano che magari hanno visto scorrazzare in un’auto con il simbolo della polizia municipale i familiari di un latitante? Ma è evidente che i boss ci tengono molto ad avere parenti nelle forze di polizia locale. A Casal di Principe tra i vigili c’era il fratello di uno dei capi dei casalesi degli anni Novanta, Enzo De Falco detto «il Fuggiasco»: secondo i pentiti veniva usato per scortare i pregiudicati del clan visto che poteva legalmente circolare con la pistola. E c’è poi il caso di Giugliano, il mio paese, dove sono stati arrestati diversi agenti della polizia locale, alcuni anche con incarichi di responsabilità, che prendevano mazzette nei cantieri per non denunciare le costruzioni abusive alle quali erano interessati anche imprenditori vicini alla criminalità organizzata. I casi di collusione di questo tipo solo apparentemente sono banali ma condizionano pesantemente la vita delle realtà locali. Il maresciallo dei vigili che, invece di fare i controlli, va a ritirare le estorsioni della camorra provoca un danno spaventoso alla comunità, persino peggiore della corruzione di un sindaco. È un panorama desolante di infiltrazione in quelle polizie locali a cui la riforma federalista assegna poteri, mezzi e fondi sempre più grandi. Ma la camorra ha la stessa capacità di ingaggiare gli uomini dei corpi statali o incontra maggiori difficoltà nel penetrare le caserme di carabinieri e polizia? Voglio fare una premessa che non è assolutamente retorica: la presenza di mele marce nelle forze di polizia non mette in discussione il dato dell’assoluta fedeltà delle stesse nel loro complesso. Se le indagini hanno consentito in generale di sgominare clan e di accertare collusioni di ogni tipo è stato merito soprattutto degli uomini in divisa che nella maggior parte delle occasioni fanno il loro dovere «senza se e senza ma», correndo rischi di gran lunga superiori a quelli, ad esempio, che ho potuto correre io; loro lavorano per strada, a stretto contatto con questa gente, e sono esposti ogni giorno anche al pericolo di ritorsioni violente. Sono questi stessi uomini che permettono di scoprire i loro colleghi collusi, perché sanno che i traditori oltre a danneggiare le istituzioni nel loro complesso fanno del male anche a loro, esponendoli ancor di più verso i criminali. È ormai tramontata l’idea, che fino a qualche tempo fa era ancora in voga, secondo cui i panni sporchi era meglio lavarli in famiglia; oggi sono i vertici degli uffici a voler fare piazza pulita di collusioni e neghittosità e questo va certamente a merito loro. Ciò premesso, è capitato di verificare nelle forze dell’ordine casi di persone che secondo i pentiti venivano stipendiate da anni per aiutare i clan. Quasi sempre si trattava di figure di basso profilo, in grado però di fare avere in anticipo ai camorristi le notizie su intercettazioni e perquisizioni. Sono emerse vicende anche più inquietanti: a metà degli anni Novanta il responsabile della polizia giudiziaria di uno dei commissariati più importanti del Casertano riceveva denaro e regali dagli Schiavone; quando fu arrestato, l’ispettore non negò di essere stato persino in vacanza in Puglia nella casa messa a disposizione da Carmine Schiavone, poi divenuto collaboratore di giustizia. Può sembrare che si stia parlando di mezze calzette, ma sono elementi determinanti per frenare le inchieste e vanificare a volte il lavoro di tanti agenti che credono nella legge: sono granelli di sabbia sufficienti a bloccare il meccanismo della giustizia. Carmine Schiavone dichiarò di aver saputo in anticipo dell’arresto imminente, riuscendo a darsi alla latitanza, proprio grazie a questa «amicizia». E quante altre volte abbiamo avuto sentore che la causa delle ordinanze cautelari non eseguite fossero le notizie passate al clan da agenti o carabinieri infedeli. A Casal di Principe è stato intercettato un militare che avvisava in modo criptico di un blitz dei colleghi in un negozio di barbiere dove si sapeva che si recava spesso uno dei fratelli di Michele Zagaria, anch’egli latitante. Episodi del genere in Campania non sono purtroppo rari, in tutti i corpi. Nel periodo di permanenza nella Direzione distrettuale antimafia sono decine i casi di cui ho avuto conoscenza, che hanno riguardato ogni tipologia di divise. Sono soprattutto fughe di notizie, devastanti perché compromettono operazioni che hanno richiesto mesi o anni di lavoro degli stessi reparti investigativi e aprono la strada a latitanze che aumentano il prestigio criminale dei boss minando quello dello Stato. Ma ci sono casi in cui uomini in divisa hanno agito per conto della camorra? Anche qui purtroppo la risposta è positiva: ricordo una vicenda dei primi anni Novanta quando un appuntato, considerato uno dei carabinieri più dinamici dell’Aversano, uno di quelli che stanno sulla strada e conoscono il territorio, partecipa a una perquisizione contro l’allora boss Giuseppe Di Girolamo e gli trova due revolver. L’appuntato nasconde le due pistole e le mette in tasca, senza farle figurare nel verbale; più tardi torna dal camorrista e si fa pagare per restituirle. Ma la cosa più incredibile è che coinvolge il suo ufficiale che aveva sequestrato un’altra pistola; lo convince a non denunciarla perché in cambio il Di Girolamo avrebbe permesso di realizzare importanti operazioni. Quindi l’appuntato non fa eseguire l’arresto e concede un vantaggio al clan che lo ha pagato, spingendo il suo comandante, in buona fede perché convinto di poter effettuare importanti operazioni in futuro, a compiere un’omissione di atti di ufficio. Durante le indagini nate dalle dichiarazioni dell’imprenditore Pietro Russo, che aveva denunciato e fatto arrestare i rappresentanti della famiglia Schiavone, la vittima raccontò di essere stata avvicinata da un graduato della polizia penitenziaria per conto di uno dei soggetti arrestati grazie alle sue dichiarazioni: gli mandava a dire che era meglio che ritrattasse le accuse. Ci sono altre inchieste che hanno evidenziato contesti raccapriccianti. A metà degli anni Ottanta a Marano venne assassinato un carabiniere ventenne mentre stava giocando a pallone con un cuginetto vicino alla sua abitazione: un’esecuzione fredda e feroce, che appariva inspiegabile. Poi i pentiti hanno fornito una ricostruzione agghiacciante. Durante un controllo i carabinieri di Casal di Principe avevano tentato di fermare un’auto sospetta, c’era stato un inseguimento e un conflitto a fuoco durante il quale era stato ucciso un uomo degli Schiavone. Secondo i collaboratori, Sandokan aveva chiesto la testa del militare che aveva sparato e sarebbe stato un maresciallo dell’Arma che, chissà se rendendosi conto di quali potevano essere le conseguenze, aveva fatto il nome del carabiniere poi ammazzato brutalmente; quel giovane carabiniere nel giorno del conflitto a fuoco non era nemmeno in servizio. Il maresciallo è stato poi assolto da questa accusa per mancanza di riscontri oggettivi ed è morto in cella mentre attendeva il processo per associazione camorristica. È una storia che appare incredibile, superiore a ogni romanzo criminale: un maresciallo che condanna a morte un carabiniere, che non c’entrava assolutamente nulla. L’elenco delle situazioni al limite dell’incredibile è davvero lungo: uno dei primi processi contro il clan La Torre si basò sulle rivelazioni di un pentito particolare; era un maresciallo in servizio a Mondragone che aveva avuto rapporti ambigui con gli uomini del clan e poi per fortuna aveva deciso di collaborare, diventando il testimone principale per farli arrestare. Penso che sia un caso quasi unico in cui il teste principale dell’accusa è un carabiniere, ma non nella sua veste ufficiale bensì come pentito di mafia. In quella stessa caserma di Mondragone ho verificato di persona che operavano militari integerrimi che hanno lavorato senza risparmio per smantellare il clan La Torre: l’istituzione pur sanissima aveva visto un’inspiegabile deviazione. Gli stipendi delle forze dell’ordine sono bassi e la camorra abbonda di quattrini. Ma bastano i soldi per spingere tanti uomini a tradire lo Stato e i loro colleghi? I camorristi hanno la capacità di coinvolgere attraverso tanti metodi: sfruttano rapporti personali, di parentela, e ovviamente i quattrini. Sono state scoperte persone con la divisa che intascavano dai clan mille euro ogni mese o che si accontentavano di telefonini o ottenevano l’uso di automobili potenti e case al mare. Piccole cose, piccole somme, ma concesse in modo sistematico fino a legare in maniera stabile. In qualche caso si è persino «ascoltato in diretta» come nasceva l’approccio e come si chiudeva la trattativa. Una volta, mentre veniva intercettato un esponente di un gruppo minore dei casalesi che aveva un negozio in cui vendeva ed contraffatti, entrarono due finanzieri; appena usciti, quel tipo chiamò subito il suo capo su un telefono che riteneva pulito per raccontargli della visita e di come aveva evitato il sequestro con il regalo di due cellulari! Nelle indicazioni dei libri mastri dei clan spesso ci sono voci strane che i pentiti poi a distanza di tempo decifrano come soldi dati a Tizio, Caio, Sempronio per avere informazioni o favori. Il caso estremo è quello, riportato dai giornali, dei carabinieri ingaggiati dagli «scissionisti», gli spietati boss della faida di Secondigliano. Un brigadiere al loro servizio è stato intercettato mentre si vantava di non avere arrestato due killer che avevano commesso un omicidio davanti a lui. Poi, di fronte all’offerta di mezzo milione di euro per uccidere due camorristi rivali che il clan non riusciva a stanare, il sottufficiale non si è scomposto mostrandosi interessato alla proposta omicida. Fortunatamente, stando alle cronache, sono arrivati prima i colleghi che aveva sistematicamente tradito e che lo hanno sbattuto in cella. Ci sono anche manovre messe in atto dai clan e dai loro referenti imprenditoriali per aggirare quelle misure create proprio per arginare l’infiltrazione negli appalti. Mi riferisco alle certificazioni antimafia, indispensabili per fare affari con la pubblica amministrazione e concesse dalle Prefetture, ossia dall’istituzione che rappresenta lo Stato sul territorio: spesso riescono a ottenerle anche personaggi manifestamente collusi con la camorra. Come è possibile? Nell’inchiesta sul consorzio Eco4 di Caserta, di cui si è più volte parlato, sono emerse le manovre dei fratelli Orsi per ottenere informazioni dalla Prefettura su queste certificazioni. Alle riunioni in Prefettura dell’organismo che valuta le richieste, prendevano parte anche funzionari appartenenti ad altre amministrazioni, e gli Orsi avevano dei referenti che in tempo reale li informavano delle discussioni e dell’avanzamento delle pratiche e soprattutto di chi cercava con rigore di approfondire gli accertamenti sui loro rapporti ambigui con i clan. In particolare c’era un ispettore del lavoro che aveva ricevuto vari regali dai due imprenditori e teneva d’occhio queste procedure fondamentali per le loro attività nelle discariche. Anche Immacolata Capone, la donna imprenditrice poi assassinata, riesce a ottenere la certificazione antimafia nonostante sia la moglie di una persona condannata per 41 bis. Si rivolge a un poliziotto, al quale fa qualche regalo, una figura non in grado di influire su una procedura così delicata: sembrerebbe piuttosto che questi doni siano solo un modo di accelerare la concessione, mentre qualcun altro si è occupato della pratica. Quello che si comprende, sullo sfondo, è che ci sono personaggi che si muovono in quell’area dell’intermediazione più o meno illecita. Anche perché un imprenditore di camorra non ha bisogno di usare i clan per interloquire con gli uffici pubblici, anzi spesso l’ombra della criminalità si dimostra controproducente. Perché controproducente? Non dovrebbe rafforzare il potere di intimidazione, unendo alla corruzione la minaccia implicita del ricorso alla violenza? Tutt’altro. Durante le intercettazioni sulla giunta comunale di un paese dell’Agro aversano sono stati registrati i tentativi di un gruppo di imprenditori in cerca di concessioni per avvicinare funzionari e politici locali. Ma non appena questi capiscono che dietro l’impresa c’è la camorra, si tirano indietro. Si cerca di diluire il rapporto con la camorra perché nella peggiore delle ipotesi il dirigente pubblico può dire «io ho favorito l’imprenditore non il camorrista», così si evitano aggravanti e si riducono i rischi penali: una cosa è venire accusati di corruzione, altro è ritrovarsi con un procedimento per concorso esterno in associazione mafiosa. Questa è l’altra faccia che incentiva il cambiamento dei parametri dell’impresacamorra, che viene gestita da personaggi non legati al clan da rapporti di parentela, facilitando così anche l’infiltrazione negli uffici delle amministrazioni. I palazzi di giustizia non sono certo torri d’avorio immacolate: anche lì i clan riescono a conquistarsi amici, magari ai livelli più bassi… Le situazioni in cui mi sono imbattuto sono sempre state abbastanza marginali. In uno dei processi sui casalesi, ad esempio, uno degli esponenti del clan Iovine riesce tramite un amico appartenente al mondo della politica ad avvicinare un dipendente della Procura generale, ossia dell’ufficio che emette gli ordini di carcerazione definitiva dopo le sentenze. Stando alle indagini, aggancia questo funzionario e ottiene la promessa che avrebbe cercato di ritardare il più possibile l’emissione di un ordine di carcerazione per un vecchio reato. Un favore piccolo, ma fondamentale per il boss, che così poteva darsi alla latitanza prima di finire in manette. Ma in molte altre occasioni si è accertato che i camorristi, direttamente o attraverso i loro referenti puliti, sono riusciti ad avvicinare il commesso o l’impiegato. In qualche caso i collaboratori di giustizia hanno descritto il tentativo di usare questi personaggi anche per fare arrivare i processi sulla scrivania del magistrato considerato più garantista o meno sensibile su quella materia. I camorristi su queste cose sono molto attenti: conoscono i magistrati, i loro orientamenti ideologici, politici, persino la loro sensibilità umana: sanno come si sono comportati in passato davanti a procedimenti simili. Ecco che attraverso meccanismi di questo tipo anche un cancelliere può diventare determinante per gestire situazioni delicate. L’ombra dei servizi. Le ultime indagini siciliane sulla stagione delle stragi stanno portando alla luce depistaggi inquietanti condotti da agenti dei servizi segreti. Nella sua attività invece si è trovato di fronte alle manovre dell’intelligence? Credo che i servizi segreti potrebbero aiutare in modo determinante le indagini sui clan; hanno la possibilità di muoversi negli ambienti criminali in modo diverso rispetto alle forze dell’ordine, utilizzando tecniche «borderline»: possono contattare gli informatori, pagarli e interloquire con loro in grande libertà, senza avere alcun obbligo di riferire all’autorità giudiziaria. Potrebbero quindi assumere informazioni utilissime sia per avviare nuovi filoni di indagine sia per giungere alla cattura dei latitanti. Eppure l’impressione che ne ho ricavato è che per troppo tempo i servizi abbiano quantomeno sottovalutato l’importanza di assumere informazioni negli ambienti camorristici utili per le indagini e, forse, in qualche caso abbiano anche creato rapporti caratterizzati da qualche ambiguità. Due esempi hanno corroborato quella che - lo ribadisco resta una mia semplice intuizione. A un certo punto decide di collaborare con la giustizia un personaggio sui generis, non un camorrista ma un ex carabiniere che si era messo a vendere auto usate e che aveva avuto comunque rapporti con i clan della sua zona. Fra le tante cose che racconta, riferisce una singolare storia di rapporti con i servizi: dice di essere stato ingaggiato per dare notizie sulla camorra. Operazione in astratto meritoria, se non fosse che in quel caso specifico gli uomini dei servizi sapevano che quelle notizie erano inventate; era una truffa per incassare denari apparentemente destinati all’informatore o si trattava piuttosto di informazioni usate in funzione di depistaggio? La seconda vicenda è stata raccontata da un magistrato durante un’audizione alcuni anni fa in Commissione antimafia: la moglie di un latitante campano di primo piano quando si recava a Roma contattava una persona appartenente ai corpi di polizia che usava un cellulare dei servizi. La donna veniva accompagnata nei suoi spostamenti romani da questo soggetto. La domanda che ci si pone in questo caso è: si trattava di un rapporto personale tra questo personaggio e la moglie del latitante o c’era uno scambio di informazioni dietro la promessa di tenere gli occhi chiusi? La moglie di un latitante scortata da un uomo dei servizi? Eppure la caccia ai ricercati è una priorità di tutti i governi che si sono succeduti nell’ultimo ventennio. Nell’elenco dei dieci superlatitanti ci sono tre capi casalesi: Antonio lavine, Michele Zagaria e Mario Cate-rino. E nonostante la provincia di Caserta da due anni sia presidiata anche dall’esercito, i padrini della camorra più potente restano in libertà. I servizi hanno in qualche modo agevolato la loro latitanza? Non ho motivo per sostenerlo. Posso invece dire che durante la mia attività in procura non ho verificato un grandissimo aiuto da parte dei servizi alla ricerca dei latitanti. Quando capo del centro dei servizi di Napoli è diventato un ex ufficiale del Ros, è cresciuta l’attenzione sulle vicende della criminalità e dei latitanti. Eppure le difficoltà di coordinamento con le attività svolte dall’autorità giudiziaria rischiano di rendere inefficaci anche le buone intenzioni. Sulla vicenda della latitanza di Zagaria posso ricordare un episodio ormai divenuto pubblico; a un certo punto un maresciallo dei carabinieri fa sapere di avere avuto notizia certissima da una sua fonte sul nascondiglio del padrino dei casalesi, uno dei criminali più ricercati d’Italia; gli uomini dell’Arma lanciano un’operazione in cui coinvolgono anche i servizi. Si organizza persino un incontro fra la fonte e il latitante, e in quell’incontro la fonte avrebbe dovuto indossare una microspia avveniristica. Si arriva fino al giorno in cui l’operazione avrebbe dovuto scattare ma a quel punto i servizi si defilano perché non possono garantire i soldi che l’infiltrato pretendeva. A distanza di tempo si scopre che quella fonte forse non esisteva affatto e quel maresciallo dei carabinieri era in rapporti con uomini dei casalesi, tanto da essere successivamente arrestato e condannato per favoreggiamento. Cosa sia accaduto realmente e quale sia stato l’effettivo ruolo dell’intelligence non lo abbiamo capito per la solita ragione: istituzionalmente i servizi possono avere rapporti con le forze dell’ordine ma non con l’autorità giudiziaria. In un altro caso la difficoltà di coordinamento ha portato a un risultato negativo probabilmente evitabile. I servizi avevano ottenuto una notizia secca sul luogo in cui si nascondeva un super-ricercato e avevano avvisato la polizia, che non si stava occupando della cattura di quel boss; un fatto che gli 007 potevano anche ignorare mentre la polizia, per rivendicare l’importante risultato, tace sulla circostanza che altri stanno indagando su quel latitante. Gli agenti vanno in quell’abitazione e la mettono sottosopra per arrestare il ricercato ma non lo trovano. Contemporaneamente l’altro corpo di polizia a cui era stata affidata la caccia al boss sa che in quell’abitazione vi era un covo segreto e dalle intercettazioni sente che gli altri uomini delle forze dell’ordine vi hanno fatto irruzione. Termina la perquisizione senza che il boss venga individuato. Gli altri però, sicuri dell’esistenza di un rifugio, si recano a distanza di minuti nell’abitazione; rompono i pavimenti e trovano il nascondiglio ancora «caldo», è quasi certo che il boss sia scappato fra la partenza di una delle forze di polizia e l’arrivo dell’altra. Se l’operazione fosse stata coordinata, forse quel latitante non sarebbe più tale! Ci sono anche contesti in cui nascono accordi tra forze dell’ordine e clan non per interessi personali di singoli ma per una sorta di quieto vivere finalizzato a mantenere l’ordine pubblico. In un passato che si spera remoto la camorra e la mafia sono state utilizzate come referenti per togliere di mezzo la piccola criminalità e sopprimere fenomeni sovversivi: una sorta di subappalto della sicurezza, in cambio del silenzio su traffici ed estorsioni. Le è mai accaduto di occuparsi di situazioni del genere? Sicuramente in passato situazioni come queste accadevano spesso; basta sentire i racconti degli uomini più anziani delle forze dell’ordine che non fanno mistero di come in certe zone si creassero patti taciti con i vecchi boss: niente furti e rapine e poco fastidio alle attività dei clan. Io ricordo che da ragazzo nel mio paese mi è più volte capitato di vedere i figli dei boss fermati durante i controlli sul motorino o sulla macchina senza patente e in qualche occasione letteralmente graziati o in grado di riottenere subito macchina e motorino sequestrati. Non credo che quegli episodi fossero frutto di collusione, ma penso rientrassero in forme tacite, ovviamente intollerabili, di rispetto reciproco. Anche più di recente in alcune realtà potrebbe essersi creata una certa intesa silenziosa con i clan che davano meno fastidio: «Finché non compromettete l’ordine pubblico noi vi tolleriamo». Questa forma di reciproco scambio non richiede accordi formali o rapporti eclatanti; basta mandare segnali inequivoci: fare meno perquisizioni, meno controlli sulle attività del clan e costruire così una sorta di pace, uno strumento di quieto vivere che non potrà mai venire contestato penalmente e che può giovare a un’opinione pubblica disinteressata e uomini delle forze dell’ordine che, sentendosi di passaggio in certi uffici di frontiera, non vedono l’ora di andar via limitando al massimo i pericoli. Questo atteggiamento, che per fortuna è sempre più raro, rischia di sfociare nella connivenza; è pericoloso perché è in questo clima di pace che le organizzazioni criminali si rafforzano e fanno più affari. Ma il quieto vivere è proprio quello che le nuove cosche e la camorra imprenditrice cercano per far prosperare le attività economiche: meno controlli significa più affari. È il modello imposto in Sicilia da Bernardo Provenzano, senza più attentati o omicidi eclatanti, per fare rinascere Cosa Nostra dopo le retate alimentate dalle rivelazioni dei pentiti. E non a caso, anche dentro la mafia Provenzano è sempre stato considerato un maestro nella capacità di interloquire con le forze dell’ordine per raggiungere i propri obiettivi. È certamente così; la tecnica di immersione che molti clan, anche della camorra, stanno provando nasce con l’obiettivo di stabilire un clima di pace sociale; i cittadini si sentono più tranquilli e gli affari vanno a gonfie vele. Nelle indagini è emerso in qualche caso come le stesse forze dell’ordine possano essere state utilizzate, a volte in buona fede, nella lotta fra i gruppi criminali. «Ti do notizie sugli avversari; se li arresti, indirettamente mi fai un piacere.» Alcuni anni fa la Procura di Napoli condusse un’indagine che si occupava di una vicenda di questo tipo; anche a seguito delle dichiarazioni di pentiti, vennero arrestati, e poi in gran parte assolti, uomini delle forze dell’ordine, fra cui un funzionario di polizia di un certo rilievo, perché si ritenne che molte attività fossero in qualche modo state pilotate o create ad arte per distruggere un certo sodalizio. Era una zona grigia che le indagini cercarono di scandagliare, in cui individuare omissioni o complicità è davvero difficile. Riguardo il rapporto con le cosiddette fonti confidenziali: i confidenti non informano «gli sbirri» certo per amore di giustizia; vogliono qualcosa in cambio. Del resto il poliziotto o il carabiniere bravo non è solo quello che conosce le persone e usa le intercettazioni: è anche quello che sa individuare gli scenari e prevedere le situazioni. Ma tutto questo come si fa a saperlo? Solo creando meccanismi di interlocuzione con soggetti che hanno rapporti sia pure indiretti con il clan. Il rischio è quello di confondere rapporti borderline di confidenza con situazioni di collusione. È un rischio che esiste, perché si tratta di uno spazio nell’ombra dove non si riesce a comprendere quando si ferma l’una e comincia l’altra. Ancora oggi ci sono importanti dirigenti delle forze dell’ordine che si vantano di essere rispettati dai camorristi. Non è anche questo un segnale che si presta a letture maliziose? Non lo credo affatto, sarebbe una visione semplicistica. Esistono dei codici criminali e saperli interpretare è importante. Secondo una visione tradizionale non ancora del tutto tramontata, un mafioso o un camorrista non nutre ragioni di risentimento e desideri di ritorsione contro un uomo delle forze dell’ordine che ritiene corretto, ossia che non abusa del suo potere, non agisce per finalità personali, non sfascia tutto in modo punitivo durante le perquisizioni, non è violento senza motivo. Viste da lontano sono situazioni difficili da capire, ma quel rispetto non va letto in negativo. Tommaso Buscetta dopo il primo interrogatorio disse a Falcone: «Dottore, lei è un uomo d’onore» ma non intendeva certo dargli del mafioso. Era «un uomo d’onore» perché riusciva a comprendere certi codici interloquire utilissima negli interrogatori. e questo creava una capacità di Soprattutto i boss di peso studiano i magistrati che hanno di fronte, cercano di valutarne il livello di interlocuzione, sempre mantenendo le distanze, sempre nella differenza netta dei ruoli; ma in certi momenti se trovano un briciolo di umanità, questo può cambiare le sorti di vicende fondamentali. Chi viene da queste terre, è nato e cresciuto senza compromessi ma in realtà dove la criminalità organizzata si respira, certe cose le capisce. Per chi viene da Milano, da Bologna, da regioni dove fortunatamente la criminalità organizzata è una presenza aliena, entrare nelle dinamiche delle mafie è molto più difficile. Per questo un magistrato siciliano è molto più pericoloso per le cosche. Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Terranova erano siciliani e anche per questo sono stati uccisi. Per guardare oltre. Abbiamo esplorato territori oscuri, dove le mafie si stanno trasformando in una realtà nuova. Dall’imprenditoria alla politica, i clan cambiano volto: conquistano potere riducendo la violenza, ammazzano di meno per contare di più. Modificano regole antiche per entrare in ambienti che finora avevano rifiutato la mano tesa dai padrini. In Sicilia si è imposta una leva di boss spesso laureati e inseriti nelle categorie professionali. Nelle altre regioni si allarga la zona grigia dove economia e cosche si intrecciano, grazie alla complicità e all’incapacità di pubblici funzionari. Le organizzazioni criminali non hanno più bisogno di minacciare, perché alle aziende offrono servizi e risolvono problemi. E nelle zone degradate del Sud una generazione senza speranza di lavoro cresce senza alternative all’illegalità. Come si fa a costruire una barriera contro un contagio invisibile che rischia di contaminare la società meridionale e, come dimostrano le ultime inchieste, estendersi anche al Nord? L’idea che tutto possa essere risolto con la repressione penale è riduttiva: il problema non si elimina, secondo uno slogan efficace ma semplicistico, «sbattendo in cella i boss e buttando via la chiave». È un’impostazione riduttiva, che ignora la realtà della mafia: la sua forza nasce non dalla violenza dei singoli, ma dalla forza dell’organizzazione e dal controllo del territorio. Se la criminalità ha la capacità di infiltrarsi nelle istituzioni, nelle categorie professionali, nell’imprenditoria, non si può limitare il contrasto al solo aspetto militare, ossia all’arresto di quelli che sparano o fanno le estorsioni: così non si incide sul sistema sociale che convive con la mafia o addirittura vive di mafia. Dopo ogni retata, il tessuto criminale si ricompone in tempi brevi: soprattutto in realtà degradate, senza occasioni di lavoro, un gruppo di disperati pronti a sparare e a chiedere il pizzo lo trovi facilmente. Anche quando sono state inflitte delle vere mazzate all’ala militare dei clan, ma senza che il territorio sia stato bonificato creando le condizioni per la rinascita di una normalità nella legalità, nel giro di meno di un anno si è tornati a una situazione analoga a quella di partenza, con in più un senso di sfiducia da parte dei cittadini onesti. Nel suo primo libro, Solo per giustizia, ha raccontato l’esperienza di Mondragone. Dopo le numerose retate con cui aveva contribuito a smantellare il clan La Torre, spingendo anche alla collaborazione molti esponenti, fra i quali il capo storico, per prima cosa c’è stata una ripresa della microcriminalità che si è impadronita delle zone dove prima dominavano le regole dei camorristi, provocando le proteste dei residenti e dopo pochi mesi si è ricomposta una nuova organizzazione di stampo mafioso. Per me si è trattato di un esempio concreto di come anche una buona repressione penale rischi di non raggiungere i risultati sperati o possa essere vista da qualche cittadino persino come controproducente, se non viene accompagnata da un’azione delle istituzioni di più ampio respiro. Nel Sud sono molte le realtà in cui i clan ormai sono un pezzo della società: non basta arrestare capi e killer per eliminarli. La loro forza nasce da un sistema sociale in cui non dico siano diventati indispensabili, ma nel quale hanno comunque creato le condizioni per essere un pezzo stesso della società. È indubbio che puntare solo sugli arresti non serve, ma quale può essere la ricetta per una repressione che riesca a incidere sulle radici sociali della forza della mafia? Anzitutto bisogna modulare questo intervento in modo che non colpisca solo chi compie i delitti più visibili ma sia in grado di avere un effetto nella dimensione economica della criminalità organizzata. Qual è la differenza tra una famiglia mafiosa e una banda di rapinatori? Hanno lo stesso obiettivo finale: fare soldi. E teoricamente anche un clan di rapinatori può pensare di investire il bottino in attività economiche come ristoranti, bar, negozi; accade così all’estero, dove non esistono le cosche. La differenza è che le mafie hanno il controllo del territorio. Quando arresti una banda che assalta le banche e sequestri i suoi beni, l’hai distrutta. Invece se anche riuscissi a mettere in carcere tutti i mafiosi di un clan, senza stroncarne i legami con economia, politica, pubblica amministrazione, rimarrebbe comunque un vuoto che verrebbe in tempi brevi sfruttato da un’altra organizzazione per riprendere il controllo del territorio e gestire quei rapporti, rimasti «orfani». In pratica non basta cancellare l’antistato se lo Stato non lo rimpiazza fino infondo. Ma non è facile: la mafia nasce grazie a situazioni di degrado, economico e sociale, spesso vecchie di secoli. E se non si è risolta la «questione meridionale» in centocinquanta anni, non pare possibile che si riesca a farlo ora e in tempi brevi. La strategia che punta a rafforzare il deterrente, promettendo pene sempre più dure per i mafiosi, può servire almeno ad arginare il problema? La strategia dell’inasprimento delle pene è una strada da sola poco proficua, perché a furia di aumentarle si giunge a tetti sproporzionati. C’è un esempio da menzionare; nel nostro sistema penale - senza una riflessione globale, quasi senza accorgercene - a forza di inasprire le pene oggi l’associazione mafiosa, prevista dall’articolo 416 bis, ricorrendo a tutte le aggravanti viene punita con trent’anni di reclusione, il massimo che può essere inflitto, escludendo l’ergastolo; è una condanna persino più grave di quella prevista per alcune ipotesi di omicidio! Si tratta di un paradosso, che forse non appare tale al cittadino comune ma lo è per chi conosce il diritto. Dal punto di vista giuridico, infatti, i reati associativi sono qualificati «reati di pericolo» in quanto, come si dice fra i tecnici, «anticipano la tutela»: vogliono prevenire il vero danno sociale e puniscono quei comportamenti che normalmente lo precedono; nel caso in esame si è scelto di punire un’organizzazione criminogena, a prescindere dall’accertamento specifico di delitti. Il reato strutturato per anticipare il vero danno sociale viene punito molto più dei delitti che può cagionare. È un elemento sul quale riflettere, anche perché aumentare continuamente le pene rende evidente l’incapacità delle norme penali di funzionare. Le esperienze di altri paesi hanno dimostrato che l’aggravamento della sanzione non ha un effetto deterrente, perché se le persone sanno che per un reato minore rischiano la stessa pena di uno più grave, si fanno meno scrupoli nel compiere il delitto più grave. Negli Stati Uniti, dove si può finire all’ergastolo per soli tre furti, si è spesso ottenuto un risultato deleterio: al criminale conveniva commettere la rapina a mano armata o l’omicidio, tanto i pericoli erano gli stessi ma il profitto maggiore. Sì, diversi studi hanno dimostrato questo effetto boomerang, soprattutto tra i soggetti che vivono in quartieri degradati o i tossicomani. Da noi però si parla di rapine, furti o assassini. reati associativi: Ribadisco il punto; questo continuo repressione non ha del tutto funzionato. si parla inasprire appunto le pene di mafia; dimostra non di che la Semplificando, non siamo riusciti a scoprire chi abbia commesso e soprattutto chi abbia ordinato o favorito i più gravi fatti criminali, e quindi condanniamo le persone per associazione a delinquere. Dietro questa idea c’è una visione filosofica e cioè la convinzione che l’eliminazione sociale del mafioso con la detenzione possa avere effetti positivi sull’intera società o quantomeno sul territorio. I sostenitori di questa linea affermano: noi ci ritroviamo ad arrestare e riarrestare sempre le stesse persone, quindi conviene neutralizzarle e lasciarle in prigione il più possibile. In più sperano che l’esempio convinca familiari e compaesani a tenersi lontani dalla vita del clan. È un’affermazione che lascia quantomeno perplessi. Anzitutto è una posizione che ignora la funzione rieducativa della pena sancita dalla Costituzione, ma non tiene nemmeno conto di come spesso avere un parente in carcere diventi quasi un motivo di vanto per amici e conoscenti del boss recluso. In quest’ottica la sola repressione rischia di amplificare una situazione di emarginazione e una sorta di esaltazione del ruolo criminale, esibito dalla cerchia del detenuto perché questi sono i valori della società in cui vive. Il figlio non si vergogna di avere il padre in cella ma ne fa quasi una patente di autorevolezza mafiosa. Certo, Totò Riina ha il rispetto dei suoi figlioli nonostante siano anch’essi detenuti. Ma non per questo si può rinunciare a condannare i boss e a tenerli in cella. Qui il problema principale sembra la lentezza e l’inefficienza della macchina giudiziaria, che non riesce a giudicare nessuno in tempi civili: una situazione che favorisce il ritorno in libertà di molti mafiosi. Attenzione: non vorrei che il mio ragionamento possa essere frainteso. Io credo che sia indispensabile punire e che l’aspetto repressivo nella lotta alle mafie sia sicuramente prioritario. Ci vogliono pene giuste, ma soprattutto pene certe; ci vuole una giustizia capace di funzionare, senza limitarsi a minacciare con pene roboanti che solo in casi limitati sono poi applicate davvero. E poi giudicare le persone in tempi ragionevoli risulta molto più efficace di minacce poco credibili; ha un effetto positivo su tutta la società perché crea un antìdoto contro i reati che alimentano la mafia. Ma oggi l’idea che sta ispirando il legislatore è che esista una criminalità organizzata quasi separata da quella comune: una posizione che non tiene conto della realtà. Se concentriamo tutte le forze e le risorse sulla lotta alla mafia come se fosse qualcosa di diverso dal resto della criminalità, riusciamo forse a reprimere i reati associativi; ma poiché la coperta è corta diventiamo meno incisivi contro furti, rapine, frodi e falsificazioni. Non si può credere che si tratti di fenomeni diversi dalle cosche. La criminalità comune è controllata dalle organizzazioni mafiose: succede a Napoli, a Palermo, a Reggio Calabria, ma succede anche in certe zone del Nord. Quei reati meno gravi non solo arricchiscono i clan ma sono la fucina della nuova leva militare delle cosche: il giovane comincia con furti e rapine; poi viene inserito nei ranghi e, dopo avere mostrato di essere bravo in quei colpi, ottiene l’affiliazione. Ancora una volta non si può semplificare la complessità del rapporto tra mafia e società, quelle relazioni a 360 gradi che legano il clan al territorio. Arrestare i boss e garantire pene pesanti serve comunque ad abbattere il senso di impunità che circonda il loro potere e trasmettere un messaggio a tutta la società: testimoniare con la detenzione che il delitto non paga, nemmeno quando è opera di mafiosi. Anche su questo punto voglio esprimere con chiarezza il mio pensiero. Il carcere è indispensabile e il regime del 41 bis, per quanto possa apparire in contrasto con le esigenze di rieducazione del condannato, è oggi irrinunciabile perché ha interrotto la catena di comando fra detenuti e liberi e ha impedito quegli scandali del passato con reclusi che sembravano ospiti di hotel a cinque stelle. C’è da augurarsi che in futuro si riesca a fare a meno di questo regime duro; ha fatto bene il governo a inasprirlo di recente e a evitare che le restrizioni potessero essere eluse. Ciò detto, però, oggi il carcere non impedisce a un boss di diventare un punto di riferimento sociale. E questo dimostra ulteriormente quanto sia limitato l’effetto educativo sulla società della repressione affidata solo agli arresti. Basta andare a vedere su Facebook e contare quanti sono i gruppi che inneggiano a Giuseppe Setola. Sul social network più moderno si rende omaggio al killer casalese che ha commesso decine di omicidi in pochi mesi, tra vendette trasversali contro i pentiti e massacri di immigrati? Sì, proprio lui. Uno che anche dal punto di vista criminale non ha mai avuto una rilevanza: non è stato una figura in qualche modo epocale come Raffaele Cutolo, ma ha fatto solo omicidi a tutto spiano in meno di un anno ed è probabilmente destinato a finire i suoi giorni in cella. Eppure in un certo contesto è diventato un eroe, un modello: stiamo parlando di gruppi animati su Facebook da qualche centinaio di persone. E quindi un riferimento marginale, ma non va sottovalutato perché le mafie sono per loro natura numericamente marginali: quelle poche centinaia di persone, tutte giovani, sono i soggetti su cui la camorra fa leva per costruire la sua autorità. Questo non significa che Setola non vada tenuto in carcere a vita, ma il suo scellerato fan club deve spingerci a riflettere per trovare una strategia più ampia contro la criminalità organizzata. Quando si riuscirà a ottenere che il mafioso «neutralizzato» con la detenzione non conti più nulla, allora avremo veramente vinto. Una criminalità ci sarà sempre, esiste ovunque, persino in Svezia e nei paesi socialmente più avanzati: ma la mafia no, nel mondo occidentale è una realtà solo italiana. Lei sostiene che la repressione penale da sola non basta. Eppure oggi sembra soprattutto che non riesca a funzionare. In particolare non punisce i reati dei colletti bianchi, quelli che danno linfa ai legami tra la mafia e la zona grigia dei Gattopardi; si dimostra lenta e inconcludente, obbligando a un calvario gli innocenti e permettendo ai collusi di continuare i loro traffici. Rendere efficace almeno questo aspetto della lotta alla mafia darebbe comunque dei risultati. Il fatto che il processo debba infliggere una pena giusta in tempi brevi trova tutti d’accordo. Una pena giusta anche e soprattutto per le responsabilità più gravi, perché in Italia le caratteristiche del processo, anche per i reati legati alla criminalità organizzata, finiscono col favorire i potenti. Si arriva spesso al paradosso che il padrino riesce a cavarsela con una condanna minore dei gregari; perché ben difeso, perché ha scelto in modo più oculato le sue strategie processuali e i riti speciali che garantiscono sconti di pena. Ma se il processo funziona male, perché pensiamo che aumentando le pene possa migliorare? Se una vecchia Cinquecento ha il motore ingolfato, non è mettendole le ruote di una Ferrari che correrà di più. E c’è un altro aspetto, che riguarda i colletti bianchi: anche per loro la pena deve essere certa e va scontata. Oggi tra i 60 mila detenuti italiani credo non ce ne sia uno in cella, per esempio, per truffa mentre negli Usa quel manager della Enron che ha truffato gli azionisti resterà in carcere per trent’anni. In Italia i reati societari e fiscali sono di fatto quasi impuniti. Coloro che commettono questi reati sono spesso le facce pulite di cui le mafie si servono. Anche in questo caso, però, non esiste una bacchetta magica per trasformare la vecchia Cinquecento in Ferrari: ci vogliono tempo e risorse. Quello della giustizia efficiente appare sempre più come un buon proposito inattuabile, uno slogan da campagna elettorale. C’è qualcosa di concreto che si può tentare subito? Basterebbe cominciare da un principio basilare per tutti i sistemi giuridici occidentali e cioè smettere di cambiare continuamente le regole che riguardano, per esempio, le modalità di conduzione dei processi. Le garanzie vanno rispettate, ma non si possono introdurre meccanismi che trasformano il processo in una corsa a ostacoli. Un sistema giudiziario che funzioni è il maggior argine alla mafia. E questo discorso non riguarda solo la giustizia penale ma anche quella civile. Dalle indagini è emerso che una delle cose che lega moltissimo imprenditoria e mafia è il mancato funzionamento reale degli strumenti civili, soprattutto esecutivi. Banalizzando, se io ho un credito a chi mi rivolgo per ottenerne la riscossione? Se ho il diritto di intascare 200 mila euro da cinquanta fornitori, come faccio? Se so che rivolgersi ai tribunali civili è quasi inutile, andrò altrove! Anche Carlo Alberto Dalla Chiesa nei suoi ultimi giorni a Palermo aveva detto a Giorgio Bocca: «Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati… ». La garanzia dei diritti diventa doppiamente importante nel caso delle imprese. Perché l’imprenditore, forse spregiudicato ma pur sempre imprenditore, ha l’esigenza di ottenere un risultato: se va dai riscossori della camorra ha la certezza di mettere in cassa almeno parte di quel denaro. La stessa cosa accade sempre più spesso per le questioni amministrative. Se deve presentare un ricorso al Tar per ottenere una licenza che gli è stata rifiutata, con la prospettiva di tempi biblici, e invece sa che la mafia può risolvere il problema grazie ai suoi agganci nella pubblica amministrazione, allora a chi domanderà aiuto? L’efficienza del sistema giudiziario globale è la prima diga alla criminalità organizzata e alla sua espansione borghese, perché elimina una serie di ragioni per cui i colletti bianchi si debbano rivolgere alla mafia: toglie terreno alla corsa predatoria dei nuovi Gattopardi. Quanto a nuovi paletti che vengono introdotti nel processo, la nuova legge sulle intercettazioni che il governo Berlusconi ha proposto sembra limitare le possibilità di indagine. Da una parte c’è di sicuro la volontà di maggiore garantismo e tutela della privacy, ma si rischia di vanificare uno dei pochi strumenti di indubbia efficacia. Le intercettazioni sono indispensabili per le indagini sulla criminalità organizzata e comune; ogni tentativo di limitarle è pericoloso. Riescono ad arrivare dove prima i mafiosi si sentivano sicuri e compromettono la loro capacità di comunicare e quindi di gestire l’organizzazione. Pensate se Provenzano avesse potuto fare a meno dei pizzini e usare il telefono: avrebbe trasmesso più ordini in tempi esigui con risultati ancora migliori. Con microspie e telecamere possiamo entrare dentro le loro case, dentro le loro automobili: sono uno strumento rivoluzionario nel contrasto dei clan; quanto più la tecnologia si evolverà, tanto più penetreremo nella vita dei mafiosi. Invece di preoccuparsi di come limitarle, ci si dovrebbe concentrare sul modo di potenziarle. Oggi non si è in grado di controllare le conversazioni su Skype e su tutti quei canali di comunicazione che sfruttano Internet: certo, l’informatica non è ancora patrimonio significativo dei clan, ma le nuove generazioni hanno dimestichezza con i computer e utilizzano Skype per comunicare. Nelle inchieste sul gruppo Schiavone anche semplici gregari, personaggi da cui nessuno si aspetterebbe una profonda conoscenza del web, rinviavano i colloqui sulle vicende più delicate ai contatti via Skype. Più che di camorristi sembra parlare di professionisti da si possono avere connessioni web semplici ovunque e ancora una volta di essere più moderni del legislatore. non sono una panacea: spesso hanno provocato un crollo territorio da parte delle istituzioni e un calo nella tradizionale delle forze dell’ordine. 007, ma in effetti oggi i criminali dimostrano Le intercettazioni però nel presidio fisico del capacità investigativa L’obiezione è in parte fondata. Le intercettazioni hanno avvizzito il controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine, depauperando l’attività ordinaria sul campo. Il problema è trovare un giusto equilibrio; le conoscenze che possono venire dalla strada rendono l’intercettazione uno strumento ancora più efficace. L’esperienza mostra che quando il maresciallo di una certa età ascolta il nastro, e dal soprannome o dal riferimento criptico a un certo luogo capisce di cosa si sta parlando, allora la registrazione diventa eccezionalmente proficua. Forse oggi si dà troppa importanza al controllo del territorio effettuato da lontano, soltanto con telecamere e registratori: è un’idea da sola non vincente. A cosa serve guardare le immagini o sentire le voci se nessuno conosce persone e ambienti? Il riscatto dello Stato contro le mafie - quello che ha determinato la svolta epocale del primo maxiprocesso di Palermo e che dopo il 1992 ha permesso di realizzare migliaia di arresti contro mafia, ‘ndrangheta e camorra - è stato reso possibile dalle dichiarazioni dei cosiddetti pentiti. I collaboratori di giustizia si sono rivelati un’arma formidabile nello smantellare i clan, anche se non sono mancati episodi ambigui e opachi: lei stesso ne ha avuto prova nelle indagini. Episodi di collaboratori che tradiscono gli impegni poi vengono presi a pretesto per invocare riforme restrittive nell’uso dei pentiti: un clima che forse sta contribuendo alla riduzione drastica delle collaborazioni negli ultimi anni. Ci saranno nuovi paletti e nuovi ostacoli per i processi anche su questo fronte? Senza i pentiti non si sarebbe mai riusciti a entrare nella vita del clan; se qualcuno dice il contrario, mente consapevole di farlo. I collaboratori di giustizia non solo sono in grado di far acquisire elementi di responsabilità sui singoli delitti ma offrono una visione globale dell’organizzazione: ci mostrano il dettaglio e il quadro complessivo; qualcosa che le intercettazioni da sole non raggiungeranno mai. Inoltre questo fenomeno ha minato la coesione dei clan, perché boss e gregari temono sempre che qualcuno possa tradire: un sospetto che li rende guardinghi e insicuri. Proprio perché i pentiti sono indispensabili, le regole certe imposte dal legislatore per l’assunzione delle loro dichiarazioni non vanno considerate ostacoli; si deve essere molto rigorosi di fronte a queste prove. Non sono, per esempio, contrario alla regola oggi prevista e da alcuni criticata che ci sia un termine entro il quale debbano essere rese le dichiarazioni: forse saranno pochi i 180 giorni dell’attuale normativa, ma il collaboratore - sostantivo più corretto per qualificarli, perché pentito evoca una scelta morale non necessaria - deve dimostrare a 360 gradi di volersi aprire allo Stato, senza fare balletti, dicendo e non dicendo, ritrattando e poi riaffermando o ricordando cose molto importanti a scoppio ritardato. Qualche volta si ha l’impressione che ai pentiti si conceda troppo in cambio delle loro parole: sembra quasi che ci siano pubblici ministeri disposti a chiudere un occhio sul comportamento dei collaboratori pur di ottenere le rivelazioni. Sicuramente in passato sono avvenuti fatti che hanno dato questa impressione. Ma l’idea di pentiti «supercoccolati» dalle Procure non è in linea con la realtà: oggi è aumentato il rigore, non si ha timore di smascherare gli illeciti di un collaboratore anche quando si rischia di perdere contributi fondamentali. Il recentissimo caso di Giovanni Brusca, colui che aveva azionato il telecomando della bomba di Capaci e riferito elementi importanti per le indagini, lo dimostra. La Procura di Palermo, dopo avere scoperto che Brusca aveva occultato le sue disponibilità e mantenuto rapporti con soggetti mafiosi, gli ha contestato gli illeciti, rendendoli anche pubblici. Alcuni processi però paiono basarsi soltanto sulle parole dei pentiti, come se l’unica prova raccolta dalla pubblica accusa fosse la testimonianza dei mafiosi che hanno accettato di collaborare con la legge. Non accade affatto così. Le dichiarazioni del collaboratore da sole non sono sufficienti per una condanna. Servono riscontri su tutto quello che ha rivelato. La cultura dei pubblici ministeri nei riscontri si è sempre più raffinata. Non c’è assolutamente bisogno di cambiare le norme attuali: se andasse in porto il progetto di legge che giace in Parlamento per limitare la validità processuale dei riscontri incrociati tra pentiti - ossia il peso probante delle parole provenienti da più collaboratori - rischieremmo di vanificare davvero la lotta alla mafia. Il meccanismo delle verifiche deve essere, però, oltremodo severo: occorre che il pentito dimostri la sua attendibilità e credibilità, e che il pubblico ministero, con la professionalità ormai tipica di quelli che si occupano di antimafia, conduca gli accertamenti e trovi i riscontri con rigore e profondità. Non si deve neppure ingenerare il sospetto che i processi siano gestiti dai pentiti e che i collaboratori possano indirizzare a piacimento l’azione repressiva dello Stato. Questo non accade ma bisogna impedire che deviazioni del genere siano anche solo ipotizzate. Infondo raramente il pentimento nasce da una vera riflessione interiore o da istanze morali. Molto più spesso il collaboratore, di fronte alla prospettiva di decenni in cella, fa un contratto con lo Stato: scambia le sue rivelazioni con generosi sconti di pena e garanzie di protezione. Ma su quest’ultimo fronte il sistema non sembra funzionare bene: le istituzioni rischiano spesso di farsi carico per tutta la vita del collaboratore e dei suoi familiari. Una situazione che non aiuta i pentiti a ricostruirsi una vita e rischia di trasformarsi in un peso per le forze dell’ordine. È assolutamente impensabile che lo Stato si occupi per tutta la vita dei pentiti. Ma dobbiamo anche dare occasioni concrete perché comincino una nuova vita. Oggi ci sono soggetti sottoposti da decenni al programma di protezione, perché i tempi dei processi sono lunghissimi e perché le loro dichiarazioni sono usate anche a distanza di anni. Immaginate un uomo che stia cercando di avviare una piccola attività al Nord, dove nessuno conosce la sua vera identità e il suo passato, e poi all’improvviso venga preso e portato di nuovo a testimoniare nelle Corti d’assise della Sicilia. Così si rischia di vanificare anni di fatica e costringerlo a ricominciare da capo. No, bisogna trovare un sistema che imponga a un certo punto di chiudere una pagina. Negli Stati Uniti viene considerato assurdo che dopo dieci anni un collaboratore sia ancora obbligato a rendere dichiarazioni nei processi; invece siamo nel 2010 e Carmine Schiavone, il casalese che si è pentito nel 1993, viene ancora sentito nelle aule di giustizia; e sono convinto che se fosse vivo Tommaso Buscetta si continuerebbe a convocarlo. Dall’analisi che fino a questo momento ha fatto mi sembra che lei creda che si possa coniugare garantismo e lotta alla mafia; ma è davvero così? Finora i risultati maggiori sono stati ottenuti con leggi speciali, spesso molto poco garantiste… Se durante i 16 anni in cui ho fatto il pubblico ministero qualcuno mi avesse dato del «garantista», non lo avrei ritenuto un complimento. Dietro questa parola nobilissima, che in passato aveva rappresentato coloro che volevano far valere i diritti processuali dell’individuo contro lo Stato assolutista, si è nascosto di tutto: dagli idealisti che mantenevano intatta la visione liberale del processo come garanzia, ai peggiori Gattopardi che l’hanno sbandierata per impedire una seria e severa legislazione antimafia. Ho sempre creduto, invece, che si potesse essere rigorosi e inflessibili senza per questo deflettere sul piano delle garanzie anche processuali. Sarebbe comunque una sconfitta se il contrasto alla mafia divenisse il cavallo di Troia per il ritorno, quasi senza accorgercene, di uno Stato di polizia. Le garanzie dei cittadini non possono essere toccate, perché sono di tutti e vanno riconosciute a tutti. Non mi hanno mai, in questo senso, affascinato le idee di chi invocava misure straordinarie per la lotta alla mafia; mi sono sempre chiesto, retoricamente, perché un sistema incapace di gestire l’ordinario dovrebbe riuscirci con lo straordinario? Oltre ai pentiti, c’è un altro modo per conoscere dall’interno le dinamiche dei clan e che non sembra mai applicato: l’uso degli agenti infiltrati. La lezione statunitense, con figure leggendarie come Donnie Brasca che è riuscito a entrare nel vertice di Cosa Nostra e far condannare centinaia di mafiosi, non sembra avere seguito in Italia. Di sicuro non è facile essere accettati da una cosca, ma proprio la zona grigia dei legami con l’imprenditoria offre un terreno facile per queste operazioni. Gli infiltrati sono utilissimi: ci fanno conoscere cosa accade nei clan senza la mediazione e i calcoli di convenienza dei pentiti. Non è vero che in Italia non ce ne siano stati, anche se si è trattato a oggi di sperimentazioni troppo sporadiche. Abbiamo raccontato il caso clamoroso del colonnello dei carabinieri riuscito a inserirsi tra i camorristi che controllavano gli appalti dell’Alta Velocità. In verità, accanto a una sorta di sfiducia di tipo culturale, gli ostacoli all’utilizzo di questo mezzo investigativo erano soprattutto normativi. Come si poteva utilizzare un infiltrato per accertare reati e poi doverlo portare pubblicamente in dibattimento, rendendo noto il suo viso e la sua identità? Finalmente quest’anno con l’approvazione del «piano straordinario» contro le mafie, proposto dal governo e votato - così come dovrebbe sempre essere in queste materie - dalla quasi totalità del Parlamento, è stata regolata quest’attività e previste garanzie anche per la sicurezza degli infiltrati. Ci vorrà un minimo di rodaggio, ma credo che il sistema possa funzionare e dare i suoi frutti come accade all’estero. Il problema più importante che abbiamo evidenziato è proprio l’efficienza delle istituzioni nel combattere il nuovo sistema costruito dalle mafie, che offrono servizi agli imprenditori e allargano la loro infiltrazione nell’economia. Questa è la nuova sfida: come si fa a vincerla? In questo settore è difficile indicare soluzioni. Il problema è tutto italiano e non ci sono nemmeno modelli stranieri da imitare. Semplificando al massimo, si può indicare l’obiettivo da raggiungere: bisogna rendere sconvenienti sotto tutti i punti di vista i rapporti con la criminalità organizzata. Siccome l’imprenditore si muove in logiche di tipo economico e insegue il profitto, si deve far sì che i pericoli nello scendere a patti con la mafia superino i vantaggi ricavabili dalla collusione. Facile a dirsi, ma come si concretizza questa linea? Noi abbiamo visto quanto siano vantaggiose le proposte delle cosche, soprattutto nei territori meridionali che i clan controllano, ma come sappiano essere partner seducenti anche per gli imprenditori del Nord. Per questo bisogna inventare strumenti impresa quando si collabora con i boss. che rendano altissimo il rischio di Bisogna far capire concretamente all’imprenditore che non solo i rapporti di collusione sono moralmente negativi ma si possono trasformare in un danno per i suoi affari. Ed è inutile appellarsi a valori solo etici perché nelle categorie economiche la morale è quella del profitto; servono meccanismi che dimostrino come nella collusione c’è più da perdere che da guadagnare. Oggi però tra l’assenza di reati specifici e la lentezza dei processi alla fine il contratto con la mafia si rivela pagante. Come ha detto, la repressione penale non funziona: ci possono essere metodi alternativi più efficaci? Bisognerebbe pensare a interventi di ampio respiro che non siano solo di carattere penale ma operino anche sul piano amministrativo. Per esempio, si parla della stazione unica appaltante che consentirebbe in realtà ad alto rischio di togliere la gestione degli appalti agli enti locali; a questi ultimi resterebbe la programmazione, ma tutte le fasi successive dell’aggiudicazione e del controllo passerebbero a una struttura amministrativa posizionata per esempio in Prefettura. Ovviamente non avrebbe senso affidarla a un funzionario della Prefettura che la gestisca con spirito burocratico e che, per quanto meno avvicinabile del dirigente comunale, è pur sempre un uomo. Bisognerebbe concepirla come un organismo evoluto, con una presenza di tecnici e di specialisti anche delle forze dell’ordine: un pool con esperti - agenti di Dia, Ros, Sco, Gico - capaci di monitorare l’appalto non solo nella sua concessione ma in tutto lo sviluppo, garantendo la trasparenza dell’affidamento ma occupandosi poi anche di verificare a chi il vincitore della gara assegna i subappalti o da chi acquista i materiali, in modo da sbarrare tutti i canali di infiltrazione mafiosa. Un organismo con poteri sanzionatori che vanno fino alla revoca delle commesse. Un sistema di tal tipo consentirebbe un vantaggio ulteriore: l’imprenditore che ha vinto l’appalto pubblico in terre di mafia non verrebbe lasciato solo; i clan, sapendo dei vincoli e degli obblighi di costui, dovrebbero essere molto più attenti e cauti in ogni forma di avvicinamento. A New York per combattere il settore più importante di infiltrazione mafiosa, la raccolta dei rifiuti, hanno obbligato chi otteneva le licenze pubbliche ad autorizzare qualunque tipo di controllo preventivo sulla gestione, incluse le intercettazioni. Una sorta di rinuncia alla privacy e all’autonomia d’impresa. È questa la strada? In qualche modo sì. Ma aggiungo che, prima della stazione appaltante, bisognerebbe anche rinvigorire il sistema della certificazione antimafia per chi entra in rapporti con gli enti pubblici, senza limitarsi al controllo formale e superficiale degli organigrammi, dove basta sostituire i soci sospetti con dei prestanome per ottenere il via libera; anche qui il piano antimafia è intervenuto con una delega al governo; vedremo come sarà esercitata. E poi ovviamente tutto questo deve essere accompagnato dall’impegno per impedire le infiltrazioni negli enti locali: lo scioglimento dei consigli comunali dovrebbe essere gestito in senso molto più rigoroso. Questi meccanismi possono essere utili per frenare la corsa dei clan al denaro pubblico; oggi però c’è un altro fenomeno: gli accordi tra mafie e imprenditori in operazioni private, in iniziative economiche che non coinvolgono licenze e soldi pubblici. Stiamo parlando di investimenti massicci da parte di grandi gruppi, come per la creazione dei centri commerciali che stanno proliferando nelle periferie meridionali. È certamente la questione più complessa. Nel codice penale, varato in altri tempi, c’è un varco di cui in passato si erano accorti faccendieri di ogni risma e oggi anche i clan si stanno accorgendo; gli amministratori delle società private non sono sanzionati, per esempio, per la loro corruzione. Se questi intascano soldi per dare un contratto a un’altra ditta, non c’è un reato specifico. E diventa difficilissimo, in concreto, punire anche il manager di una holding che, spesso attraverso plurime intermediazioni, affida le pulizie o la sicurezza a una società della camorra. Il problema è ancora più ampio: nella nostra legislazione è solo di recente entrato il principio secondo cui i reati di un dirigente, non adeguatamente controllato, comportano responsabilità della società. Questa normativa però stenta nella pratica a essere attuata. Oggi un impiegato pubblico che intasca 500 euro rischia una condanna per corruzione, mentre un manager privato che affida un contratto milionario dietro il pagamento di un ricco bonus non corre pericoli. È una situazione da correggere; vi è una convenzione internazionale firmata anche dall’Italia che imporrebbe di intervenire su tale aspetto, ma chissà perché non si dà attuazione a questo strumento. Io credo però che si potrebbe andare oltre le sanzioni penali, escludendo le aziende poco attente dagli appalti pubblici o privandole di benefici fiscali o previdenziali. Insomma, minacciando un costo per la collusione. Questo diventerebbe uno stimolo a resistere alle richieste dei clan, metterebbe l’imprenditore o il manager in condizioni di rispondere al boss: «Se ti affido il lavoro, rischio di perdere l’azienda». Quello che oggi è un atto di coraggio deve finalizzata anche a salvaguardare il profitto. diventare Non basta, quindi, applicare la sanzione viene immediatamente sostituito. Le singolo al una scelta necessaria, amministratore, che poi società di calcestruzzi coinvolte nelle inchieste siciliane su Cosa Nostra hanno avuto danni economici? Non mi pare. Le multinazionali che in Campania affidano la distribuzione di gelati, auto, latte alle ditte della camorra hanno mai avuto danni? Non mi risulta. Ma questo deve essere l’obiettivo: rendere conveniente l’onestà. // paradosso nella repressione del potere economico dei clan è che non si riescono a rendere veramente utili i beni confiscati. Ci sono immobili, veicoli industriali e automobili lasciati in abbandono, con un costo per la pubblica amministrazione. E ci sono soprattutto aziende sottratte ai boss costrette a chiudere. Bisogna cambiare la mentalità nella gestione di questo patrimonio e bisogna dare atto che qualcosa questo governo ha cominciato a fare, anche se con qualche contraddizione. L’istituzione dell’agenzia dei beni confiscati è una scelta ottima, ma l’obiettivo vero è quello di valorizzare il bene confiscato; toglierlo alle mafie non serve solo a impoverirle ma deve rappresentare un simbolo: è l’occasione per far rinascere la legalità. Finora ci si è concentrati sugli immobili confiscati e si è pensato di usarli come caserme o centri sociali, ma ci vuole una rivoluzione culturale per renderli utili. Oggi siamo arrivati al paradosso in cui il bene confiscato rappresenta un peso per lo Stato e un costo per le amministrazioni locali che devono pagare per mantenerlo: invece bisogna investire per renderlo un’opportunità e una risorsa. Mantenere attive le strutture produttive diventa un fatto importante sul piano simbolico: se passa l’idea che la mafia dà lavoro con imprese che poi falliscono quando lo Stato le confisca, andiamo incontro a una sconfitta. Certo, è impossibile pensare di poter gestire una ditta di calcestruzzi come la mafia, che impone i suoi pròdotti grazie al controllo del territorio, ma proprio per ciò conviene dare spazio agli incentivi: Iva ridotta, esenzioni fiscali e previdenziali. In questa ottica l’idea di vendere i beni per fare cassa deve essere marginale e applicata solo quando si è certi al cento per cento che essi non siano riacquistati dalla mafia; l’ideale è sempre provare a creare le condizioni per una gestione vantaggiosa dei beni, che diventi il punto di riferimento per un’alternativa nella legalità all’imprenditoria mafiosa. Oltre alla sfera imprenditoriale, oggi la metamorfosi delle mafie coinvolge sempre di più i professionisti: medici, commercialisti, avvocati, architetti, ingegneri. Nelle famiglie siciliane sono i nuovi protagonisti delle cosche; nel resto del Sud sono diventati le figure chiave nella ragnatela di rapporti che alimenta il potere dei clan, garantendo il legame con l’imprenditoria, la finanza, l’edilizia, la pubblica amministrazione, la politica. Eppure l’Italia è uno dei pochi paesi in cui queste categorie sono organizzate secondo ordini professionali, che ne tutelano e regolano l’attività. Questi ordini, che tanto spesso si chiede di abolire perché giudicati inutili, possono diventare lo strumento fondamentale nell ‘arginare l’espansione criminale? I loro organi disciplinari possono intervenire in tutte quelle situazioni di manifesta collusione, prima che si muova la magistratura e soprattutto prima che si arrivi alla sentenza definitiva. Non solo una funzione repressiva ma anche uno stimolo positivo alla rinascita di un’etica della professione. Questa potrebbe e dovrebbe essere una strada. Questi organismi, che da noi hanno una tradizione antica e un forte potere lobbistico dovrebbero occuparsi delle valutazioni etiche, anche perché quasi tutti gli ordinamenti hanno loro attribuito le funzioni disciplinari: i consigli degli ordini hanno una sorta di giurisdizione domestica per sanzionare i comportamenti disdicevoli, il che consentirebbe di intervenire in maniera preventiva, senza attendere gli esiti dei procedimenti penali. La realtà, però, è diversa. Molto spesso non solo gli ordini non intervengono, e manca così l’effetto di stigmatizzazione anche in casi clamorosi, ma tendono a prendere una posizione difensiva: svolgono una delle funzioni della corporazione - la tutela del professionista - criticando anche le indagini che riguardano loro iscritti, senza invece sanzionare situazioni in qualche caso gravi. Le sospensioni comminate dall’ordine sono delle eccezioni e ancora più rare sono le radiazioni, quasi sempre sulla scia di sentenze irrevocabili. A me è capitato di vedere avvocati indagati o addirittura arrestati per associazione camorristica che dopo un breve periodo di sospensione avevano ripreso l’attività. La stampa ha rivelato un caso paradossale: un avvocato condannato per mafia è stato radiato dall’albo di Palermo ma è riuscito a iscriversi nell’albo di un piccolo centro della Calabria. E una situazione analoga riguarda i medici e gli architetti e molti altri professionisti. La funzione che poteva essere svolta dagli ordini si è trasformata in una più o meno ampia impunità disciplinare che rischia però di minare la credibilità di tutta la categoria. Gli ordini in teoria possono avere un ruolo più ampio: selezionano con il praticantato e con l’esame gli iscritti, possono prevenire la cultura dell’illecito diffondendo modelli virtuosi. Infondo, l’orgoglio professionale dovrebbe consistere anche nella difesa dei valori etici. Questo sarebbe fondamentale anche perché gli ordini sono organismi politicamente potenti: hanno una loro soggettività con una rappresentanza nazionale capace di interloquire con il Parlamento, sono investiti di un ruolo di corpi intermedi della società, che consentirebbe loro di svolgere una funzione non solo disciplinare ma anche di promozione dei sani valori professionali. Promozione che funziona però solo se accompagnata dal rigore nelle sanzioni. L’unico esempio di categoria che negli ultimi anni si è mobilitata sul fronte della lotta antimafia, facendone un punto chiave nei programmi, è Confindustria, che l’ha testimoniata in tutte le sedi e ha promesso l’espulsione per i collusi. Ma nella pratica questo impegno degli organi nazionali sembra avere effetti limitati ad alcune province, soprattutto della Sicilia, mentre altrove e in particolare in Campania non sembra mai essersi concretizzata. La scelta della Confindustria siciliana, recepita dal vertice nazionale, ha un grande valore simbolico perché per la prima volta l’associazione degli industriali si è posta il problema di un’etica del profitto, mettendo così in condizione di espellere non solo l’imprenditore colluso ma anche quello non collaborativo, che non denuncia le estorsioni. È una svolta decisiva, perché si è compreso in modo significativo quanto l’impresa sia determinante per la crescita della criminalità organizzata. In passato l’atteggiamento tipico degli organi confindustriali era sempre stato: «Siamo solo vittime della mafia, non c’entriamo nulla». Oggi questa possibilità di sanzionare non solo la complicità ma anche la non disponibilità a collaborare è un grandissimo passo in avanti. Ovviamente fino a questo momento alle parole hanno fatto seguito ancora fatti limitati: espulsioni ce ne sono state pochissime e anzi si sono verificati episodi clamorosi di collusione. Mi riferisco, per industriali campani, chiesto l’intervento Accanto all’aspetto meccanismi virtuosi esempio, alla vicenda della presidentessa dei piccoli Olga Acanfora, che è stata arrestata con l’accusa di avere della camorra per risolvere un problema della sua impresa. simbolico, questo drammatico episodio testimonia come i fatichino a imporsi. In Sicilia e soprattutto a Palermo la mobilitazione di Confindustria sembra avere creato un atteggiamento nuovo degli imprenditori, mentre nelle altre regioni del Sud la questione non sembra essere molto sentita. Lei ha avvertito un clima diverso in Campania? Io ricordo quando sono stato invitato a commentare uno studio che Confindustria Napoli, i cui dirigenti tentano di mettere all’ordine del giorno il problema della legalità, aveva affidato alla facoltà di sociologia dell’università partenopea. Erano stati inviati questionari anonimi agli iscritti per segnalare se avessero ricevuto richieste di estorsioni e indicare come avrebbero reagito di fronte al racket. Lo studio, che venne discusso in un convegno con tutte le autorità, dal prefetto al procuratore, evidenziava due punti: malgrado i questionari fossero anonimi, aveva risposto poco meno del 10 per cento degli iscritti e di questi oltre l‘80 per cento dichiarava di non avere mai avuto richieste estorsive. Il che è in contrasto con quanto emerge dalle indagini. Ma la cosa più inquietante è che la maggior parte sosteneva che non si sarebbe rivolta all’autorità giudiziaria di fronte alle pretese del racket. Ora questa vicenda, che risale al 2007 e non a decenni fa, rende evidente quantomeno una scarsissima sensibilità. È un esempio sintomatico delle difficoltà che ha la dirigenza degli industriali, spesso mossa da ottime intenzioni, nel confrontarsi con la base, a cui invece interessa solo sfuggire alla violenza camorristica ed evitare di avere attentati. Questo disinteresse sembra avere contagiato anche la politica. A livello locale e nazionale manca qualunque controllo etico sui nomi inseriti nelle liste. Ci sono casi clamorosi di soggetti che oggi rivestono cariche di primo piano, nonostante le sentenze che, pur assolvendoli, ne avevano evidenziato la frequentazione con i mafiosi. Quello del commercialista arrivato al vertice della Regione Sicilia nonostante fosse dimostrato il suo ruolo nella gestione dei capitali della moglie di Bernardo Provenzano. O quello dei consiglieri regionali che continuavano a sostenere la maggioranza di Antonio Bassolino dagli arresti domiciliari. A destra come a sinistra, in nome della presunzione di innocenza, si è rinunciato a qualunque controllo morale ed etico anche di fronte a situazioni accertate di collusione. In questo modo, i partiti delegano alla magistratura ogni controllo ma soprattutto trasmettono un esempio negativo a tutta la cittadinanza. Voglio raccontare un episodio vissuto in prima persona. Nel 2004 partecipai a un convegno sulla camorra organizzato a Caserta in cui era relatore l’ex premier Massimo D’Alema. Il quale disse che i partiti non hanno bisogno di aspettare le indagini perché hanno il contatto con le persone e con il territorio, che permette loro di conoscere le situazioni molto prima dell’autorità giudiziaria; non è necessario attendere una sentenza di condanna per sapere che tizio ha legami ambigui con i clan. Fu un’affermazione coraggiosa e cristallina, a cui però non sempre hanno fatto seguito comportamenti concreti. Quelle parole dimostrano come i partiti, volendo, possono certamente intervenire. Che cosa è avvenuto nella pratica? È sotto gli occhi di tutti. I codici etici sono stati annacquati e raramente rispettati anche dai grandi partiti; spesso, poi, sono stati aggirati al Sud attraverso la creazione di liste civiche. Nelle elezioni comunali, per esempio, i partiti nazionali cercano più o meno di tenere fuori dalle candidature persone impresentabili - familiari di boss, persone con precedenti -, che però si trasferiscono nelle liste civiche che nei ballottaggi vengono recuperate dagli schieramenti facenti capo ai partiti: quindi formalmente si rispetta il codice etico ma nella sostanza si aprono le porte a quelle figure quantomeno opache. È accaduto anche nelle elezioni regionali in Campania dove, attraverso una lista satellite che sosteneva il governatore di centrodestra, si è presentato un soggetto condannato per associazione camorristica. Anche in Parlamento siedono molte persone candidate dopo condanne in primo grado che hanno evidenziato situazioni gravi di collusione: i partiti le hanno inserite nelle liste e i cittadini le hanno elette. Lì il problema per certi versi diviene ancora più inquietante; siccome per le elezioni politiche non ci sono preferenze e gli eletti sono di fatto designati dalle segreterie nazionali, perché non si fa veramente piazza pulita? Forse la risposta più scontata è che si fatica a rinunciare a un bacino elettorale comunque ampio. Ma c’è di più: i meccanismi di valutazione delle ineleggibilità affidati alle Camere lasciano non poco a desiderare; si pensi alla vicenda di Nicola Di Girolamo, di cui abbiamo già avuto modo di parlare, diventato senatore in un collegio estero senza mai avere vissuto lontano da Roma. C’era la prova che il senatore avesse falsificato la residenza all’estero ma l’organismo parlamentare non si è pronunciato per mesi, intervenendo solo dopo il mandato di arresto per Di Girolamo, quando le intercettazioni hanno mostrato i suoi rapporti con la ‘ndrangheta e con la banda Mokbel. In questo modo si trasmette un pessimo esempio al paese dimostrando scarso rispetto per le regole. Se il Parlamento non riesce a far applicare le norme contro la duplicazione delle cariche - con sindaci e assessori che siedono a Montecitorio o a Palazzo Madama - possiamo poi pretendere che vengano rispettate le regole deontologiche da altre categorie? Il problema degli esempi diventa fondamentale quando si esce dal Palazzo e si guarda alla società meridionale. È una questione chiave per contrastare la diffusione tra i giovani di messaggi che in qualche modo esaltano la figura del mafioso. All’atmosfera che si respira nei territori dominati dai clan, quello che Totò Riina parlando di rispetto chiama «il profumo», ora si sono aggiunti i messaggi di altri media ben più diffusi. In Campania, per esempio, si è passati dai guappi buoni della sceneggiata di Mario Merola agli eroi con il coltello dei cantanti neomelodici. Ma in tutta Italia fiction televisive e film anche di grande qualità - da Il capo dei capi a Romanzo criminale - hanno trasmesso negli spettatori più giovani o meno formati l’immagine distorta di un boss comunque vincente. Certo: il fascino criminale del bandito è sempre esistito e non solo nella cultura popolare. Ma oggi in territori sempre più moralmente degradati non sembrano esistere valori positivi che riescano ad arginarlo. Come possono le istituzioni impedire che la mafiosità diventi il modello di vita? L’unica risposta viene dalla scuola, che può fare tantissimo. Onestamente non credo che servano lezioni per insegnare la legalità, mi sembrano poco proficue: la legalità non va insegnata, va vissuta. All’interno della scuola bisognerebbe ripristinare le lezioni sulle regole civiche e usare la cultura come antidoto. Negli istituti di frontiera, quando i ragazzi vengono coinvolti nelle iniziative pomeridiane e gli viene trasmessa una cultura che non è nozionistica né libresca, si raccolgono risultati entusiasmanti. Io sono stato in una scuola della zona 167 di Secondigliano, il liceo Elsa Morante: una realtà dove studenti che avevano alle spalle famiglie disastrate si mostravano interessati davvero alle tematiche sul rispetto delle regole, e questo proprio perché la scuola era stata in grado di coinvolgerli in tante iniziative. Ho scoperto altre scuole capaci di sensibilizzare gli alunni, ma ho anche visto istituti dove regna la burocratica quiete nozionistica. I ragazzi di oggi sono smaliziati: si sono scocciati di sentire parole, il miglior modo di incidere è quello di dare esempi. Il primo esempio dovrebbe essere nelle strutture: accogliere i ragazzi in istituti puliti e moderni, non in catapecchie che testimoniano il disinteresse delle istituzioni. Nelle scuole delle periferie americane e delle banlieue francesi si è partiti da quell’immagine di efficienza. Nei quartieri di periferia ci vorrebbero poi insegnanti particolarmente preparati e motivati, messi in grado di vincere la sfida dell’educazione alla legalità. Mentre oggi la preoccupazione del governo più che formare i cittadini è quella di tagliare le spese. Anche per questo, ci sono altre organizzazioni che possono avere un ruolo nel salvare i giovani dal richiamo della criminalità? La Chiesa sicuramente; nel Sud ha ancora un gran seguito e resta un punto di riferimento, con un rispetto sociale radicato. Non sempre purtroppo si è posta su posizioni nettissime per quanto riguarda il contrasto alla mafia. Ci fu la scomunica di papa Wojtyla e la recentissima visita di Benedetto XVI a Palermo, c’è l’impegno quotidiano per i ragazzi di alcuni sacerdoti e vescovi, ma la lotta alle mafie non è ancora una priorità. E ci sono le associazioni sportive, anch’esse seguitissime proprio nelle realtà più povere dove si sogna un riscatto attraverso lo sport e il modello di successo di campioni giovani, famosi e ricchi. Potrebbero essere un grande antidoto ma, come si è visto, in qualche caso la criminalità sfrutta queste associazioni come vivaio per selezionare le reclute più promettenti o come strumento per accrescere il suo consenso. Senza un cambiamento di rotta, rapido e radicale, in molte province meridionali rischiamo di lasciare una generazione in balia delle cosche. Alcune inchieste hanno dimostrato come i clan si siano infiltrati persino nelle università. Come abbiamo visto, negli anni Novanta a Messina dopo l’omicidio di un professore si è scoperto come la facoltà di medicina, una delle più grandi del Sud, si fosse trasformata in un feudo della ‘ndrangheta reggina, che condizionava cattedre ed esami. Quanto è diffuso questo fenomeno? Si tratta di situazioni abbastanza marginali. L’influenza della criminalità sui corpi docenti e sugli atenei è limitata. Trovo esagerata l’idea di padrini che allevano i figli facendoli laureare con la pistola sotto il banco. Il problema è che, dopo l’università, questi neodottori mettono sempre più spesso le loro competenze nelle mani delle mafie o comunque vengono a patti con la zona grigia che è manifestamente collusa. L’università forse potrebbe fare altro sul piano dello sviluppo della cultura antimafia; e invece quasi nessuna delle facoltà di giurisprudenza del Sud ha, per esempio, corsi specifici sulle norme e sulle procedure di contrasto alle mafie. Ma in tutte le università, e in particolare in quelle meridionali, i giovani si trovano di fronte un sistema di potere che vede dominare clan di docenti impegnati a spartire senza ritegno le cattedre tra familiari e accoliti. La mafia non c’entra direttamente, ma in quelle aule si rischia di trasmettere una sfiducia nel merito, nella preparazione e diffondere nella futura classe dirigente un senso di smarrimento che crea le premesse alla collusione. Io voglio essere positivo e credere che i giovani meritevoli del Sud possano ancora vedere premiato il loro impegno e la loro intelligenza. Certo, la questione morale nelle università è forte e dovrebbero essere i corpi docenti a riscoprire orgoglio e autonomia nell’affrontarla: una situazione speculare a quella degli ordini professionali. Nell’immediato mi preoccupa molto più lo sbandamento che vedo tra quei giovani delle periferie più degradate, che spesso non completano nemmeno la scuola dell’obbligo e sono immersi in una cultura consumistica che in alcuni casi li manda letteralmente al massacro. Cosa Nostra sembra lontana dal consumismo: ha sempre inseguito il potere più che l’arricchimento. Provenzano viveva come un pastore, Riina non si concedeva lussi e i capi della ‘ndrangheta spesso hanno abitudini frugali: eppure dominano e hanno rispetto. Certo, i camorristi sono diversi e amano ostentare: le ville dei casalesi sono copiate dalla residenza di Scarface e il boss Giuliano si era messo in casa la celebre piscina a forma di conchiglia. Ma persino nella vulgata di Romanzo criminale il Libano vietava di sprecare il bottino per investirlo nella conquista di Roma. Il denaro però è sempre stato uno strumento per aumentare la forza e lo sfarzo un simbolo per trasmettere autorità. Tutto questo è cambiato? Sull’argomento si rischia di scadere nei luoghi comuni e dire ovvietà; è certo, però, che il consumismo aiuta la criminalità organizzata, creando una massa di ragazzi pronti a tutto. Negli omicidi di giovanissimi camorristi, mi ha sempre colpito l’abbigliamento delle vittime: venivano da famiglie poverissime, abitavano in tuguri, ma si vestivano griffati da capo a piedi. Quelle griffe erano la ragione che li aveva spinti a diventare camorristi, a uccidere e morire. Se tu accetti l’idea di essere mafioso non per ottenere potere e rispetto ma solo per riuscire a comprarti una maglia più costosa e le scarpe alla moda, per entrare nella discoteca da cinquanta euro e permetterti un tiro di cocaina, allora si è persino banalizzata la scelta di diventare criminale. Non c’è più una motivazione che non sia quella di inseguire oggetti fini a se stessi. La banalità del male è talmente forte che si diventa killer solo per un paio di jeans firmati. Il carcere, la morte, nulla riesce a spaventare i ragazzi delle zone a rischio per tenerli lontani da questa fame di consumo che li spinge a uccidere senza pensare. I clan utilizzano questa manovalanza a buon mercato come una vera e propria «carne da macello». Eppure di fronte a situazioni così gravi sembra quasi che la tendenza dominante sia quella di esorcizzare i problemi: di voltarsi dall’altra parte e non guardare la realtà. È una linea comune che unisce la politica, l’imprenditoria e riceve il sostegno dei ceti borghesi: si preferisce parlare d’altro, aggrapparsi all’immagine di un paese normale che però ignora e nasconde la degenerazione di molti territori. È un processo che trova sponde anche nei media, in un giornalismo che ha perso credibilità e troppo spesso rinuncia all’inchiesta e alla denuncia. Se non si prende atto della situazione, se manca la diagnosi, come si può tentare una terapia? Soprattutto quando c’è di mezzo la criminalità organizzata, l’atteggiamento è sempre più quello di esorcizzare la realtà chiudendo gli occhi sui problemi. La prima reazione, anche di fronte a fatti gravissimi, è quella di dire «ma le mafie non c’entrano». È accaduto persino nel settembre 2010 dopo l’uccisione del sindaco di Pollica, Angelo Vassallo. Potrebbe non essere stato un omicidio di mafia, ma è stato incredibile notare quanto fosse diffusa questa sorta di riflesso condizionato, che porta subito a sostenere che non si sa cosa sia successo ma è certo che la camorra non ha avuto alcun ruolo. Se si verifica un omicidio nella provincia di Napoli, Palermo o Caserta è scontato pensare alla matrice mafiosa; quando accade a Brescia, Milano o nelle zone più tranquille del Sud il primo istinto, quindi, è fare muro e dichiarare «la mafia non c’entra». Invece non bisogna avere paura di guardare in faccia i problemi. L’idea di dover nascondere dietro una cartolina la realtà è quello che è avvenuto in Campania, dove per molti anni si è esorcizzata la presenza della camorra per non danneggiare l’immagine della regione. Questo ha causato una sottovalutazione del fenomeno che ha impedito di affrontarlo. Nel 2005, prima che irrompesse Gomorra di Roberto Saviano e quando Napoli ancora si cullava nell’illusione del rinascimento bassoliniano, che aveva dato sicuramente una speranza senza però riuscire a risolvere problemi secolari, sembrava che l’unico problema in città fossero i delinquentelli che il sabato sera migravano dalle periferie. Invece, a pochi chilometri da Posillipo, la faida feroce di Secondigliano scaturiva da una rete di investimenti internazionali e i casalesi nel silenzio avevano cementato un impero economico. La rimozione del problema per quanto riguarda Napoli è stata opera di parte consistente della classe dirigente, non solo politica, ma anche professionale e imprenditoriale. La borghesia ricca e colta, che vive nelle zone bene di Napoli, continua a credere che il male sia confinato a Secondigliano e nei quartieri degradati. Non di rado si limita a sostenere che «fare pubblicità a certi fenomeni significa amplificarli». Non c’è spesso nemmeno l’interesse a capire. Nei dibattiti affollati di professionisti e docenti, esponenti di una borghesia che crede nel valore della cultura, capita che si discuta pochissimo di camorra, mentre c’è attenzione su temi di politica giudiziaria come le intercettazioni e la riforma della giustizia. È come se per alcuni soggetti quello che accade fuori dal loro perimetro di benessere non avesse rilevanza: se i problemi sono lontani non esistono. Pezzi della borghesia che fingono che la camorra sia altrove non hanno poi alcuna remora a fare affari con i boss nella loro attività professionale. Quando, nell’autunno 2005, «L’espresso» con la copertina Napoli addio denunciò la fine del sogno bassoliniano e anticipò l’ondata di malaffare esplosa subito dopo con la crisi dei rifiuti e la mattanza dei killer casalesi, la reazione della città fu compatta. Dal sindaco al governatore, dai professori agli industriali, tutti rifiutarono di prendere atto di quello che stava accadendo davanti ai loro occhi, fino al gesto del cantante Gigi D’Alessio che strappò la copertina davanti alle telecamere. È lo stesso muro di disprezzo e rimozione che a Napoli unì ceti alti e popolari nel rifiutare Gomorra. Ed è la stessa borghesia che in quegli anni ha negato il problema e che ancora oggi ritiene che il romanzo di Saviano sia stato in fondo la causa di una pubblicità negativa per la Campania. Ma tra quelle persone convinte della loro visione a dir poco ottimistica ci sono anche i commercialisti, gli avvocati e gli architetti che nelle indagini poi vengono intercettati mentre lavorano con le società dei boss o addirittura chiedono il loro intervento per risolvere problemi quotidiani. Adesso invece c’è un fenomeno agli antipodi, che paradossalmente porta allo stesso risultato: si mette sulla scrivania Gomorra e si ostenta il libro per mostrare un impegno antimafia che non esiste. Gomorra ha avuto l’eccezionale merito di aprire gli occhi a tanta gente e, rispetto a prima, è cambiata anche grazie a esso la consapevolezza della gravità del fenomeno criminale. Eppure in alcuni ambienti quel libro è stato utilizzato in modo furbo e tartufesco: fingere di adottare Saviano, manifestare stima pubblica nelle interviste per sbandierare una patente antimafia; singolare, al proposito, la vicenda del calciatore Marco Boriello, fra l’altro figlio di un personaggio dei quartieri poveri ammazzato per una vicenda di usura e camorra, che in modo assolutamente spontaneo dice cosa pensa su Saviano e dà voce a un sentimento molto diffuso, poi si rende conto che questa posizione non paga, che è politically incorrect e imbastisce una vergognosa retromarcia, ma si capisce che non ne è convinto. E questo è l’atteggiamento di gran parte della società napoletana, la quale, pur sotto sotto continuando a ritenere che questo romanzo sia un disastro per la Campania, formalmente lo ha adottato e in qualche modo così simula una mobilitazione anticamorra. E sintomatico che molti politici adesso per dimostrare di voler combattere la camorra, la prima cosa che dicono è «Io stimo Saviano». Io penso che non serve a nulla stimare Saviano: in Campania c’è bisogno di fare qualcosa di concreto. È la versione moderna del famoso «Facimme ammuina» baldoria per occultare l’assenza di concretezza. borbonico: una gran Quello che sta accadendo con Saviano è un meccanismo tipico della società meridionale, e di quella campana in particolare, di individuare una serie di figure a cui delegare la soluzione dei problemi: «Vabbuò tanto c’è Saviano…», come se uno scrittore da solo potesse sconfiggere la camorra. È un paradosso che diventa l’alibi per mettersi la coscienza a posto: «Tanto c’è lui che se ne occupa». Questa delega, che di fatto si trasforma in una nuova rimozione della presenza criminale, è specchio dell’incapacità della borghesia campana e più in generale meridionale di guidare la riscossa della legalità: si aspetta che qualcun altro risolva i problemi. Che intanto continuano a diventare più profondi. È uno dei freni storici allo sviluppo del Sud: l’assenza di quella borghesia illuminata che nel resto d’Italia e d’Europa ha fatto da traino allo sviluppo. Questa tradizione, che nasceva in contrasto con il latifondismo della nobiltà, nel Meridione non c’è stata: come insegna il Gattopardo, quella borghesia è nata tentando di imitare le peggiori logiche di una aristocrazia terriera basata sulla rendita. Ancora oggi l’assenza di iniziative imprenditoriali di livello internazionale lo testimonia, ed è anche uno degli elementi che hanno concesso tanto spazio all’infiltrazione della camorra nell’economia. Da un decennio in tutta Italia la borghesia è in crisi e sta perdendo la sua identità di ceto con un ruolo sociale ben definito. Questo fenomeno di disgregazione può aprire maggiore spazio di manovra alla metamorfosi borghese delle mafie? Scomparendo la consapevolezza della borghesia come classe viene anche meno la funzione di argine alla criminalità, che in qualche modo derivava dalla stigmatizzazione sociale di chi era colluso. Un imprenditore mafioso al Nord veniva respinto, ma neanche al Sud veniva accettato in certi ambienti che non tolleravano il legame con le cosche. Adesso il muro sembra crollato. Ma questa è un’analisi che spetta ai sociologi, io sono solo un magistrato e provo a capire le cause dei fenomeni che vanno contrastati. E sono un cittadino che vive in Campania: amo la mia terra e non posso accettare l’idea che ci si possa arrendere ai clan. Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Questo volume è stato stampato presso Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa Mondadori - Cles (TN). Stampato in Italia - Printed in Italy. ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO. GRAPHIC DESIGNER: ANDREA GEREMIA.