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RASSEGNA STAMPA mercoledì 28 maggio 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da ilSole24 ore.com del 27/05/14 Giochi: campagna contro l'azzardo si diffonde in Comuni e Regioni Primo incontro ieri del Comitato promotore della campagna nazionale sui rischi del gioco d'azzardo "Mettiamoci in gioco" con i rappresentanti dei Coordinamenti regionali che si stanno costituendo in tutta Italia. Ospitati presso la sede nazionale della Uil a Roma, i promotori si sono confrontati con coloro che stanno promuovendo la campagna in Lombardia, Liguria, Friuli, Toscana, Emilia Romagna, Lazio, Puglia, Sicilia. Un'occasione per conoscersi, prima di tutto, ma anche per condividere obiettivi e azioni future. "È stato un momento importante per la nostra campagna", dichiara don Armando Zappolini, portavoce di "Mettiamoci in gioco". "La sensibilità sul tema sta crescendo in tutto il paese. Le iniziative si moltiplicano e così i provvedimenti di Parlamento, Regioni ed Enti locali. Ma tutto questo movimento ha bisogno di luoghi di catalizzazione, di messa in comune, di coordinamento. La campagna vuole essere uno di questi luoghi, aperto a tutti coloro che condividono la nostra impostazione. Vogliamo essere sempre più presenti sulla scena nazionale e nelle città. Per questo a breve, oltre a continuare l'azione di lobbying civica con le Istituzioni, lanceremo una grande campagna di comunicazione. C'è molto entusiasmo e lo si vedrà nei prossimi mesi." La campagna è promossa da Acli, Ada, Adoc, Adusbef, Alea, Anci, Anteas, Arci, Associazione Orthos, Auser, Aupi, Avviso Pubblico, Azione Cattolica Italiana, Cgil, Cisl, Cnca, Conagga, Ctg, Federconsumatori, FeDerSerD, Fict, Fitel, Fondazione Pime, Fp Cgil, Gruppo Abele, InterCear, Ital Uil, Lega Consumatori, Libera, Scuola delle Buone Pratiche/Legautonomie-Terre di mezzo, Shaker-pensieri senza dimora, Uil, Uil Pensionati, Uisp. http://www.entilocali.ilsole24ore.com/art/welfare-e-anagrafe/2014-05-27/giochi-campagnacontro-azzardo-164408.php?uuid=AbyLZBoJ Da Asca del 27/05/14 Gioco: Campagna 'Mettiamoci in gioco' si diffonde sul territorio (ASCA) - Roma, 27 mag 2014 - Primo incontro, oggi, del Comitato promotore della campagna nazionale sui rischi del gioco d'azzardo ''Mettiamoci in gioco'' con i rappresentanti dei Coordinamenti regionali che si stanno costituendo in tutta Italia. Ospitati presso la sede nazionale della Uil a Roma, i promotori si sono confrontati con coloro che stanno promuovendo la campagna in Lombardia, Liguria, Friuli, Toscana, Emilia Romagna, Lazio, Puglia, Sicilia. Un'occasione per conoscersi, prima di tutto, ma anche per condividere obiettivi e azioni future. ''E' stato un momento importante per la nostra campagna'', dichiara don Armando Zappolini, portavoce di ''Mettiamoci in gioco''. ''La sensibilita' sul tema sta crescendo in tutto il paese. Le iniziative si moltiplicano e cosi' i provvedimenti di Parlamento, Regioni ed Enti locali. Ma tutto questo movimento ha bisogno di luoghi di catalizzazione, di messa in comune, di coordinamento. La campagna 2 vuole essere uno di questi luoghi, aperto a tutti coloro che condividono la nostra impostazione. Vogliamo essere sempre piu' presenti sulla scena nazionale e nelle citta'. Per questo a breve, oltre a continuare l'azione di lobbying civica con le Istituzioni, lanceremo una grande campagna di comunicazione. C'e' molto entusiasmo e lo si vedra' nei prossimi mesi.'' La campagna e' promossa da diverse realta' del volontariato, sia cattolico che laico, e ne fanno parte realta' quali le Acli, l'Arci, l'Azione Cattolica Italiana, Cgil, Cisl, Cnca, Conagga, Ctg, Federconsumatori, Cgil, Uil e Libera. gc/ http://www.asca.it/newsGioco__Campagna__Mettiamoci_in_gioco__si_diffonde_sul_territorio-1391501-ATT.html Da RollingStone del 27/05/14 Carroponte, il calendario dell’edizione 2014 Nell'ex Breda di Sesto San Giovanni concerti e non solo fino a partire dal 29 maggio: con Bombino, C.S.I., Massimo Volume, Nofx, Emis Killa, Warpaint... Forte delle oltre 250.000 presenze registrate nel 2013 arriva la quinta e attesissima stagione di Carroponte, l’area archeologica industriale ex Breda in cui dal 2010 Arci Milano organizza la manifestazione e cura il progetto in collaborazione con il Comune di Sesto San Giovanni. Un’estate senza fine è lo slogan scelto per l’edizione 2014: non solo a ricordare un programma fittissimo di appuntamenti di oltre 100 giorni su ben tre palchi, ma anche a ricordare il sogno di un progetto che guardi al futuro e si affermi sul territorio senza soluzione di continuità. L’ estate di Carroponte quest’anno comincia il 29 maggio per proseguire fino a metà settembre: grandi concerti di musica italiana e internazionale, incursioni teatrali, performance artistiche, dibattiti, incontri, laboratori per bambine e bambini inseriti nella ormai consueta cornice,cui fanno da corollario e restano accessibili anche durante gli eventi a pagamento,l’area ristorazione, l’area lounge con il suo “Palco della Luna” ed una tensostruttura dove quest’anno verranno proiettate le partite dei campionati mondiali di calcio, trasmesse in diretta da Radio Popolare proprio al Carroponte. Il cartellone 2014 si conferma per il suo spessore culturale e la vocazione marcatamente internazionale: dal re del desert-blues Bombino (3 giugno) al padre dell’ethio – jazz Mulatu Astatke (7 giugno), dal gypsy punk dei Gogol Bordello (21 giugno) al grande soul di Myron & E (27 giugno), passando per il cantautorato d’altissima classe di Oren Lavie (25 giugno) e William Fitzsimmons (23 luglio), l’ensemble americano della New York Ska Jazz Ensemble(7 luglio), il gran cerimoniere del Balkan Party Goran Bregovic (16 luglio), il grande blues di Jonny Lang (14 luglio), il bluegrass di fama mondiale di John Butler (15luglio), il collettivo reggae degli Easy Star All Stars (27 luglio), fino alla leggenda del punk californiano che ha nome Nofx (3 agosto). Di altissima caratura anche i nomi degli artisti di casa nostra: si va da Loredana Berte’ che celebrerà 40 anni digrandi successi inaugurando la stagione del Carroponte (29 maggio) all’indie rock d’autore degli Estra (11 giugno), Massimo Volume (24 giugno) e Calibro 35 (26 giugno), alla reunion degli storici C.S.I.,senza Giovanni Lindo Ferretti (24 luglio); dalla nuova leva dei cantautori, tra cui spiccano Erica Mou (1 luglio), Levante (3 luglio), Dente (26 luglio) a chi ha ben più di un decennio di carriera alle spalle come Cesare Basile (1 giugno) e Paola Turci (22 luglio). Il 6 luglio ci saranno i Perturbazione, mentre il 18 luglio toccherà alla Bandabardo’, e il 19 luglio ai Sud Sound System. Grandi nomi in arrivo 3 anche a settembre: già annunciati i concerti degli Afterhours (06 settembre) e del fenomeno rap Emis Killa (11 settembre). Eterogenea, multidisciplinare e perlopiù gratuita come sempre la proposta complessiva: non mancheranno quest’anno le sonorizzazioni di pellicole di cinema muto(Milano Silent è il nome della rassegna organizzata quest’anno in collaborazione con la musicista e compositrice Rossella Spinosa), spettacoli di Fado e musica messicana(rispettivamente 13 e 16 giugno), Cabaret all’ora di cena (Guido Catalano, il 28 giugno alle h 20.00), il grande Jazz(Jazz & The City è il nome della rassegna di musica jazz: inaugurazione il 29 giugno con Gaetano Liguori Trio), performance pomeridiane di balli tradizionali e giocoleria (6 luglio). Da segnalare anche il “festival nel festival”, il Lost Weekend ospitato all’interno di Carroponte: quest’anno ci saranno le Warpaint il 29 agosto, e I Cani il 30 (l’abbonamento per le due serate costa 25 euro più diritti di prevendita). Più informazioni sono sul sito di DNA Concerti. E poi le “feste”. Perché Carroponte non è solo arena estiva, ma anche luogo di incontri e dibattiti in cui ci si confronta sui temi che attraversano la città e il nostro tempo. Comincia Emergency–Coordinamento Alto Milanese, che festeggia 20 anni di attività il 10 giugno (con i già citati Estra in concerto), prosegue la FIOM con “FIOM in festa 2014” il 13 giugno (99 Posse in concerto) per arrivare al 30 giugno quando inizia “Arci in festa”,la festa di Arci Milano e dei suoi circoli, in programma fino al 06 luglio; infine la festa nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà dal 24 luglio al 4 agosto. http://www.rollingstonemagazine.it/musica/news-musica/carroponte-il-calendariodelledizione-2014/ 4 ESTERI del 28/05/14, pag. 4 Bruxelles, prove tecniche di larghe intese Anna Maria Merlo PARIGI Consiglio Ue. Le prime scelte dopo il voto Una cena tra capi di stato e di governo, dopo lo choc del voto del 25 maggio, per gettare le basi del «compromesso» a 28, che possa venire accettato dai diversi gruppi politici dell’Europarlamento: l’obiettivo è distribuire la carte per le varie nomine alla testa delle istituzioni europee. A cominciare da quella del presidente della Commissione, che secondo i Trattati dovrebbe tener conto del risultato delle elezioni. A decidere sul nome che dovrà poi essere approvato a maggioranza dal nuovo parlamento, attorno al tavolo della cena del Consiglio informale di ieri c’erano, tra i leader dei 28, 11 democristiani, 12 socialisti e 4 liberali. Sulla carta, a Strasburgo il Ppe ha il maggior numero di deputati, una ventina di più del Pse, ma ne ha persi 50 rispetto alla precedente legislatura. Jean-Claude Juncker è il candidato de Ppe, sostenuto pero’ senza troppo entusiasmo da Angela Merkel. Paradossalmente, il lussemburghese Juncker, che è stato primo ministro di uno dei paradisi fiscali europei, avrà tra i principali sostenitori il debolissimo socialista François Hollande. Perché? Hollande vede di cattivo occhio le manovre di Merkel, che non è entusiasta dell’automatismo della scelta del nome e a Washington ha preso contatti con la francese Christine Lagarde, direttrice generale dell’Fmi ed ex ministra della finanze di Sarkozy. «Un non senso per la Francia e per l’Europa» dicono all’Eliseo. La strada di Juncker è in salita: non solo Merkel è tiepida e l’appoggio di Hollande ambiguo e, forse, persino controproducente, ma alcuni conservatori, dallo spagnolo Mariano Rajoy al britannico David Cameron, lo vedono di cattivo occhio: lo considerano «troppo federalista». Per questo, Martin Schulz, candidato del Pse, non sembra aver perso le speranze. C’è stato un accordo preventivo tra le principali forze – popolari, socialisti e liberali – per rispettare l’art.17 del Trattato di Lisbona e arrivare a un compromesso: si elegge chi arriva in testa, ma si negozia su alcune concessioni per ottenere il voto. Ma Schulz adesso sogna di costruire una maggioranza alternativa, tra Pse, Verdi e Gue. Un’ipotesi teorica, che nell’immediato serve soprattutto ad alzare il prezzo del compromesso per portare Juncker nella poltrona di Barroso e per ottenere un buon altro posto (Alto rappresentante della politica estera? Successione di Herman Van Rompuy alla presidenza del Consiglio Ue?). In ogni caso, l’Europa funziona con le larghe intese, nel bene e nel male. Il Pse chiederà un impegno contro la disoccupazione giovanile e per un embrione di politica industriale in Europa, maggiore prudenza nel negoziato con gli Usa per i trattato di libero scambio (Ttip), e un’azione a favore della regolazione della finanza. Quest’ultimo, un risultato difficile con un lussemburghese a Bruxelles. L’asse franco-tedesco ha preso un colpo, con il voto in Francia e l’exploit di Marine Le Pen. Così, sulla carta sarà Matteo Renzi ad avere maggiore voce in capitolo per cercare di convincere la cancelliera che è ora di cambiare rotta in Europa. 5 Del 28/05/2014, pag. 4 Primo “incarico” al candidato del partito più votato Il Pse spera che al secondo giro tocchi a Schulz Commissione europea il Ppe lancia Juncker gli euroscettici frenano ANDREA BONANNI BRUXELLES . Popolari, socialisti, liberali, verdi ed estrema sinistra ieri hanno dato mandato al candidato del Ppe, Jean-Claude Juncker, di cercare di formare una maggioranza politica nel nuovo Parlamento che possa sostenerlo come presidente della Commissione europea. La decisione è stata presa nella riunione dei capi dei gruppi parlamentari. Insieme, i cinque partiti controllano oltre 570 seggi dei 751 del nuovo Parlamento europeo, e dunque lanciano un messaggio molto chiaro ai capi di governo, cui spetterebbe il compito di nominare il presidente della Commissione. La scelta di Juncker come primo «incaricato» è coerente con gli impegni presi dai cinque partiti prima del voto, essendo il Ppe uscito dalle elezioni come prima forza del Parlamento. Ma la partita delle nomine è solo all’inizio. Ieri sera a Bruxelles si sono ritrovati i 28 capi di governo dell’Ue per valutare i risultati delle elezioni e discutere della designazione dei vertici europei. E subito le divisioni tra le varie capitali sono apparse evidenti. I capi di governo aderenti al Ppe, con la vistosa eccezione dell’estremista ungherese Viktor Orban, sono subito apparsi favorevoli ad un mandato esplorativo per Juncker. «Il nostro candidato era Juncker, la Spagna manterrà i propri impegni» ha spiegato il premier spagnolo Mariano Rajoy. Sullo stesso tono le dichiarazione dell’irlandese e del finlandese. Anche la Merkel, che pure inizialmente era contraria alla «parlamentarizzazione » della Commissione, sembra aver ormai accettato il principio: «Siamo contenti che il Ppe abbia vinto le elezioni europee. Juncker è il nostro candidato di punta per la presidenza della Commissione europea» Ma i leader più euroscettici, capitanati dal premier britannico, sono contrarissimi a farsi imporre la nomina dal Parlamento europeo. «Nessun automatismo », hanno detto all’unisono Cameron, l’ungherese Orban, lo svedese Reinfeldt e l’olandese Rutte. I quattro, oltre a ritenere inaccettabile il principio, che evidentemente intacca le sovranità nazionali, sono anche contrari alla persona di Juncker, considerato troppo europeista e troppo federalista. E dunque insistono sul fatto che prima occorra discutere «quale Europa» si voglia, e solo in un secondo momento prendere in considerazione i nomi. «Questa Europa è diventata troppo grande, troppo autoritaria e troppo invasiva», ha dichiarato Cameron, che ormai è condannato ad inseguire gli eurofobi dello Ukip nella loro fuga da Bruxelles. Ma i britannici e gli altri euroscettici, questa volta, non avranno a disposizione il diritto di veto. La nomina del presidente della Commissione infatti, in base ai nuovi Trattati, si decide a maggioranza qualificata. E dovrà comunque avere il voto di fiducia del Parlamento europeo. Per ragioni opposte, anche i due principali leader socialisti, Matteo Renzi e Francois Hollande, sono favorevoli ad anteporre la discussione sui contenuti a quella sui nomi. Da una parte infatti sperano di riaprire il dibattito sull’austerità di impronta tedesca. «L’Europa deve capire che cosa è successo in Francia nelle elezioni europee perché non è un problema solo francese. Sono europeo e voglio che l’Europa cambi», ha detto Hollande. Dall’altra cercano evidentemente di mantenere aperta la porta per il candidato socialista alla presidenza della Commissione: il tedesco Martin Schulz. Come sempre, è stata la cancelliera Merkel a indicare la strada del possibile compromesso. «Anche se noi sosteniamo Juncker, si tratta di trovare un’ampia maggioranza e sappiamo che nessun gruppo da solo ha la 6 maggioranza in Parlamento. Per cui daremo al presidente del Consiglio europeo Van Rompuy il compito di condurre consultazioni con il Parlamento europeo». Del 28/05/2014, pag. 1-32 L’ANALISI Parigi, lo spettro della decadenza MARC LAZAR LO SPETTACOLARE successo del Fn di Marine le Pen, divenuto il primo partito con quasi il 25%, ha sbalordito l’Ue. Secondo alcuni osservatori la Francia è ormai il nuovo malato d’Europa, colpito da una sindrome di declino storico. ED è proprio questa sensazione di decadenza, largamente diffusa, a far progredire un partito come il Front national, che ne attribuisce la responsabilità all’Europa, ai partiti di governo e agli immigrati, facendo appello a una riscossa nazionale — che di fatto ha però il significato di un ripiegamento nazionale. Non è la prima volta che la Francia attraversa una fase delicata. Per limitarci al XX secolo, nel periodo tra le due guerre è stata scossa dalle conseguenze economiche e sociali della Grande Depressione e da una profonda crisi di rappresentanza politica, caratterizzata dall’instabilità dei governi, dal dilagare della corruzione, dalla paralisi parlamentare, dalla mancanza di coraggio di gran parte delle élite e dalle lacerazioni della società francese. Nel maggio-giugno 1940 la sconfitta subita ad opera delle truppe naziste fu un trauma e un’umiliazione spaventosa, che lasciò un segno durevole negli animi, anche se cinque anni dopo la Francia si ritrovò a fianco dei vincitori. La IV Repubblica, nata nel 1946, assicurò la ricostruzione e quindi lo sviluppo economico, lanciando un processo di modernizzazione della società, e partecipò alla costruzione europea. Ma a partire dal 1954 fu corrosa dal cancro della guerra d’Algeria. I francesi si indignavano allora per le ricorrenti crisi di governo e per la mediocrità — tranne qualche rara eccezione — del personale politico. Perciò nel 1958 il generale de Gaulle apparve come un salvatore, e la V Repubblica fu plebiscitata. Ai nostri giorni la Francia soffre sia sul piano economico che su quello sociale. Il deficit pubblico è del 4,3% del Pil, il debito pubblico del 93,5%. La competitività delle imprese sta crollando, l’attrattività del Paese è in calo. Nel 2013 gli investimenti esteri diretti sono precipitati in Francia del 77%, mentre nell’insieme dell’Unione europea hanno fatto registrare un aumento del 37,7%. Parigi, che nel 2012 era classificata come la quarta città più attraente del mondo, quest’anno è retrocessa al sesto posto. L’uso del francese regredisce nel mondo, e l’influenza intellettuale e culturale della Francia si è appannata. Il tasso di disoccupazione ha superato il 10%, mentre crescono le disuguaglianze sociali, generazionali, territoriali e di genere, così come quelle tra francesi e immigrati. Il modello di integrazione degli immigrati traballa, provocando tensioni e ripiegamenti comunitari. La convivenza, il « vivre ensemble » francese appare in via di disgregazione. Rimasta senza bussola e senza un progetto, la Francia non è più il grande Stato-nazione che è stata, e fatica a ridefinire il suo posto in Europa. Ciò contribuisce, insieme ad altri fattori, ad alimentare la contestazione della costruzione europea. Oggi però, a differenza degli anni Trenta o del periodo della IV Repubblica, le istituzioni politiche non vengono messe in discussione, se non da alcune voci isolate che postulano una VI Repubblica. Quello che non funziona più è il sistema dei partiti. Le due grandi formazioni, il Partito Socialista e l’Ump (Union pour un mouvement populaire) di centro-destra, sono profondamente destabilizzati. L’insuccesso dei socialisti al governo non va automaticamente a vantaggio dell’Ump, scosso da episodi di corruzione, incerto sulla 7 strategia da adottare e diviso sulla scelta del suo candidato alle presidenziali del 2017. Le elezioni europee stanno forse facendo emergere una novità: il passaggio a un sistema di tripartitismo squilibrato, a vantaggio della destra e dell’estrema destra. Quanto ai responsabili politici, hanno perduto gran parte della loro legittimazione e credibilità. La Francia allora è condannata al tracollo? Le sue risorse sono innegabili. È la seconda potenza economica dell’Unione europea, possiede grandi gruppi industriali e di servizi competitivi, sviluppa settori di alta tecnologia, dispone di manodopera qualificata ad alto tasso di produttività, vanta prestigiosi istituti universitari e di ricerca, è demograficamente dinamica, può contare su infrastrutture di qualità e su un’amministrazione ancora efficiente, nonostante alcune disfunzioni. Infine, grazie al suo ricco patrimonio artistico e storico, è la prima destinazione turistica mondiale. La responsabilità di valorizzare al meglio queste risorse spetta storicamente alle élite dirigenti del Paese, che devono rinnovarsi profondamente. Nell’interesse della Francia, ma anche di tutta l’Europa. ( Traduzione di Elisabetta Horvat) del 28/05/14, pag. 7 Le Pen e il grimaldello del referendum sulla Ue LA LEADER DEL FRONT NATIONAL ALZA LA POSTA CONTRO HOLLANDE: CONSULTAZIONE POPOLARE PER USCIRE DALL’UNIONE. ANCHE IL CENTRODESTRA IN DIFFICOLTÀ: SI DIMETTE IL SEGRETARIO DELL’UMP COPÉ di Giampiero Gramaglia L’Unione europea, che s’è presa un febbrone da cavallo da euro- scetticismo, è ora scossa da brividi da referendum: una parola che evoca incubi del passato e suona foriera di disastri futuri; una specie di tabù che, oggi, dopo le elezioni europee di domenica scorsa, infrangono in tanti. Marine Le Pen, leader del Front National, uscito dal voto in Francia come primo partito, dice che, se diventerà presidente, organizzerà “un referendum per chiedere ai francesi se vogliono uscire dall'Ue”. LA LE PEN, CHE FINORA ce l’aveva essenzialmente con l’euro, alza la posta. L’eventualità (che Marine diventi presidente e convochi il referendum) è remota, perché i francesi, di fronte a un’eventualità del genere, farebbero appello a quello che loro chiamano “lo spirito repubblicano” e voterebbero tutti compatti –moderati e progressisti contro. È già accaduto nel 2002, quando il socialista Jospin si suicidò politicamente al primo turno delle elezioni presidenziali e regalò il ballottaggio al padre di Marine, JeanMarie Le Pen: nel testa a testa, Chirac ebbe l’82% dei voti, Le Pen meno di quelli che aveva avuto al primo turno. Oggi però è un po’ diverso: Marine è quasi sola sulla scena politica francese: il presidente Hollande ha portato i socialisti al loro minimo storico; e i gollisti sono lacerati dalle dimissioni del loro leader Copé, per una vicenda di false fatture. Da Juppé a Chirac, da Sarkozy a Copé, il partito della destra non è nuovo a scandali giudiziari. Ma, questa volta, s’intrecciano disorientamento politico, regolamenti di conti personali e contestazioni giudiziarie. I referendum, in questa Unione che cerca di raccapezzarsi, dopo l’uragano elettorale, appaiono come la medicina di tutti i mali. In 8 Austria, gli euro-scettici ne chiedono uno sull’euro. In Gran Bretagna, il premier conservatore Cameron lo prevedeva per il 2017 – dopo le politiche -, ma potrebbe anticiparlo, per rispondere alla bufera Ukip, il movimento anti- Ue vincitore delle europee, che, intanto, lancia l’operazione ‘Brexit’ per l’uscita dall’Unione. I laburisti, invece, vedono “il futuro della Gran Bretagna dentro l’Ue, non fuori” e giudicano il referendum “non una priorità”. In Italia, ci sono le iniziative della Lega. E l’obiezione che i trattati internazionali non sono materia di referendum ha un valore più giuridico che politico: difficile ignorare un no popolare, quale che sia la Costituzione. Poi, ci sono, i referendum indipendentisti in Scozia – già fissato per il 18 settembre - e in Catalogna: sono problemi nazionali, per Gran Bretagna e Spagna, ma possono diventare un rompicapo europeo perché Scozia e Catalogna, se divenissero indipendenti, dovrebbero poi rinegoziare l’adesione all’Unione. I referendum fanno spesso male all’Europa. Per due volte, la Norvegia negoziò la propria adesione e, per due volte, un referendum rese quei negoziati carta straccia, nel ‘72 e nel ‘94; e un referendum, nel 1985, decise l’uscita della Groenlandia dall’allora Cee –caso finora unico di ‘recessione’-. Il Trattato di Maastricht, che, agli inizi degli Anni 90, segnò la nascita dell’Unione e il rilancio dell’integrazione, fu bocciato da un referendum in Danimarca nel 1992 – modificato, venne poi approvato - allo stesso modo, vennero superati i no popolari irlandesi ai Trattati di Nizza nel 2001 e di Lisbona nel 2008. Sempre, l’intoppo del referendum ritardò l’entrata in vigore degli accordi. Letali al progetto di Costituzione europea furono, invece, il 29 maggio e il 1° giugno 2005, i no popolari di Francia e Olanda: il documento finì in un cassetto senza più uscirne. Di quello shock, è frutto il Trattato di Lisbona, in vigore dal 1° novembre 2009. Del 28/05/2014, pag. 8 Miliband strizza l’occhio all’Ukip, Blair: è un errore L’ex premier critica il leader laburista: «Sbagliato inseguire Farage su politiche anti-Ue e immigrazione» «Se il Labour si mette a inseguire l’Ukip (Partito per l’indipendenza del Regno Unito) sulla via anti-europea, o peggio ancora, sulla linea anti-immigrazione, riuscirà solo a confondere i suoi sostenitori senza allargare la sua base di consenso». All’indomani della vittoria elettorale degli eurofobici guidati da Nigel Farage, l’ex-premier Tony Blair esorta il suo partito a non lasciarsi frenare dall'incertezza sulle scelte da compiere per impedire all’Ukip di avanzare ancora. Blair vede i compagni timorosi di affermare con forza idee, valori e progetti della sinistra democratica di fronte alla marea montante del pregiudizio sociale e del nazionalismo isolazionista.E lancia un monito sferzante, con il piglio oratorio e la chiarezza concettuale che a suo tempo conquistarono i connazionali, e garantirono al Labour tredici anni di governo e al Paese riforme e crescita economica, prima che l’avventura militare irachena al seguito di Bush non ne offuscasse fama e meriti. CAMPAGNA ELETTORALE «Io resterei saldamente fermo sulla posizione che a suo tempo prendemmo sia sull’immigrazione che sull’Europa - dice Blair alla Bbc-. Vinsi le elezioni nel 2005 contrastando la campagna anti- immigrazione dei Conservatori. Ho sempre detto che naturalmente il fenomeno va adeguatamente controllato, e bisogna affrontare quella parte della comunità di immigrati che respingono l'integrazione. Ma cedere al sentimento ostile nei confronti degli immigrati è un grosso errore per il Paese». Senza nominare il segretario EdMiliband, è ovvio che il richiamo di Blair è diretto 9 principalmente a lui, viste certe sue concessioni agli argomenti della destra, durante la campagna elettorale, quando si è più volte scusato per l’approccio troppo morbido avuto in passato dal Labour sul problema dell'immigrazione. In visita a Thurrock, uno dei comuni che l’Ukip ha appena strappato alla guida laburista, Miliband ha rivendicato il merito di avere posto sul tappeto le stesse questioni che Farage è stato più bravo di lui a sfruttare elettoralmente. «Alcune persone che hanno votato Ukip provengono da quella parte di società che lavora duro per arrivare alla fine del mese. Sono persone che si sentono lasciate indietro dalle trasformazioni in corso nel Paese. Persone che un tempo avrebbero votato Labour sino alla morte. Figli e nipoti di laburisti». Formule vaghe per accogliere il punto di vista degli avversari senza condividerne le scelte fino in fondo, ma senza avanzare proposte alternative convincenti. Per Blair questo è un atteggiamento suicida, come dimostra il crollo dei Tory che con molta più determinazione del Labour hanno tentato di fare concorrenza all’Ukip su certe tematiche. Blair esorta la sinistra britannica a dire al Paese parole chiare. L’immigrazione è una risorsa, l’Europa un vantaggio. «Atteggiamenti miopi, contro l’immigrazione e l’Europa, del tipo “fermate il mondo voglio scendere”, non ci daranno prosperità, potere, influenza nel mondo. Se un Paese come la Gran Bretagna vuole esercitare il suo peso, la sua influenza e il suo potere nel mondo, deve farlo in un sistema di alleanze, e per noi l’alleanza più ovvia è quella che troviamo sulla porta di casa, con la più grande unione politica e il più grande mercato esistente al mondo, vale a dire la Ue». Blair si smarca anche dalla generale indulgenza assolutoria di cui sembra godere la xenofobia di Nigel Farage nell’ora del trionfo. «Gratta sotto la facciata dell'Ukip e troverai qualcosa che a mio giudizio è piuttosto cattivo e spiacevole». del 28/05/14, pag. 5 La vittoria di Orbán rafforza il Ppe Secondi i neonazisti di Jobbik Massimo Congiu BUDAPEST Il Fidesz-Kdnp commenta con toni entusiastici la vittoria alle europee ottenuta con oltre il 50% dei voti. Secondo il primo ministro Viktor Orbán lo «straordinario» successo della forza politica che governa attualmente l’Ungheria rafforza i popolari europei. Grazie al risultato di domenica scorsa il partito del premier si è aggiudicato dodici seggi al Strasburgo, cioè oltre la metà di quelli spettanti all’Ungheria. Cinque anni fa aveva ottenuto oltre il 56% delle preferenze e 14 seggi, alle politiche dello scorso 6 aprile aveva conquistato meno voti che nel 2010, ma la sua vittoria è indiscussa ed evidente in entrambi i casi. Il Fidesz-Kdnp si conferma principale forza politica del paese staccando di diverse lunghezze i neonazisti Jobbik, secondi a queste europee, e i socialisti dell’Mszp, secondi al voto nazionale. Orbán è più che soddisfatto e non ha commentato la frase dei dirigenti della Spd secondo i quali il partito del premier ungherese e quello di Silvio Berlusconi non dovrebbero far parte del Ppe. Quello che conta per lui è la fiducia che molti ungheresi gli hanno rinnovato in occasione delle due consultazioni elettorali. «Abbiamo vinto alla grande!», «Rappresenteremo sempre gli interessi ungheresi!», si legge sul sito del Fidesz che col voto di oltre un mese fa ha conservato la maggioranza parlamentare di due terzi conquistata nel 2010. Per l’opposizione di centro-sinistra a determinare il risultato è stata la nuova legge elettorale concepita dalle forze governative, anche se diversi esperti fanno 10 notare che Orbán avrebbe vinto comunque, indipendentemente dalle regole adottate per assicurarsi le elezioni. In questi ultimi quattro anni Orbán è riuscito ad accreditarsi presso molti suoi connazionali come unico uomo politico in grado di tutelare gli interessi del Paese, ma Jobbik non è di questo parere. Secondo il suo leader Gábor Vona il Fidesz, come le forze di centrosinistra, sono «servi di interessi stranieri» e solo Jobbik difende concretamente il suolo nazionale e i suoi abitanti dalle multinazionali e dai «latifondisti» che vorrebbero appropriarsi dei terreni agricoli ungheresi. Il partito di estrema destra, che ha ottenuto quasi il 15% dei voti e confermato i tre mandati al Parlamento europeo, alle politiche aveva ottenuto oltre il 20% del consenso elettorale. Lunedì ha chiamato a raccolta i suoi per manifestare davanti all’edificio dell’Assemblea nazionale in difesa dei terreni minacciati dagli investitori stranieri provenienti dagli altri paesi dell’Unione europea. Il presidente del partito ha anche detto che l’eurodeputato Béla Kovács, accusato dalla procura ungherese di spionaggio a favore dei servizi segreti russi, ha ottenuto un seggio sulla lista di Jobbik che non chiederà le sue dimissioni. Del resto Vona aveva definito l’accusa un tentativo di screditare il partito nell’imminenza del voto europeo. Le destre magiare festeggiano mentre i socialisti stentano perfino a trovare la forza per leccarsi le ferite. La presidenza dell’Mszp si è dimessa dopo aver ottenuto solo il 10,9% al voto di domenica. Il leader dimissionario Attila Mesterházy ha riconosciuto la pesante sconfitta subita dal partito e affermato che i socialisti devono concepire nuove strategie per il futuro. Secondo l’Ufficio nazionale elettorale due seggi sono andati al Dk, il partito dell’ex premier socialista Gyurcsány, uno a Együtt-Pm di Gordon Bajnai, anch’egli ex primo ministro, e uno all’Lmp. L’affluenza alle urne è stata di circa il 28%, la più bassa da che l’Ungheria partecipa alle elezioni europee. Secondo diversi esperti il dato è indicativo di un’indifferenza diffusasi nello Stato danubiano verso l’Unione europea che a parere di molti ungheresi porta avanti una politica inefficace e antisociale. del 28/05/14, pag. 5 Estrema destra al 19,5%. Ma è solo il terzo partito Angela Mayr VIENNA Il grande temuto exploit dell’estrema destra non c’è stato. Fpoe di H. C. Strache è rimasto comunque sotto il risultato del 21,4% raggiunto alle politiche del 2013 Vienna ha tirato un sospiro di sollievo, il grande temuto exploit dell’estrema destra non c’è stato. La Fpoe di Heinz Christian Strache è balzata al 19,5%, raddoppiando i propri seggi, ma è «solo» terzo partito, rimasto sotto il risultato del 21,4% raggiunto alle politiche del 2013. «La Fpoe non è riuscita ad allargare il proprio potenziale, anzi è al di sotto, considerando che alle europee del 2009 vi erano altri due partiti antieuropei» osserva il politologo Anton Pelinka. In fondo, l’80% degli elettori ha espresso un voto favorevole al progetto europeo contro l’ipotesi di rinazionalizzazione propugnata dai successori di Joerg Haider. La distanza dall’Ue si è manifestata più insistentemente con il non voto, 11 un’opzione per 55% degli austriaci. I motivi: il 30% ritiene che il voto non cambierebbe nulla dato lo scarso peso del parlamento europeo, il 20% è scontento dell’Ue. L’exploit, con il 15% delle preferenze, è dei Verdi che hanno festeggiato il miglior risultato della loro storia. Il nuovo partito dei Neos, liberal e liberista che puntava al loro superamento si è fermato invece al 7,9%. Hanno pagato per la loro dichiarazione in favore della privatizzazione dell’acqua. «Un errore, non lo diremo mai più, anche per noi l’acqua è sacra», ha fatto autocritica il giovane leader Martin Strolz. I Verdi, a Vienna e nel Tirolo, sono il secondo partito con il 20%, il primo tra l’elettorato sotto i 29 anni. Da sempre all’opposizione, argomento centrale della loro campagna elettorale è stato il Ttip tra America e Europa. Promuovono una petizione che chiede il blocco delle trattative e al governo austriaco un voto di veto. La campagna marcatamente a sinistra dei Verdi probabilmente ha tolto il terreno alla lista l’Altra Europa, Europa Anders, ferma al 2,1%. Il governo di grosse Koalition per quanto impopolare, è stato punito poco, i popolari del vicecancelliere Michael Spindelegger (Oevp), sono scesi al 27,3% risultando lo stesso in testa. Poco brillante il risultato della Spoe del cancelliere Werner Faymann. Primo partito alle politiche del 2013, è sceso al 23,8% , un mezzo punto in più rispetto al 2009, si consolano in casa Spoe. Il primo partito tra i lavoratori risulta ora la Fpoe di H. C. Strache. Lo scontento da lungo serpeggiante contro i dirigenti per la scarsa impronta rossa nel governo è finalmente esploso nella Spoe, partito di rara compattezza. Per Peter Rezar, vicesegretario di partito della regione Burgenland la colpa del risultato modesto è del cancelliere: «Da un anno e mezzo si parla di introduzione di tasse patrimoniali sui ricchi e nulla accade. Così si perde la credibilità». Se il partito popolare non ci sta, dice Rezar, bisogna rompere la coalizione. Rabbia anche dei sindacati dal segretario generale dell’Oegb Erich Foglar in giù: i lavoratori ci dicono, «non si possono regalare miliardi a banche morte (la Hypo Alpe Adria in bancarotta, ndr), quando mancano i soldi per i comuni e per i servizi, aumentano le tariffe, si cancella il piano per la costruzione di case popolari». del 28/05/14, pag. 4 Psoe sull’orlo di una crisi di nervi Jacopo Rosatelli Spagna. Si aprono i giochi per la successione di Rubalcaba dopo il tonfo di domenica Che fare di fronte alla peggiore crisi degli ultimi 35 anni? Questo è il problema che attanaglia il più antico partito di Spagna, il socialista Psoe, precipitato dal 43,9% delle politiche del 2008 al misero 23% di domenica scorsa. In mezzo, l’esplosione della crisi, la svolta antisociale di José Luis Zapatero, e la grave sconfitta delle politiche del 2011 con un 28,8% che, visto oggi, appare agli occhi dei vertici del partito un risultato da sogno. Non consola il «mal comune» degli avversari popolari di Mariano Rajoy: anche loro in profonda crisi, lontanissimi dal 44,6% di tre anni fa, possono permettersi però di guardare i socialisti dall’alto verso il basso, «forti» di un magro 26%. L’altro ieri il segretario del Psoe Alfredo Pérez Rubalcaba ha annunciato le dimissioni e la direzione del partito ha accolto la sua proposta di convocare un congresso straordinario a luglio. Occasione nella quale i delegati voteranno la persona che prenderà il suo posto. Tutto logico, apparentemente: dopo una grave sconfitta, ci si fa da parte e si sceglie secondo le procedure previste la nuova leadership. E invece no: la decisione di Rubalcaba ha suscitato un vespaio nel partito. Che il 63enne ex ministro debba passare la mano non 12 è messo in discussione, anzi. Il problema sta nella modalità di scelta del nuovo numero uno del partito, e nell’intreccio di tale passaggio di consegne con un’altra designazione importante: quella del candidato premier. Prima delle dimissioni di Rubalcaba, infatti, il Psoe aveva già convocato per l’autunno delle primarie «all’italiana», aperte alla cittadinanza, attraverso le quali intendeva selezionare l’anti-Rajoy. La convocazione del congresso straordinario, però, rischia di rappresentare un’ipoteca sulle primarie d’autunno: se i delegati — quindi il corpo del partito — sono chiamati ad eleggere un nuovo segretario a luglio, difficilmente si può immaginare che altri competano pochi mesi dopo per il ruolo di candidato premier. Se il partito deve rinnovare i propri vertici — questo è il ragionamento — allora la figura-guida deve essere una soltanto. Ma scelta da chi? Dall’«apparato» del partito o dai cittadini con le primarie? Per chiedere l’inversione degli appuntamenti, e quindi di celebrare prima l’appuntamento «di massa» nei gazebo e poi il congresso «tradizionale», ieri si sono mobilitati in molti. Soprattutto i due principali aspiranti al ruolo di sfidante di Rajoy, e cioè l’ex ministra della difesa Carme Chacón e l’ex leader della federazione giovanile Eduardo Madina. Concordi nel volere fortemente la designazione popolare, sono convinti che il Psoe «debba aprirsi alla società civile». Ma soprattutto temono entrambi che dietro la decisione di Rubalcaba ci sia la volontà di pilotare la successione, facendo incoronare dal congresso la presidente dell’Andalusia Susana Díaz, che è anche a capo della federazione regionale socialista. Che, da sola, vale un terzo del partito. Le difficoltà del Psoe sono lo specchio del successo di «podemos», la lista — nata dal movimento degli indignados — che ha sorpreso tutti conquistando l’8% alle europee (tradotto in ben 5 deputati). Sono il fenomeno politico del momento, che costringe i socialisti a riflettere sugli errori commessi negli ultimi anni. La distanza tra il Psoe e ciò che nella società si è mosso contro le politiche di austerità è enorme: un gruppo come «podemos» è anche il frutto dell’ingessamento burocratico di un Psoe che non è stato in grado di intercettare nulla dell’enorme potenziale che il movimento della Puerta del Sol esibì di fronte al mondo. del 28/05/14, pag. 15 Ora per Tsipras la difficile sfida del governo Dimitri Deliolanes I dirigenti di Syriza hanno giustamente definito il risultato delle elezioni europee «una vittoria storica della sinistra». Per la prima volta nella storia recente della Grecia la sinistra radicale è primo partito. Una grande vittoria elettorale. Ma una mezza vittoria politica. Contrariamente alle aspettative, Syriza non ha aumentato i suoi voti, confermando il 27% ottenuto alle elezioni nazionali del 2012. Il suo primato è dovuto al meritato crollo dei partiti di governo, Nuova Democrazia di Samaras (- 7%) e Pasok di Venizelos (-4%). Dopo quattro anni di durissime sofferenze, miseria, depressione, saccheggi, malversazioni, cinici inganni e repressione poliziesca, è comprensibile che gli elettori puniscano un premier scandaloso come Samaras e il suo maldestro maggiordomo Venizelos. Ma è molto meno comprensibile che l’elettorato non si rivolga in massa verso l’unica alternativa alla catastrofe attuale. Questo è un problema per la Grecia, forse anche per l’Europa, ma soprattutto per Syriza. C’è qualcosa che non va. Nel periodo preelettorale, è stato combinato un pasticcio sulle candidature per le amministrative con lo scontro tra alcuni esponenti storici di Syriza, quando il partito a 13 stento arrivava al 4%, e i nuovi arrivati, i profughi politici ed elettorali della crisi, provenienti da mille altre esperienze politiche, soprattutto però dalla grande diaspora socialista. Spesso i nuovi arrivati sono stati visti con sospetto e ostilità dai custodi della purezza ideologica. Alexis Tsipras ha il grandissimo merito di aver compreso fin dal primo momento il problema della trasformazione di Syriza da gruppo di protestatari massimalisti in grande partito popolare e nazionale, che difende i tanti, i loro diritti, la loro dignità ma anche l’identità e l’orgoglio di essere greci. Il giovane leader ha fatto in fretta moltissima strada e altrettanta sicuramente ne farà. Al suo fianco un gruppo dirigente politicamente capace, oggi ampiamente rappresentato dagli eletti a Strasburgo e a capo delle Regioni e dei Comuni. Ma una parte del partito è rimasta indietro o perché in balìa di certezze ideologiche oppure per mere ragioni di potere. Tanto che qualche osservatore si è chiesto se tutto Syriza è concorde nel voler governare. Il problema è grave anche per un’altra ragione. Per amore o per forza Syriza vuole governi di coalizione: l’ultimo congresso parlava di “governo di sinistra”. Ma dove sta il resto della sinistra greca? I comunisti del KKE durante la campagna elettorale hanno bombardato unilateralmente Syriza. Quanto all’arcipelago di centrosinistra, è stato un miracolo che non si sia estinto ma rimane ahinoi guidato dai signori dello spread e delle Tv private. Tanto che sia il Pasok che la new entry “To Potami” (“Il Fiume”, il partito life style del presentatore Tv Stavros Theodorakis), hanno seri problemi di identità. Per influire su queste aree e creare una dinamica più favorevole alle forze antiausterità bisogna dare segni di realismo, responsabilità e fermezza nel difendere gli interessi del popolo e del paese. Tutte queste cose normalmente si ottengono nel corso di qualche decennio. Tanto ci è voluto perché un’altra sinistra, quella di Andreas Papandreou, guidasse un altro Pasok, dal 13% delle prime elezioni dopo i colonnelli (1974) a essere primo partito di opposizione (1977) fino al primo governo socialista (1981). Ma ora non c’è tempo. A giugno Samaras svenderà ai suoi amici un centinaio tra le spiagge più belle della Grecia, poi privatizzerà l’acqua e l’energia elettrica, mentre la gente si butta dai ponti, i bambini svengono per fame e le famiglie fanno la fila alle mense dei poveri. Solo Syriza può fermare a tutto questo ma deve diventare il grande partito del popolo greco. Del 28/05/2014, pag. 1-14 L’orrore di Donetsk, cento morti nelle strade GUERRA CIVILE IN UCRAINA, KIEV AI SEPARATISTI: ARRENDETEVI O PER VOI È FINITA NICOLA LOMBARDOZZI CI PUOI finire dentro anche solo attraversando una tranquilla strada di borgata come il Partizanskij Prospekt. Tra ragazze in pantaloncini e anziane signore con la borsa della spesa, compaiono dal niente quattro tipi incappucciati e armati di mitra che corrono con la schiena piegata in avanti. Qualcuno, da qualche parte, sta sparando su di loro. Uno cade a terra e ci resta, gli altri si rifugiano dietro a una vecchia utilitaria parcheggiata davanti al supermercato e tirano fuori qualcosa che assomiglia a un lanciagranate. E si scappa, senza sapere bene dove, senza voltarsi indietro ad ogni esplosione, senza chiedersi chi siano i buoni e chi i cattivi. Se mai c’è stato spirito di parte tra la gente comune di Donetsk, adesso c’è solo terrore. 14 Comprensibile visto che miliziani russi d’Ucraina e esercito regolare stanno ormai combattendo da due giorni la loro guerra proprio fra la gente. Per le strade, nelle scuole, nei giardini pubblici dove incredibilmente squadre di giardinieri continuano a curare le aiuole e a pulire i vialetti come niente fosse. Gli ucraini mirano al cuore della città, all’inizio di questa storia, al palazzo della Regione occupato dai russi e sede della repubblica autoproclamata. La guerriglia urbana per riconquistare quella sede è assolutamente inevitabile. La gente lo sa e ha paura. Il coprifuoco decretato in serata è già stato spontaneamente applicato volontariamente. Chiusi i negozi, anticipata bruscamente la fine dell’anno scolastico, deserti banche e uffici, ridotte al minimo le corse dei mezzi pubblici. Da Kiev l’esercito del neoeletto presidente Poroshenko lancia un ultimatum: «Arrendetevi o morirete tutti ». I separatisti non rispondono neanche e continuano a invocare inascoltati un intervento militare di Mosca. Un appello che scatena pericolose azioni di volontari nazionalisti. Dal Caucaso e dalla terra dei cosacchi sarebbero già arrivate centinaia di squadre paramilitari decise a «soccorrere i fratelli del Donbass». Camion privati carichi di armi, munizioni e rifornimenti avrebbero già varcato più volte il confine. Impossibile valutare i bilanci delle vittime denunciati da una parte e dall’altra ma la cifra di cento morti che ieri ha fatto subito il giro dei media internazionali diventa tragicamente verosimile quando entri all’obitorio dell’ospedale Kalinin, nel cuore del centro cittadino. Il sangue è dappertutto come se qualcuno lo avesse lanciato a secchiate per aria, e i cadaveri stanno ovunque, nei corridoi, sul tavolo del ripostiglio cucina degli infermieri dove qualcuno trova il coraggio di prendersi un tè, e in un’orrida catasta di brandelli di corpi intrecciati e irriconoscibili. Con l’aria e sconvolta una biondona in camice prova combattere la disperazione con il cinismo: «Quanti morti? Forse, alla fine, potrò dirvi al massimo quanti pezzi di morti ». Sono i resti dei combattimenti più feroci, all’alba di ieri sul ponte Putilovskij. Ci sono molti indumenti militari ma anche jeans, scarpe da passeggio, portachiavi, telecomandi di automobile. C’erano molti civili da quelle parti mentre si sparava. La confusa polizia locale, divisa tra solidarietà con i russi e dipendenza dal comando nazionale, non è in grado di dare risposte a decine di famiglie disperate che chiedono notizie di loro parenti scomparsi. E chi può dire quanti vittime ci siano all’interno e tra i campi dell’aeroporto Sergej Prokofiev, attaccato ieri per la seconda volta da elicotteri armati accompagnati da caccia a volo radente? L’esercito ucraino sostiene di averlo «liberato». Se è vero, i militari sono comunque circondati da miliziani russi che hanno ricevuto rinforzi da colonne di camion arrivati dall’altra repubblica filorussa autoproclamata di Lugansk. Di ripresa dei voli non se ne parla. Lanci di razzi e raffiche di mitra sono ormai una ininterrotta colonna sonora che turba i sonni degli abitanti del vicinissimo quartiere 16. Stesse scene alla stazione ferroviaria dove ieri è stato ucciso un bambino, un parcheggiatore e un’altra decina di combattenti. I treni provano a partire ugualmente ma ci vuole molto coraggio per provarci. Vanno anche piano visto che nella notte qualcuno ha fatto esplodere i binari a pochi chilometri da qui. E l’offensiva di Kiev non sembra fermarsi. Il presidente Poroshenko continua a parlare di «situazione che sarà normalizzata nelle prossime ore». Ha fretta di cominciare a trattare da un punto di forza con Mosca, forse spera nella resa dei miliziani meno oltranzisti, più controllabili dal Cremlino. Ma non è così semplice. Dopo un giorno di misterioso silenzio, dedicato ai festeggiamenti del campionato mondiale di hockey vinto dalla nazionale russa, Putin ha finalmente parlato dicendo al telefono al premier italiano Matteo Renzi che «Kiev deve fermare immediatamente il massacro». Lo ha fatto nel porgere le condoglianze ufficiali all’Italia per la morte del fotografo Andrea Rocchella ucciso sabato a Sloviansk durante un combattimento e la cui salma è finalmente in viaggio verso Kiev dove l’attendono i familiari. 15 Difficile capire quale sia la strategia di Putin. Appare a tutti singolare, e un segno di possibile speranza, che nel pieno della guerra e in un contesto di insulti e minacce reciproche, la Russia continui a trattare per un possibile sconto sul gas nei confronti dell’Ucraina e che, al di là di certe sparate di maniera, non escluda futuri contatti anche solo telefonici tra i due presidenti. C’è veramente una voglia di mediazione? Se c’è, dovrà fare i conti con i più scatenati separatisti russi che non intendono arrendersi. Quelli che ieri hanno incendiato il palazzo dello sport sede della amatissima squadra di hockey Donbass e che stanno piazzando trincee e posti di blocco in ogni angolo strategico della città. Ma dovrà anche affrontare la furia degli estremisti di destra che a Kiev corrono ad arruolarsi nella Guarda Nazionale Ucraina per partecipare “legalmente” al massacro. A Donetsk comunque non c’è tempo per perdersi in sottigliezze politiche. In attesa che qualcosa succeda, ci si rintana in casa, si dice ai bimbi di non affacciarsi alle finestre, si continua a sobbalzare ad ogni rumore. Si guarda in tv il volto pacioso del nuovo presidente che continua a ripetere: «La Pace sta per arrivare». Del 28/05/2014, pag. 17 Al Sisi è il candidato forte alle presidenziali in corso sostenuto dai militari e dall’industria dei tour operator Turismo e tank il generale dei resort “blinda” le urne ALBERTO STABILE IL CAIRO NESSUNO dubita che, alla fine, sarà l’ex capo delle Forze armate e ministro della Difesa, Abdel Fattah al Sisi a governare l’Egitto nei prossimi otto anni. Ma la legittimazione dell’intero processo elettorale, oltre che la credibilità del candidato favorito, sono stati pesantemente messi in discussione dalla decisione della Commissione elettorale centrale di prolungare di un giorno le operazioni di voto, che avrebbero dovuto concludersi ieri. Un rinvio dovuto alla scarsa affluenza alle urne, unico dato incerto in un trionfo altrimenti annunciato e, al tempo stesso, un utile metro di giudizio per misurare quanto abbia effettivamente inciso l’ordine di boicottare le urne impartito dalla Fratellanza Musulmana ai suoi seguaci. Evidentemente ha inciso. Se la ridotta partecipazione è, come sembra, la causa principale del rinvio (ma fino a tarda sera non sono stati comunicati i dati parziali dell’affluenza) va detto che si tratta di un successo del fronte del boicottaggio: Fratelli musulmani, in testa, cui negli ultimi giorni si sono aggiunti alcuni gruppi laici e liberali, come i giovani del Movimento 6 Aprile, politicamente nati e cresciuti con la rivoluzione del gennaio 2011, i quali si sono visti investiti da un’ondata repressiva con arresti, processi e condanne per reati spesso minori, che ne hanno assai limitato la libertà d’espressione e l’iniziativa politica. In mancanza di dati ufficiali, tuttavia, quello che abbiamo visto nei seggi elettorali di diversi quartieri, sembra suggerire un bassissimo grado di partecipazione ed un alto livello di militarizzazione del voto. Mai gente in coda in attesa di voltare, come invece succedeva nel 2012. Rarissimi i gruppi di donne festanti a scandire il nome del candidato favorito. Quello che salta agli occhi, invece, è lo schieramento a difesa dei seggi, con truppe speciali in divisa nera, armati di tutto punto e dal volto coperto, blindati, postazioni. Eppure, a giudicare dalla propaganda elettorale lanciata dalla totalità dei media di stato e dalla gran parte dei privati, per il nuovo “uomo forte” dell’Egitto destinato a ricalcare il 16 percorso di altri rais venuti dai ranghi delle Forze armate, come Nasser, Sadat e Mubarak, doveva essere una passeggiata. Non fosse altro che per la mancanza di concorrenti, essendo l’altro candidato in lizza, l’esponente della sinistra nasseriana, Hamdin Sabahi, non un’alternativa ma una foglia di fico utilizzata per legittimare un processo elettorale a senso unico. Senza i Fratelli musulmani in campo, perché costretti alla clandestinità o sbattuti a migliaia in galera, e senza i giovani del Movimento 6 aprile a proteggere i valori permanenti della rivoluzione che fu, la campagna elettorale s’è trasformata in una sorta di culto della personalità. La faccia tonda e timidamente sorridente dell’ex generale dominava in ogni angolo del Cairo, sulle vetrine dei negozi, sui viadotti, sulle piazze, e sulle bancarelle di Piazza Tahrir ormai diventata la muta, vuota testimonianza di una stagione politica conclusa. Da ultimo, i manifesti di al Sisi, sono comparsi anche nei resort di Sharm el Sheik, ad indicare che questo è l’uomo che permetterà al paese di risorgere e ai turisti di tornare. Ma questo messaggio non è stato percepito da tutti. Girando per la capitale, tra i luoghi che hanno segnato lo scontro sanguinoso che nell’estate del 2013 ha visto al Sisi imporre la defenestrazione di Morsi e la messa fuorilegge dei Fratelli Musulmani, si capisce che i nemici del generale non sono ancora domi. Su molti ritratti e manifesti di al Sisi sono state scagliate bottiglie di vernice rosso sangue accompagnate da scritte insultanti: C. C. (che sta per Sisi) “assassino”, “Caino”, “killer”, qualche volta anche in inglese. Ma non per tutti è così. Nei seggi del quartiere cristiano di Shofra, ho chiesto ad un elettore perché avesse votato al Sisi: «Perché è l’uomo giusto per questo momento», ha risposto Samir Sawiras, 62 anni, carrozziere, mostrando la croce copta tatuata all’interno del polso. «Meglio rinunciare ad un po’ di libertà che un governo coi Fratelli musulmani», ha concluso. Un ritornello. In un moderno edificio di Giza, ho incontrato uno degli sponsor di al Sisi, l’imprenditore Hosni Redah, proprietario di alberghi e agenzie turistiche al Cairo e a Sharm el Sheik. Hosni ha messo a disposizione del futuro nuovo Rais due grandi appartamenti nel suo palazzo, perché funzionassero da centrale elettorale. «L’Egitto cambierà immediatamente, dal primo giorno dopo le elezioni. Mi creda, dopo quello che abbiamo visto con Morsi, al Sisi è una benedizione ». Ma tutto questo, evidentemente non è bastato, quanto meno a conseguire una vittoria entro i tempi regolamentari. Non è servito proclamare martedì, seconda e conclusiva giornata elettorale, festa nazionale per liberare i dipendenti statali dalle incombenze del lavoro. Non è servito garantire trasporti gratuiti per gli elettori. E non sono servite le minacce lanciate via sms per ricordare ai cittadni che non votare può comportare una multa di 500 lire egiziane, quasi ottanta dollari. Un’enormità per un paese ridotto alla fame. del 28/05/14, pag. 1/8 Habemus papam, non habemus pacem Zvi Schuldiner Israele/Palestina. Nelle urne un voto da ultima spiaggia. Il record elettorale del Pd non è una vittoria sul populismo, Renzi non è meno populista di Grillo. I voti per Syriza sono una spinta per coltivare il nucleo nascente di un’alternativa Mentre il papa in Israele ascolta discorsi molto elaborati sulla magnifica tolleranza religiosa nel paese, sui benefici della fiorente democrazia, sulle paradisiache condizioni per tutti, cristiani, musulmani ed ebrei, i servizi di sicurezza israeliani dispiegano un enorme apparato che tra le altre funzioni dovrebbe prevenire gli atti di violenza e di intolleranza 17 provenienti dalle diverse bande fasciste dell’estrema destra israeliana. Sì, questa è una democrazia tollerante persino verso i quotidiani eccessi dell’estrema destra. Papa Francesco ha preparato tutti a una visita puramente religiosa, un pellegrinaggio di fedeli . In Israele una visita di questo tipo ha sempre profondi significati politici, considerati non solo i secoli di persecuzione cristiana, ma anche i lunghi anni in cui il Vaticano non ha riconosciuto lo Stato di Israele. Ma le cose hanno funzionato in modo abbastanza diverso e ogni passo del sommo pontefice è stato accuratamente elaborato. Il Papa Francesco è volato in elicottero dalla Giordania a Betlemme, territorio dell’Autorità palestinese e ha evitato di arrivare attraverso i posti di blocco israeliani. I palestinesi, meno preoccupati degli israeliani, hanno consentito al papa di incontrare molti fedeli, mentre in Israele ha trovato numerosissimi poliziotti e agenti segreti spaventati dalla possibilità che qualche «tollerante» israeliano rinnovasse con violenza la millenaria contesa ebraico-cristiana. Prima sorpresa: il Papa chiede di toccare il muro, la barriera di odio costruita da Israele per «combattere il terrorismo», come ha spiegato il giorno seguente il saggio premier Netanyahu. Non solo tocca il muro, la sua orazione per la pace è piena di contenuti, soddisfa enormemente i palestinesi, fa infuriare alcuni patrioti israeliani. Da Betlemme, il papa vola in elicottero all’aeroporto internazionale di Israele, e da lì in elicottero a Gerusalemme, dove avrebbe potuto arrivare in macchina in cinque minuti. Ma c’era anche da occuparsi dei simboli. Grande abbraccio col nostro gran premio Nobel per la Pace, il presidente Peres e solo una formale stretta di mano col nostro egregio Netanyahu, cosa abbastanza positiva agli occhi di alcuni come l’ autore di queste righe . Le caratteristiche spirituali e religiose della visita erano chiare e importanti, ma per la leadership israeliana tutto non è altro che un pretesto per le solite frasi di propaganda e solo il presidente Peres ha costituito una relativa eccezione. Netanyahu, i rabbini capo, il rabbino del Muro del Pianto, tutti a ripetere le litanie propagandistiche: noialtri vogliamo la pace, chioccia un premier che non farà nulla per una vera pace, noialtri siamo le eterne vittime del terrorismo, ripeterà il coro mentre l’esercito non arriva a nessuna conclusione sui due giovani palestinesi uccisi, solo due settimane fa, da soldati o poliziotti israeliani. «Noialtri le vittime», tutti spiegano al papa il sogno della pace, non spiegano il perché di così tante nuove case negli insediamenti, della violenza quotidiana dell’occupazione, della continua confisca di terre, della costruzione di nuovi ostacoli alla pace, ma la colpa è sempre dei palestinesi che non vogliono la pace e si uniscono ai terroristi! Al Muro del Pianto il rabbino spiega al Papa la libertà di culto e dimentica che gli ebrei non ortodossi non possono pregare liberamente in quel luogo, come fa notare nel pomeriggio un rabbino non ortodosso! Il papa a Betlemme incontra Abu Mazen, «il presidente dell’Autorità palestinese», una vecchia volpe. Il papa, altra vecchia volpe, si abbraccia con Peres, una super volpe che ha al suo attivo numerosi danni ai tentativi di pace dal ‘67, ma da anni gioca fedelmente il ruolo di premio Nobel per la pace . Risultato: il papa annuncia una preghiera congiunta in Vaticano, che forse non farà avanzare la pace, ma ha un valore intrinseco, rovina la digestione al nostro navigato premier Netanyahu. Netanyahu, comunque mal impressionato dalla visita del papa al muro dell’odio tenta di ripristinare un certo equilibrio e porta il papa a toccare la lapide degli israeliani uccisi in atti di terrorismo . Tutti si sorridono, gli agenti segreti si sentono sollevati, il premier un po’ depresso, il nostro vecchio presidente euforico, il papa sicuramente confortato di trovare tanti tipi problematici in poche ore, si siede nell’aereo, forse senza sapere che tutti potrebbero arrivargli a Roma in una settimana. 18 Il presidente Peres proverà nuovi stratagemmi, il presidente Abbas dirà soddisfatto ai palestinesi che il «processo» continua, il papa lo accoglierà con piacere, pregherà e farà gli auguri di un futuro migliore, l’arena internazionale e i giornalisti celebreranno… L’occupazione continuerà, il processo di annessione coloniale dei territori non diminuirà. 19 INTERNI del 28/05/14, pag. 1/15 Un voto da ultima spiaggia Guido Viale Europee 2014. Il record elettorale del Pd non è una vittoria sul populismo, Renzi non è meno populista di Grillo. E i voti per Syriza sono una spinta per coltivare il nucleo nascente di un’alternativa La riduzione della competizione per le elezioni europee a un match frontale tra due icone vuote di contenuti quanto piene di invadente presenzialismo ha premiato Renzi e punito Grillo. Ma a perdere sono stati gli italiani o, meglio, ha perso la democrazia. Perché la riforma elettorale, quella del Senato o l’abolizione delle Province volute da Renzi non fanno che ridurne progressivamente il campo di applicazione. Ha perso il pluralismo: ora c’è un uomo solo al comando di un partito, del governo, arbitro, anche, dei destini dello Stato; e gli altri partiti, satelliti o comprimari, sono in via di sparizione, né hanno molte ragioni per continuare ad esistere. E ha perso, rendendo sempre meno sindacabili le scelte del “premier”, la prospettiva di un vero cambiamento: il quadro europeo in cui il Pd si inserisce e di cui sarà un garante non consente cambi di rotta. E con tutte queste cose hanno perso i lavoratori, i disoccupati, i giovani, i pensionati; anche, e forse soprattutto, quelli che lo hanno votato. Ma non si tratta, come sostengono molti commentatori, di una vittoria sul populismo. Renzi non è meno populista di Grillo se per populismo si intende un richiamo identitario (le “riforme”, presentate come intervento salvifico, senza specificarne il contenuto, e la “rottamazione” presentata come programma) che fa aggio sui contenuti specifici delle misure proposte. Il programma di Grillo, se si eccettua la sua ambivalenza di fondo sull’euro, che è ambivalenza sul ruolo che può e deve avere l’Europa nel determinare un cambio di rotta per tutti, era addirittura più concreto di quello con cui Renzi ha affrontato questa scadenza elettorale. Entrambi comunque avevano gli occhi puntati sugli equilibri interni al pollaio italiano; la resa dei conti con le politiche europee l’avevano rimandata a un indeterminato domani: eurobond o uscita dall’euro per uno; ridiscussione dei margini del deficit per l’altro; nessuno dei due sembra rendersi conto che la crisi europea impone una revisione radicale del quadro istituzionale e delle strategie politiche, prima ancora che economiche. Non è stata nemmeno, quindi, una vittoria dell’europeismo contro l’antieuropeismo: se per Grillo il problema è inesistente — la sua “indipendenza” da tutto e da tutti gli impedisce di avere alleati e prospettive che vadano al di là delle Alpi e dei mari di casa, per Renzi è l’assoluta subalternità al patto tra Schulz e Merkel, ormai ratificato dall’esito elettorale anche in Europa, che gli impedisce di avere, se non a parole — ma di parole la sua politica non manca mai — una visione delle misure, delle strategie e delle conseguenze di una vera rimessa in discussione dell’austerità. Quell’austerità che l’Europa la sta disintegrando (e i primi a pagarne le conseguenze saremo noi). Meno che mai quella di Renzi è stata una vittoria della speranza contro il rancore. Se nell’ultimo anno il Movimento 5S ha dato prova della sua sostanziale inconcludenza, dovuta al controllo ferreo che i suoi due leader pretendono di esercitare sui quadri e sui parlamentari, la motivazione di fondo del voto a Renzi è stata un clima da “ultima spiaggia”. Paradigma di questo atteggiamento sono gli editoriali su la Repubblica di 20 Eugenio Scalfari, che non approva praticamente alcuna delle misure varate da Renzi e meno che mai i suoi progetti, ma che invita a votarlo lo stesso perché “non c’è alternativa”. Così, se con queste elezioni la parabola del M5S ha imboccato irrevocabilmente una curva discendente, mentre Renzi sembra invece sulla cresta dell’onda — forse raggiunta troppo in fretta per poter consolidare una posizione del genere — è il vuoto di prospettive e la mancanza di una proposta di respiro strategico per riformare l’Europa a condannarlo a sgonfiarsi altrettanto rapidamente. Il che succederà inevitabilmente — pensate alla parabola di Monti! — non appena Renzi dovrà fare i conti con quella governance che forse immagina di riuscire a conquistare con la stessa facilità, superficialità e disinvoltura con cui si è impadronito, gli uni dopo le altre, di primarie, partito, governo ed elettorato. Ma là, invece, c’è la “scorza dura” dell’alta finanza che Renzi non si è mai nemmeno sognato di voler intaccare, ma che non è certo disposta a concedergli qualcosa che vada al di là di un sostegno formale e simbolico (un po’ di spread in meno, forse; e solo per un po’). Ma come Grillo sta lasciando dietro di sé, in modo forse irreversibile, perché non facile da prosciugare, un mare di macerie (la politica trasformata in pernacchia, come Berlusconi l’aveva, prima di lui, e aprendogli la strada, trasformata in barzelletta e licenza), così anche Renzi lascerà dietro la sua prossima quanto inevitabile parabola, altri danni irreversibili. Danni alla democrazia e alla costituzione; al diritto del lavoro e alle condizioni dei lavoratori, precari e non (se ancora ce ne sono); alla scuola, alla sanità, al welfare, alle autonomie locali (che da sindaco non ha mai difeso dal patto di stabilità); a quel che resta della macchina dello Stato, smantellandone i capisaldi in nome del risparmio e dell’efficienza; al sistema delle imprese e dei servizi pubblici, messi in svendita per fare cassa; e, soprattutto, danni alla tenuta morale della cittadinanza, messa per la terza o la quarta volta alla prova di una politica fondata sulle apparenze. Di fronte a questo panorama, di cui l’elettorato non potrà evitare di prendere atto in tempi stretti, i risultati della lista “L’altra Europa con Tsipras” rappresentano un piccolo ma importante episodio di resistenza; perché in quella lista, e in nessun’altra proposta di livello nazionale ed europeo, è contenuto il nucleo di un’alternativa possibile e praticabile alla perpetrazione di politiche destinate a portare allo sfascio l’intero continente, Germania compresa. Certamente i nostri numeri non sono esaltanti, anche se lo sono quelli di alcuni dei nostri partner europei. Però sono il frutto di un lavoro di conquista, voto per voto, consenso per consenso, impegno per impegno, che ha coinvolto migliaia di compagni e di sostenitori delle più diverse provenienze, che non avevano certo come obiettivo finale o esclusivo il risultato elettorale. Ma che proprio sperimentando, almeno in parte, e non senza molte contraddizioni, forme nuove, o profondamente rinnovate, di condivisione e di coesione, fondate su nuove pratiche, sono ben determinati ad andare avanti lungo la strada appena intrapresa. E non ciascuno per conto suo, o facendo ricorso alle proprie appartenenze, ma tutti insieme, aprendosi a quel mondo di delusi, di arrabbiati, di abbandonati, di incerti che la crisi del M5S e il mutamento antropologico del Partito Democratico si stanno lasciando, e continueranno a lasciarsi, dietro le spalle. In questa piccola affermazione i voti di preferenza raccolti da due capolista come Barbara Spinelli e Moni Ovadia, che hanno messo il loro nome, la loro faccia e un mare di fatica a disposizione del progetto per rappresentarne il carattere unitario, sono una importante dimostrazione di quella spinta a un radicale rinnovamento delle proprie identità che fin dall’inizio è stata la cifra della nostra intrapresa. In pochi anni, sotto la guida di Alexis Tsipras, Syriza, da piccola aggregazione di identità differenti si è fatta partito di governo. Dunque, si può fare. Se abbiamo messo quel nome nel simbolo della nostra lista non è per caso. 21 Del 28/05/2014, pag. 12 In corsa De Micheli e Pinotti. Domani la discussione sulla gestione unitaria. D’Alema: complimenti a Renzi Arriva la pax renziana minoranza in segreteria una donna presidente GIOVANNA CASADIO ROMA . Persino Stefano Fassina sembra domato. Dice: «Renzi è stato il valore aggiunto, è miope non ammetterlo». Fino a poco tempo fa chiamava Matteo Renzi «il portaborse di Pistelli». Ne veniva d’altra parte ricambiato con il famoso: «Fassina chi?» che Matteo, appena eletto segretario del Pd cinque mesi fa, gli lanciò. Ma l’ultima su Renzi e Fassina risale alla sera della stravittoria democratica e la dice lunga su quel che sta accadendo tra i Dem. È stato proprio il premier, raggiunto il partito al Nazareno, a sollecitare tutti, a cominciare da Fassina, Stumpo, D’Attorre, Verducci, Speranza - cioè bersaniani, cuperliani, dalemiani - ad andare in sala conferenze con i vice segretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani e con gli altri renziani per fare la foto di squadra. «Ci ha detto “dovete salire anche voi, andate”. Altro che imbucati...», racconta Francesco Verducci, “giovane turco”, ex anti renziano, probabile nuovo membro della segreteria. Questa è la vera storia racconta - della foto di squadra. Domani la direzione dem potrebbe indicare come sarà il nuovo Pd, forte del 40,8% di consensi, con una leadership fortissima e un compito: essere all’altezza della situazione. Renzi stesso ha chiesto alle correnti: «Datemi dei nomi per una gestione unitaria». Il Pd renziano, detto ironicamente PdR, chiama tutti a raccolta. I “giovani turchi”, già convertiti al renzismo in nome del patto generazionale, commentano: «Nessuno vuole rimanere fuori, nel partito dobbiamo darci da fare tutti». E Fassina: «Non è che diventiamo tutti renziani, ma siamo tutti sul fronte». La novità è che alla presidenza del partito potrebbe essere indicata Paola De Micheli, lettiana doc. Quel posto con la segreteria Bersani era stato di Rosy Bindi. Poi con Renzi era stato acclamato Gianni Cuperlo, leader della minoranza, ma aveva retto pochissimo. Dopo uno scontro con il segretario, si era dimesso. Presidenza vacante. Gli altri nomi papabili sempre femminili sono: Roberta Pinotti, ministra della Difesa e renziana della prima ora. Oppure Maria Chiara Carrozza, che potrebbe se no entrare in segreteria. La casella sarà riempita il 14 giugno, data dell’Assemblea nazionale. Mentre Matteo Richetti, renziano, potrebbe diventare vice presidente del gruppo dem a Montecitorio al posto di De Micheli. Laura Puppato potrebbe essere vice capogruppo al Senato o entrare in segreteria. Sulla nuova segreteria si saprà già domani, anche se non tutti i nomi. Si fanno quelli di Alessia Rotta, renziana; di Lia Quartapelle che potrebbe avere la responsabilità degli Affari internazionali che era stata di Federica Mogherini, prima che diventasse ministro degli Esteri. Stefano Bonaccini, a cui sono stati finora affidati gli Enti locali e che si è mostrato una macchina da guerra, potrebbe passare all’organizzazione. Oggi è affidata a Luca Lotti, il sottosegretario all’Editoria, che si deve fare in quattro. Giuseppe Lupo potrebbe essere cooptato per il Mezzogiorno. «Il Pd è diventato davvero un country party, un partito della nazione: noi dobbiamo essere all’altezza della sfida», conferma Alfredo D’Attorre. Disposto ad entrare in segreteria? Risposta: «Vediamo come sarà riorganizzata, se come un esecutivo quindi con le varie competenze oppure come una task force politica». Cioè una gestione più collegiale. Davide Faraone, renziano, osserva l’alto tasso di benevolenza verso Matteo ora che ha portato un Pd, che sembrava spacciato, alle stelle. Nel rimescolamento di carte interne, sono giorni di precisazioni e allineamenti. Guglielmo 22 Epifani, l’ex segretario, avverte: «Illogico paragonare il Pd alla Dc, questo è un risultato storico, è il partito a vocazione maggioritaria ». Gongola Walter Veltroni, padre fondatore del Pd che voleva appunto un partito a vocazione maggioritaria e interclassista, ma non fu creduto. Anche Massimo D’Alema è euforico. Confessa non solo di avere fatto i complimenti a Matteo, ma che si sentono spesso mandandosi i messaggini «come fanno i ragazzi », perché Renzi «in questo è un uomo molto avvicinabile, semplice, simpatico». E narra di quando si sono commossi insieme lui e Veltroni. del 28/05/14, pag. 10 Il malessere dei fedelissimi Critiche anche a Grillo Sette giorni per cambiare rotta Emanuele Buzzi Tutto in una settimana. Il confronto tra parlamentari, le nuove strategie di Grillo e Casaleggio, le possibili alleanze in Europa. I primi giorni del mese di giugno segneranno la fase della riflessione (interna) e della svolta (internazionale) del Movimento. I parlamentari hanno deciso di far decantare per un po’ i malumori legati all’esito del voto e organizzare la riunione congiunta tra deputati e senatori all’inizio della prossima settimana. Ma le polemiche non si placano. «Una sola cosa c’è da dire: alle Europee il Movimento è stato sconfitto, ed è da qui che ripartiremo con maggiore slancio e più forti di prima», scrive su Facebook Federico Pizzarotti. E aggiunge: «C’è il tempo delle vittorie e dei successi, ma c’è anche il tempo della sconfitta e di una doverosa autocritica». «È sbagliato affermare che abbiamo perso quasi 3 milioni di voti — precisa il gruppo pentastellato in una nota —. Considerando un’affluenza alle Europee al 58% contro il 75% delle Politiche dell’anno scorso, è come se avessimo perso poco meno di un milione di voti. È un calo ma non l’emorragia di cui si favoleggia. Abbiamo comunque consolidato un ampio consenso di persone che credono nel progetto del M5S». Ma sono in molti a pensarla in modo diverso. «Va fatta una verifica, chi dice che abbiamo consolidato i voti dimostra immaturità politica», ribatte Walter Rizzetto. «C’è stato un cortocircuito con i nostri elettori dettato probabilmente da toni troppi alti, come una parte del gruppo denunciava da tempo», spiega il deputato che precisa: «Serve portare fuori da questo palazzo dei risultati». La responsabilità di Grillo e Casaleggio sono «come un sillogismo, la linea politica è decisa indirettamente anche da loro pur essendoci un ampio dibattito nel nostro gruppo». Rizzetto, poi, conferma le indiscrezioni che parlano di un abboccamento di alcuni parlamentari da parte di esponenti della maggioranza: «Non dobbiamo fare nessun tipo di alleanza con il Pd, lo dico anche per mie convinzioni personali, anche se alcuni democratici ci stanno cercando, stanno cercando voti per compattare ancora di più questa maggioranza dopo il successo elettorale. Però dobbiamo dialogare con le forze di governo sui singoli temi». Su strappi e polemiche interne Roberta Lombardi è chiara: «Mi auguro che se ne parli in congiunta e non sui giornali. Comunque il nostro è un gruppo dinamico, per chi non si sente a proprio agio la porta è aperta…». La riunione — analizza l’ex capogruppo — deve essere «più che un lamento un momento di riflessione su come fare ripartire l’azione politica». Tra i punti critici mette in evidenza «la campagna elettorale troppo aggressiva: la 23 gente ha bisogno di essere rassicurata in questo momento». Di diverso avviso Barbara Lezzi: «La comunicazione non ha sbagliato e neppure Grillo: i suoi toni sono quelli». Per la senatrice pugliese è necessario invece «dare più voce, più possibilità ai parlamentari perché siamo informati in tutti campi». E sulla strategia, Lezzi è pronta a virare, a «riscoprire il territorio, gli attivisti richiedono una nostra maggiore presenza. E forse proprio questo dobbiamo imparare dai partiti: a coltivare le realtà locali in modo più continuativo». Il leader pentastellato, intanto, ieri ha trascorso la sua giornata con gli amici e la famiglia nella casa di Genova. La moglie Parvin ha spiegato ai cronisti: «Beppe è tranquillo, è sereno e vi garantisco che oggi non ha voglia di parlare». Il blog celebra la prima donna sindaco del Movimento — Cinzia Ferri eletta a Montelabbate, nelle Marche, con il 50,4% dei voti — e invita al voto per gli undici ballottaggi (tra cui Modena e Livorno) che vedono in corsa i Cinque Stelle. Ma le attenzioni sono oltreconfine. Nigel Farage, interpellato su un possibile accordo con Grillo, lancia un sibillino: «Se ne avessi la possibilità…». In realtà i rumors parlano di contatti ben avviati, che potrebbero portare a un esito positivo già nel giro di sette-dieci giorni. del 28/05/14, pag. 12 L’ex Cavaliere tende la mano a Salvini No di Marina alla discesa in campo La figlia dell’ex premier: il dibattito su di me ostacola il rinnovamento in FI Alfano gela il leader sulla riunificazione: la vedo molto difficile ROMA - Ci pensa Marina Berlusconi a togliere almeno un argomento dal tavolo della discussione sul post-voto che agita Forza Italia. Perché, ufficiosamente, fa sapere che è inutile continuare a tirarla per la giacca, tanto più in un momento come questo: «La mia discesa in campo non è una ipotesi attuale». A quelli che, anche nelle ultime ore, l’hanno sondata per capire le sue intenzioni, o anche invitata a fare un passo avanti, la figlia del leader azzurro ha detto ancora una volta che «sarebbe meglio lasciar cadere questa questione: continuare a discutere di una candidatura che non c’è non contribuisce al positivo sviluppo di quel dibattito interno al partito che il risultato elettorale ha avviato», anzi può «ostacolare» la ricerca di «risorse interne ed esterne» utili a rendere sempre più incisiva «l’opera di rinnovamento» inaugurata dal padre. Il no, insomma, a passaggi di testimone immediati, quasi emergenziali, per risollevare le sorti di FI è secco. Anche se, per il futuro, mai dire mai. Ipotesi del genere, è il suo ragionamento, sono «indissolubilmente legate a determinati tempi, modi e contesti», tutte condizioni che ad oggi «non ci sono». E che, se mai dovessero esserci, non si concretizzerebbero in una «successione dinastica», ma in un percorso democratico e «nel rispetto delle regole della democrazia interna». Non ci saranno quindi annunci choc né rivoluzioni nelle parole che Berlusconi pronuncerà oggi nell’Ufficio di presidenza convocato per fare il punto sul voto e per indire i congressi comunali e provinciali del partito. L’ex premier, raccontano, non ha alcuna intenzione di cedere il timone, e tantomeno di mettersi da parte per lasciare il campo ad una corsa tra gli aspiranti leader. Che siano primi, secondi, o ultimi. Anzi, lo raccontano molto irritato per la guerra sotterranea che già si comincia a combattere nel partito tra le varie anime, e che proprio non serve in un momento di debolezza. Nessuno quindi pretenda nulla, nemmeno quel Raffaele Fitto che continua ad invocare scelte che arrivino «dal basso e non dall’alto» 24 e che ieri sera - assieme ad altri big del partito - è stato a Palazzo Grazioli per capire le intenzioni del capo. Berlusconi, raccontano, è convinto che tocchi ancora a lui lavorare alla riunificazione del fronte dei moderati, che potrebbe concludersi con «primarie di coalizione che, se serve, faremo» e qualcuno non esclude nemmeno che alla fine sia lui stesso a presentarsi. Per questo, inutile ora aprire guerre di successione: l’ipotesi di una segreteria ristretta con tutti i big nella tolda di comando è ancora in piedi, ma non sembra il momento di lanciarla, meglio far calare la tensione. Per adesso, quello a cui tiene di più Berlusconi è tessere la tela delle alleanze in tutte le direzioni. A partire dall’ex alleato al momento più forte, la Lega. È Giovanni Toti infatti ad annunciare che FI sosterrà alcuni dei referendum proposti dal Carroccio (abolizione della legge Fornero, reintroduzione del reato di immigrazione clandestina) e lo stesso Berlusconi nei prossimi giorni li firmerà. Un gesto gradito da Salvini (che pure chiede all’ex premier di ritirarsi «avendo 80 anni»), molto meno dall’Ncd: «Se vogliono ricostruire con noi - dicono gli ex pidiellini - bisogna essere chiari sui compagni di strada: non possono essere alleati di Le Pen...». Viceversa, i leghisti avvertono che sarà difficile tenere i rapporti con chi «è alleato della Merkel». E comunque Angelino Alfano per il momento chiude la porta: «Per una riunificazione ora non ci sono le condizioni». Insomma, il percorso si preannuncia molto accidentato, ma non dovrebbero esplodere mine a breve, visto che nessuno considera il voto imminente. E anche questa considerazione pesa sull’atteggiamento che si dovrà tenere su riforme e legge elettorale, che per dirla con Maurizio Gasparri «è l’unico tema del quale ci dobbiamo occupare, parlare di primarie e altro serve solo ad alimentare polemiche per i giornali», argomento perfettamente condiviso da Daniela Santanché. Ieri, a chi lo ha incontrato, Berlusconi è parso molto cauto sul tema: «La palla sta a Renzi, ci deve far vedere lui cosa vuole fare». Non è un’apertura incondizionata, ma nemmeno una chiusura o una tentazione di rovesciare il tavolo. Piuttosto, è il modo per far contare quel peso parlamentare che ancora Forza Italia ha: «Renzi sa che siamo decisivi per far passare le riforme, l’ha capito bene». È probabile quindi che sul Senato le richieste di modifica si facciano più incalzanti, assieme ad un rilancio del presidenzialismo. Del 28/05/2014, pag. 7 La svolta populista dell’ex Cav: firmerà i referendum leghisti Ma Salvini vuole anche l’uscita di Forza Italia dal Ppe La Procura indaga sul caso Geithner Silvio Berlusconi si prepara a gestire all’interno del partito la sconfitta elettorale nell’ufficio di presidenza di oggi pomeriggio, quando la fronda anti- cerchio magico cercherà di riequilibrare i rapporti di forza e andrà in pressing sulle primarie. L’unica buona notizia, nel clima da fine di un’epoca che vede Forza Italia al minimo storico con un leader «ammanettato e imbavagliato», come lamenta Paolo Guzzanti, è che la procura di Roma indaga sul presunto «complotto europeo » ai suoi danni rivelato dall’ex ministro statunitense Tim Geithner. I magistrati hanno aperto ieri un fascicolo senza ipotesi di reato né indagati sulla vicenda, dopo aver ricevuto diversi esposti tra cui quello della deputata forzista Michaela Biancofiore. È un atto dovuto con cui si cercherà - con oggettive difficoltà dato che si tratta di una faccenda internazionale- di ricostruire la veridicità di quanto sarebbe accaduto tra l’estate e l’autunno 2011, quando, 25 secondo il racconto del politico Usa alcuni «funzionari » dell’Unione Europea avrebbero proposto all’amministrazione Obamaun piano per far cadere Berlusconi da Palazzo Chigi. Una «trama» che la Casa Bianca avrebbe rifiutato: «Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani». Fatto sta che l’annuncio dell’indagine risolleva un po’ l’umore di San Lorenzo in Lucina. Entusiasta Daniela Santanchè: «Bussino anche al Quirinale». Ma nell’orizzonte dell’ex Cavaliere non c’è solo la ricostruzione di Forza Italia, con la carta Marina in stand by almeno fino a settembre e la richiesta di primarie che sale dal nuovo “mister preferenze” Raffaele Fitto e da altri big. Nel breve periodo, altrettanto importante è definire una linea chiara di opposizione. Smettere di essere «né carne né pesce», come li aveva bollati Alfano. Per evitare emorragie dai gruppi parlamentari e sul territorio, per tenere in sicurezza il magro risultato, per riconquistare gli elettori rimasti fedeli sulla carta attraverso l’astensionismo. E su questo terreno si gioca la partita tra filo-governativi e duri e puri. Terreno principe, le riforme. Con Denis Verdini in trincea per tenere vivo il patto del Nazareno: ben oltre le prime dichiarazioni concilianti di Berlusconi, la trattativa si giocherà sul filo dei numeri e delle concessioni politiche. Intanto, però, il leader batte un colpo nel campo populista. Giovanni Toti ha annunciato che in settimana Berlusconi firmerà i referendum promossi dalla Lega. Vale a dire le sei proposte di consultazione popolare contro l’abolizione del reato di clandestinità, la riforma Fornero, la legge Merlin, l’abolizione delle prefetture, per l’esclusione degli stranieri dai concorsi pubblici, contro la legge Mancino sull’odio razziale. Una firma simbolica, dato che è privo del diritto di voto,ma che manda un segnale chiaro. E risponde alla richiesta del segretario padano Matteo Salvini, che ha dettato le condizioni per la ripresa del dialogo con Forza Italia. Significa che, in questo momento, l’ex Cavaliere punta sulla resurrezione della vecchia Casa delle Libertà, la coalizione di centrodestra a trazione «forzaleghista» di tremontiana memoria. I tempi, però, non sono più quelli di Bossi. La nuova Lega ha abbandonato i sogni (falliti) della Padania e del federalismo fiscale per rilanciarsi con le parole d’ordine dell’uscita dall’euro, della lotta all’immigrazione clandestina, della tutela del made in Italy. Sulla scorta del tour di Salvini in Puglia e Campania, dei voti di Casa Pound nel Lazio, del ripescaggio di Borghezio, la Lega punta a trasformarsi nella succursale italiana del Front National. Grazie anche al rapporto privilegiato avuto in campagna elettorale con Marine Le Pen, con la quale condivideranno gli euroscranni. Di qui la seconda condizione posta da Salvini a Berlusconi, approfittando della debolezza degli azzurri: uscire dal Ppe, per smarcarsi anche plasticamente da Angela Merkel. Difficile che l’ex Cavaliere accetti, se non altro perché il suo fiuto dovrebbe avvertirlo della trappola: «Silvio ha 80 anni - ammicca infatti il leader del Carroccio - Lasci spazio a me o a Flavio Tosi». Punzecchiature, ma la guerra di successione nel centrodestra si è aperta. In palio, ovviamente, non la leadership bensì le spoglie elettorali di Forza Italia: quel bottino di voti che attende una nuova guida carismatica o un federatore di alto rango. Al momento entrambe le caselle risultano vacanti. E l’eventuale svolta populista allontanerebbe la già complicata riconciliazione con Alfano. Con Gaetano Quagliariello che provoca Gasparri: «Avete perso tanti voti, alla fine sull’arca di Noè restano il cane, il gatto e te». Replica: «Siete vivi grazie a Cesa», cioè ai voti dell’Udc. In compenso, Berlusconi non ha alcuna intenzione di farsi da parte. «Ci sono soltanto io e ancora io»: questo pensa e questo dirà oggi all’ufficio di presidenza. Disposto a concedere poco - un ruolo sì, il potere no - a Fitto. Restio a restringere il campo d’azione del cerchio magico: Toti e Alessandro Cattaneo saranno nominati responsabili dello scouting, del reclutamento di nuove leve. Nonostante il giovane sindaco di Pavia dovrà guadagnarsi il mandato bis attraverso il ballottaggio. Mentre, da qui in in poi, sarà battaglia sulle primarie di coalizione. 26 del 28/05/14, pag. 15 In 17 città verdetto rinviato al ballottaggio Lo considera il tris di Renzi. Il vicesegretario del Pd, Debora Serracchiani, commentando il risultato delle Amministrative non esita, « è il terzo risultato straordinario sotto la direzione di Renzi: le Regionali in Sardegna, le Europee ed ora le Amministrative». Alla sede del Nazareno si comincia a soppesare l’entità di una vittoria che consegna una fetta importante degli enti locali nelle mani di amministratori del Pd. L’obiettivo dichiarato è arrivare a governare in 20 su 27 capoluoghi di provincia in cui si è votato (al momento ne sono stati già conquistati 7, 2 sono andati al centrodestra, uno — Campobasso — è bloccato da un ricorso mentre sono 17 i centri in cui si andrà al ballottaggio). A dirlo è Stefano Bonaccini, responsabile enti locali del Pd, che sottolinea, tra l’altro, la fine dell’egemonia leghista in Piemonte. Il quadro in Toscana Dal quadro dei candidati eletti emerge che in Toscana, su 204 comuni chiamati al voto, ben 196 hanno eletto il sindaco al primo turno. Tra questi si segnalano le vittorie schiaccianti di Dario Nardella (59,1%) a Firenze e di Matteo Biffoni (58,2%) a Prato. Quest’ultimo ha strappato il Comune al centrodestra. I cambi di orientamento al vertice dei municipi toscani sono stati in totale 26. In particolare 11 Comuni sono passati dal centrodestra al centrosinistra, mentre sono 6 i sindaci di centrodestra subentrati a colleghi del Pd. Completa la lista l’elenco di 9 Comuni transitati da una guida di centrosinistra a una lista civica. Al ballottaggio l’8 giugno in Toscana andranno solo 8 Comuni. Il caso più eclatante è quello della rossa Livorno. Città di storico orgoglio operaio e portuale che non è riuscita a vedere eletto il candidato del Pd, Marco Ruggeri (39,9%), al primo turno. Un esito senza precedenti. La sorpresa discende dal cortocircuito all’interno delle forze di sinistra. A sottrarre voti alla lista di Ruggeri è stato soprattutto Andrea Raspanti (16,4%), giovane candidato a capo di Buongiorno Livorno, una formazione composta da ex esponenti e simpatizzanti di area Pd, che tuttavia hanno scelto di correre da soli. Lo scontro fratricida si è rivelato un assist a Filippo Nogarin (19%), l’aspirante sindaco dei 5 Stelle, che, non a caso, andrà al ballottaggio. Con tanto di indicazione già annunciata, a sorpresa, da parte di Forza Italia di fare convergere i voti del centrodestra sul partito di Grillo. Per i grillini il Comune di Livorno rappresenta una delle tre possibilità di eleggere un sindaco in Toscana, dopo un primo turno in cui sono rimasti a bocca asciutta. Sgarbi di destra a Modena Le liti e i bisticci di Livorno sembrano speculari a quelli di Modena, dove una disputa all’interno delle forze di centrodestra ha impedito che al ballottaggio contro l’assessore regionale Gian Carlo Muzzarelli (non è stato eletto per un soffio, 49,7%) si presentasse un esponente moderato. Tutta colpa del disaccordo tra Carlo Giovanardi (Ncd), che ha ottenuto il 4% e la formazione Udc-Forza Italia di Giuseppe Pellacani, forte del 12,5%. Insieme avrebbero ottenuto il 16,5%, da separati hanno spianato la strada al candidato dei 5 Stelle, che, incassando il 16,3%, andrà al ballottaggio con Muzzarelli. I ballottaggi in Umbria Ai supplementari sono destinati anche nove Comuni dell’Umbria. Le piazze principali sono quelle di Perugia e Terni. La partita vedrà i due sindaci uscenti del Pd, rispettivamente Wladimiro Boccali (46,5%) e Leopoldo Di Girolamo (47,2%) contro due esponenti del centrodestra, Andrea Romizi a Perugia e Paolo Crescimbeni a Terni. A Pavia il sindaco «formattatore» di centrodestra Alessandro Cattaneo (46,7%) ha faticato e, diversamente da cinque anni fa, dovrà vedersela con Massimo Depaoli (36,4%) il prossimo 8 giugno. «Con Forza Italia al 17% credo di aver fatto — spiega — un miracolo. C’è stato un effetto 27 personale e questo fa ben sperare per il ballottaggio». Per il trentacinquenne Cattaneo,vice presidente dell’Anci e nuova leva emergente in Forza Italia, la rielezione ha una valenza politica che va al di là del destino del municipio di Pavia. Va ricordato che il centrodestra si è aggiudicato finora solo due città: Ascoli Piceno con Guido Castelli e Tortolì con Massimo Cannas. Il testa a testa di Bari Un’altra città su cui saranno puntati i fari in occasione del secondo turno è Bari. Dopo un lento e sfibrante scrutinio il candidato del Pd, Antonio Decaro, non è riuscito a superare il 50% dei voti e si è fermato a quota 49,4%. Il suo avversario di centrodestra, Domenico Di Paola, si è attestato al 35,8%. Tutto, insomma, da rifare, con l’inderogabile esigenza da parte del centrosinistra di non perdere una strategica piazza del Sud. Non a caso il sindaco uscente, Michele Emiliano, ripete: «Dobbiamo restare concentrati sulle comunali. Non è facile assicurare la prosecuzione del governo di centrosinistra in una città che Tatarella chiamava la Bologna nera». Al ballottaggio si andrà pure a Foggia. Franco Landella del centrodestra, sfiderà Augusto Marasco, espressione di una coalizione di centrosinistra. Al Sud la regione dove il Pd ha maggiormente faticato è la Campania, il partito di Renzi non è riuscito a conquistare neanche un grande Comune al primo turno. Così il prossimo 8 giugno si voterà in 14 centri per eleggere il nuovo sindaco. Del 28/05/2014, pag. 13 La pecora nera del centrosinistra Livorno va al ballottaggio SIMONA POLI LIVORNO .Nell’urna delle Europee il Pd prende un sacco di voti, in quella delle comunali no, da una parte esce il 53%, dall’altra appena il 40. È così che Livorno la rossa in un solo giorno si trasforma nella pecora nera del trionfo renziano, mandando al ballottaggio il quarantenne Marco Ruggeri, capogruppo uscente dei Democratici nel consiglio regionale, con l’ingegnere aerospaziale Filippo Nogarin, il candidato dei Cinque Stelle che lunedì notte festeggiava in piazza il clamoroso risultato mentre a Genova Grillo masticava Maloox nel salotto di casa. C’è sempre una prima volta si sa, anche se è dura per Ruggeri accettare di passare alla storia come quello che non ce l’ha fatta al primo turno nella città che ha tenuto a battesimo il Pci e che dal dopoguerra sempre immancabilmente affida le sue sorti alla guida della sinistra. «Per forza è andata male», dice sconfortato mentre guarda la sua foto sul Tirreno sotto al titolo “Libecciata”. «Mentre Renzi combatteva la crisi giocando d’attacco qui si stava in difesa, arroccati ai soliti schemi. Ho solo un anno più del premier e non ci sto a interpretare il ruolo del vecchio apparato. Del resto ho scelto uno slogan che dice tutto, “Livorno punto e capo”, più chiaro di così». Quella frasetta ha fatto infuriare non poco Alessandro Cosimi, medico ed ex veltroniano, sindaco da dieci anni. «Ruggeri si ferma al 40% e se la prende con me?», attacca. «Sarebbe come se Buffon sbagliasse una parata e dicesse che è colpa di Zoff. Comunque non ci credo che Livorno finirà tra le braccia di Grillo, il ballottaggio non è il secondo tempo ma un’altra partita». Che in panchina guarda caso schiera una terza squadra, quella capitanata da Andrea Raspanti, l’inventore di “Buongiorno Livorno”, una delle quattro liste civiche che lo hanno fatto arrivare terzo col 16,4, un bel mucchio di voti che adesso fa tanta gola. Tutta gente di sinistra, dai trenta ai cinquanta, che da mesi organizza assemblee partecipatissime e contesta apertamente il Pd. «Il sistema va scardinato, questa città non ha un progetto e 28 deve ancora capire cosa farà da grande», spiega Silvia Biondi che col marito Giovanni gestisce la Bodeguita, il bar galleggiante della centralissima Venezia che fa da quartier generale al gruppo di Raspanti. Lui ha una faccia curiosa, da trentenne irrequieto, va forte sui social e pensa che quello di Renzi sia un “rinnovamento cosmetico”, più fumo che arrosto insomma. «Non so se daremo indicazioni di voto», avverte, «lo decideremo insieme. Il Pd ha 2348 iscritti, fino a qualche anno fa erano ventimila, una riflessione dovrebbero farla». Con altre parole dice la stessa cosa Mario Cardinali, il direttore del Vernacoliere che ha appena mandato in tipografia il nuovo numero, nella vignetta si vedono quelli che hanno già speso gli 80 euro e ora vogliono andare tutti a cena da Renzi. «Siamo i più ganzi di tutti noi livornesi se la ride Cardinali - e poi questo monolitismo politico ha un po’ stufato e il renzismo non sfonda». Sarà per questo che davanti al cantiere Orlando qualcuno ha scritto sui muri «Renzi Gattopardo». Nogarin gongola: «Ora punto a vincere, ovvio, siamo una città in ginocchio». Alfonso Maurizio Iacono, docente di Filosofia all’università di Pisa, ha avuto Raspanti tra i suoi studenti. «Non è da escludere che prevalga la voglia di mandare a casa il partito che da sempre fa il padrone di casa», osserva. «Prima di candidare un politico il centrosinistra ha incassato quattro rifiuti da esponenti della società, un segno di debolezza che ora paga caro». Renzi ha giurato a Ruggeri che prima dello scontro finale arriverà in soccorso, Grillo ci sta pensando. Livorno ha due settimane per scegliere da che parte stare. 29 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 28/05/2014, pag. 11 Alle ’ndrine gli appalti di Wind, Enel e Anas Lavori edili effettuati a Roma per conto di Wind, di Enel o di Anas da parte una ditta fiduciaria delle cosche della ndrangheta: la Lico Santo srl, creata da tale Lico Santo di Vibo Valentia 4 anni fa, con una sede legale di prestigio a Collina Fleming nonché con succursali in tutta Italia. Un’impresa, la «Lico Santo», già finita in un’indagine sugli appalti truccati alla Asl di Vibo. Gli investigatori ieri l’hanno sottoposta a sequestro dopo aver scoperto che era gestita dalle cosche col pugno di ferro: su imposizione dei calabresi la «Lico Santo», tra le altre cose, impiegava in massa lavoratori in nero che venivano costretti a turni massacranti, a salari da fame e naturalmente al silenzio, sotto la minaccia di pesanti ritorsioni. L’ennesima operazione di contrasto alle infiltrazioni della criminalità organizzata a Roma, conclusa ieri dalla Direzione Investigativa Antimafia della capitale riguarda la cosca Fiarè-Razionale di Vibo Valentia ed è una storia che racconta di un’infiltrazione silenziosa nell’economia reale del nostro Paese. Al centro delle indagini la figura del boss calabrese Saverio Razionale, 53 anni, nato vicino Vibo ma residente a Roma, già finito a marzo scorso all’attenzione delle cronache giudiziarie di tutta Italia quando la Dia scoprì che il malavitoso, attualmente a piede libero nonostante una condanna definitiva per associazione mafiosa, aveva reinvestito a Roma i soldi della ’ndrangheta acquistando imprese commerciali tra cui anche il noto bar «Caffè Fiume», a pochi passi da Via Veneto, non lontano peraltro dalla residenza di Razionale, che risulta abitare in via Quintino Sella. Era Razionale, secondo quanto accertato dagli investigatori, a imporre alla «LicoSanto » il personale in nero da impiegare nei cantieri della capitale e di tutta Italia: molti degli operai irregolari sono risultati calabresi, gli altri stranieri extracomunitari. Figura di primissimo piano, il boss Razionale è considerato al vertice della cosca dagli anni 80, dopo l’attentato in cui perse la vita in un agguato Giuseppe Gasparro, detto «Pino u gatto», precedente capo clan, ucciso mentre si trovava insieme a Razionale che infatti rimase ferito. Secondo l’Antimafia da quel momento in poi Razionale, coinvolto pure in fatti di sangue, è divenuto elemento di riferimento per tutte le attività finanziarie della cosca Fiarè, in Calabria e a Roma: usura, riciclaggio, estorsioni. A Roma Razionale si era trasferito nel 2005, dopo aver subito un arresto: scarcerato all’epoca per scadenza dei termini di custodia cautelare, era riuscito a dar vita, nella Capitale, ad una rete criminale specializzata nel reinvestimento dei proventi illeciti della ’ndrangheta fino alla condanna definitiva per associazione di tipo mafioso da lui incassata nel 2012. Da quel momento Razionale si era dato alla latitanza fino allo scorso febbraio. In quella data infatti la Suprema Corte, pur confermando la condanna per l’associazione di tipo mafioso, aveva annullato il provvedimento per una questione tecnico- giuridica connessa a una errata determinazione della pena da parte della Corte d’Appello, che lo aveva condannato senza tener conto delle attenuanti generiche a suo favore. Ieri la Dia ha sottoposto a sequestro anche la società che gestisce il caffè Fiume e un appartamento a Vibo riconducibile a Razionale ma fittiziamente intestato al sindaco uscente del comune della Calabria ove Razionale è nato, San Gregorio D’Ippona, Michele Pannìa. 30 Del 28/05/2014, pag. 21 L’ex ministro oggi dal gip. Spuntano altri nomi in codice: Sole e Schiavo L’ordinanza: “Otto bonifici per far sparire un milione dai fondi per l’Iraq” “Il conto Pesce in Svizzera cassaforte segreta di Clini” indagata anche la moglie MARIA ELENA VINCENZI ROMA . Otto bonifici per un totale 1 milione e 20 mila euro girati a “Pesce”. Era questo il nome in codice dell’ex ministro dell’Ambiente del governo Monti, Corrado Clini, da due giorni ai domiciliari con l’accusa di peculato. Non hanno dubbi, i magistrati di Ferrara: una parte dei soldi pubblici stanziati dall’Italia per la ricostruzione in Iraq, è stata dirottata sui conti di Clini grazie, spiega il gip Piera Tassoni, a «un complesso e sofisticato meccanismo, preordinato all’appropriazione di denaro pubblico». Il sospetto è che non si tratti di un caso isolato ma di un sistema: anche la procura di Roma lavora sui finanziamenti da circa 200 milioni del ministero con l’ipotesi di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione aggravata dalla transnazionalità. Oggi Clini sarà interrogato dal gip a Ferrara. DENARO CHE APPARE E SCOMPARE Nelle 52 pagine di ordinanza si fa una minuziosa ricostruzione dei flussi finanziari. Del denaro che dal ministero finisce alle due Ong che dovevano gestire quei fondi, la Nature Iraq e la Free Iraq Foundation. E che poi, da lì, grazie a una serie di false fatture, viene in parte girato agli indagati. Scrive il gip di Ferrara che i soldi venivano versati «con un primo passaggio — per il solo transito — al conto corrente Limecross Limited Tortola, facente capo ad un intermediario svizzero, e con un secondo passaggio, nella stessa data del ricevimento, trasferito con bonifico su altri conti correnti identificati con tre codici: “Schiavo”, “Sole” e “Pesce”. “Sole” si identifica in Augusto Pretner Calore (ingegnere padovano, socio di uno studio coinvolto nel progetto Iraq, anche lui ai domiciliari, ndr). “Pesce” in Corrado Clini. Il terzo in Luciano Mascellani, persona deceduta». IL VALZER DI MOVIMENTI BANCARI Il conto “Pesce”, nel periodo 14 ottobre 2008-22 giugno 2010, riceve otto bonifici per un totale di 1milione e 20mila euro. “Sole” si intasca 1 milione e 580mila euro con 7 movimenti e poi, ancora, altri 450 mila in due tranche. Aperto il 13 giugno 2005, il deposito dell’ex ministro «è stato svuotato con 18 bonifici verso altro deposito gestito da Freelance ltd. presso una banca di Lugano. La Freelance è riferibile a soggetti intermediari finanziari dediti al trasporto di valuta contante». Cioè spalloni che portano valigette di soldi neri dalla Svizzera. Chiosa il gip Tassoni: «Può affermarsi, con elevato grado di gravità indiziaria, che le somme di denaro confluite sui conti di Corrado Clini e Augusto Pretner Calore sono parte dei finanziamenti stanziati dallo Stato italiano, per la realizzazione del progetto New Eden in Iraq». FALSE FATTURE E MAIL PREDATATE Non hanno dubbi, le Fiamme Gialle e i pm ferraresi, di come funzionasse il giro. «Le somme erogate dal governo italiano — si legge nelle carte — confluivano nei conti correnti intestati a Nature Iraq ed Iraq Foundation. Dai medesimi conti erano tratti i bonifici con cui dette società pagavano le fatture emesse nei loro confronti dalla società (olandese) Gbc. Le somme versate a Gbc, attraverso il passaggio sul conto di Orient Invest Ltd., pervenivano dapprima sul conto corrente svizzero intestato a Coolshade Enterprise e, attraverso l’ulteriore passaggio di Limecross Limited Tortola, sui conti correnti nella disponibilità di Augusto Pretner Calore, codice “Sole”, e di Corrado 31 Clini, codice “Pesce”». Il meccanismo si reggeva su fatture inesistenti. Agli atti dell’inchiesta ci sono email con prestazioni predatate in modo da poterle giustificare. Il gip è categorico: «Dalle indagini non è emerso che la società Gbc abbia svolto attività in Iraq nell’ambito del progetto New Eden». E ancora: «I compensi percepiti dalla Gbc non sono rimasti nella sua disponibilità, come accade per i proventi di prestazioni realmente effettuate, ma sono stati trasferiti su altri conti mediante complesse operazioni d’interposizione. Tutti questi elementi dimostrano la fittizietà dei rapporti sottostanti alle fatture emesse da Gbc nei confronti di Orient Invest Ltd». I BUONI UFFICI PER LA CONSORTE La moglie di Clini, Martina Hauser, assessore del Comune di Cosenza, è indagata insieme all’ex ministro dalla procura di Roma. Ma il suo nome spunta anche nelle carte ferraresi. Il gip riporta stralci dell’interrogatorio di Clini, chiamato a rispondere per un’ipotesi di corruzione, commessa in concorso con Pretner e un altro, per una vicenda di conferimenti di incarichi professionali a vantaggio della convivente. L’ex ministro viene interrogato nell’ottobre del 2013. I magistrati hanno il sospetto che tutti quei movimenti di denaro non siano in regola. Gli mostrano i prospetti dei flussi finanziari tra le varie società. Clini risponde: «Prendo atto di quanto mi è stato mostrato e non so niente di tali rapporti. In ragione del mio incarico, però, prenderò i necessari provvedimenti a tutela dello Stato italiano». Peccato che i soldi finissero a lui. I magistrati ancora non lo sapevano. 32 SOCIETA’ Del 28/05/2014, pag. 1-34 LA COPERTINA Un solo genitore e un solo figlio boom di famiglie “Uno più Uno” MARIA NOVELLA DE LUCA VIVONO one-to-one. Un genitore più un figlio o una figlia, quasi sempre unici. Le famiglie “atomizzate” sono la nuova frontiera delle “smallfamilies”. Erano il 10% negli anni Novanta, oggi superano il 16% nelle statistiche ufficiali. VIVONO one- to- one. Spesso figli unici di sola madre. In casa nessun altro. Uno a uno. Maria con Davide, Gisella con Sofia Sole, Valia con Alice, Antonio con Giorgia, che ha cinque anni e una valanga di lentiggini. Nuclei minuscoli, ogni giorno più piccoli. Specchio e racconto di famiglie “atomizzate” dopo separazioni e divorzi, ma anche di maternità sempre più single. È la nuova frontiera delle “smallfamilies” il cui numero cresce di anno in anno, eppure dei monogenitori si parla poco. Erano il 10% negli anni Novanta, adesso superano il 16% nelle statistiche ufficiali, ma la realtà è assai più ampia, un quinto forse di tutte le famiglie italiane. Che oggi chiedono di uscire dall’ombra, di fare rete, di trovare sostegni. Racconta Gisella Canali, mamma di Sofia Sole, 11 anni, e una vita a due a Milano: «Il mio compagno mi ha lasciato non appena ha saputo che ero incinta. Diceva che per lui non era il momento di diventare padre. Eppure erano mesi che ne parlavamo. Ma io Sofia l’ho voluta con tutte le mie forze, anche se è stato durissimo allevarla senza aiuto, senza parenti vicini, e con un lavoro che mi faceva correre tutto il giorno... La fatica più grande è non poter condividere le responsabilità, sapere che se ti accade qualcosa non c’è un paracadute. E la difficoltà di essere una donna single in un mondo a coppie. Ma rifarei tutto: Sofia è una bambina equilibrata e serena e questo mi ripaga ogni sforzo». Sofia è un sole, come il suo nome, nella vita di Gisella, che oggi fa parte di una nuova rete di monogenitori che hanno dato vita a “Smallfamilies”, associazione nata proprio per sostenere le micro famiglie “one-toone”. La fondatrice si chiama anche lei Gisella, Gisella Bassanini, architetto e madre di Matilde, che ha 13 anni. «Il padre di Matilde se n’è andato ancora prima che nascesse, e di lui non abbiamo avuto più notizie. Ho vissuto tutta la fatica di crescere una figlia da sola, ma anche la gioia immensa di essere mamma, e la fortuna di poter contare su una forte rete familiare. Ma un genitore “unico” vive una condizione di perenne fragilità, per questo ho deciso di fondare “Smallfamilies”, per accendere i riflettori su un fenomeno di cui si parla troppo poco, nonostante l’enorme aumento delle separazioni e dei divorzi, da cui tutto questo discende ». Fragilità, isolamento. Le famiglie one-to-one in Italia sono formate quasi nel 90% dei casi da nuclei dove il monogenitore è una madre rimasta sola dopo un divorzio, un abbandono, o da donne che hanno scelto liberamente di essere mamme-single. «Quando il capofamiglia è una madre single, la famiglia è ad alto rischio di povertà», aggiunge Gisella Bassanini. «Da noi non esiste alcun sostegno, né sul fronte degli alloggi, né sul fronte del lavoro come avviene invece in Germania o in Spagna. In Italia c’è poi una doppia discriminazione. In Lombardia ad esempio sono previsti aiuti per le madri sole, ma soltanto se sono state sposate e non se provengono da coppie di fatto... ». 33 E così l’associazione “Smallfamilies” offre consulenze legali, economiche e psicologiche ai monogenitori. «Perché conoscere la legge aiuta a difendersi », spiega Maria Garofalo, mamma single di Davide e avvocato dell’associazione. «Mio figlio è frutto di un grande amore con un uomo sbagliato, che ha preferito tornare a vivere in Spagna piuttosto che fare il padre. Ho allevato Davide da sola, aiutandolo a vivere il dolore di quell’assenza, e oggi è un adolescente sereno. Ma proprio perché so quanto è difficile, ho deciso di mettere la mia esperienza di avvocato e di madre al servizio delle altre». Perché rispecchiarsi nelle vite altrui fa sentire meno diversi. E per fortuna non sempre si tratta di abbandoni traumatici o di padri che scompaiono. Eppure è stato proprio per far crescere sua figlia Alice in un una rete di relazioni ampie e solidali che Valia Galdi, urbanista, ha cambiato vita dopo una separazione “civile”. Abbandonato l’appartamento al centro di Genova, Valia e Alice si sono trasferite tra i boschi di Borzonasca, nel centro “Anidra”, una sorta di cohousing all’interno di un parco rurale poco lontano da Chiavari. «Se fossimo rimaste a Genova ci saremmo sentite molto meno sostenute. Qui invece Alice ed io abbiamo il nostro appartamento, ma condividiamo con le altre famiglie un progetto di vita ecologica e naturale. La cosa più bella è che ad Anidra si sono trasferiti anche i miei anziani genitori, e dunque Alice è al centro di una salda rete affettiva. Con il padre si vedono regolarmente, anche se di fatto l’unico punto di riferimento sono io e non è facile». Alice però, dice ancora Valia, «è stato il regalo inaspettato della mia vita, dopo un gravissimo incidente da cui sono uscita con un handicap che oggi mi costringe a zoppicare. Ma questo non mi ha impedito di emigrare sui monti e rivoluzionare la mia vita». Valia comunica entusiasmo e passione. Forse perché ha saputo spezzare “l’isola” delle famiglie monogenitoriali. Un senso di claustrofobia, che può anche diventare patologico, avverte Maria Rita Parsi, nota e attenta psicoterapeuta. «Il rischio è che non si spezzi mai la simbiosi madre-figlio. Accade che i bambini continuino a dormire nel lettone, occupando simbolicamente quel posto che dovrebbe essere del partner della mamma. Un altro grave pericolo di questi nuclei troppo piccoli, dove spesso le madri lavorano, è che i figli vivano un doppio isolamento: quello parentale e quello che ricreano davanti ad Internet. L’unica terapia è l’apertura, e soprattutto dare ai bambini altre figure maschili di riferimento». Un problema opposto a quello di Antonio Neri, fotografo di Trieste, che da due anni si è ritrovato padre single di Giorgia, cinque anni, e una incredibile somiglianza con Pippi Calzelunghe. «Ma a lei Pippi non interessa affatto, preferisce Peppa Pig», scherza Antonio, monogenitore dopo la separazione dalla moglie tornata a vivere in America. «Il tribunale me l’ha affidata dopo un processo doloroso, la mia ex aveva manifestato dei veri problemi psichici... Oggi la mia giornata è scandita dagli orari di Giorgia, faccio il fotografo fino alle quattro del pomeriggio e il padre per tutto il resto della giornata. L’allegria di Giorgia e il notevole aiuto dei nonni compensano tutto. Ma quando si sveglia la notte e cerca la madre mi sento fragile e perso. Perché so che così siamo soltanto una famiglia a metà». Del 28/05/2014, pag. 7 Carceri, l’Italia rimpatria 3.600 detenuti romeni Il tempo scade oggi. Ora si può solo attendere il verdetto di Strasburgo e del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa. Basta correzioni, interventi, proposte. Quello che è fatto, è fatto. Per sapere se è sufficiente per evitare oltre cento milioni di euro di multa - che 34 potrebbero lievitare in poco tempo visto che ci sono circa settemila ricorsi pendenti bisogna probabilmente aspettare i primi giorni della prossima settimana. La Corte, infatti, è previsto che si riunisca lunedì prossimo. Da allora ogni momento è buono per sapere se l’Italia ha superato l’esame di civiltà per cui è finita sotto processo davanti al Tribunale dei diritti dell’uomo e che ci accusa di sottoporre a tortura i detenuti ristretti nella nostre carceri. Sarà, questo verdetto, anche il primo test ufficiale e concreto del governo davanti alla nuova Europa. E alla vigilia dell’assunzione dell’Italia della presidenza del semestre europeo. Il 21 e il 22 maggio il ministro Guardasigilli Andrea Orlando è volato per l’ultima volta utile e Strasburgo. Al presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo Dean Spielmann ha consegnato il dossier che dovrebbe dimostrare che la situazione nelle carceri in Italia non è eccellente ma certamente assai migliore rispetto al gennaio 2013 quando Strasburgo accusò (sentenza Torregiani) il governo di tortura intimando un intervento immediato pena una salatissima multa. Oggi sono 59.683 i detenuti nelle carceri italiane: significa che qualche passo avanti è stato fatto visto che al 30 giugno 2013 erano ristrette 66.028 persone. Seimila detenuti in meno, è vero, ma ce sono ancora 15 mila in più rispetto ai posti regolari che sono 49 091 da cui però vanno sottratti almeno quattromila posti letto perchè «non disponibili » in quanto fatiscenti. Antigone, l’associazione che da anni si occupa dei detenuti, stima che «il tasso di affollamento italiano è del 134.6%, significa 134,6 detenuti per 100 posti letto». Prima dell'inizio della procedura europea, ha spiegato il presidente Patrizio Gonnella, «eravamo secondi per sovraffollamento solo alla Serbia che aveva un tasso del 159,3%. Con il dato di oggi siamo stati superati anche da Cipro e Ungheria. Restiamo lontani dalla media europea, che e' del 97,8%». Una situazione non omogenea in cui alcune regioni sono piu virtuose e altre meno. In Puglia il tasso di sovraffollamento è del 148,4%, in Lombardia e' del 136,7%, nel Lazio del 133,7%. Fino al caso limite, Secondigliano (Napoli), dove in aprile c’erano 1.357 detenuti per 650 posti (circa il 200 per cento). Il Guardasigilli ha spiegato gli interventi che stanno piano piano liberando le celle senza per questo far venire meno i criteri di sicurezza. Oltre ad alcune leggi approvate dal Parlamento (messa alla prova, detenzione domiciliare, custodia cautelare) per cui il ricorso al carcere preventivo (circa il quaranta per cento è in attesa di giudizio) viene fortemente limitato, Orlando ha documentato gli accordi internazionali per cui l’Italia potrà rimpatriare i detenuti comunitari. Tremila e seicento sono quelli romeni e pochi giorni fa il ministro della Giustizia ha incontrato il collega romeno per sveltire i passaggi burocratici. Accordo analogo è stato sottoscritto con il Marocco (la seconda comunità straniera detenuta in Italia). Trattandosi di un paese extracomunitario, ciascun detenuto dovrà prima accordare la propria disponibilità al rimpatrio. Non saranno molti, ma sarà sempre qualcosa. Nello stesso dossier di via Arenula, anche gli accordi con le regioni per affidare i detenuti tossicodipendenti ai Centri specializzati. Sono circa 25 mila i detenuti per reati di droga e l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi consente nel tempo ampi spazi di manovra anche su questa categoria di detenuti. Palazzo Chigi incrocia le dita, non sarebbe un bel segnale iniziare il semestre di Presidenza con una multa della Cedu. Meno che mai avere appiccicata addosso la patente del paese incivile perchè non sa rispettare i diritti dei propri detenuti. Parliamo di ora d’aria, spesso negata, e di spazi fisici (neppure 3 mq a persona). Nel dossier di via Arenula si fa cenno anche alle «misure compensative» previste per evitare che migliaia di ricorsi sommergano Strasburgo. Non ci sono molte alternative: sconti pena per chi è ancora detenuto; soldi per chi è già uscito. In ogni caso, una sconfitta 35 Del 28/05/2014, pag. 17 Un boato lungo 40 anni La strage di Piazza della Loggia,8 morti senza colpevoli: tutti assolti o prescritti «AMICI E COMPAGNI,LAVORATORI E STUDENTI, SIAMOIN PIAZZA PERCHÉ IN QUESTI ULTIMI TEMPI UNA SERIE DI ATTENTATI DI MARCAFASCISTA HA POSTO LANOSTRACITTÀE LANOSTRAPROVINCIA ALL’ATTENZIONE PREOCCUPATA DELLE FORZE ANTIFASCISTE…».Bombe esplose, bombe ritrovate dentro una chiesa, in un parco pubblico, una bomba che sventra una macelleria, colpi di pistola contro un mercato della Coop, attentati sventati con un obiettivo: i sindacati, un giovane «camerata» di Ordine Nuovo, Silvio Ferrari, dilaniato dal chilo di tritolo che portava con sé. In Piazza della Loggia, a Brescia, dalle dieci del mattino, un mattino, grigio, piovoso, si sono raccolte migliaia di persone. Molti cercano riparo sotto i portici. Molti sono studenti. Molti sono insegnanti. Franco Castrezzati, sindacalista della Cisl, continua nel suo discorso. Cita Almirante, il segretario del Msi, il repubblichino di Salò, fucilatore di partigiani. Denuncia le disattenzioni o le connivenze dei corpi dello Stato, che dovrebbero vigilare, impedire, reprimere quella violenza, quel terrore neofascisti. Dice: «A Milano…». Forse avrebbe voluto ricordare Piazza Fontana. Ma in piazza si ascolta solo un boato. Si sente ancora Castrezzati: «Compagni, amici, state fermi, state calmi, state all’interno della piazza, il servizio d’ordine faccia cordone attorno alla piazza…». Sono le dieci e dodici minuti del 28 maggio 1974: a terra sono rimaste decine e decine di persone, sangue sul selciato, la bandiera che copre un cadavere. Pochi istanti dopo ininterrotto si udirà solo il sibilo delle sirene delle ambulanze. Poco più di un’ora dopo i vigili del fuoco avranno l’ordine di ripulire la piazza con gli idranti. Il sangue verrà cancellato e con il sangue verrà cancellata ogni traccia della bomba. Alla fine i morti saranno otto, i feriti un centinaio. La bomba fascista occultata in un cestino dei rifiuti uccise Giulietta Banzi Bazoli, anni 34, insegnante; Livia Bottardi Milani, anni 32, insegnante; Euplo Natali, anni 69, pensionato; Luigi Pinto, anni 25, insegnante; Bartolomeo Talenti, anni 56, operaio; Alberto Trebeschi, anni 37, insegnante; Clementina Calzari Trebeschi, anni 31, insegnante; Vittorio Zambarda, anni 60, operaio. La strage di Brescia è una strage in diretta audio: non si vede, saranno poi le foto a raccontare il luogo, ma si può ascoltare. Riascoltare quarant’anni dopo il sindacalista della Cisl dalla tribuna, il boato, le urla della gente muove un’emozione profonda, l’angoscia e l’orrore, nel ricordo di morti, di strategie eversive, di paure profonde, di una democrazia in bilico, sotto i colpi della «strategia della tensione». Dopo Brescia, sarà in agosto l’attentato all’Italicus. Un ministro degli interni, democristiano, ex partigiano cattolico, Paolo Emilio Taviani, annotò su suo diario: «Certo il clima è pesante. Assomiglia a quello del Cile prima dell’avvento di Pinochet». Le cronache raccontano del «golpe bianco» di Edgardo Sogno, del golpe di Junio Valerio Borghese, dell’arresto del generale Vito Miceli, capo del Sid, servizio investigativo, con l’accusa di cospirazione contro lo stato. In agosto, dopo l’Italicus, sotto il titolo Due mesi dopo Brescia, il Corriere della Sera scriverà: «Lo stato esita a punire i servitori infedeli, i capi intriganti, gli organismi malati… Sono note le colpe, le debolezze e gli atti concreti che hanno favorito le organizzazioni del terrorismo nero». Lo scriverà anche Pier Paolo Pasolini, in uno dei suoi più letti e ricordati articoli: «Cos’è questo golpe? Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe…». In quei mesi, dal Cile in avanti, Berlinguer e il Pci disegneranno la strategia del compromesso storico e 36 dell’alternativa democratica. Seguiranno gli «anni di piombo». Attorno a Piazza della Loggia si consumarono indagini, istruttorie, processi sentenze. Quarant’anni per capire quello che subito si era capito, cioè l’origine fascista della strage e la compromissione di organismi dello stato, dei servizi segreti, quarant’anni che non sono stati sufficienti però ad accertare la verità giudiziaria. La prima istruttoria si concluse nel 1979 e condusse alla condanna di alcuni esponenti della destra bresciana. Tra di essi, Ermanno Buzzi, che, in carcere in attesa d’appello, fu strangolato da Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. In appello vennero tutti assolti e la Cassazione confermò le assoluzioni. L’ultima istruttoria terminò nel 2008 con il rinvio a giudizio di Delfo Zorzi, dal 1989 cittadino giapponese (grazie al suo matrimonio con una ricca signora di Okinawa), Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte (fascista e insieme agente del Sid, in piazza della Loggia quel giorno), Pino Rauti, Francesco Delfino ex generale dei carabinieri), Giovanni Maifredi (collaboratore del ministero degli interni). L’accusa fu di concorso in strage per tutti gli imputati, ad eccezione di Rauti, per il quale venne chiesta l’assoluzione «per non aver commesso il fatto», malgrado la responsabilità morale e politica. Tutti assolti o prescritti in primo grado, in appello il giudizio venne confermato. Le parti civili vennero invece condannate al rimborso delle spese processuali. Il 21 febbraio 2014 la Corte di Cassazione annullò le assoluzioni di Maggi e Tramonte, confermando quelle di Zorzi e Delfino. Grazie alla direttiva del 22 aprile scorso, i fascicoli relativi alla strage di Piazza della Loggia non sono più coperti dal segreto di Stato. 37 INFORMAZIONE del 28/05/14, pag. 5 La Rai insorge (contro Renzi) e Vespa batte cassa IN CDA IL PARERE DI PACE CONTRO I 150 MILIONI DI TAGLIO IL CONDUTTORE, RIABILITATO DA GRILLO, ALZA LA POSTA Di Carlo Tecce Un parere di 15 pagine, non una virgola di troppo, la firma in evidenza già di per sé blasonata: il professor Alessandro Pace, ex presidente dei Costituzionalisti italiani, inchioda il governo a quel decreto che sottrae 150 milioni di euro a Viale Mazzini. Il sindacato dei giornalisti Rai, in sigla Usigrai, ha coinvolto Pace per riproporre un duello che il silenzio elettorale (durato settimane in Viale Mazzini) aveva silenziato. Il costituzionalista fa notare che il comma che riguarda l’azienda pubblica, inserito nel testo di copertura degli 80 euro in busta paga, va contro la Carta, non la rispetta, perché “il canone è una tassa di scopo e le relative entrate non vanno nel bilancio generale”. Il prelievo sarebbe “un’appropriazione indebita” e i consiglieri d’a m m i n istrazione non possono non reagire: sono responsabili. Per garantire un percorso non accidentato (anzi protetto), Pace suggerisce di presentare un ricorso al Tribunale Civile per ottenere la restituzione dei 150 milioni e poi plasmare una riforma Rai in sessanta giorni. Il documento, appena diffuso, già sosta al settimo piano di Viale Mazzini, negli uffici di Luigi Gubitosi, il direttore generale e Annamaria Tarantola, il presidente. IL BERLUSCONIANO Antonio Verro, per sfruttare le oscillazioni da sbandata politica in Viale Mazzini (Renzi non ha eletto nessuno fra i vertici, tutti eredi di larghe intese ai tempi di Mario Monti), inserisce un ordine del giorno specifico per il Cda di oggi, un dilemma da risolvere senza ulteriore titubanza: che fa la Rai, apre il fronte a Palazzo Chigi o perisce senza fiatare? Sarà interessante scoprire la strategia aziendale, che avverte le pressioni di Renzi, che organizza proteste, che non riesce a veleggiare a carburante ridotto. Esempio 1: i dirigenti dei palinsesti, quelli che incastrano i programmi, vogliono prolungare la durata dei programmi in prima serata per risparmiare in seconda. In Viale Mazzini avvertono l’accerchiamento di Renzi. Esempio 2: temono che oltre i 150 milioni, ce ne siano ancora 50 da limare per la “riduzione ai costi operativi per le partecipate statali”. Il dg Gubitosi ha il mandato in scadenza fra un anno, ma potrebbe lasciare prima: o meglio, il governo potrebbe spingere l’ex amministratore delegato di Wind verso l’uscita se le operazioni di Renzi dovessero fallire. Le intenzioni in Cda saranno meno criptiche questo pomeriggio, perché la volata di Verro non è in solitaria. Forza Italia ha (quasi) disintegrato l’enorme patrimonio di voti, ma non vuole cedere (né dividere) l’avamposto in Rai. Luisa Todini, presidente di Poste Italiane, ha promesso che s’accontenterà di un’uni - ca poltrona entro l’autunno: per quella in Viale Mazzini è pronto Sestino Giacomoni, deputato, di professione consigliere politico di Berlusconi. In questa Rai non renziana (ma che aspira, in parte, a diventare renziana), dopo la riabilitazione persino di Beppe Grillo e le doppie visite di Renzi e Berlusconi, Bruno Vespa non vuole mollare il giovedì, la quarta puntata settimanale sostituita per 20 volte a stagione da Duilio Giammaria. Porta a Porta è ancora monca, nei palinsesti che esordiranno in versione bozza in Cda, sempre oggi. 38 Ma l’anfitrione insiste, rivendica la massima (e tradizionale) estensione. E i motivi sono pure contrattuali: perché Vespa deve rinnovare l’accordo da esterno che, fra garantito (1,2 mln) e speciali, gli frutta 2,1 milioni di euro l’anno. Meno puntate, meno soldi. Ma questa era soltanto l’anteprima. Del 28/05/2014, pag. 43 IL CASO/VIALE MAZZINI DICHIARA GUERRA A GOOGLE Gubitosi scioglie il patto tra la Rai e YouTube “Via tutti i nostri video” ALDO FONTANAROSA ROMA DAL primo giugno YouTube dovrà cancellare i 40 mila video di alta qualità che la Rai ha concesso in base al contratto del 2008. La tv di Stato “affonda” quell’accordo lontano perché, a suo dire, non è più vantaggioso. Tra la nostra televisione pubblica e l’enorme contenitore di filmati va in scena così il primo atto di uno scontro che rischia di incattivirsi. Perché YouTube, proprietà di Google, ha in pancia molto altro ancora. Parliamo di alcuni milioni di video di proprietà Rai, tra il Festival di Sanremo, la Nazionale, la Serie A di calcio, i Tg. Sono contributi immessi dai navigatori che pure Viale Mazzini vuole riprendersi. Prima possibile. Il contratto tra la Rai e Google viene firmato sei anni fa, nel 2008. Le reti pubbliche (attraverso RaiNet) s’impegnano a girare a Google, perché li metta su YouTube, fino a 7 mila video l’anno. Google ha il pallino in mano perché raccoglie la pubblicità che precede gli estratti dei programmi. Viale Mazzini incassa una somma non certo alta, in cambio dei contenuti: «L’introito annuo è stato di 700 mila euro per la tv di Stato», sussurra un esperto senatore di maggioranza. Ad agosto 2013, parlando al mensile Prima Comunicazione , il direttore generale della Rai Gubitosi avverte: «La nostra intenzione è di ridiscutere l’accordo con Google, entro fine settembre. Tendo a condividere la posizione di Mediaset. Non vedo vantaggi per noi da quell’intesa». Al tavolo della trattativa, che si protrae per molti mesi ancora, Gubitosi chiede una cosa che Google non accetta: la raccolta delle inserzioni deve passare dal motore di ricerca a Rai Pubblicità. A fine aprile Gubitosi e Fabio Vaccarono (Country manager di Google per l’Italia) si lasciano con un nulla di fatto. La Rai, dunque, denuncia il contratto ed è già al lavoro per trasferire i 40 mila video di pregio, adesso su YouTube, nella pancia della sua piattaforma Rai Tv, che avrà forti vantaggi in termini di traffico Internet e di pubblicità (la raccolta stimata è di un milione 400 mila euro). Non solo. La tv di Stato tratta con Msn Microsoft che avrà spezzoni di programmi a patto che sia Rai, stavolta, a raccogliere gli spot. Viale Mazzini, infine, pretende la cancellazione di qualsiasi suo video sia su YouTube. Richiesta che minaccia di innescare una causa come quella infinita che vede impegnata Mediaset contro il colosso del web. 39 CULTURA E SCUOLA Del 28/05/2014, pag. 40 In un decennio sono crollati investimenti e consumi E in Europa siamo all’ultimo posto per la cura del patrimonio Nell’Italia dove la cultura vale zero euro SALVATORE SETTIS Ultimi della classe in Europa. Questa l’impietosa conclusione di un’accurata analisi delle spese in cultura nel periodo 2000-2011 condotta dal Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica della Presidenza del Consiglio, che sarà presentata a Roma domani. La cruda eloquenza dei numeri ci dice che l’Italia, che fino al 2009 spendeva in cultura lo 0,9 % del Pil, è calata allo 0,6% nel 2011, finendo così all’ultimo posto fra i 27 Paesi dell’Unione. Il 2012 conferma questo dato terrificante. Lieve incremento nelle regioni del Nord, quelle del Centro stabili sugli stessi valori, ma al Sud un ulteriore, drammatico calo. In Europa l’Italia evidenzia il più alto disinvestimento nel decennio (meno 33,3%), più del doppio rispetto alla Grecia (meno 14,3%). Intanto altri Paesi, dall’Olanda all’Ungheria, dalla Danimarca alla Slovenia, investono nel settore oltre l’1,5% del Pil, e quasi tutti gli altri Paesi europei oscillano tra l’1 e l’1,5%. Tutt’altro che consolante la spesa in consumi culturali delle famiglie italiane, uno striminzito 7,2%, nettamente inferiore alla media europea (8,9%). Secondo dati del 2013, l’Italia è in fondo alla classifica per livello di partecipazione dei cittadini ad attività culturali: 8%, un dato davvero imbarazzante a petto del 43% della Svezia, 36% in Danimarca, 34% in Olanda, e così via. La contrazione della spesa in questo settore è stata più pesante che in qualsiasi altro (siamo passati da 51,62 euro pro capite nel 2000 a 30,52 nel 2011), ma si è distribuita nelle diverse aree del Paese in modo non uniforme. Val d’Aosta, Friuli, Lazio e Sardegna fanno eccezione, ma tutte le altre regioni sono penalizzate da un disinvestimento rilevante, che colpisce specialmente le regioni del Sud, accentuando il divario storico dal centronord. Le risorse aggiuntive (fondi strutturali e fondi comunitari), che privilegiano il Sud, sono tuttavia lontanissime dal colmare l’enorme gap che lo separa dal Nord, senza contare che in alcune regioni (come Puglia e Sicilia) si è registrato dopo il 2009 un forte crollo della spesa aggiuntiva. «Un ulteriore fattore di differenziazione territoriale – scrive il Rapporto – è il ruolo assunto dalle Imprese Pubbliche Territoriali», a cominciare dalle Fondazioni: il loro peso «è fortemente cresciuto nel decennio, nell’ambito del calo della spesa pubblica e di una maggiore articolazione della governance», ma con scarsissimo beneficio per l’intero Mezzogiorno (con la parziale eccezione della Campania), e una forte concentrazione nel Centro-Nord. Nel 2011, il contributo delle Imprese Pubbliche Territoriali alla spesa totale nel settore cultura è pari al 22% nel Nord, al 18 % al Centro, all’8 % al Sud: percentuale bassissima su una spesa complessiva già assai ridotta, con effetti devastanti sul già endemico squilibrio Nord-Sud. «La cultura è tradizionalmente un asse strategico nelle dichiarazioni degli amministratori e dei politici – conclude il Rapporto – ma è al tempo stesso il primo oggetto di taglio di risorse in tutte le fasi di restrizione della finanza pubblica». L’analisi delle dinamiche di investimento e di spesa evidenzia che «lo sviluppo del settore necessita un’offerta pubblica in grado di stimolare la domanda, e ciò soprattutto nei territori caratterizzati da un grado inferiore di sviluppo sociale ed economico». E invece prevale «una visione del settore culturale come lusso per tempi felici, effimero rispetto ad altre esigenze». Il Rapporto raccomanda «un solido miglioramento del contesto intersettoriale, dai trasporti alla sicurezza, dalla comunicazione alla semplificazione amministrati40 va»; «una chiara e lungimirante politica nazionale nell’ambito di una governance unitaria»; l’accorta gestione delle politiche di coesione «non solo per le risorse aggiuntive che garantiscono, ma per la capacità progettuale che richiedono»; infine, l’integrazione di risorse pubbliche e private, anche con strumenti di agevolazione fiscale. A quest’ultimo obiettivo risponde, nel decreto Franceschini recentemente varato, la nuova normativa sul mecenatismo, un passo avanti che però resterà lettera morta se non accompagnato da una forte e consapevole politica di nuovi investimenti che capovolga la perversa tendenza alla carestia perpetua, evidenziata dai dati ora emersi. È vano fare la ruota elogiando qualità e quantità del nostro patrimonio culturale, sbandierando stolte vanterie (come la pseudostatistica, stancamente ripetuta da finti esperti d’ogni colore, secondo cui l’Italia avrebbe il 50, 60, 70% dei beni culturali del mondo), se poi continuiamo a disinvestire e chiudiamo gli occhi per non accorgercene. È vano sognare miracolosi interventi di privati, se non facciamo nulla per rilanciare le strutture pubbliche della tutela: che non sono, come talora si blatera, passive strutture di mera conservazione, ma enti di ricerca e conoscenza territoriale, fase necessaria per qualsivoglia “valorizzazione” che non sia vuota retorica e flatus vocis. Il Ministero dei Beni Culturali ha bisogno di riavere con estrema urgenza le risorse di cui è stato borseggiato dalla banda del buco Tremonti- Bondi nel 2008; ha bisogno di massicce nuove assunzioni di giovani preparati, in deroga a qualsiasi retorica del blocco della spesa pubblica; ha bisogno di nuove idee, e prima di tutto della coscienza condivisa che l’investimento nel settore, conforme alla Costituzione, non è un optional ma ingranaggio essenziale dell’orizzonte dei diritti, della costruzione dell’eguaglianza e della dignità della persona. Il ministro Franceschini ha saggiamente ripudiato la volgare metafora del patrimonio culturale come “petrolio” d’Italia, e giustamente insiste sulle sue potenzialità. Ma per dispiegarle non occorrono né commissari né manager , genericissima qualifica che fino ad ora nulla ha prodotto nel settore se non sprechi e rovine, e che invece il decreto addita come soluzione salvifica, senza il minimo sforzo di spiegare perché. A fronte di risorse in calo, nessun manager di qualità sarà mai interessato a lavorare nel settore; e se uno ve ne fosse, non potrà che fallire. Quando, invece che stracciarsi le vesti sulla cronica mancanze di risorse e inventare palliativi, il governo getterà sul tappeto il tema, perpetuamente rimosso, della gigantesca evasione fiscale che affligge il Paese, terzo al mondo per evasione dopo Messico e Turchia? Basterebbe recuperare un decimo dei 154 miliardi di euro l’anno di tasse non pagate, e come per incanto la scuola, i beni culturali, i servizi sociali potrebbero rifiorire. 41 ECONOMIA E LAVORO del 28/05/14, pag. 7 Rapporto Ilo: “La flessibilità non favorisce stabilizzazioni e contratti in regola” «Contrariamente alle previsioni, rendere il mercato del lavoro più flessibile non rende più semplice il passaggio da un posto di lavoro in nero o precario a uno a tempo indeterminato». Lo scrive l’Ilo (International Labour Organization, organismo dell’Onu) nel suo rapporto «World of Work 2014». Lo studio si concentra soprattutto sulle economie emergenti, dove ben 839 milioni di lavoratori vivono con meno di due dollari al giorno. L’incidenza del fenomeno in queste aree, aggiunge l’Ilo, si è però drasticamente ridotta nel corso degli ultimi anni: la quota di poveri rispetto alla forza lavoro totale è infatti scesa a circa un terzo dai primi anni 2000, quando superava la metà del totale. Il rapporto sottolinea poi «l’accresciuta consapevolezza del ruolo del salario minimo nella lotta alla povertà». Un impatto positivo sui redditi arriva anche dalla contrattazione collettiva, il cui utilizzo, però, «è in declino, una tendenza evidente anche nelle economie industrializzate». E in effetti che i contratti fossero in crisi anche da noi, ce ne eravamo in qualche modo accorti. La disoccupazione mondiale ha sfiorato quota 200 milioni nel 2013 (199,8 milioni) e dovrebbe aumentare di 3,2 milioni nel 2014; nel 2019 è previsto che si toccheranno i 213 milioni. A livello mondiale la quota delle persone senza un lavoro dovrebbe mantenersi al livello attuale del 6% fino al 2017. del 28/05/14, pag. 7 “Basta appalti al massimo ribasso” Antonio Sciotto Call center. Imprese e sindacati chiedono nuove norme e controlli. Il caso 020202 di Pisapia Lo sfruttamento non ha davvero colore politico, e così capita che una delle giunte più «rosse» che ci siano – quella di Giuliano Pisapia a Milano – apra una gara al massimo ribasso che addirittura non rispetta neanche i contratti. È accaduto lo scorso febbraio, per il servizio 020202 (informazioni ai cittadini): si richiedevano operatori che conoscessero almeno due lingue e con un anno di esperienza. Ma il top della sfacciataggine è arrivato al momento di fissare il prezzo: base d’asta, 45 centesimi al minuto. «Il che vuol dire – spiega Umberto Costamagna, presidente di Assocontact Confindustria – circa 18 euro all’ora, calcolando i 40 minuti medi parlati. Quando un terzo livello costa 17,80: e non ci mettiamo gli affitti, gli altri costi, lo sconto rispetto all’asta». E poi, magari, un guadagno, che l’impresa dovrà pur fare. Lo stesso Costamagna, titolare di Call&Call, si è rifiutato di partecipare, e ha chiesto agli aderenti alla sua associazione di fare altrettanto. «Su cinque imprese interessate, solo in tre hanno partecipato alla gara – spiega – una delle quali nostra iscritta. Ma le proteste, finite sui giornali, e un nostro successivo ricorso all’Autorità per la vigilanza sui contrati pubblici, hanno per ora bloccato tutto». 42 Quello di Milano è solo un caso, perché l’intero settore dei call center – 80 mila addetti, 1,3 miliardi di fatturato – è strozzato da gare al massimo ribasso pubbliche (spesso già in partenza sotto i minimi contrattuali di un addetto) e da committenti privati che chiedono ribassi sempre più consistenti. Altrimenti, è il ricatto, vado all’estero: Albania, Romania, Tunisia, paesi da cui ci contattano ormai sempre più operatori. E addio pugliesi, palermitani, napoletani: la recente crisi del colosso Almaviva, che ha annunciato pesanti ristrutturazioni in Sicilia, è una delle tante spie. Così le imprese hanno chiesto un tavolo al ministero dello Sviluppo economico, e ieri c’è stata una prima riunione a Roma. Il confronto, presieduto dal viceministro Claudio De Vincenti alla presenza di dirigenti del Mise e del ministero del Lavoro, ha visto la partecipazione di Assocontact, Federutility e Asstel e delle segreterie di categoria di Cgil, Cisl, Uil e Ugl. La proposta avanzata da De Vincenti è quella di un osservatorio che approfondisca i problemi tecnici e le richieste sul piano legislativo delle parti, con una prossima riunione fissata per la metà di giugno. I sindacati, intanto, hanno indetto una giornata di sciopero, con manifestazione a Roma, per il 4 giugno. Chiedono non solo il contrasto al massimo ribasso, ma anche l’applicazione della normativa europea sulla privacy, che imporrebbe maggiori controlli e paletti per le imprese che delocalizzano, soprattutto in paesi extra Ue: dove le norme sulla privacy sono meno stringenti, mentre gli operatori possono maneggiare i nostri dati sensibili, come le carte di credito. Ancora, il sindacato chiede l’applicazione per il settore dell’articolo 2112 del codice civile, quello che al cambio di appalto (e quindi anche di commessa) garantisce la permanenza degli stessi addetti al servizio. «Basterebbero poche innovazioni legislative per risparmiare milioni in ammortizzatori sociali e incentivi», dice Michele Azzola, segretario della Slc Cgil. Milioni di soldi pubblici che lo Stato spende quando le imprese chiudono in Italia per delocalizzare (ammortizzatori) o per aprire «nuove» imprese, spesso nel Meridione (incentivi): «Succede spesso che alla fine di una commessa si indica una nuova gara, e che nuovi call center aprano con gli incentivi della 407, prendendo apprendisti. Che poi mollano alla fine degli incentivi, dopo 3 anni. E via nuove gare, nuovi sconti, nuovi abbassamenti dei costi richiesti, in una spirale infinita – conclude il presidente di Assocontact – Per dire basta a tutto questo e limitare le delocalizzazioni, l’Italia deve puntare sul lavoro di qualità: per questo chiediamo al governo di agire sulla fiscalità e sul controllo degli appalti». 43