Michele Fornaciari ANCORA UNA RIFORMA DELL`ARTICOLO 360

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Michele Fornaciari ANCORA UNA RIFORMA DELL`ARTICOLO 360
Michele Fornaciari
ANCORA UNA RIFORMA DELL’ARTICOLO
360, COMMA 1, NUMERO 5 C.P.C.: BASTA,
PER FAVORE, BASTA!
Sommario: 1. La nuova riforma. – 2. Assenza di fondamento della lotta del
legislatore contro il controllo della motivazione da parte della Cassazione. –
3. Inefficacia della riforma nel senso voluto ed anzi maggiore idoneità del
quadro normativo conseguente a consentire il controllo della motivazione: riferibilità del nuovo art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. al solo omesso esame dei
fatti rilevanti. – 4. Segue: nullità della sentenza sia in assenza di motivazione, sia in presenza di una motivazione inidonea. – 5. Conclusione semiseria
ma sentita.
1. LA NUOVA RIFORMA
Ci risiamo: la furia riformatrice del legislatore non conosce tregua. E siccome, come sanno i jazzisti, quando si sbaglia l’errore va
ripetuto, per dare l’impressione che non di un errore si tratti, ma di
una cosa voluta, il legislatore, non pago da un lato del capolavoro
dell’art. 360-bis c.p.c., introdotto nel 2009, dall’altro della brillante
riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5 stesso codice, operata nel
2006, per un verso ha esportato anche al giudizio di appello il modello dell’inammissibilità per manifesta infondatezza, per altro verso
è intervenuto di nuovo sul suddetto art. 360, comma 1, n. 5, riportando la lancetta del tempo al 1942, mentre per altro verso ancora
ha cancellato tout court la ricorribilità per vizio di motivazione in
caso di “doppia conforme” in fatto. Ma non solo. In sede di conversione, evidentemente convinto che più si complicano le cose più il
processo funzionerà bene, ha pensato bene di modificare anche
l’art. 342 c.p.c., non si capisce bene se colorando di impugnazione
in senso stretto l’appello o esportando in qualche misura anche a
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quest’ultimo il balordo principio di autosufficienza dell’atto di impugnazione. Ulteriormente, sempre in sede di conversione, ha finalmente espunto dall’art. 345 c.p.c. l’incomprensibile riferimento
all’indispensabilità delle nuove prove (a volte per caso ci si coglie),
salvo poi farsi immediatamente perdonare dell’unica cosa sensata
realizzata, riciclando tale riferimento nell’art. 702-quater stesso codice.
Così, in sordina, nel corpo di un provvedimento legislativo con il
quale è difficile riuscire a comprendere il nesso (cosa c’entrino le
riforme appena riassunte con lo sviluppo personalmente mi sfugge), vengono introdotte una serie di novità, forse non rivoluziona1
rie, ma certo non di dettaglio .
Su una sola di esse vorrei peraltro in questa sede in particolare
soffermarmi, in quanto esemplare, a mio avviso, dell’inanità di
questa sconsiderata frenesia normativa, vale a dire del nuovo intervento sull’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
2. ASSENZA DI FONDAMENTO DELLA LOTTA DEL LEGISLATORE CONTRO
IL CONTROLLO DELLA MOTIVAZIONE DA PARTE DELLA CASSAZIONE
In principio era … il nulla: l’art. 517 del c.p.c. 1865 non conteneva, com’è noto, alcun riferimento al vizio di motivazione. Poi
venne il codice del 1942, e comparve, come motivo di ricorso per
cassazione, l’«omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio
che è stato oggetto di discussione tra le parti» (art. 360, comma
1, n. 5, secondo il suo testo originario). Da lì a poco, la novella del
1950 modificò tale previsione, sancendo la ricorribilità «per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile
d’ufficio». Nel 2006, il legislatore intervenne di nuovo, sostituendo
alla formula appena riportata quella dell’«omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo
per il giudizio». Oggi, come riferito, si torna pressoché letteral1
Criticamente sull’intervento normativo v. BOVE, Giudizio di fatto e sindacato della corte di cassazione: riflessioni sul nuovo art. 360 n. 5. c.p.c., in www.judicium.it; CAPONI, La riforma
dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari, ibidem; CONSOLO, Lusso o necessità
nelle impugnazioni delle sentenze?, ibidem; DE CRISTOFARO, Appello e cassazione alla prova
dell’ennesima “riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura
del d.l. n. 83/2012), ibidem.
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mente alla formula originaria del codice del 1942, stabilendosi che
il ricorso può essere proposto «per omesso esame circa un fatto
decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le
parti».
Fino ad oggi, a dispetto dei differenti scenari normativi, nulla è
sostanzialmente cambiato nel controllo della motivazione da parte
della Cassazione, che, anche all’indomani del codice del 1942 e poi
delle relative riforme, ha continuato ad adoperare i criteri elaborati
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già sotto il codice del 1865 .
Già il dato di fatto dovrebbe dunque intanto indurre a chiedersi
se abbia senso (i.e. ragionevoli prospettive di successo)
l’ostinazione nel cercare di imbrigliare il controllo in questione, ma
soprattutto insinuare se non altro il dubbio se quest’ultimo rappresenti effettivamente un male da combattere, o se viceversa la
continuità storica dell’operato della Cassazione in proposito non
testimoni della sua fisiologica appartenenza al giudizio di legittimità. Possibile, detto altrimenti, che da 150 anni la Cassazione continui
ostinatamente
e
masochisticamente
a
sobbarcarsi
un’incombenza che non le compete?
La risposta a tale domanda è ovviamente negativa e la ragione
è presto detta. Tutto sta ad avere ben chiaro che controllo della
motivazione circa la ricostruzione del fatto non significa verifica
nel merito di tale ricostruzione; vale a dire autonoma e diretta valutazione del materiale di causa al fine di operarne una propria, da
sovrapporre a quella del giudice del grado precedente. Significa, al
contrario, verifica circa la correttezza del ragionamento seguito in
proposito da tale giudice. Una volta che questo sia chiaro, risulta
allora del tutto evidente che in questione non è affatto un giudizio
di fatto, bensì, a pieno titolo, uno di legittimità, come tale piena3
mente spettante alla Cassazione .
Certo, non sempre il confine fra controllo della motivazione e
giudizio di fatto si rivela in concreto così netto ed univoco. Questa
non è però se non una delle tante manifestazioni della generale
difficoltà, che spesso si incontra nel passaggio dall’enunciazione di
un principio alla sua applicazione. Né, d’altro canto, la prassi evi2
V. in proposito BOVE, Il sindacato della corte di cassazione. Contenuto e limiti, Milano 1993,
231 ss. e ID., Giudizio di fatto, cit., § 2.
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Sul punto v. amplius BOVE, Giudizio di fatto, cit., § 3.
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denzia, in materia, un tasso di errore particolarmente elevato, vale a dire una particolare propensione della Cassazione ad eccedere
i limiti del proprio controllo e ad impingere nel campo del giudizio
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di fatto .
Da nessun punto di vista, né teorico né pratico, si giustifica insomma l’accanimento del legislatore contro il controllo della motivazione da parte della Cassazione. Ma soprattutto, ciò che maggiormente importa, tale accanimento non si giustifica sotto il profilo assiologico. La motivazione dei provvedimenti del giudice non
rappresenta infatti un aspetto accessorio e marginale dell’esercizio
della giurisdizione. All’opposto, ne integra una componente di importanza fondamentale, per non dire quella più importante tout
court. È dunque non solo lecito, ma utile (certo molto più utile che
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per molti requisiti procedimentali ), ed anzi essenziale, che in relazione ad essa esista un controllo da parte della Cassazione. Che
questa, pur senza censurare direttamente la ricostruzione del fatto
fornita dal giudice del merito, operi un controllo circa la congruità
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della giustificazione addotta in proposito .
3. INEFFICACIA DELLA RIFORMA NEL SENSO VOLUTO ED ANZI
MAGGIORE IDONEITÀ DEL QUADRO NORMATIVO CONSEGUENTE A
CONSENTIRE IL CONTROLLO DELLA MOTIVAZIONE: RIFERIBILITÀ DEL
NUOVO ART.
360, COMMA 1, N. 5 C.P.C. AL SOLO OMESSO ESAME
DEI FATTI RILEVANTI
Chiarito questo, per quanto concerne poi le presumibili conseguenze della novella, alla luce dei precedenti è francamente abbastanza difficile ipotizzare svolte radicali. Anzi, il ritorno alla formulazione originaria del codice del 1942 potrebbe addirittura rivelarsi, paradossalmente, più favorevole ad un pieno e libero controllo
della motivazione da parte della Cassazione.
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In proposito v. ancora BOVE, Giudizio di fatto, cit., § 3.
Per non portare che un solo esempio, si pensi all’incompetenza per territorio: una volta scongiurata la scelta del giudice ad opera della parte o quella della causa ad opera del giudice (evenienza questa a fronte della quale appare sufficiente garanzia il controllo da parte del giudice di appello), a me francamente non pare così grave (una volta che la decisione sia ben motivata) che la causa sia decisa dal giudice x oppure dal giudice y.
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Sul punto v. anche il § 4.
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Beninteso: la storia sta a dimostrare che tale controllo è insensibile al dato normativo contingente. Anche l’affermazione appena
compiuta ha dunque un valore essenzialmente teorico. Non
foss’altro in via meramente accademica, mette tuttavia conto
spendere in proposito qualche rapida considerazione.
Pur con l’ovvia consapevolezza che quello in questione è, ad altri livelli, un tema complesso e difficile, a livello elementare nella
motivazione in fatto possono isolarsi tre aspetti: in primo luogo il
giudice deve prendere posizione circa l’esistenza/inesistenza e circa le caratteristiche dei singoli fatti (direttamente o indirettamente) rilevanti; in secondo luogo egli deve spiegare le ragioni sulla
base delle quali abbia maturato la relativa convinzione; in terzo
luogo occorre valutare se le prime (le ragioni addotte) siano o
meno idonee a fondare la seconda (la convinzione maturata). A livello definitorio, riterrei di poter affermare che il primo aspetto
rappresenta l’“esame” del fatto, il secondo integra quella che, per
distinguerla dalla motivazione nel suo complesso, o generale, potremmo indicare come “motivazione specifica”, il terzo quella che
potremmo indicare come “idoneità” di quest’ultima. Corrispondentemente, laddove il giudice trascuri di prendere posizione su un
certo fatto, laddove cioè nella motivazione generale non si trovi
traccia di esso, saremo in presenza di un omesso esame; laddove
viceversa egli prenda posizione in proposito, ma non fornisca in
proposito giustificazioni, non indichi cioè le ragioni per le quali ritiene che il fatto in questione esista o meno e presenti o meno determinate caratteristiche, saremo in presenza di un’omessa motivazione specifica; laddove infine egli abbia indicato tali ragioni, ma
queste non supportino adeguatamente la convinzione circa
l’esistenza/inesistenza e circa le caratteristiche del fatto, saremo
in presenza di una motivazione inidonea.
Ciò premesso, è abbastanza evidente che l’art. 360, comma 1,
n. 5 c.p.c., nella sua attuale formulazione, si riferisce ormai esclusivamente al primo dei suddetti aspetti. Non solo cioè l’idoneità
della motivazione, ma anche la sua presenza risulta a questo pun7
to, vuoi quanto alla motivazione generale , vuoi quanto alla motivazione specifica, estranea alla previsione in discorso.
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Rimane peraltro fermo che, in totale assenza di motivazione (o in presenza di una motivazione meramente apparente), risulterebbe comunque integrato anche l’omesso esame di tutti i fatti rilevanti.
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Non per ciò solo essa deve tuttavia ritenersi estranea al giudizio
di cassazione tout court. Rimane infatti pur sempre la norma generale dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. e di certo non basta la presenza della specifica previsione del n. 5 ad impedire o a limitare
l’operatività di tale, generale, disposizione, per la medesima ragione per la quale essa non è impedita, né limitata, dalla presenza dei
nn. 1 e 2, specificamente riferiti alla giurisdizione e alla competenza.
In questo contesto normativo, l’interrogativo da porre – con
una salutare semplificazione del problema – è dunque allo stato
quello se la presenza di una motivazione e la sua idoneità siano o
meno requisiti di validità della sentenza; o, specularmente, se la
carenza e l’inidoneità della prima determinino o meno l’invalidità
della seconda.
4. SEGUE: NULLITÀ DELLA SENTENZA SIA IN ASSENZA DI
MOTIVAZIONE, SIA IN PRESENZA DI UNA MOTIVAZIONE INIDONEA
Quello appena enunciato essendo l’interrogativo, non c’è peraltro dubbio, non foss’altro sulla base dell’art. 132 c.p.c., il quale
impone che le sentenze siano motivate, che, per quanto concerne
la presenza della motivazione, vuoi generale, vuoi specifica, la risposta non può che essere positiva.
Altrettanto non può però non valere, a quanto mi pare, anche
per l’idoneità della motivazione e ciò già solo sulla base del medesimo art. 132 c.p.c. Necessità di motivazione non può infatti significare che requisito di validità della sentenza è la presenza di una
motivazione quale che sia. Operare una lettura di questo tipo vanificherebbe infatti totalmente il significato precettivo della previsione ed anzi la renderebbe intimamente contraddittoria, dato che
le farebbe imporre la necessità di una cosa inutile (tale è, con tutta evidenza, una motivazione qualsiasi), e dunque, per definizione, non necessaria.
È peraltro soprattutto sul piano sistematico che si apprezza la
necessità, quale requisito di validità della sentenza, di una moti8
vazione idonea. Come già sopra sottolineato , la motivazione dei
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§ 2.
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provvedimenti del giudice rappresenta infatti un elemento essenziale e qualificante dell’esercizio della giurisdizione. È dunque
semplicemente assurdo pensare di accontentarsi in proposito di
una motivazione purchessia, anziché di una in grado di giustificare
razionalmente le conclusioni raggiunte.
Per non portare in proposito che un paio di esempi, poniamo che
il giudice, dato atto che numerosi, attendibili, testimoni hanno riferito che Tizio era a Torino, concluda che ciò non impedisce la sua
contemporanea presenza a Milano, dato che la scienza non esclude
con certezza l’ubiquità delle persone, oppure, a fronte di risultanze
istruttorie incerte, ritenga verosimile che Tizio abbia aggredito Caio,
data l’irascibilità e la violenza degli appartenenti al segno zodiacale
di Tizio; ebbene: nessuno, credo, sarebbe disposto ad ammettere
la validità di una sentenza fondata su simili corbellerie.
Appurato questo, chiarito cioè che requisito di validità della
sentenza è non semplicemente la presenza di una motivazione,
bensì la presenza di una motivazione idonea, l’interrogativo – che
rappresenta poi il nocciolo del problema – diventa a questo punto
quello di stabilire cosa significhi “idonea” e, specularmente, “inidonea”. Vale in sostanza a dire, ponendoci nella prospettiva
dell’impugnazione, quali siano i vizi logici denunciabili, ed è precisamente a questo proposito che, secondo quanto anticipato,
l’attuale quadro normativo si rivela, a ben vedere, più favorevole
ad un pieno controllo della Cassazione, rispetto al precedente.
Fino ad oggi dovevamo infatti fare i conti con l’art. 360, comma
1, n. 5 c.p.c., il quale faceva riferimento alle categorie della motivazione insufficiente o contraddittoria (oltre che di quella omessa)
e questo rappresentava oggettivamente un ostacolo, perché non
tutti i vizi logici possono essere ricondotti a tali due categorie,
quantomeno ove esse vengano intese rigorosamente. Oggi, che
tale riferimento è venuto meno, le cose diventano indubbiamente
più semplici. Premessa da un lato la necessità, quale requisito di
validità della sentenza, di una motivazione idonea, e data dall’altro
la mancanza di indicazioni di sorta, a livello normativo, circa i parametri di tale idoneità, non si vede infatti sulla base di cosa sarebbe lecito operare distinzioni, tali che l’illogicità x possa essere
denunciata e l’illogicità y no. Qualunque limitazione non potrebbe
cioè che risultare arbitraria, ragion per cui non rimane che
un’unica soluzione, vale a dire quella di un rinvio generalizzato ai
canoni del comune ragionamento razionale, con piena censurabilità, dunque, di qualunque tipo di vizio logico.
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5. CONCLUSIONE SEMISERIA MA SENTITA
Molto rumore per nulla, verrebbe allora da dire, citando Shakespeare. Ma un’altra, meno neutra e pacata, è in realtà la suggestione letteraria che, su un piano più generale, sovviene.
Esiste un aforisma di Oscar Wilde, secondo il quale «la vita è quello che succede mentre pensiamo ad altro». Di esso esistono poi, a
quanto mi consta, almeno due varianti. La prima è quella di John
Lennon, secondo la quale «la vita è proprio quello che ti succede
mentre sei impegnato a fare altri progetti» e la seconda è quella, che
personalmente ho sentito pronunciata da Uma Thurman nel film (in
effetti migliore del titolo in italiano) Lo sbirro, il boss e la bionda (titolo originale Mad dog and glory), secondo la quale «la vita è quello
che succede mentre stai aspettando di viverla».
Si tratta di una riflessione, oltre che acuta e vera in generale,
singolarmente pertinente con riferimento all’attuale condizione del
processo.
Per un verso, fondendo e parafrasando le due varianti, potrebbe infatti dirsi che «il processo è quello che si celebra nelle aule di
giustizia, mentre gli esperti sono impegnati a progettare come farlo funzionare». Per altro verso, visti gli esiti fallimentari ed anzi
controproducenti di tale impegno e delle conseguenti riforme a
getto continuo, viene spontanea, traendo spunto dalla versione originaria ed interpretando, sono convinto, i sentimenti, non so se
dei giuristi, ma sicuramente di molti pratici del diritto, una preghiera nei confronti dei suddetti esperti: piuttosto che continuare
con questo diluvio di riforme, potreste, per favore, pensare (e dedicarvi) ad altro?
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