Raccolta di testi in PDF - Segreteria di Stato Istruzione e Cultura

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Raccolta di testi in PDF - Segreteria di Stato Istruzione e Cultura
COMMISSIONE NAZIONALE SAMMARINESE PER L’UNESCO
In occasione della Giornata della Memoria che, come ogni anno il 27 gennaio,
commemora
le
vittime
dell’Olocausto,
la
Commissione
Nazionale
Sammarinese per l’UNESCO desidera indurre una riflessione con i seguenti
passi letterari in cui la testimonianza di Primo Levi1, lucida, precisa ma anche
altamente poetica, si unisce a quella di:
Yitzhak Katzenelson, nato in Bielorussia nel 1886, ma trasferitosi in Polonia,
trovò rifugio a Varsavia allo scoppio della guerra e qui visse l’agonia del
ghetto. Nel 1943, assieme al figlio maggiore, fu portato nella città francese di
Vittel, dove compose in yiddish Il Canto del popolo ebraico massacrato. Il 29
aprile 1944 fu deportato ad Auschwitz e qui immediatamente eliminato;
Edith Bruck, ebrea ungherese nata nel 1932, sopravvissuta ad Auschwitz dove
fu deportata all’età di dodici anni. Stabilitasi in Italia nel 1954, ha adottato
l’italiano come lingua di scrittura. È autrice di romanzi, racconti (come
Andremo in città tratto dall’omonima raccolta), raccolte di poesie e di tre film.
Ne La Signora Auschwitz: il dono della parola afferma l’importanza di
continuare a fare testimonianza;
Helena Janeczek è nata nel 1964 a Monaco di Baviera in una famiglia ebreopolacca. Dopo aver pubblicato una raccolta di poesie in tedesco, è divenuta
autrice in lingua italiana dopo il suo trasferimento in Italia nel 1983. Ne
Lezioni di tenebra affronta il rapporto con la madre e la sua esperienza
concentrazionaria ad Auschwitz;
David Grossman, nato nel 1954, romanziere e saggista, è uno degli autori
israeliani contemporanei più noti; nel libro intervista La memoria della Shoah,
si confronta con il “fantasma” dell’Olocausto che lo ha tormentato sin dalla
sua infanzia a Gerusalemme.
Primo Levi (1919-1987), sopravvissuto ad Auschwitz, narrò dell’esperienza concentrazionaria nell’opera Se
questo è un uomo. La tregua racconta il lungo viaggio di ritorno a Torino dopo la liberazione.
1
COMMISSIONE NAZIONALE SAMMARINESE PER L’UNESCO
1. Primo Levi
Dalla Presentazione a La tregua
Sono nato a Torino, nel 1919, da una famiglia moderatamente agiata di ebrei piemontesi.
Esistono molti modi diversi di essere ebrei: dalla piena osservanza delle regole religiose e
delle tradizioni, fino alla indifferenza totale, ed alla accettazione del modo di pensare e di
vivere della maggioranza. Per me, essere ebreo significava qualcosa di vago, non
propriamente un problema: significava una tranquilla consapevolezza della antichissima storia
del mio popolo, una storia di incredulità benevola di fronte alla religione, una tendenza
spiccata verso il mondo dei libri e delle discussioni astratte. Per tutto il resto, non mi sentivo
diverso dai miei amici e condiscepoli cristiani, e mi sentivo a mio agio in loro compagnia.
(pag. 5)
Da Se questo è un uomo
Nel campo di Fossoli, il giorno precedente il viaggio verso Auschwitz
Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero
oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a
preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e
all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non
dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e
di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero
uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare? (pag. 13)
L’arrivo ad Auschwitz:
In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che
accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né
dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella
scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare
utilmente per il Reich […] Sappiamo anche, che non sempre questo pur tenue principio di
discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il
sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né
istruzioni ai nuovi arrivati. Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato
del convoglio; andavano in gas gli altri.
Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di
mettere a morte i bambini degli ebrei […].
Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli.
Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po' di tempo come una massa oscura
all'altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla. (pag.17)
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2. Dalla Prefazione di Primo Levi a Il canto del popolo ebraico massacrato
Davanti al “cantare” di Yitzhak Katzenelson ogni lettore non può che arrestarsi turbato e
reverente. […]
È la voce di un universo culturale ignoto in Italia da sempre, ed oggi scomparso: la voce di un
popolo che piange se stesso. I versi in cui l'angoscia di Katzenelson si fa più pungente e più
concreta sono proprio quelli in cui rivive il mondo culturale dell'ebraismo d'oriente: “Il sole,
levandosi sugli shtetlekh di Lituania e di Polonia, non incontrerà più / un vecchio ebreo
raggiante intento a recitare alla finestra un salmo... / il mercato è morto... / Mai più un ebreo
vi porterà la sua allegria, la sua vita, il suo spirito”. Questa cultura, il cui strumento secolare è
la lingua yiddish, è schiettamente popolare: il suo filone verbale è sempre stato più vivo di
quello scritto e sempre quello ha alimentato questo. Vi confluiva una straordinaria sensibilità
musicale che aveva le sue radici nelle feste di villaggio descritte da Babel' e dipinte da Chagall
ed ha portato alle più illustri scuole moderne di esecutori; vi confluiva una tradizione teatrale
portentosamente vitale, e stroncata poi, colpo su colpo, dalle stragi di Hitler.
(pagg. 5-6)
3. Da Il canto del popolo ebraico massacrato di Yitzhak Katzenelson
Canto IV I vagoni sono tornati!
1
Orrore e paura mi assalgono, mi soffocano i vagoni sono già di ritorno! Sono partiti solo ieri sera e oggi sono qui di nuovo, già pronti all’Umschlag.
Li vedi, là con le fauci aperte, spalancate nell’orrore?
2
Hanno ancora fame! Niente li sazia.
Aspettano gli ebrei! Quando glieli porteranno?
Sono affamati - come se non avessero già divorato i loro ebrei...
Ne hanno avuti tanti! Ma ne vogliono di più, ancora di più!
3
Ne vogliono ancora di più. Sono là in attesa che sia servito loro il pasto,
che arrivino gli ebrei in grandi quantità!
Avanti, vecchio popolo dai giovanissimi germogli,
uva fresca di una vecchia vite, vecchi ebrei forti come vino.
4
Ne vogliamo di più, molti di più... gridano i vagoni
come freddi e spietati criminali: di più! Non ne hanno mai abbastanza!
Stanno aspettando all’Umschlag. Aspettano noi
i vagoni, aspetta noi il treno.
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5
Altri ebrei hanno già riempito quei vagoni fino a soffocare,
ebrei morti incastrati fra i vivi stupefatti,
morti che stanno in piedi, non potendo cadere in quella calca,
morti che nessuno potrebbe distinguere dai vivi.
6
Il capo di un morto dondola come se fosse vivo,
e dai vivi cola il sudore della morte.
Un bambino supplica la madre morta: «Acqua! Dammi un goccio d’acqua!».
E con i piccoli pugni le colpisce la testa: «Ho sete, mamma!».
7
E un altro bimbo è in braccio al padre morto sì, i bambini, anche se deboli e prostrati, i bambini resistono!
Il padre, invece, anche se adulto, non ce l’ha fatta ma il bimbo non lo sa e continua a implorarlo: «Su, babbo, vieni!
Andiamocene da qui!».
8
E là sul treno, da quella parte, in un angolo,
è successo qualcosa. Nessuno ne sa niente?
Tutti però sorridono, tutti fanno supposizioni.
Qualcuno è saltato dal vagone... Ascoltate, ascoltate: uno sparo!
9
Qualcuno si è buttato … e tutti sorridono, ridono in silenzio.
O cari ebrei, o miei santi ebrei,
perché siete felici? Ascoltate: l’ucraino sta sparando dal tetto.
E allora? Qualcuno ce l’ha fatta! Qualcuno è libero.
10
Si è buscato una pallottola? La vorrebbero tutti –
Nessuno sarà risparmiato! Meglio morire da liberi fra gli alberi
Che … Dove? Dove ci portano? Chi recita il Viddui a voce alta?
Ripetetelo, ripetetelo tutti! Vi farà rabbrividire.
11
Vagoni vuoti! Eravate pieni, ed eccovi di nuovo vuoti.
Cosa ne avete fatto degli ebrei? Dove sono finiti?
Erano diecimila, contati e stivati - e voi siete qui di nuovo!
O vagoni, vagoni vuoti, ditemi dove siete stati!
12
Voi tornate dall’altro mondo, lo so. Non dev’essere lontano.
Solo ieri siete partiti carichi, e oggi siete già di ritorno!
Perché questa fretta? Avete così poco tempo?
Presto sarete vecchi come me, logori e grigi.
13
Solo a guardare, a vedere, a sentire tutto ciò – gevàld! –
Come fate, anche se siete di ferro e di legno?
O ferro, giacevi nel profondo della terra.
O legno, un giorno fosti un albero alto e fiero.
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14
E ora? Ora siete vagoni, e state a guardare,
testimoni muti di un tale carico, di una tale pena.
in silenzio tutto avete osservato. Oh, ditemi, vagoni,
dove andate, dove avete portato a morire il popolo ebraico?
15
Non è colpa vostra - vi caricano e poi vi dicono: andate!
Vi fanno partire pieni e tornare vuoti.
Voi che tornate dall’altro mondo, ditemi una parola.
Vi prego, ruote, parlate, e io, io piangerò...
26 ottobre 1943
(pagg. 43-44
Versione poetica di Daniel Vogelmann dalla traduzione dallo yiddish di Sigrid Sohn)
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4. Da Andremo in città di Edith Bruck
Il mio fratellino Beni mi tirò a sé stringendomi la mano con tutte le sue deboli forze e disse:
“Pensi veramente che io guarirò un giorno?”.
“Ne sono sicura” dissi io “e adesso ascolta. Tutti i giorni alla stessa ora il treno, prima
di rallentare, fischia. Lo senti? Non si ferma proprio, ma rallenta e noi avremo il tempo di
saltarci sopra. Dovrai essere svelto. Io ti prenderò per mano come ora e hop! Una volta
dentro è fatta. Quando vedo la grande stazione vuol dire che siamo in città. Poi scendiamo e
cerchiamo un dottore. Avrai aspettato tanto, ma il dottore ti guarirà”.
“E dopo?” chiese mio fratello Beni.
“Al ritorno cammineremo fino a stancarci, per farti vedere tutto: la gente, i colori, il
cielo; quel giorno brillerà di più anche il sole, per festeggiarti dopo tanto buio”.
[…]
“Non mi piacciono le loro voci” disse Beni “preferisco rimandare la partenza. Sii buona,
ritorniamo a casa”.
“Ormai siamo alla stazione, vedessi il treno com’è bello! È lungo …”
Un gendarme si avvicinò e mi diede uno spintone nella schiena, mandandomi a finire
con Beni nell’interno del vagone affollato, dove c’era gente che si lamentava.
“Perché si lamentano tutti?” chiese mio fratello.
“Non sei il solo malato qui” risposi “tutti portano a guarire i malati più gravi”.
[…]
Ricevetti altre spinte e altri calci dai gendarmi che mettevano ordine per far cessare i
lamenti. Con il mio corpo proteggevo Beni, ma con una mano mi comprimevo il fianco per un
terribile colpo ricevuto. La paura e il dolore mi entravano con il freddo nelle ossa, e disperavo
di trovare bugie abbastanza grandi per nascondere a Beni quello che accadeva.
[…]
“Oh, Lenke, sto male” ripeteva Beni “questo buio non avrà mai fine, lo sento”.
“Sei come la mamma, tu” risposi io “tu senti tutto. Ma quello che succederà, tu non lo
puoi sentire … devi solo credermi … abbracciarmi e stringermi con tutte le tue forze. Ci
sveglieremo in un mondo nuovo, vedo già le prime luci della città”.
(pagg. 51; 67-68)
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5. Da Se questo è un uomo di Primo Levi
… Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di
scegliere, quest’ora già non è più un’ora.
[…]
Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di
Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O
forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e
frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in
travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le
stanghe della zuppa sulle spalle. […]
… Quando mi apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna.
[…]
Darei la zuppa di oggi per saper saldare “non ne avevo alcuna” col finale. Mi sforzo di
ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è
silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: “… la terra lagrimosa diede vento…” no, è un’altra
cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fe‟ girar con tutte l‟acque,
Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giù, come altrui piacque…
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo
“come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o
non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure
inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora
soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi
qui…
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Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa
degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rüben? – Kraut
und Rüben -. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: – Choux et
navets. – Káposzta és répak.
Infin che „l mar fu sopra noi rinchiuso.
(pagg. 100-103)
6. Da La tregua di Primo Levi
Nel “Campo Grande” di Auschwitz, dopo la liberazione
[…] la mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva ad eludere la
presenza ossessiva, la mortale forza di affermazione del piú piccolo ed inerme fra noi, del più
innocente, di un bambino, di Hurbinek.
Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa,
nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome,
Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con
quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato
dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel
viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della
volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che
nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con
urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice,
che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.
[…]
Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un
suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una
parola articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali
attorno a un tema, a una radice, forse a un nome.
Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo
ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue
d’Europa: ma la parola di Hurbinek rimase segreta. […]
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero;
Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi
l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il
senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz;
Hurbinek morí ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli
testimonia attraverso queste mie parole.
(pagg. 27-29)
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7. Da Lezioni di tenebra di Helena Janeczek
Vorrei sapere se è possibile trasmettere conoscenze e esperienze non con il latte materno, ma
ancora prima, attraverso le acque della placenta o non so come, perché il latte di mia madre
non l’ho avuto e ho invece una fame atavica, una fame da morti di fame, che lei non ha più.
Parlo solo di questo, di questa fame particolare e chiaramente nevrotica che si scatena in certi
momenti davanti a un pezzo di pane, pane di qualsiasi tipo, buono, cattivo, fresco, gommoso,
secco. […] Me l’ha insegnato lei che il pane è sacro, che lei, quando vede in strada un pezzo
di pane, lo raccoglie e lo mette da qualche altra parte più in alto, per non lasciarlo lì, per
terra.
(pag. 12)
È arrivata ad Auschwitz-Birkenau assieme agli ebrei ungheresi nella primavera o estate del
’44. Otto treni di notte, cinque di giorno, composti di quaranta-cinquanta vagoni, cento
persone circa in ciascuno. Le camere a gas lavorano tutte, quattro crematori e ai lati due
fosse per bruciare i cadaveri in eccesso, da quattrocento a ottocento i componenti del
“Sonderkommando”, i prigionieri addetti alla liquidazione e a loro volta liquidati quasi tutti, a
turni continui.
(pag.95)
A casa non se n’è quasi mai parlato. Mio padre non raccontava niente, quello che so invece da
mia madre l’ho appreso in gran parte in Polonia, e nel tempo successivo al nostro viaggio 2.
[…] Sono grata ai miei di avermi risparmiato le loro reminiscenze, penso che abbiano fatto
bene a tacere. Credo che abbiano taciuto per dimenticare o almeno non risvegliare i ricordi e
anche per non assillare me, per farmi crescere come una ragazzina normale.
(pag. 98)
Mia madre e mio padre erano rimasti vivi, quindi volevano vivere. Quindi volevano me, un
bambino. Per quel figlio non è facile fare la parte della vita-che-continua, non è possibile se
non al prezzo che quella vita non sia la sua. Eppure anche la voglia di vivere, quella voglia
primitiva che emerge dall’azzeramento, si trasmette. E’ l’unico antidoto che ho ricevuto, ma
se lo scopri, è potente.
(pag.129)
2
Viaggio in cui visitò con la madre anche il campo di concentramento di Auschwitz.
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8. Da La memoria della Shoah di David Grossman
Se ripenso alla mia infanzia, mi sembra che il fantasma dell’olocausto volteggiasse attorno a
me, qui in Israele e soprattutto a Gerusalemme, fin dal giorno della mia nascita.
Mi resi però conto in modo concreto della sua presenza solo quand'ero un bambino di
cinque o sei anni. Abitavo a Kyriat Novel, un quartiere separato dalla collina del Museo Yad
Vashem solo da un avvallamento.
Era mia abitudine allontanarmi da casa e giocare, da solo. Mi piaceva molto, ero un
bambino che preferiva starsene per conto proprio.
Un giorno notai che su di una collina di fronte alla nostra, proprio quella di Yad
Vashem, c’era un’attività febbrile: un sacco di autocarri stavano trasportando tonnellate di
pietre, sabbia e cemento. Dopo due o tre giorni portai mio padre a vedere i lavori in corso e
gli chiesi: “Cosa stanno facendo?”.
Mi rispose: “Beh, stanno costruendo qualcosa….”
Continuai: “Cos’è questo qualcosa?”, perché con la sensibilità tipica dei bambini
percepii un tono inusuale, una sfumatura nella voce di mio padre, che disse: “E’ una specie di
museo”.
[…] Chiesi ancora cosa volesse dire, e lui rispose: “E’ un museo consacrato a quello che gli
uomini sono capaci di fare”.
(pagg. 16-17)
Mi ricordo che quando mi sposai, la zia di mio padre (sopravvissuta ad Auschwitz) si presentò
al matrimonio con il numero tatuato sull'avambraccio coperto da una benda.
Io sapevo che l'aveva fatto per non stendere un velo di tristezza sulla nostra festa. Eppure
per me è proprio questo il ricordo più nitido che ho ancora oggi della cerimonia del mio
matrimonio.
Lo sforzo, il suo terribile sforzo di non infettarci - così mi sembrò allora- con la sua tristezza,
con la sua tragedia.
Ebbi l'impressione che sotto quel sottile strato di garza ci fosse un abisso infinito che
minacciava di risucchiare tutto: la festa, la felicità, la musica, la nostra stessa vita.
(pagg. 21-22)
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9 Da Signora Auschwitz: il dono della parola di Edith Bruck
Nonostante le testimonianze mi pesassero e avvertissi una certa resistenza, da reduce
coscienziosa, a ogni nuovo invito, scattava in me una sorta di obbligo interiore e, armata di
medicinali contro spasmi addominali, continuavo una Giovanna d’Arco che si avvia la rogo. E
mi bruciavo. Mi lasciavo bruciare, e non mi meravigliai per niente quando un’impacciata
studentessa, rivolgendomi una domanda mi chiamò “signora Auschwitz”, luogo che abitava il
mio corpo e che mi sentivo anche addosso, come una camicia di forza sempre più stretta, che
negli ultimi due anni mi stava letteralmente soffocando, senza che fossi capace di
liberarmene. Ero convinta che dire di no alla testimonianza, separarmi da Auschwitz, da me
stessa, dal mio essere, mi avrebbe fatto più male che continuare.
(pag. 13)
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Nella convinzione che dire di no alla testimonianza, allontanarsi dal fantasma
dell‟Olocausto faccia più male che continuare, anche a tutti noi, riteniamo necessario
farcene carico e auspichiamo che la memoria non si limiti ad un giorno all‟anno, ma
possa trasformarsi in uno strumento attivo anche per comprendere il nostro tempo e
rimanere vigili di fronte alle sue minacce. Formuliamo l‟augurio che la memoria
diventi un “fare memoria”, un impegno continuo per agire nel presente e costruire il
futuro, combattendo contro ogni forma di antisemitismo, di discriminazione e di
razzismo, nel nome della dignità e della libertà di tutti gli esseri umani.
La Commissione Nazionale Sammarinese per l’UNESCO
27 gennaio 2016
COMMISSIONE NAZIONALE SAMMARINESE PER L’UNESCO
Bibliografia
Bruck, Edith. “Andremo in città”. Andremo in città. Napoli-Roma: l’ancora s.r.l., 2007. 51-68.
---. Signora Auschwitz: il dono della parola. Venezia: Marsilio Editore s.p.a., 1999.
Grossman, David. La memoria della Shoah. Bellinzona: Edizioni Casagrande s.a., 2000.
Janeczek, Helena. Lezioni di tenebra. Parma: Ugo Guanda Editore S.p.a., 2011.
Katzenelson, Yitzhak. Il canto del popolo ebraico massacrato. Firenze: Editrice La Giuntina,
1995.
Levi, Primo. La tregua. Torino: Giulio Einaudi Editore, 1965.
---. Se questo è un uomo. Torino: Giulio Einaudi Editore, 1958.